GUSTARE L'ITALIA 11 - APRILE 2011

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Periodico

di

cultura

enogastronomica

e

turismo

Anno

2

-

Numero

11

-

Aprile

2011

Copia di cortesia

Poste Italiane S.p.a. Spedizione in abbonamento postale -70% DCB Milano

Con il patrocinio di

Speciale Vinitaly


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Auguri Italia! Ci uniamo a coloro che festeggiano il 150esimo compleanno del nostro Paese, e invitiamo tutti a celebrare questa ricorrenza assaporando al massimo le sue eccellenze artistiche, paesaggistiche e, ovviamente, enogastronomiche. L’augurio per il 2011 è di gustare l’Italia con le sue tradizioni, il suo territorio e le sue produzioni di qualità più di quanto non avvenga oggi. Alcuni segnali ci avvertono infatti che qualcosa non va, e che il nostro patrimonio comune non sta vivendo un periodo felice. Questo numero di Gustare l’Italia vuole dare un contributo per migliorare le cose. Dal punto di vista culturale si registra una crescente disaffezione verso le tradizioni popolari, che sono meno partecipate di un tempo e in alcuni casi rischiano di perdersi. Ecco dunque uno speciale sulla Pasqua in Italia nel quale raccontiamo alcuni aspetti affascinanti e anche curiosi su come vengono vissute le festività pasquali dal Nord al Sud della penisola. Dal punto di vista economico, uno dei settori del made in Italy più famoso del mondo, quello del vino, sta attraversando un momento contraddittorio: sempre più forte sul mercato estero, con le esportazioni in continua crescita, sia nei mercati tradizionali, sia in quelli dei Paesi emergenti, e invece in calo in Italia. I nostri connazionali consumano sempre meno il vino italiano. Come mai? È forse anche un problema di comunicazione? Saranno questi i temi che affronterà Vinitaly, il Salone internazionale del vino e dei distillati che ogni anno si tiene a Verona e che nel 2011 apre i battenti il 7 aprile. Noi abbiamo cercato di fornirvi qualche motivo in più per visitare la fiera presentando alcuni itinerari gastronomici e culturali nella provincia di Verona. E infine, ci giungono segnali preoccupanti dal punto di vista della salute e dell’alimentazione. Pare infatti che i bambini italiani siano in Europa quelli con maggiori problemi di sovrappeso. Qui, nella patria della dieta mediterranea, seguita e ammirata in tutto il mondo al punto da essere presa come esempio da Michelle Obama nella lotta all’obesità infantile. Per questo motivo la municipalità di New York, nella figura di Eric Goldstein, si è recata a Parma allo scopo di studiare e riprodurre nella metropoli USA i metodi applicati dal sistema di refezione scolastica della città ducale. Ce ne parla Giovanni Paolo Bernini, Assessore alle Politiche per l’Infanzia e la Scuola del Comune di Parma. Sul tema dell’obesità infantile segnaliamo un importantissimo convegno con medici e politici a confronto che si terrà l’11 aprile a Merine di Lecce. Affinché i nostri figli seguano una corretta alimentazione occorre intervenire sull’educazione, indicando loro esempi virtuosi di prodotti che siano al tempo stesso sani e di qualità. Come lo sono quelli certificati con i marchi di garanzia. A partire da questo numero Gustare l’Italia presenterà ogni mese un consorzio italiano di tutela e promozione: vini e alimenti “trasparenti” per quanto riguarda la zona di provenienza, le fasi della lavorazione, la qualità e la tracciabilità. Sarebbe un vero peccato festeggiare il compleanno dell’Italia con prodotti scadenti, magari importati… Alessandro Milani - Direttore Responsabile

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Gustare l’Italia

Editoriale

A partire da questo numero inizia a collaborare con Gustare l’Italia, in qualità di Direttore Responsabile, Alessandro Milani. Appassionato di storie, ha scritto e raccontato di sport, viaggi, tradizioni e soprattutto di cibo, collaborando a radio e importanti case editrici italiane. A lui un grande augurio di buon lavoro Cino Tortorella - Direttore Editoriale


Sommario aprile 2011

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Intervista a... Giovanni Paolo Bernini (Assessore alle Politiche per l’infanzia e la Scuola del Comune di Parma)

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ATTUALITA’

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Vinitaly, il salotto buono del vino italiano

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Un mondo di sapori fuori Vinitaly

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Il vino delle donne

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L’artigiano in cucina Le pentole di rame zincato: le Rolls Royce della cucina

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IN TAVOLA

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A tavola con le stelle La cena dell’ariete

43

INSERTO “Speciale Pasqua”

44

La Pasqua in Italia

52

La Pasqua a tavola

60

La colomba pasquale

62

Il dolce centro di Milano

IN CUCINA L’orto di Aprile Ravanelli - Fragole

Gustare l’Italia

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“Panem Nostrum cotidianum da nobis hodie”

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Le “Città del Pane”

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L’artigiano in tavola I decanter: un valido accessorio per gustare il vino

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I CONSORZI I Consorzi di Tutela

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L’Abbacchio Romano IGP

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RUBRICHE

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Le lune di Gustare l’Italia “Dal Mago”

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Libri da mangiare

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Indice ricette

Periodico di cultura enogastronomica e turismo - Anno 2 - Numero 11 Aprile 2011 - Reg. Tribunale di Milano n° 201 del 14/04/2010 Direttore Responsabile: Alessandro Milani - Direttore Editoriale: Cino Tortorella Caporedattore: Raffaele Montagna - Art Director: Daniele Colzani Segretaria di Redazione: Mara Guerrieri - Responsabile Diffusione: Roberto Zanutto Grafica e impaginazione: Daniele Colzani - Giovanni Di Gregorio Concessionaria pubblicità: Soltrade Communication - Via Mirabello, 10 - 00195 Roma Responsabile Trattamento Dati Personali: Maurizio Villa L’editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti e la possibilità di richiedere gratuitamente la rettifica o cancellazione ai sensi dell’art. 7 del D. Lgs 196/2003 scrivendo al Responsabile del Trattamento Dati Personali: Soltrade Communication - Via Abbadesse, 20 - 20124 Milano Contatti: info@gustarelitalia.it - www.gustarelitalia.it Redazioni: Milano: Via Milanese, 5/11 - 20099 Sesto San Giovanni (MI) - Roma: Via Mirabello, 18 - 00195 Roma Puglia: Via Trento, 10 - 70017 Putignano (BA) - Sicilia: Via Cannezio, 22 - 97100 Ragusa Hanno collaborato a questo numero: Paolo Bonagura - Fabrizio Cimino - Alan Mieli - Roberto Mottadelli - Emiliano Raccagni - Regina Zather - Foto cover: Lidia Montanari - Ente Autonomo Fiera Verona

Fotografi e Uffici Stampa: Lidia Montanari - Arsial Agenzia Regionale per lo Sviluppo e l’Innovazione dell’Agricoltura del Lazio - Associazione Città del Pane - Biodiversità Arsial - Consorzio dell’Abbacchio Romano IGP - Ente Autonomo Fiera Verona - Antichi Mestieri - AtemporaryStudio - Azienda Agricola Masciarelli - Hermitage Relais & Chateaux

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In collaborazione con: Visibilia Pubblicità © Riproduzione (anche parziale) vietata

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Gustare l’Italia


di Cino Tortorella

Giovanni Paolo Bernini (Assessore alle Politiche per l’Infanzia e la Scuola del Comune di Parma)

Intervista a...

Lo scorso mese di febbraio è giunto in visita a Parma Mr. Eric Goldstein, Direttore Generale del Dipartimento Educazione di New York, per conoscere l’attività che svolge il Servizio Mensa del Comune di Parma e porre le basi di una fattiva collaborazione tra le due città. La visita avrebbe dovuto avere un rilievo maggiore sui media perché è stato un avvenimento di grande importanza che riguarda un problema di estrema gravità, l’obesità infantile. Ne parliamo con il Dr. Giovanni Paolo Bernini, Assessore alle Politiche per l’Infanzia e la Scuola del Comune di Parma. Dr. Bernini, al termine della sua visita Mr. Goldstein ha dichiarato “Anche noi possiamo insegnarvi qualcosa, ma sicuramente abbiamo molto di più da imparare da voi”. È un bel riconoscimento alle iniziative del suo assessorato per promuovere il benessere e i corretti stili di vita dei bambini della vostra città.

L’Assessore Giovanni Paolo Bernini

Indubbiamente. Pensare che chi si occupa della ristorazione della mensa scolastica di una città come New York, che distribuisce 860.000 pasti quotidiani, con una spesa di 425 milioni di dollari l’anno, sia interessato alle iniziative di un Comune dove vengono distribuiti “soltanto” 16.000 pasti giornalieri con una spesa di 10 milioni di euro annui, ci ha riempito di orgoglio, anche perché l’illustre ospite ha sottolineato il valore dei nostri progetti, da lui considerati un modello da imitare. È un riconoscimento particolarmente importante in questo periodo mentre si discute delle iniziative della first lady Michelle Obama contro l’obesità infantile, un gra-

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vissimo problema che da anni affligge gli Stati Uniti. Il problema è molto serio anche in Italia; nel 2007 il Consiglio Nazionale delle Ricerche, dopo un’accurata indagine è giunto alla conclusione che i bambini italiani sono i più obesi d’Europa. La situazione è grave al Nord, dove un bambino su quattro è in sovrappeso o obeso, ma diventa drammatica al Sud, dove pure è nata la dieta mediterranea. Questi dati dovrebbero seriamente preoccupare le famiglie, se si considerano i rischi che corrono i piccoli obesi: dal diabete all’infarto, alle patologie di tipo respiratorio, ai disturbi di carattere psicologico. Eppure combattere questo pericolo non è così difficile: basta che i bambini dedichino del tempo all’attività fisica e soprattutto seguano una corretta alimentazione; ecco perché la scuola è molto importante anche come aiuto per le famiglie degli studenti. Proprio questo nostro impegno ha colpito favorevolmente Mr. Goldstein; egli ha dichiarato che il livello di qualità del servizio mensa del Comune è di gran lunga superiore a quello raggiunto negli Stati Uniti, e non soltanto nelle scuole statali ma anche in quelle private. Ciò che l’ha colpito di più è che l’80% dei cibi forniti quotidianamente ai nostri bambini è di tipo biologico.

Mr. Goldstein ha attraversato l’Atlantico per venire a constatare quanto di buono state facendo per i piccoli scolari di Parma ed esportarne il modello a New York. Penso però che una visita alla vostra città dovrebbero farla anche molti politici italiani con responsabilità simile alle vostre anche in Comuni molto importanti, per capire cosa si deve fare per il bene dei nostri bambini. Chiunque verrà sarà il benvenuto; noi continueremo a fare in modo che i nostri piccoli ricevano pasti di altissima qualità ma, come ho già detto, siamo coscienti che c’è ancora molta strada da fare per educare soprattutto le famiglie, e se la percorreremo insieme potremo raggiungere più facilmente risultati importanti per proteggere la salute e l’avvenire dei nostri figli.

Le considerazioni dell’illustre ospite americano premiano Parma e la rendono un modello per una delle città più importanti del mondo… Deve però anche essere per noi uno stimolo a migliorare ulteriormente un servizio già eccellente perché molto c’è ancora da fare.

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Attualità

Vinitaly 2011

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di Roberto Mottadelli

Vinitaly, il salotto buono del vino italiano

Dal 1967 è il principale punto di riferimento per il mondo del vino italiano. Non solo un momento fondamentale per grandi cantine e consorzi di produttori, che ne approfittano per presentare i loro gioielli enologici, ma anche l’occasione ideale per fare il punto sull’andamento di gusti e mercati, per riflettere sull’evoluzione della cultura del buon bere, nel nostro Paese e nel mondo. Stiamo parlando di Vinitaly, il Salone internazionale del vino e dei distillati che ogni anno si

tiene a Verona: nel 2010 ha richiamato oltre 150.000 persone provenienti da una cinquantina di Stati diversi, dall’Europa al Sudamerica. Dati che fanno capire come, più che una fiera di settore, Vinitaly sia un vero e proprio evento. Se non bastassero le fredde cifre, per rendersene conto basterebbe dare un’occhiata alle code agli ingressi (e all’affanno dei giornalisti che richiedono gli accrediti stampa: un termometro informale, ma assai efficace, per misurarne il successo). I padiglioni mettono in mostra stand sempre più curati sotto il profilo dell’allestimento e dell’offerta informativa, ospitano degustazioni e workshop, conferenze e dibattiti a tema con ospiti internazionali. Il fascino del vino e la qualità delle produzioni proposte, in primo luogo di quelle italiane, sono le ragioni più evidenti di questo successo Non le uniche, però. Se Vinitaly è sulla cresta dell’onda da oltre quarant’anni, nonostante la nascita di altre fiere analoghe, è anche grazie alla sua capacità di crescere, di rinnovarsi, di non rimanere mai uguale a se stesso. In un mondo in rapida trasformazione, gli organizzatori del Salone hanno compreso che tutte le edizioni devono avere un carattere specifico e che è importante proporre sempre qualche miglioramento: vuoi per tenere il passo dell’evoluzione tecnologica, pur senza per-

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dere il contatto con le tradizioni e le radici; vuoi per provare ad anticipare le fluttuazioni delle tendenze nazionali, europee e planetarie. Insomma, ogni anno Vinitaly mette sotto la lente d’ingrandimento un aspetto diverso del “fenomeno-vino” e prova - spesso con ottimi risultati - ad avvicinare il prodotto a un mercato che muta le proprie esigenze, un mercato esposto a stimoli nuovi e che si fa sempre più articolato e interconnesso. Il 2009 ha visto l’inaugurazione del nuovo Padiglione 1, che ha portato la superficie coperta del quartiere fieristico a 150 mila metri quadrati, e ha messo al centro del dibattito il rapporto tra il mondo del vino e le problematiche ambientali e di tutela del territorio, inteso in tutti i suoi aspetti. Il 2010 ha segnato la svolta multimediale della fiera e l’apertura totale al web, con l’inaugurazione di una piattaforma on-line per i giornalisti e con l’offerta di nuovi servizi via palmare per gli operatori e i visitatori.

L’obiettivo del 2011? Comunicare e fare squadra Date le premesse e le anticipazioni, c’è da scommettere che quella che comincia il 7 aprile sarà ricordata da un lato come l’edizione che confermerà le scelte di fondo del 2010, e dall’altro come un momento fondamentale del ripensamento del marketing e della comunicazione del vino, soprattutto di quello proposto ai consumatori italiani. I numeri dicono infatti che, a fronte di un export in netta crescita, nell’ultimo periodo il nostro vino ha conosciuto un periodo di flessione sul mercato interno. Insomma, complici l’arrivo sugli scaffali di quantità sempre maggiori di

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bottiglie estere e un codice della strada sempre più severo nei confronti di chi si concede un bicchiere di troppo, gli italiani acquistano sempre meno vino “nazionale”. Ciò proprio mentre i consumatori d’oltreconfine vanno scoprendo l’eccellenza dei rossi e dei bianchi made in Italy, nei quali ritrovano un’eco della seduzione dei paesaggi e della ricchezza enogastronomica del nostro vecchio Stivale. A Vinitaly 2011 le aziende italiane si misureranno con la concorrenza straniera, come e più degli anni passati. Soprattutto, avranno modo di confrontarsi tra loro e provare a disegnare una strategia per rispondere a queste sfide, per riconquistare un mercato interno che, al di là dei successi delle esportazioni, continua a essere fondamentale, sia economicamente, sia culturalmente. Data per assodata l’eccellenza dei nostri vini, è evidente che per tornare a crescere c’è

bisogno di comunicare meglio, di proporsi in modo nuovo e più efficace. Un percorso che difficilmente può essere intrapreso singolarmente dalle varie cantine, ma che richiede un’azione comune, uno sforzo coordinato nel quale è indispensabile lasciare da parte le rivalità di campanile. Il Salone dovrà essere sfruttato come catalizzatore di energie; va visto come unapreziosa occasione per riflettere insieme a vantaggio di tutto il comparto. Questo è l’anno giusto per cominciare a “fare rete”: un’espressione che oggi va di moda e spesso viene utilizzata a sproposito, ma che in questo caso è decisamente efficace, comunque la si interpreti. Dopo aver segnato un prezioso gol in trasferta, sarebbe davvero un delitto perdere in casa perché si rinuncia a giocare di squadra. Per maggiori informazioni sulla manifestazione: www.vinitaly.com

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di Emiliano Raccagni

Un mondo di sapori fuori Vinitaly Verona diventa “caput vini” quando, per quattro giorni all’anno, dalla sua Fiera sembrano passare le sorti di un’intera stagione enologica, nazionale e non. Si entra, si cammina di padiglione in padiglione, di stand in stand. Si percorre Vinitaly in lungo e in largo, si assaggia, si discute. Chi può, se la gode. Chi deve, cerca affari. Difficile concentrarsi sul resto, a partire dalla consapevolezza di trovarsi in una città ricca di luoghi che meritano sicuramente di essere visti. Non è il momento. E la provincia? Non se ne parla nemmeno. Eppure il territorio che gravita attorno al capoluogo scaligero offre un concentrato di pa-

norami che mutano quasi di passo in passo, con tradizioni custodite da una terra ricca di storia, prodotti e sapori che ne rappresentano il fiore all’occhiello. Frasi, queste ultime, buone per tutte le stagioni e tutte le latitudini? Vero, forse. Ma un breve viaggio fuori dal cuore di Verona può dare solide conferme a questa tesi e, soprattutto, indicarci alcune vie che può valer la pena percorrere. Lo dicono la geografia e la storia. Verona è terra centrale ma legata a doppio filo con i suoi vicini, con i quali condivide pezzi di storia e di sapori. In città e provincia si possono gustare un ottimo baccalà, apprez-

L’arena di Verona: ipotetico punto di partenza del nostro tour per le terre scaligere

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Il radicchio di Verona IGP

zare i tortelli o il risotto alla pilota e terminare una cena con la sbrisolona. Piatti di confine, adottati, ma in fondo appartenenti a campanili pronti a vantare paternità più certe e che i veronesi non considerano come propri. Sono veronesi, tra l’altro, i piatti di riso, i bolliti, il radicchio rosso, la soppressa, i mille vini, le pesche, le sfogliatine di Villafranca, il dolce pandoro.

Le tre anime La vera essenza del territorio scaligero si sprigiona non solo battendo le “Strade dei vini”, ma scoprendo quali altre forme ha preso

la tradizione contadina accanto al solido appiglio della vite. Quella della Bassa, con la sua campagna più padana, risalendo poi la zona dei colli morenici per tuffarsi nel Garda, fino ad arrivare in Lessinia, su quei monti che portano in Trentino. Tre passaggi scanditi nettamente da un cambio di terre, di altitudini, di possibilità di coltivazione. In poche parole, di civiltà, storia, abitudini, tradizioni. Una civiltà che oggi si esprime anche e soprattutto attraverso una delle agricolture più ricche e moderne del Paese, la quale sa però trovare ancora solidi punti di riferimento nelle proprie radici. Oltre a queste tre anime, diamo per scontate due tappe che rappresentano i distretti veronesi più legati alla vite e al vino: la Valpolicella che esprime re Amarone e la sua corte, ma non solo. Qui nascono anche un olio fragrante e ciliegie famose. Poi Soave, meraviglioso borgo che anche il più distratto dei turisti di passaggio in autostrada può scorgere, con le sue mura e il suo tesoro di vigneti coltivati a Garganega, materia prima per uno dei vini bianchi bandiera dell’intero Veneto.

Una veduta del castello di Soave: tipica fortezza del Medioevo

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Il Castello di Villafranca

Proseguiamo oltre, per cercare tre percorsi che sanno esprimere altrettante anime di questa ricca provincia.

La Bassa e la tradizione del riso Si parte quindi dalla Bassa, scendendo da Verona per approdare a Villafranca, che eleggiamo a capoluogo della prima tappa. Nome ricordato in tutti i sussidiari d’Italia per aver ospitato un passaggio chiave del Risorgimento, con l’armistizio del 1859 tra Francia e Austria, questa cittadina occupa un posto di rilievo nella provincia, fin dalla sua fondazione. Fu infatti voluta dal Comune scaligero alla fine del XII secolo per creare un caposaldo strategico, ma anche un importante mercato agricolo.

Visitato il Castello duecentesco, ci si può addentrare verso la Bassa, dove i vigneti fanno posto alla coltivazione che ha plasmato (e sfamato) questa fetta di pianura per secoli. A Isola della Scala e attorno a più di venti comuni si snoda infatti la “Strada del Riso”. “Vialone Nano”, per la precisione. È la varietà regina di questo distretto, che ne produce oltre la metà del totale nazionale. Per nostra fortuna buona parte rimane qui, dove decine di trattorie lo propongono con le ricette della tradizione: con salsiccia o carne di maiale (tastasàl), ma anche con asparagi, radicchio, zucca, rane o pesce. Un tempo tutto ruotava attorno a questa risorsa, che disegna il territorio fisicamente e anche nella cultura, come testimoniano i numerosi affreschi e dipinti raffiguranti tante fasi della sua coltivazione ancora oggi visibili sulle pareti delle ville di campagna. Un vero e proprio baluardo di civiltà, espressa anche da quella sottile linea rappresentata dal modo di cucinarlo. A occidente, verso la Lombardia e poi il Piemonte, è il burro a sposarsi col riso, prima nella tostatura e poi nella fase di mantecatura, non prima di una lunga cottura nel brodo. In Veneto, come anche nel vicino Mantovano, è più forte la tradizione di cottura che ri-

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Il lungolago di Bardolino

corda il pilaf, con il liquido di cottura aggiunto solo una volta all’inizio. Non a caso, Venezia era la porta europea all’Oriente e Verona ne rappresentava in questo caso una delle estreme propaggini verso Ovest.

Di terra e di lago Ripartiamo per dirigerci sicuri verso il Garda di sponda veneta e fare sosta a Lazise, con il suo castello e il porto lacustre che sa di Serenissima. Merita una tappa Bardolino: il nome richiama subito l’omonimo vino, ma questo centro del basso lago è punto di riferimento anche per altri incontri. A partire dalla Chiesa di San Severo con le sue forme romaniche, o la vicina San Zeno, già documentata in età carolingia. Entrambe valgono una sosta, prima di lasciarsi guidare lungo i sentieri che si lasciano alle spalle il lago per poggiarsi su colline coltivate a vite e ulivo, con quest’ultimo a dare l’olio Garda Dop, che grazie al favorevole microclima locale si distingue e riempie poche e preziose bottiglie.

A Cavaion Veronese, non a caso fieramente proclamata Città dell’Olio, ne fanno a ragione un vanto. Ecco poi Rivoli, teatro nel 1797 di una battaglia durante la prima campagna napoleonica, un evento che ha lasciato traccia anche nelle tradizioni contadine: si dice che furono proprio le milizie francesi a portare da queste parti una particolare varietà di asparago, detto appunto di Rivoli, che si è perfettamente acclimatato tra i terreni morenici della zona, diventando di casa. È ancora tempo per gustarsi il lago, magari risalendo verso il confine con il Trentino, dove alle pendici del Monte Baldo si specchia un Garda fattosi stretto e dove si incontra una cucina d’acqua dolce, nella quale si affacciano prodotti dai vicini monti: miele, tartufo e castagne (i famosi Marroni di San Zeno di Montagna IGP). Tra i pesci si distinguono il carpione - particolare tipo di salmonide che vive solo qui e che ai tempi dei Dogi era rinomatissimo, fritto, per le sue carni delicate - il coregone, la trota lacustre e l’alborella. Panorama di Bardolino

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Quest’ultimo piccolo pesce è alla base di uno dei più interessanti prodotti dell’intero Garda, l’àole salè, espressione dell’antico modo di conservare il prodotto, in questo caso in salamoia. Vero segreto delle famiglie di pescatori della zona, è oggi più che una rarità. Ma sopravvive: trovarlo e consumarlo alla griglia o come condimento per la pasta è un’esperienza davvero sorprendente.

La civiltà montana È tempo di salire di quota per arrivare in Lessinia. In questa valle di passaggio, di malghe e di piste che per secoli hanno assistito al passare di genti e merci diretti in Trentino e poi più a nord, sono i profumi di erbe di campo a farsi sentire nell’aria ma anche nel latte dei pascoli, alla base di caratteristici formaggi. Con il Monte Veronese, oggi Dop, in prima fila. Prodotto in diverse tipologie, nella sua versione più fresca è a base di latte vaccino intero e caratterizzato dall’etichetta di colore verde chiaro. Vi è poi il Monte Veronese d’Allevo, prodotto con latte parzialmente scremato con stagionatura minima di 90 giorni se da tavola (Mezzano) o protratta anche per 6 mesi e fino

La frazione di Ljetzan - Giazza

a 2 anni (Vecchio). La tipologia d’allevo mezzano si contraddistingue grazie all’etichetta azzurra, mentre la versione più stagionata si riconosce dall’etichetta nera. Infine, esiste un’ulteriore tipologia, denominata Monte Veronese di Malga. L’origine di questo formaggio si perde nella leggenda ed è attribuita all’arrivo in queste valli della popolazione dei Cimbri che dalla Baviera e dal Tirolo vi scesero come coloni alla fine del Duecento su permesso dell’arcivescovo Bartolomeo della Scala. Fondarono 13 comunità, che ancora oggi mantengono vivi gli usi di una vera e propria enclave formata da otto Comuni. In particolare, nella piccola frazione di Ljetzan-Giazza è ancora viva la parlata di matrice alto-tedesca medioevale, la lingua dei Cimbri che sopravvive nel Veneto di oggi. Un’occasione per conoscere questa parte di provincia, la tradizionale “Festa del Formaggio”, in programma il 30 maggio a Erbezzo. Oltre a Vinitaly, ovviamente… Forme di Monte Veronese DOP

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di Fabrizio Cimino

Il vino delle donne La Majella, la seconda catena montuosa d’Abruzzo, ha ispirato molti poeti, scrittori e compositori. Aspra e imponente, sa essere anche protettiva - ripara dai venti da ovest per chi vive alle sue pendici verso il mare. Proprio qui si scopre un mondo fatto di gente che è abituata al lavoro e ne fa un vanto. Le operose valli della provincia di Chieti, che dalle pendici della Majella vanno verso il Mare Adriatico, sono davvero incantevoli e ospitali. Qui vive e lavora un’imprenditrice nel campo della produzione del vino di qualità, Marina Cvetic. Serba di Belgrado, è la vedova di Gianni Masciarelli, uno dei più noti produttori di vino in Abruzzo e famoso nel mondo. Alla morte prematura del marito, Marina ha rilevato l’azienda e la sta conducendo in modo encomiabile. Gianni aveva già dato il nome della moglie a una linea di vini di alta qualità che vengono prodotti in Abruzzo nelle vigne di proprietà. Oggi la vita di Marina è fatta di aerei e cantine, profumi intensi di mosti e relazioni frenetiche, al fine di migliorare la qualità e la notorietà di un prodotto che deve essere perfetto, sempre al massimo livello. L’azienda si trova a San Martino sulla Marrucina, un paese di non

più di 1000 anime situato tra la Majella e l’Adriatico. Qui abbiamo avuto il piacere di incontrarla. Appena arrivati, in attesa di Marina, veniamo fatti accomodare in una sala dove troviamo un interessante libro che racconta la vita di Gianni Masciarelli. Scopriamo così che Gianni si appassionò all’attività vitivinicola grazie a suo nonno materno, Umberto il quale, duro di carattere ma generoso, forgiò il nipote alla preziosa attività di produrre vino. Dopo gli studi universitari in economia, Gianni fondò, insieme alla sorella Rossana, l’Azienda Agricola Masciarelli. Marina arriva dalla cantina e la incontriamo nel suo ufficio dove mi racconta la sua storia. Gentilissima, cortese, ma anche forte e ostinata, Marina ricorda le principali tappe della sua giovane ma intensa vita.

Marina Cvetic nella sua cantina

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Dopo un periodo di trasferimenti dalla Serbia all’Austria fino ad arrivare in Germania, incontra Gianni Masciarelli in Croazia durante una vacanza. Si innamorano e in breve tempo decidono di sposarsi. Marina si trasferisce in Abruzzo e inizia a seguire il marito nell’attività di vignaiolo. Mentre racconta, ricordando Gianni, spesso si commuove. Si ritiene una donna fortunata e questo è indice di ottimismo, qualità imprescindibile per un imprenditore di successo. La lingua italiana e le nostre abitudini sono uno scoglio che lei ha superato facilmente e in fretta. Il marito, pur essendo per natura accentratore e decisionista, comprese però le qualità della moglie e le affidò alcune importanti mansioni commerciali. Gianni, da grande amante delle cose belle, acquistò anche un palazzo nobiliare settecentesco posto sul cucuzzolo di un paesino vicino dal nome curioso, Casacanditella.

Il Castello di Semivicoli - questo il nome del palazzo - venne ristrutturato con tecniche biocompatibili e, grazie al gusto di Marina per l’arredo d’epoca e per il design italiano, viene riportato all’antico splendore. Oggi è un relais aperto a chi vuole trovare un luogo dove trascorrere una tranquilla vacanza all’insegna della pace e della natura.

Una suggestiva veduta degli esterni del Castello di Semivicoli

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Nel 2008 purtroppo il grande lavoratore Gianni scompare, all’età di 52 anni, lasciando a Marina la totale responsabilità di una grande azienda vinicola, oltre che dei tre figli. Senza perdersi d’animo, Marina ha preso le redini della Masciarelli, che può continuare il suo viaggio. È con questo spirito che Marina ci conduce poi a visitare una delle vigne di Montepulciano d’Abruzzo, il vitigno abruzzese per eccellenza. Mi spiega che ogni pianta viene potata e sarchiata in modo da produrre al massimo due grappoli. I filari sono ben tesi da strutture e cavi perfettamente ordinati e distanziati. Qui si punta diritto alla qualità a scapito della quantità, secondo una politica davvero vincente, se si pensa che l’Abruzzo è stata per decenni una regione che produceva vino da taglio da destinare a regioni d’Italia e d’Europa di maggior fama vitivinicola.

I vini di punta della ditta Masciarelli sono il “Villa Gemma” Montepulciano d’Abruzzo (rosso), il Cerasuolo (rosato) e il Trebbiano (bianco). L’idea di produrre anche vini di qualità al di fuori del disciplinare DOC del luogo si è rivelata sicuramente vincente e consente oggi di coltivare e vinificare uve che danno ottimi IGT (Indicazione Geografica Tipica) È il caso della linea lanciata da Gianni Masciarelli, “Marina Cvetic”, il vino delle donne.

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Il rapporto qualità/prezzo dei vini Masciarelli è davvero buono. Si produce vino fermo da varie uve: il Montepulciano d’Abruzzo riserva passato in barrique, il Merlot e il Cabernet Sauvignon per i rossi; il Trebbiano e lo Chardonnay per i bianchi. Il Montepulciano riserva passato in barrique è, a nostro parere, il migliore di tutta la linea: il suo profumo intenso di amarena, il notevole contributo in tannino, moderato dalle essenze morbide della permanenza per 24 o 36 mesi in piccole botti nuove, e la persistenza al gusto rendono questo vino adattissimo a essere abbinato a piatti di carne e soprattutto ai formaggi pecorini abruzzesi, come quello tipico di Marruci di Pizzoli, raro da reperire ma di un gusto intenso e profondo. Marina vuole farci visitare il Castello di Semivicoli, ristrutturato dall’Architetto Di Zio, lo stesso che ha operato nel borgo di Sextantio (Santo Stefano di Sessanio) in provincia dell’Aquila.

Un lussuoso relais che ha la capacità di infondere pace e serenità già a prima vista. La sala riunioni al piano terra, dove un tempo c’erano le cantine, è davvero accogliente. Il frantoio ottocentesco con i palmenti prima e le macine poi, utilizzato per produrre olio extravergine di oliva e altri oli derivati, è stato recuperato con tutti gli elementi meccanici del tempo. Le sale del primo piano, con la cucina rustica, la sala degustazione e la suite principale. Il sottotetto con le altre camere, tutte arredate con grande capacità dal gusto pratico e moderno di Marina. La suite più bella è quella del “granaio”, una grande stanza piena di sole all’ultimo piano del Castello, con la vista sulle vigne che degradano verso il mare. Insomma, il Castello di Semivicoli è un posto dove ci si accorge che il tempo si ferma, e l’aria che si respira ritempra dallo stress.

La splendida suite detta “del granaio” con vista sui vigneti

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Nelle sale vengono anche organizzate alcune iniziative culturali. Marina è infatti anche una donna molto sensibile al sociale, dalle attività per i bambini delle scuole dei paesi vicini ai corsi inerenti il mondo dell’agricoltura, che nella valle è ancora il settore produttivo prevalente. Il Castello ospita molte manifestazioni culturali e musicali, nonché servizi giornalistici di moda, che sfruttano le caratteristiche scenografiche della location. Marina riesce a realizzare le varie iniziative nonostante tutte le difficoltà burocratiche che incontra, come purtroppo spesso avviene in Italia, lasciando incredula una persona che gira il mondo come lei. Tornati alla sede dell’azienda Masciarelli iniziamo la visita alle cantine dove il vino sta maturando. La prima sensazione è quella di una pulizia perfetta, dai locali ai tini in legno che contengono il vino. Anche la zona delle cisterne in acciaio dà l’impressione di igiene e di perfetta organizzazione.

Cerchiamo di testimoniarlo con qualche fotografia, ma ciò che una fotografia non può comunicare sono le sensazioni olfattive che si percepiscono nella cantina delle barrique. Il profumo del mosto frammisto a quello del legno giovane delle piccole ma preziose botti di rovere è davvero inebriante. Viene voglia di assaggiare il nettare che riposa per mesi dentro questi scrigni che rilasciano profumi ed essenze per conferire al vino quel sapore inconfondibile. Dai racconti di Marina emerge come l’amore per il proprio lavoro, eseguito nella più totale semplicità e naturalezza, permetta di ottenere risultati eccellenti. Marina imprenditrice, madre di tre figli, è una persona che pretende molto da sé e dalle persone di fiducia alle quali delega molto, ma si aspetta anche i risultati, che puntualmente arrivano. Anche quest’anno la Cantina Masciarelli è presente al Vinitaly, la rassegna vitivinicola più importante al mondo.

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L’amore per la qualità Il rispetto per la tradizione Benagiano Pastificio srl Corso Italia 138-140/b - 70029 Santeramo in Colle (Ba) Tel. 080-3036036 - E-mail: benagiano@benagiano.it - Website: www.benagiano.it


In cucina

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Il ravanello o rapanello (Raphanus sativus radicula), varietà del rafano, è una radice ingrossata con la polpa bianca. L’etimologia fa derivare il nome dalla voce greca raphanos e dal persiano antico rafe. La coltivazione delle piante di ravanelli risale agli antichi, ne parla lo scrittore latino Plinio il Vecchio e lo attestano anche le civiltà egizie, greche e cinesi. Le varietà di ravanelli si contraddistinguono secondo la forma e il colore: a radice tonda e rossa Cherry Belle e Saxa; a radice semilunga e bianca Candela di ghiaccio, sono invece a radice lunga e rossa Candela di fuoco, Torino, Tabasso. Il ravanello è coltivato in tutt’Italia e, grazie alle colture sviluppate in serra, si può trovare sulle nostre tavole durante tutto l’anno.

La sua disponibilità in natura corrisponde al periodo primaverile estivo; aprile e luglio sono i mesi migliori per la sua raccolta. Il ravanello ha un buon contento di ferro, potassio, fosforo, calcio e vitamina C. Il basso contenuto calorico lo rende indicato nelle diete. Il ravanello può stimolare l’appetito ma è di difficile digestione. I ravanelli si vendono a mazzetti e si consumano freschissimi, sfrondando le foglioline; la conservazione in frigorifero deve essere limitata ad un paio di giorni per non farli avvizzire. Il caratteristico sapore pungente può essere attenuato con un semplice accorgimento: basta pulire i ravanelli, fare con un coltello un taglio a forma di croce, lasciandoli attaccati dalla parte del gambo, e immergerli in una ciotola con acqua fredda per circa mezz’ora.

L’orto di aprile

di Regina Zather

I ravanelli

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“Ravanelli al burro per antipasto”

“Insalata risorgimentale” Ingredienti per 4 persone: 3 mazzetti di ravanelli

- 1 cespo di indivia ricciuta - 1 finocchio - 1 costa di sedano verde - 4 gherigli di noce sminuzzati - 3 filetti d’alice - una manciata di olive baresi in salamoia - qualche cappero - mezza mela verde affettata sottilmente - 3 cucchiai d’olio extravergine d’oliva - 1 cucchiaio di aceto bianco - sale e pepe bianco q.b. Attrezzatura: 1 coltello - 1 tagliere - 1 insalatiera - posate da insalata Preparazione piatto: pulite i ravanelli ed affettateli sottilmente. Lavate e asciugate bene l’insalata, spezzatela con le mani e mettetela nell’insalatiera. Pulite e affettate sottilmente il finocchio e il sedano, uniteli con i ravanelli all’insalata. Tagliate a pezzettini le alici, lavate ed asciugate bene sia i capperi che le olive ed aggiungete il tutto alle verdure. Distribuite sopra la mela a fettine e i gherigli di noce. Fate sciogliere il sale con l’aceto, mettetelo sull’insalata, aggiungete l’olio e il pepe, mescolate con cura se servite. Vino da accompagnare: quello del piatto principale, se, invece, l’insalata è servita come entré si può accompagnare con un vino bianco secco o rosato

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Ricette

Ingredienti per 4 persone: 4 mazzetti di ravanelli - 50 g. di burro a temperatura ambiente - sale Attrezzatura: 1 coltello - 1 coltello arricciaburro - 4 coppette o ciotole - 4 piatti da antipasto Tempo di preparazione: 5’ Preparazione piatto: Eliminate solo le foglie sciupate dei ravanelli, lavateli e asciugateli bene. Disponeteli al centro dei quattro piatti. Ricavate con l’apposito coltello dei riccioli di burro e deponeteli intorno ai ravanelli. Mettete nelle coppette del sale fino. Portate in tavola a ciascuno il piatto con i ravanelli e la ciotola del sale; affinché i commensali possano gustarli rigirandoli prima nel sale e poi nel burro. Vino da accompagnare: Prosecco dei Colli Trevigiani (Veneto) o Bianco di Pitignano spumante (Toscana) o Cortese del Monferrato spumante (Piemonte) servito a 8°.


Le fragole La fragola è una pianta erbacea perenne con foglie trifolate e piccoli fiori bianchi, appartenente al genere Fragaria. Quello che noi mangiamo è un falso frutto, poiché il vero frutto della pianta sono gli acheni ossia i semini gialli che si vedono sulla superficie della fragola. Anche se la fragola era conosciuta ed apprezzata già dai nostri progenitori romani, sembra che la sua coltivazione in Europa si debba ad un ufficiale francese che, agli inizi del Settecento, tornò dal Sud America con una specie indigena di fragola, dalla quale derivano le varietà coltivate oggi. Ci sono più di venti specie e numerosi ibridi e cultivar di fragole. Alcune varietà di fragole, le unifere, danno frutti grossi una sola volta in autunno, altre, invece, (varietà rifiorenti) producono frutti più piccoli dalla primavera fino all’autunno. Lo sviluppo delle coltivazioni industriali, specie dei cosiddetti “fragoloni”, tuttavia ci consentono di aver diverse specie di fragole durante quasi tutto l’anno. Nel Sud Italia le cultivar più diffuse sono Chandler, Pajaro, Tudla Miranda; nel settentrione troviamo Marmolada, Elsanta, Idea, Cesena, Dana, Gea, Honeoye e Addie; la fragolina di Nemi è, infine, famosa non solo nei confini del Lazio. Le fragole forniscono pochissime calorie ma sono

ricche di vitamine C, A e B, acidi organici, mucillagine e zuccheri (fruttosio e saccarosio) e pertanto possono essere concesse anche alle persone affette da diabete. Il loro elevato contenuto di sali minerali le rende adatte anche agli anemici e linfatici. Unica eccezione al consumo di fragole è per chi è predisposto ad allergie od orticarie. E’ bene conservare le fragole per pochi giorni nel frigorifero, badando a non schiacciarle e a far circolare aria intorno all’involucro. Al momento del consumo è preferibile non lavarle con acqua corrente ma passarle delicatamente con un tovagliolo pulito o lavarle con il vino bianco.

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Ingredienti per 4 persone: 350 g di riso Arborio -

Ingredienti per 6 persone: 300 g di beignets già

40 g di burro - 1 cipolla media tritata fine - 1/2 bicchiere di vino bianco - 1 l e ½ di brodo vegetale -1 confezione di fragole - 70 ml di panna da cucina - ½ bicchierino di kirsch - poco parmigiano grattugiato - sale e pepe bianco q.b. Attrezzatura: 1 casseruola - 1 bollitore - tritatutto - passaverdure - cucchiaio di legno - piatto da portata. Tempo di preparazione: 15’ Tempo di cottura: 20’ Preparazione piatto: lavate nel vino bianco le fragole, tenetene da parte tre e tagliatele a pezzetti, passate le altre nel passaverdure. Portate a bollore il brodo vegetale e mantenetelo caldo. Preparate il riso mettendo il burro nella casseruola e fatelo sciogliere. Unite la cipolla tritata, fatela tostare mescolando bene, aggiungete il riso e poi sfumate con il vino bianco. Incorporate il brodo caldo poco alla volta. Dopo circa 10’ incorporate la purea di fragole e proseguite la cottura. Regolate di sale e pepe. Quando il riso è cotto, togliete dal fuoco, aggiungete il kirsch, la panna ed una spolverata di parmigiano. Mantecate bene e fate riposare per un minuto. Versate sul piatto da portata, precedentemente riscaldato, decorare con i pezzetti di fragole rimaste e servite. Vino da accompagnare: Reggiano Lambrusco Salamino rosato (Emilia Romagna) o Assisi rosato (Umbria) o Contea di Sclafani rosato (Sicilia) servito a 12°.

pronti - 250 g di fragole - 4 dl di panna montata - 40 g di zucchero - 1 bicchierino di liquore alle fragole - vino bianco da cucina. Attrezzatura: 2 terrine - passaverdure - una tasca da tela da pasticcere con la bocchetta liscia - piatto da portata per dolci. Tempo di preparazione: 20’ Tempo di riposo: 20’ Preparazione piatto: pulite le fragole e lavatele col vino bianco. Versatele nella terrina, aggiungete il liquore e fatele riposare per 20’. Sgocciolatele e tenetene da parte sei.

Passate le altre al passaverdure, unite lo zucchero e mescolate bene per farlo sciogliere. Prendete i beignets, fate un foro sulla sommità di ciascuno. Riempite la tasca da pasticcere con la panna montata e imbottite per ¾ i beignets, deponendoli nel piatto. Unite la panna rimasta al composto di fragole. Terminate di riempire i beignets e versate sopra tutta la purea di fragole. Decorate con le fragole rimaste e servite in tavola. Vino da accompagnare: Asti spumante (Piemonte) o Alto Adige Sauvignon (Trentino Alto Adige) servito a 7 o Vin Santo del Chianti classico (Toscana) servito a 12°.

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Ricette

“Profiterol alle fragole”

“Risotto rosa”


di Raffaele Montagna

L’artigiano in tavola

Le pentole di rame zincato: le Rolls Royce della cucina Gli acciai inossidabili - scoperti dall’inglese Brearly nel 1913 e successivamente perfezionati fino agli anni Sessanta del secolo scorso grazie al rapido progresso della metallurgia - hanno scalzato tutto il pentolame, d’alluminio e di rame zincato, che faceva bella mostra di sé nelle spaziose cucine d’anteguerra, opportunamente agganciato all’apposito “appendirame” (si trattava di un telaio in legno, fornito di numerosi ganci). Con le pentole di rame venne messo alla porta anche il “magnano o stagnino”,, storico artigiano ambulante che riparava le pentole con pezze di rame e speciali chiodi e le ristagnava all’interno, tanto che farle risplendere come nuove. Attualmente è ancora opportuno, possibile, conveniente cucinare con le pentole di rame? Il rame è un metallo ad alta conducibilità termica ed elettrica (superato in tal senso solo dall’argento); insieme a tante altre qualità non per niente è stato usato sempre, fin dagli albori della civiltà - è batteriostatico, in grado, cioè, di inibire la replicazione batterica. Gli utensili da cucina in rame sono consigliati per quelle ricette che necessitano di giuste temperature e cotture piuttosto lente; il rame, infatti, come d’altra parte la terracotta, distribuisce il calore in modo omogeneo e uniforme, permettendo una cottura tranquilla, che non stressa i cibi, proteggendone viceversa il potere nutrizionale e mantenendone le peculiarità organolettiche.

Tante sono quindi le indicazioni d’uso: i paioli per la polenta; le teglie per le pizze, le cecine, le focacce; le tortiere per la pasticceria e la preparazione di creme e cioccolate; i tegami per i legumi, le verdure, i sughi e quelli per la le carne. Ovviamente è indispensabile che l’interno venga stagnato, perché è lo stango e non il rame - che si ossida facilmente - a essere adatto al rapporto con gli alimenti. Inoltre, il rame è ottimo da portare in tavola, per servire direttamente le pietanze. Una pentola di rame, dunque, è preziosa, soprattutto se il metallo è pressoché puro e lo spessore supera i due millimetri.

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Contrariamente al passato, non sono più tanti gli artigiani che lavorano il rame e che sanno farlo con la necessaria maestria. Noi di “Gustare l’Italia” abbiamo scovato un’impresa artigiana che fabbrica pentole ancora alla “vecchia maniera” (e giustamente se ne vanta), utilizzando tecniche e conoscenze antiche e che ritiene che la lavorazione manuale debba avere sempre il sopravvento sulle macchine, pur moderne e precise che siano. Si tratta di “Antichi Mestieri”, una bottega nata dall’ambizione e dalla testardaggine del titolare, Mauro Agostini, il quale ha scommesso sulla qualità e sulla certezza che anche in un piccolo borgo come San Quirico, nei pressi di Pescia, si potesse avviare un lavoro apprezzato e riconosciuto dal mercato dei consumatori. Certo, l’inizio non deve essere stato facile, ma la volontà di far riemergere antiche tradizioni di lavoro, la passione per la creazione di oggetti che abbiano valore nel tempo, la consapevolezza di offrire prodotti, sì di nicchia, ma costantemente certificati per uso alimentare, hanno portato l’azienda ai vertici del mercato. A tali intenzioni e annotazioni di principio hanno fatto seguito fatti concreti, diretti a perseguire quella qualità eccellente, che alla bottega viene unanimemente riconosciuta. Innanzitutto la competenza diffusa e specifica nella lavorazione del rame e l’utilizzo di una sapienza artigianale, tramandata negli anni, unita a tecnologie e macchinari di ultima generazione, nel rispetto, comunque, del principio che il procedimento manuale ha la preminenza sulla lavorazione meccanica. Poi la scelta dei materiali, del rame e dello stagno, che vengono utilizzati pressoché

puri e con notevoli spessori, adatti a reggere anche lo stress di un uso professionale importante e continuato. Quindi la lavorazione, frutto delle esperienze acquisite, che consiste principalmente nella martellatura (non estetica, ma funzionale alla stabilità e alla resistenza degli oggetti), nella stagnatura (eseguita rigorosamente in maniera manuale, da valenti maestri) e la “pulimentatura” (effettuata con la vetriola, un’erba capace di lucidare alla perfezione vetro e metalli). La durata di queste pentole di rame si può dire illimitata, anche per la possibilità che “Antichi Mestieri” di San Quirico - Pescia offre di

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ristagnar ne più volte l’interno, qualora venissero usate con continuità e oltre misura. Tortiere, teglie, padelle, paioli, tegami e casseruole: sono questi i prodotti in catalogo, tutti proposti in una vasta gamma di misure, sia nei diametri, sia nelle altezze e tutti certificati in conformità alle normative vigenti come adatti per un uso alimentare. Per informazioni: www.antichimestieri.com

“I consigli per pulire il rame” Molto spesso per pulire il rame è sufficiente una comune saponata, magari unita a un pò d’ammoniaca. Se tuttavia il cosiddetto “verderame” (ossido antiestetico e per di più molto tossico) è piuttosto evidente, si può ricorrere all’acido muriatico, diluito al 20%, o al Sidol (a base di ammoniaca), storico “puliscirame”. I professionisti usano l’erba vetriola (Parietaria officinalis) detta anche “muraiola”, che appartiene alla famiglia delle ortiche e, oltre ad avere proprietà diuretiche, sudorifere, emollienti, depurative ed espettoranti - per le quali è molto usata in erboristeria e in farmacia - viene usata per pulire l’interno di fiaschi e bottiglie (da qui il nome di erba vetriola) e alcuni metalli, grazie al fatto che le sue foglie sono appiccicose. Le nonne (che ne sapevano sempre una in più) facevano sciogliere del sale nell’aceto e nel succo di limone e poi strofinavano abbondantemente le superfici da pulire con un panno non abrasivo. Insistevano per qualche tempo poiché l’ossido di rame è relativamente resistente e, dove non arrivavano con sale, limone e aceto, utilizzavano alcool e talco oppure segatura. Una volta terminato lo strofinio, era sufficiente lavare e asciugare. Se il colore del rame, a seguito del trattamento, appariva opaco e spento, provvedevano a lucidare con la cenere della legna. L’erba vetriola

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In tavola

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di Cino Tortorella

A tavola con le stelle

La cena dell’ariete Il segno dei Pesci è iniziato il 21 marzo e terminerà il 20 aprile. Ai nati sotto questo segno dedichiamo una fantastica cena ambientata all’”Hermitage Relais & Chateaux” di Breuil - Cervinia

L’Ariete è il primo segno dello Zodiaco; secondo l’astrologia è un segno di fuoco, perfetto dunque per chi si occupa di gastronomia; il suo metallo è il ferro, le pietre preziose sono il diamante, il rubino, l’ametista; i suoi colori: rosso vermiglio, il colore del sangue e di grandi vini. Dall’Ariete prendono vita tutti i segni dello Zodiaco e ha perciò in embrione le caratteristiche di tutti gli altri. Per questo è visto come il segno più inafferrabile, capace di dar luogo a personalità assai diverse, ma con un carattere deciso e battagliero; come l’animale che li rappresenta tendono spesso ad affrontare

la vita a testa bassa. Loro caratteristiche sono però anche la generosità, la sensibilità, il coraggio, la curiosità continua di nuove emozioni e nuovi traguardi; Ulisse certo doveva essere un Ariete. Sono poeti e sognatori, a volte occupati a costruire castelli in aria, a inseguire chimere ma spesso, con costanza e testardaggine, capaci anche di trasformare in realtà le loro fantasie e i loro progetti. Doti principali sono la simpatia e la disponibilità nell’aiutare chi ha bisogno; apparentemente distratti sono in realtà pronti ad agire prima che qualcun altro abbia avuto il tempo

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di riflettere e con grande intuito apprendono con facilità quando altri impiegano molto tempo a realizzare ciò che sta accadendo. Amano l’arte in ogni sua forma, con particolare predilezione per la musica e la poesia. Leali nell’amicizia, sono incostanti in amore perché amano l’avventura, sono curiosi e alla continua ricerca di nuove emozioni, nuove sollecitazioni. A tavola però sono per la tradizione, purché sia di grande qualità ed eleganza; raramente ricercano nuove esperienze, nuove sensazioni. Ferrian Adrià non è certo il loro chef ideale, e neppure Davide Oldani o Alain Ducasse, geniali ma spesso imprevedibili. Sono pronti invece a fare una anche lunga deviazione per recarsi al “Pescatore” di Canneto sull’Oglio, o a Soriso, o a Milano in via Montecuccoli per gustare le creazioni di Nadia Santini, di Luisa Valazza, di Nadia Moroni… oggi li porteremo da un altro chef che certamente non li deluderà: Roberto Pession dell’“Hermitage” di Cervinia, tra le cime innevate della Valle d’Aosta.

L’ “ H e r m i t a ge” si trova un po’ fuori dal centro di Cervinia, ai margini di un boschetto di larici: la leggenda vuole che in una grotta tra questi alberi si sia fermato a riposare San Teodulo, durante il viaggio intrapreso per portare il verbo di Cristo agli infedeli, seguaci di pagani riti d r u i d i c i ; gli infedeli erano gli svizzeri – ancora ignari di essere svizzeri – che abitavano al di là dal colle che mette in comunicazione il Breuil con Zermatt. All’ingresso dell’albergo un bassorilievo del Santo in marmo bianco saluta gli ospiti; nella hall, dove nel camino sempre acceso scoppietta un allegro fuoco, ci si sente subito in una casa amica; l’ambiente è di una calda eleganza. Ogni cosa ci ricorda che siamo in Valle d’Aosta, in ogni oggetto si sente l’orgoglio di appartenere alla “petite patrie”: le bamboline, i quadri, le sculture in legno, i tappeti, i mobili, il parquet del XVII secolo recuperato da una vecchia baita. Ci siamo rivolti all’amico Corrado Neyroz che è stato il presidente dei Relais Chateaux d’Italia; egli, pur essendo nato sotto il segno del Sagittario - è di ascendente Ariete e perciò ha la giusta sensibilità per creare con lo chef Pession e Simone Grange, perfetto sommelier, la cena ideale per gli Ariete.

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Gli ospiti, tutti rigorosamente dell’Ariete, stanno prendendo posto ai tavoli; tra questi riconosciamo Isabella Ferrari (nata il 31 marzo) bella e luminosa, la deliziosa Nancy Brilli (10 aprile), Roberta Lanfranchi (7 aprile), Simona Ventura (1 aprile) la cui bellezza non accenna a sfiorire, la prosperosa Marisa Laurito (19 aprile), la splendida Giuliana De Sio (2 aprile), Lilli Gruber (19 aprile), Irene Pivetti (4 aprile) e poi ancora: Ezio Greggio, Andrea Giordana, Terence Hill, Omar Sharif, Arrigo Sacchi, Céline Dion, Corinne Cley, Catherine Spaak e l’eternamente sorridente Ronaldinho… Ecco, ci sono tutti, il Perlé è già stato sostituito dal Gewurtztraminer dei Nussbaumer che da Terlano, in Alto Adige, è arrivato fin quassù per accompagnare il

“Foie Gras d’oca con spinaci novelli e scalogno confit” Corrado ha scelto la sera del 18 aprile perché sarà una notte di luna piena e dalla luminosa sala da pranzo sarà visibile in tutta la sua magia il Cervino, la più bella montagna del mondo. Le sorelle Mimì e Cicci, rispettivamente zia e mamma di Corrado, hanno addobbato la sala con tutte le sfumature del verde e del rosso di buon augurio e con le sculture dell’artigianato valdostano. Sulle eleganti tovaglie di lino sono pronti gli splendidi calici di Riedl con il delizioso Perlé Ferrari che rallegrerà la “tartare di trotella di montagna” servita come “amuse bouche” in attesa dell’antipasto che darà il via alla cena.

anche se al centro della sala c’è un carrello di altri straordinari antipasti con il quale si potrebbe compiere un percorso all’interno della gastronomia della Vallée: prosciutto di Bosses, salsiccia di Saint Marcel, “mocetta” (carne di camoscio affumicata) di Valsavaranche,

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lardo di Arnad da gustare col burro di Brissogne e il miele di Crepin… Arriva però adesso in tavola il

“Risotto alla valdostana bianco e verde” un piatto solare e beneaugurante, come tutti quelli dove è presente il riso; vi si avverte l’amore per la propria terra, il rispetto per le secolari tradizioni di una regione che regala generosamente fantastiche materie prime. Il risotto è realizzato con la fontina di Marco Perron che, su all’alpe dominata dalla grande roccia del Bric Carrè, continua a produrla come centinaia di anni fa. I Perron sono tra gli ultimi pastori a compiere con rigore il rito di una tradizione secolare: la fontina è uno dei pochi formaggi che va fatto col latte appena munto, entro due ore al massimo dalla mungitura, così il latte riporta i profumi dell’erba dei prati, sa di violette, di genziane, di nigritella e degli altri mille fiori dell’alpe. All’“Hermitage” si può apprezzare in tutta la sua piacevolezza perché la fontina non è un formaggio facile da amare; se fosse una donna - ed è certamente un formaggio femmina - apparterrebbe alla categoria di quelle che sono all’apparenza prive di lusinghe ma che poi ti fanno innamorare perdutamente: bisogna conoscerle, scoprirle, conquistarle. Quale vino per accompagnare questo piatto straordinario? Il giro della Vallée senza muoversi dall’“Hermitage” continua in cantina dove, insieme ai vini delle altre regioni d’Italia e d’Oltralpe scelti con attenzione e competenza da Attilio Neyroz, ci sono “tutte” le migliori bottiglie della Valle d’Aosta: il Torrette di Saint Pierre, Les Cretes di Aymavilles, lo Chambave Mu-

scadet e quelle dell’Institut Agricole Regional. San Teodulo ha compiuto una faticaccia per andare a convertire gli infedeli di oltre Cervino, ma se non l’avesse fatto non ci sarebbero oggi i preti svizzeri e i canonici che, dopo aver fondato l’Ospizio del Gran San Bernardo, sono scesi a valle, a Saint Remy en Basse, per fondarvi l’Institut Agricole Regional che oggi produce vini eccezionali: dal Rayon de Soleil al Pinot Gris di Nus, dal Petit Rouge, al Gamay, al Rouge du Prieur.

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Per il risotto è stato scelto il “Torrette” che Roberto Anselmet produce ad Aymavilles, uno dei vini storici della valle, un rosso intenso, forte, profumato, di straordinario vigore, ottenuto da un uvaggio dei migliori vitigni che nascono dalle rocce della Vallée, compreso il delizioso Petite Rouge. “Qui le boit, boit de la joie”, dice sorridendo il maitre mentre lo mesce. È davvero una scelta perfetta, così come perfetta è la decisione di accompagnare il prossimo piatto

“Filetto di rombo croccante, crema di castagne con purea di castagne” con il “Cervaro”, un bianco favoloso ottenuto da uve Chardonnay intorno al castello dei Conti della Sala immerso nel verde sereno della campagna umbra. Le nozze tra il mare e i monti celebrate nella creazione dello chef sono benedette ed esaltate da questo vino fragrante e morbido, profumato e avvolgente che dai colli dell’Umbria ha risalito la penisola per arrivare fino ai piedi

del Cervino a deliziare i palati con la sua piacevolezza. Gli illustri ospiti non fanno in tempo a rimettersi dalla sorpresa che è già pronta un altra delizia gastronomica; sta arrivando in tavola il

“Maialino da latte con mele renette al Calvados” Nella scelta del vino da abbinare, il sommelier Grange ha dato la sua preferenza al “Tresor du Caveau”, una perla assoluta che accompagnerà in armonia il povero maialino sacrificato in tenera età per soddisfare i peccati di gola dei vip. Ormai la cena sta volgendo al termine in una atmosfera di allegria; non resta che gustare l’ultima portata, il dessert che concluderà festosamente la serata:

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“Iles flottantes con arance caramellate” Lo ha deciso la signorina Mimì da sempre addetta alla scelta dei dolci e chi ha già trascorso qualche giorno all’“Hermitage” lo sa molto bene; è lei infatti che sovraintende alla colazione del mattino, un trionfo di sapori e profumi valdostani (strepitose, sublimi le marmellate), è lei che può farvi gustare le deliziose madeleine, quelle rese famose dalla descrizione che ne fa Marcel Proust nella “Recherche”: conchigliette di pasta così grassamente sensuali sotto la loro veste a piega severa e devota. Lo stampo delle madeleine di Mimì è antico; glielo ha lasciato in eredità mamma Letizia insieme al segreto per renderle così gustose, all’amore per la sua terra, all’arte della perfetta ospitalità. Le “Illes Flottantes” adempiono perfetta-

mente al compito di concludere la fantastica cena, aiutate in ciò da un Asti de Miranda, allegro come le perline che giocano nel bicchiere quando viene versato. Il plenilunio saluta gli ospiti che stanno per lasciare l’”Hermitage”, ma qualcuno decide saggiamente di restare; non sarà facile ritrovare un’altra notte incantata come questa. Se poi a decidere saranno in due, la notte sarà certo teneramente appassionata; i fortunati ospiti potranno scegliere tra le camere che danno sulle emozionanti vedute del Cervino e delle Grandes Murailles, in molte delle quali un caminetto acceso rende ancora più romantica, se possibile, l’atmosfera. Ci sarà sul comodino una bottiglia di un grande vino da meditazione, il “Flappy”, un nettare dal color d’ambra che l’attento somellier avrà provveduto a far trovare in un secchiello d’argento. Accanto a due flûte di purissimo cristallo una frase sulla quale meditare: “Nessun mistero al di là del presente, nessuna ricerca per l’impossibile , nessun’ombra dietro la gioia. Quest’amore fra me e te è semplice come un canto” . (Rabindranath Tagore)

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Speciale Pasqua

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di Alessandro Milani

La Pasqua in Italia “Pasqua tanto desiata in un giorno è passata” recita il proverbio, che sottolinea la lunga attesa quaresimale che precede il giorno della festività liturgica più importante della religione cristiana. La nota etimologia del termine, per la quale la Pasqua è un “passaggio”, del Mar Rosso per gli Ebrei guidati da Mosè e poi dalla vita terrena a quella celeste per il Cristo risorto, ben si addice anche a un’interpretazione laica della festa. La Pasqua è infatti anche il passaggio dai sacrifici della Quaresima alla festa (anche dei sapori) della tavola domenicale, ma non solo: passaggio dalla cucina dell’inverno a quella della primavera, con le sue primizie, e

- perché no - anche a un periodo nel quale si esce di più per una gita o per un pranzo fuori casa, alla ricerca di nuovi sapori e di nuove mete. Un detto ben più noto non recita infatti “Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi”? Nel periodo pasquale, soprattutto in anni come questo nei quali la domenica di festa cade alla fine di aprile, anche il clima invoglia a scoprire itinerari inediti nel gusto e nelle tradizioni del nostro Paese. I rituali legati alla Pasqua - che non comprendono soltanto la domenica della Resurrezione di Cristo, ma iniziano spesso già da quella precedente, la Domenica delle Palme, e durano a volte per tutta la Settimana San-

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ta - interessano l’Italia intera, da Nord a Sud e si intrecciano a tradizioni e cerimonie locali. Immaginando di poterci spostare lungo la Penisola come su uno scacchiere, proviamo a vedere quali sarebbero le “mosse” migliori per gustare almeno alcune - impossibile raccontarle tutte! - delle celebrazioni tradizionali legate a questa festività.

La Domenica delle Palme Il nostro itinerario virtuale parte dalla Calabria e subito rivela il legame tra sacro e profano e un’ulteriore interpretazione del significato della Pasqua come passaggio. Una tradizione che da qualche tempo purtroppo si è persa e che una volonterosa associazione locale sta cercando di ravvivare è quella di Scalea, in provincia di Cosenza.

Qui, durante la Domenica delle Palme, si poteva assistere a una processione di pescatori che portavano sulla spiaggia, per offrirli a tutti i presenti, i primi pesci della nuova stagione di pesca. Lo facevano legando i pesci a grossi rami di ulivo (le “palme”). Anche trascurando il legame tra il Cristo e il pesce, uno dei simboli più ricorrenti nell’iconografia cristiana, appare evidente come per un paese tradizionalmente votato all’economia di mare, il rito segni il passaggio da un periodo di ristrettezze a uno di festa, con il ritorno all’attività dei pescatori e all’abbondanza di cibo. Dal mare alla montagna, ma sempre restando al Sud: un’altra processione che merita di essere vista la domenica precedente la Pasqua si svolge a Gangi, in provincia di Palermo, nella magnifica cornice delle Madonie. Qui le dieci confraternite del paese organizzano quasi una sfilata di palme decorate. Recuperate dieci grandi palme sul litorale - c’è la tradizione di acquistarle a Cefalù - le si intreccia e le si decora in vari modi, sfruttando la frutta e i fiori che ormai in questa stagione sbocciano numerosi. Processione pasquale a Gangi

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Una suggestiva immagine della statua del Cristo crocifisso utilizzato per la “Scavigliazione”

Giovedì Santo Per il giorno dell’Ultima Cena, nel quale per i cristiani si celebra l’istituzione dell’Eucarestia, ci spostiamo in Umbria, in una delle località dove l’atmosfera di devozione e preghiera è ben presente in tutto il corso dell’anno, Assisi. Qui infatti è in uso fin dal Medioevo la cerimonia della Scavigliazione, che avviene all’interno del Duomo: alla statua che rappresenta il Cristo crocefisso vengono tolti i chiodi e il corpo, deposto dalla croce, viene disposto su una sorta di lettiga, con la quale viene successivamente condotto alla Basilica di San Francesco. Il Venerdì Santo il corpo di Cristo viene raggiunto dalla processione notturna che porta alla basilica anche la statua dell’Addolorata, che rappresenta la Madonna che cerca di recuperare il corpo del figlio. Una volta giunte alla basilica, le due statue vengono riportate in Duomo per i riti della Pasqua.

Le processioni, che avvengono appunto di notte, sono rese ancora più suggestive dal fatto che sono illuminate dal fuoco delle torce e dai canti di laude - alcuni dei quali risalenti al Trecento - dei fedeli delle confraternite religiose. In Puglia il Giovedì Santo è celebrato in modo particolarmente sentito a Taranto, dove la processione dei Perdoni apre i riti della Settimana Santa; è infatti soltanto la prima delle tre processioni che si svolgono in città nei giorni che precedono la Pasqua. Il pomeriggio del giovedì i fedeli delle confraternite, a due a due, si recano in visita ai Sepolcri, con un ritmo lento che deve significare fatica e penitenza. La sera tra giovedì e venerdì avviene la processione dell’Addolorata, mentre la sera successiva vengono celebrati i Misteri, cioè gli episodi principali della Passione di Cristo. Di origine antica, le celebrazioni della Settimana Santa sono ancora molto partecipate, al punto che il privilegio di guidare la proces-

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La processione dei “Misteri” di Taranto

sione, che spetta al Troccolante, cioè colui che regge il troccolo di legno, viene ancora oggi assegnato mediante un’asta.

Venerdì Santo Spostiamoci di pochi chilometri dalla Puglia e per il Venerdì Santo scegliamo la Basilicata, in particolare il piccolo centro di Barile, in provincia di Potenza. Qui si svolge fin dal Seicento una straordinaria Via Crucis, che da un lato conferma la forte devozione e partecipazione del popolo lucano, e dall’altra rivela un’ennesima compresenza di sacro e profano nelle celebrazioni pasquali. Avviene infatti in questo borgo una della più spettacolari processioni della Passione del Cristo, con un corteo che si snoda per oltre 5 chilometri e nel quale a fianco dei personaggi delle vicende evangeliche ne compaiono altri legati alle tradizioni del territorio, tra i quali il Moro e la Zingara (alla quale per questo giorno vengono affidati i monili d’oro di tutte le donne del paese). Altrettanto spettacolare è la Processione del Cristo morto che si tiene sull’isola di Procida, nello splendido Golfo di Napoli.

Nota anche come processione dei Misteri, è di antichissima tradizione e nasce dalla presenza sul territorio di numerose confraternite e dalla religiosità degli abitanti, che preparano i riti della Settimana Santa praticamente per tutto l’anno. Similmente a quanto avviene nei centri dalla forte tradizione carnevalesca, anche a Procida spesso le persone lavorano per mesi per realizzare ogni volta sculture di mirabile fattura e una processione all’altezza. L’organizzazione spetta alla Confraternita dei Turchini, così chiamati per il loro manLa storica “via Crucis” di Barile

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tello azzurro portato sopra la veste bianca. Il rituale inizia alle sette del mattino partendo dall’Abbazia di San Michele Arcangelo. La processione viene aperta da uno squillo di tromba seguito da tre colpi di tamburo, secondo un ritmo che accompagnerà tutta la durata dell’evento. Sfilano quindi i Misteri (rappresentazioni in cartapesta o legno di personaggi ed episodi della Bibbia), i Misteri fissi (che raffigurano i momenti salienti della Via Crucis), quindi i bambini del paese vestiti a lutto, chiamati gli “angeli tristi”, le statue della Madonna e del Cristo morto. La processione termina in piazza Marina Grande.

primo salì sulle mura di Gerusalemme, nel 1097: il fiorentino Pazzino, della nobile famiglia dei Pazzi. Rientrato in città nacque l’usanza, il sabato che precede la Pasqua, di distribuire a tutti i fiorentini il fuoco santo, creato dallo sfregamento proprio delle tre pietre del Sepolcro che fu di Gesù. Passata quasi indenne attraverso le vicissitudini della famiglia dei Pazzi, la cerimonia si svolge oggi nella mattinata di domenica e consiste nella distribuzione del fuoco santo in modo molto particolare: un carro, carico di fuochi d’artificio, chiamato dai fiorentini “Brindellone”, viene trainato da buoi e posto davanti al Duomo.

Domenica di Pasqua Nel giorno che la liturgia vuole di silenzio per Gesù Cristo non ancora risorto, il sabato, le celebrazioni si fanno meno diffuse e anche meno spettacolari. La domenica la festa può quindi esplodere in celebrazioni molto festose. Il verbo esplodere non è qui usato a caso, ma fa riferimento a quanto accade a Firenze. Se siete in cerca di un’occasione per visitare il capoluogo toscano e le sue splendide ricchezze artistiche, il giorno di Pasqua potrebbe essere l’ideale, e vi imbattereste anche in una celebrazione unica nel suo genere, lo scoppio del carro, legata a una tradizione storico-leggendaria che risale nientedimeno che alle Crociate. Si narra infatti che Goffredo di Buglione premiò con tre pietre del Sacro Sepolcro il crociato che per Lo “scoppio del carro” di Firenze

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La processione della “Madonna che scappa”

Un filo di ferro lo collega all’altare maggiore; quando l’arcivescovo inizia a intonare il Gloria viene lanciata la colombina, un piccolo razzo dalle sembianze di una colomba, che corre sul filo fino a raggiungere i fuochi sul carro, i quali iniziano ad accendersi ed esplodere, avvolgendo la piazza e i fedeli in una nube di fumo e scintille festose. Altrettanto spettacolare è quanto si ha occasione di vedere a Sulmona, in provincia de L’Aquila, con la cosiddetta processione della Madonna che scappa. Una statua della Vergine viene portata a braccia dalla Chiesa di Santa Maria della Tomba verso la piazza del Mercato, dove la attende quella del Cristo risorto. Inizialmente la Madonna procede lentamente e veste il lutto, ma non appena si accorge del Figlio risorto inizia a correre e gli va incontro in tutta fretta; nella corsa perde per strada il velo nero e il fazzoletto e al loro posto appaiono il vestito verde simbolo di festa e una rosa rossa, mentre vengono lanciate in volo alcune colombe.

Iniziano quindi a suonare le campane per tutta la città invitando alla gioia. Se avete scelto di trascorre la Pasqua al mare della Sardegna, potete ritrovare cerimonie simili, nelle quali la Madonna incontra il figlio risorto, anche in molti centri dell’isola: tra le cerimonie più famose ci sono quelle di Oliena e Orgosolo, entrambe in provincia di Nuoro, con straordinari cortei in costume, e Sassari. Nell’altra isola maggiore, la Sicilia, l’archetipo dell’incontro tra la Madonna e il Cristo risorto si unisce al tema della lotta tra Bene e Male in rappresentazioni quasi teatrali. Le più rinomate sono quelle che si svolgono a Adrano, in provincia di Catania e a Prizzi, vicino a Palermo.

Una processione sarda de “S’Incontru”

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“Li Diavulazzi” di Adrano

Nel primo le celebrazioni della Settimana Santa hanno il loro culmine nella Diavolata, o, come la chiamano i siciliani, Li Diavulazzi di Pasqua: alcuni uomini vestiti da diavoli, per l’esattezza Belzebù, Astarot e Lucifero, insieme alla Morte cercano di convincere l’Umanità, interpretata da una bambina, a unirsi a loro, perché Cristo è morto; contro di essi combatte l’Arcangelo Michele, che alla fine ha la meglio su Lucifero. Secondo un copione che prende spunto dal poema “La resurrezione”, scritto a fine Settecento dal poeta locale Don Laudani, segue poi l’Angelicata, che celebra l’incontro tra la Madonna e il figlio risorto. Sono gli stessi i protagonisti dell’“Abballu de li Diavuli” che si tiene nel pomeriggio della domenica di Pasqua a Prizzi: gruppi di persone vestite da diavoli rossi, accompagnati dalla Morte vestita di giallo, percorrono le strade del paese, durante la processione delle sta-

tue della Vergine e del Cristo risorto, cercando di spaventare e catturare più persone possibili e condurle all’Inferno. Il luogo di tormento è in realtà un’osteria dove i “dannati” bevono e offrono da bere e non possono uscire se non quando, al termine della processione, intercede per loro direttamente la Madonna, la quale invierà alcuni angeli a liberarli. Anche al Nord le celebrazioni del giorno di festa attingono da tradizioni antichissime e da riti di passaggio di origine contadina. Sono ancora sentiti laddove l’economia rurale

Un momento della rappresentazione dell’“Abballu de li Diavuli” di Prizzi

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I “Pasquali” di Bormio

è tuttora forte o scomparsa da meno tempo. È il caso di Bormio, la perla della Valtellina, nei monti della Lombardia. Qui si svolgono i “Pasquali”: un tempo legati alla benedizione di cinque agnellini, uno per ogni rione del paese, rappresentavano la richiesta di benedizione da parte degli agricoltori e dei pastori per una buona annata. Oggi gli agnellini, vivi e agghindati a festa, ci sono ancora, ma essendosi persa la tradizione contadina, ciò che porta avanti il rito è la sfilata dei grandi carri allegorici a tema pasquale o comunque religioso allestiti ogni volta in modo diverso dagli abitanti dei rioni, che alla loro realizzazione iniziano a lavorare già in pieno inverno. I carri vengono condotti per le vie di Bormio dai paesani vestiti da pastori; una volti giunti nella piazza principale vengono benedetti e si premia il migliore.

deputato alla classica gita fuori porta. Il nome è legato all’apparizione dell’Angelo che annuncia alle donne giunte al sepolcro che Cristo è risorto. Alcuni fanno però risalire l’usanza della scampagnata a un altro episodio biblico: dopo la resurrezione, Gesù apparve infatti a due apostoli in cammino verso Emmaus, fuori le mura di Gerusalemme. Ciò viene letto come un invito a uscire dalla città, magari per un pranzo in compagnia. Non mancano però altre celebrazioni religiose. Una che in particolare ricorda ancora una volta la commistione tra cerimonie religiose cristiane e preesistenti riti pagani di passaggio si svolge a Calimera, in provincia di Lecce. All’interno della chiesetta di San Vito, appena fuori dal borgo, c’è un masso calcareo con un foro al centro: il rituale prevede che le persone debbano passarvi all’interno con tutto il corpo per ottenere prosperità per l’anno che viene.

Lunedì dell’Angelo Ancor più che nel giorno di Pasqua, usanza vuole che sia il giorno successivo, Pasquetta, quello Il masso calcareo di Calimera

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di Alessandro Milani

La Pasqua a tavola

Se la Quaresima è stata un periodo di sacrifici alimentari, è normale che la maggior parte dei piatti tipicamente pasquali sia rappresentata da dolci. Ognuno con le sue caratteristiche legate alla tradizione locale. In tutta Italia sono ormai diffusi dolci di fattura industriale come la colomba e il dolce a forma di agnello, ma la Penisola vanta una straordinaria varietà di dolci di Pasqua. Come per le celebrazioni più spettacolari, anche per i dolci che festeggiano la Pasqua sulla tavola, il Sud vanta maggiore ricchezza, ma anche nelle regioni settentrionali esistono piatti tipici legati alla Settimana Santa.

Sono due i dolci più noti a livello nazionale che nascono dalla tradizione pasquale e sono tipici di due regioni dove - come abbiamo visto - le feste sono davvero ricche e sentite, la Campania e la Sicilia. Il primo è infatti la pastiera napoletana. Si pensa che la sua origine sia addirittura più antica di quella della Pasqua stessa, e che la pastiera fosse preparata in occasione di alcuni riti pagani legati all’arrivo della primavera (ancora una volta il “passaggio”) e sia passata poi nella cultura cristiana a glorificare sulla tavola la festività pasquale. I suoi ingredienti principali sono la ricotta, le uova, le spezie (soprattutto la cannella), i

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La pastiera napoletana

La cassata siciliana

canditi e il grano bollito, ma il suo nome ricorda che un tempo al posto del grano veniva utilizzata (e in alcune zone ancora oggi si usa) la pasta cotta. Chi contende alla pastiera la palma del più famoso dolce di origine pasquale è la cassata siciliana. Oggi viene prodotta ed è godibile per tutto l’anno, ma un tempo mangiarla rappresentava un vero e proprio rito, con il quale si superava il periodo quaresimale, fatto di dura astinenza e digiuno. Il dolce, diffuso in tutta la regione, è originario di Palermo e in qualche modo condivide con il capoluogo siculo alcune caratteristiche ed eredità culturali: il termine cassata deriva infatti dall’arabo quas’at, dal nome della grande ciotola dove veniva preparata, e riporta al periodo della dominazione saracena; le decorazioni del dolce sono tipicamente barocche, come molte delle straordinarie bellezze architettoniche palermitane, mentre tra gli ingredienti non mancano i prodotti tipici della regione, tra i quali l’arancia candita, la ricotta e la pasta di mandorle. Meno noti nel resto del Paese ma sicuramente conosciuti e apprezzati nelle loro re-

gioni sono altri dolci tipicamente pasquali. Sempre restando in Sicilia, ora che la cassata non viene più preparata soltanto per la Pasqua, il dolce che si lega maggiormente a questa festività è la coddura (o cuddhura), una grande torta tonda che prevede al suo interno la presenza di uova con il guscio (sempre in numero dispari). È tradizione che siano le giovani donne a prepararla e a donarla, il giorno di Pasqua, ai propri fidanzati.

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La “cuddhura” siciliana


La “schiacciata” toscana

Le “nepicelle” calabresi

Ritornando sulla Penisola, un altro dolce di antica tradizione lo si trova in Calabria: sono le nepicelle, la ricetta delle quali è di origine araba, come dimostrano anche gli ingredienti: fichi, spezie, noci, mandorle, cioccolato e scorza di agrumi. E il tour gastronomico lungo le dolci ricette pasquali potrebbe proseguire a lungo, passando dalle scarcelle pugliesi alla pizza dolce e alla pigna dolce laziali, alla casadina sarda, alla schiacciata toscana e arrivare all’estremo lembo nordorientale dell’Italia, nelle province di Gorizia e Trieste, dove la Pasqua viene festeggiata anche preparando (e mangiando) la pinza, dolce semplice (a vedersi più che a prepararsi!) di antica origine contadina.

sacrificio dagli Ebrei, e poi con la figura di Cristo, cioè l’“agnello di Dio”. Capretto e agnello, animali ancora una volta legati alla cultura contadina e pastorale, ma dalle carni non semplici da cucinare e dai sapori forti, decisi, che spesso contrastano con l’appiattimento del gusto al quale ci hanno purtroppo abituato certi prodotti alimentari. Ma il vero protagonista di tutta la cucina di Pasqua, da Nord a Sud della Penisola, è senza dubbio l’uovo.

L’uovo di Pasqua Ci siamo soffermati sui dolci, peraltro tralasciando quelli che ormai vantano anche una produzione industriale (come la colomba) e tante altre ricette locali spesso con una radicata tradizione sul territorio, ma sulla tavola di Pasqua non mancano i piatti salati, anzi. Tra le carni la fanno ovviamente da padrone il capretto e l’agnello, che riportano immediatamente alla Bibbia, con gli agnelli offerti in

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L’uovo è da sempre simbolo della nascita, e ancora di più di ritorno alla vita. Nei riti precristiani di molte civiltà antiche l’uovo rappresentava proprio la sacralità della vita e la fertilità. Già nell’Antico Egitto era in uso scambiarsi uova decorate il giorno dell’equinozio di primavera. Anche Greci, Romani e Persiani prevedevano rituali con le uova. Normale immaginare che quando nell’area del Mediterraneo si diffuse il Cristianesimo la trasposizione di questa simbologia nella figura di Cristo, che risorge, torna alla vita, abbia fatto dell’uovo un elemento - e alimento - legato alla Pasqua. Oggi che la festività pasquale viene annunciata prima dai grandi ipermercati che dai pulpiti delle chiese o dall’arrivo della primavera, appare evidente come la tradizione dell’uovo abbia anche risvolti materiali e commerciali, con le uova di cioccolato. Diffuse in molti Paesi d’Europa solo negli ultimi decenni, si ricollegano però a una tradizione antichissima di regalare o scambiarsi uova, non di cioccolato ma dipinte o decorate, dapprima come si è detto per le feste di primavera e poi per la Pasqua. Una testimonianza certa di questo costume risale addirittura al XIII secolo, quando Edoardo I d’Inghilterra fece annotare tra le sue spese la preparazione di 450 uova d’oro decorate da regalare per Pasqua. Oggi le uova di cioccolato prevedono la sorpresa, che riporta alla concezione dell’uovo come simbolo del sacro ma anche del mistero. Anche se spesso la “rivelazione”

degli ovetti regalati ai bambini lascia alquanto a desiderare… Ma non è certo soltanto nella sua variante dolce che l’uovo diventa l’indiscusso re della tavola pasquale. Le principali ricette della festa lo prevedono infatti come ingrediente principale. La più nota è sicuramente la torta pasqualina. Piatto di origine genovese, è ormai diffuso in tutta Italia e preparato tutto l’anno, ma il nome stesso ne rivela la vocazione a celebrare la festa pasquale.

La torta pasqualina

Presente già nella cucina ligure del XV secolo, è una torta salata ideale per le gite fuori porta, in quanto può essere mangiata anche fredda A base di uova, ricotta e bietole (ma esistono varianti regionali che utilizzano carciofi e spinaci), vuole la tradizione che debba contenere 33 strati di sfoglia, tanti quanti gli anni di vita terrena di Cristo. Forse ancora più corposa è la torta salata pasquale che si cucina in Campania, il casatiello. Qui le uova vengono addirittura poste sulla sua superficie, quasi a rappresentare un cesto che serve a trasportarle

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La “crescia” marchigiana

Il “casatiello” napoletano

Il cesto in questione è in realtà un impasto che incorpora anche formaggi, salumi e strutto, fattori che ne fanno un piatto unico perfetto per la merenda all’aperto di Pasquetta. Sorte simile tocca alla sguta, il bastone di pane calabrese nel quale le uova a crudo vengono cotte insieme all’impasto del pane. Dolce ma più spesso salata, è uno dei simboli della cucina di Pasqua in buona parte della regione.

Un’altra torta salata dal sapore tutto pasquale è la crescia marchigiana, preparata con il parmigiano, il pecorino e soprattutto le uova sode benedette del giorno di Pasqua. A differenza della torta pasqualina, che da sola potrebbe fare pasto - o merenda a un pic nic - la crescia si sposa alla perfezione con i tanti salumi tipici delle Marche e all’abbinamento con un bianco importante come il Verdicchio. Se avete deciso di trascorrere le vacanze di Pasqua nelle Marche, il consiglio è quello di passare per Urbania, nella provincia di Pesaro e Urbino. Scoprirete che, durante le feste pasquali, in Italia con le uova non solo si cucina ma è anche possibile giocare. A Urbania si svolge infatti una vera e propria battaglia a suon di uova. Attenzione, non vengono lanciate; il gioco del “Punta e Cul” consiste La “sguta” calabrese

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Un momento del gioco del “Punta e Cul”

nel colpire, prima con la testa (punta) e poi con il fondo (cul) del proprio uovo quello degli avversari, cercando di uscirne indenni e riportarlo a casa intatto. Una manifestazione dalla dinamica simile, il “Ponta e Cül” si svolge anche a Fiorenzuola d’Arda, in provincia di Piacenza, sempre nel giorno di Pasqua. Attività tutte legate alle uova rendono meta visitata anche il borgo appenninico di Tredozio, in provincia di Forlì. Qui ha luogo un vero e proprio Palio dell’uovo, con gare di abilità e giochi nel contesto di una sagra che consacra l’uovo come il vero protagonista della Pasqua. Scontri con le uova per colpire quelle degli avversari hanno luogo anche in Alto Adige, ma restando nelle regioni del Nord Italia, la palma del gioco più originale fatto con le uova non può non essere assegnata al “Truc”. A Cividale del Friuli, e qui soltanto, il giorno di Pasqua, fin dal Settecento si pratica infatti questo gioco che non ha eguali: viene allestito un rialzo di sabbia ovale, quasi un circuito, con un punto di partenza posto più in alto e il resto digradante, dove è posizionata una tegola (cop).

I concorrenti, muniti di uova sode colorate (rigorosamente di gallina), devono far scendere le proprie (con l’obbligo di toccare il cop e senza dare loro una spinta) al fine di toccare quelle altrui eliminandole dalla gara. Chi viene toccato deve pagare pegno per riscattare il proprio uovo e tornare in gioco. Un tempo pratica assai diffusa nelle aie e nei cortili cividalesi, da qualche anno è stata ravvivata grazie ad alcune associazioni locali e oggi il giorno di Pasqua non è raro vedere giovani e anziani che si cimentano nel “Truc”. Attorno al gioco, adesso come un tempo, sono sorte manifestazioni anche artistiche, e il solo fatto di trovare metodi naturali per colorare le uova ha portato a creazioni di pregevole fattura… e anche nuove ricette; facendo cuocere le uova in un panno con le erbe o Una fase di gioco del “Truc”

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gli altri ingredienti necessari per tingere il guscio delle uova per il “Truc”, si è infatti trovato anche il modo per insaporirle in modo talvolta insolito. Per una pratica che ritorna in auge, un’altra che non ha mai avuto grossa fortuna in Italia, e che in questo caso non ha nulla a che vedere con le uova. Si tratta del cosiddetto “presepe di Pasqua”. Non sappiamo ancora quali siano stati i motivi che spinsero la Controriforma della Chiesa cattolica verso un’affermazione netta della rappresentazione della Natività rispetto a quella di altri episodi neotestamentari. Di certo c’è il fatto che già nel Quattrocento, a Napoli - e in quale altro posto altrimenti? era viva una tradizione presepiale legata agli eventi pasquali. Cultura che oggi è quasi completamente scomparsa ma che fino all’inizio del Novecento vantava appassionati e figurinari. In effetti, pensandoci bene, oltre a una maggiore importanza liturgica, quanto narrato dai

Vangeli della vita di Gesù nei suoi ultimi giorni si presta a raffigurazioni ancora più varie e spettacolari rispetto all’evento natale. Basti considerare che questi presepi di Pasqua, chiamati anche “Sepolcri a personaggi”, comprendevano la Via Crucis, l’Ultima Cena, Gesù che prega nell’orto del Getsemani e poi centurioni romani, Barabba e Pilato… tutti episodi che hanno avuto un’enorme valorizzazione nella storia dell’arte. Ovviamente gli artigiani facevano a gara per abbellire con le proprie opere le chiese più importanti del capoluogo campano, ma non mancava una produzione destinata alla rappresentazione domestica della Passione, proprio come accadeva - e accade tuttora per quella della Natività. E chissà cosa avrebbe fatto la creatività partenopea negli ultimi anni, avendo la possibilità di inserire i personaggi dell’attualità non come semplici spettatori della nascita di Gesù, ma magari come suoi aguzzini sul Calvario…

L’apparizione di Gesù Risorto a Tommaso nel presepe di Pasqua di Fossò

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di Alan Mieli

La colomba pasquale Una cosa è sicura: la colomba è un dolce lombardo. Nessuno ha la certezza circa la sua origine, sulla quale sono sorte numerose leggende, ma in tutte le varianti si torna sempre in terra di Lombardia, al massimo con un pizzico di Irlanda. Che un pane a forma di colomba - o di un volatile simile - fosse in uso presso i Romani, e ancora prima mangiato da Greci ed Egizi, non è messo in discussione, ma il collegamento del dolce che noi conosciamo alla Pasqua pare sia faccenda medievale. Una prima leggenda lo fa nascere a Pavia, in età longobarda, nel 572. Pare infatti che alla vigilia di Pasqua, il re Alboino, conquistata faticosamente la città dopo tre anni di assedio, fosse deciso a ra-

derla al suolo passando per le armi tutti gli abitanti; il suo cavallo, imbizzarritosi, si sarebbe però rifiutato di entrare nella cerchia delle mura fino a quando un anziano pasticciere donò (o fece donare a 12 giovani fanciulle) al sovrano 12 dolci a forma di colomba in segno di sottomissione dei pavesi. Solo a quel punto l’animale tornò tranquillo e Alboino, colpito da quello che gli sembrò un segno divino, decise di risparmiare la città e i suoi abitanti. Un’altra storia - sempre pavese, sempre in età longobarda - ci racconta della visita del monaco irlandese Colombano alla regina Teodolinda, a pochi giorni dalla Pasqua; la sovrana, volendo rendergli onore, fece preparare piatti a base di carne, che il monaco rifiutò per

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osservare la penitenza quaresimale. Visto però che Teodolinda si era offesa, San Colombano chiese di poter benedire le carni, che si trasformarono in dolci a forma di colomba. C’è invece chi fa nascere la colomba pasquale qualche secolo più avanti, nel XII: secondo questa leggenda, durante la battaglia di Legnano tre colombe si posarono sui vessilli delle truppe lombarde che combattevano il Barbarossa. Viste come portatrici di buoni auspici, furono loro dedicati dolci che ne riprendevano la forma. Molto più prosaicamente, la colomba come la apprezziamo oggi è nata nei primi decenni del Novecento quando alla Motta, la nota industria dolciaria - ancora una volta lombarda, per la precisione milanese - si pensò a come utilizzare anche per festeggiare la Pasqua i costosi macchinari usati per il panettone. E, ottimizzando ancor di più le risorse, la direzione suggerì ai maestri pasticcieri di utilizzare anche una pasta simile a quella usata per preparare il dolce meneghino. Nacque così la colomba Motta, rimasta per molti anni la più nota e apprezzata in Italia, anche grazie a vincenti campagne pubblicitarie. Anche dopo il successo del prodotto industriale, la colomba continua a essere preparata in modi diversi, da centinaia di artigiani in tutta Italia, non soltanto in Lombardia. Così quello che in tutto il mondo è un simbolo di pace, nel nostro Paese continua a essere anche il dolce tipico della principale festa cattolica di primavera.

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di Alessandro Milani

Il dolce centro di Milano Se si attraversa piazza San Babila alle prime luci della mattina Milano sembra quasi irreale, silenziosa, vuota; le poche persone che si incontrano per strada si conoscono e si salutano. Sotto i portici di via Borgogna, pochi metri dopo la Casa della Cultura si può assistere anchea quello che in città è ormai un mezzo miracolo: sentire il profumo delle brioches appena sfornate. Se si segue questo miraggio olfattivo si arriva in un posto dove la meraviglia non si ferma certo a cornetti e croissant. Siamo infatti alla Pasticceria Bastianello, attiva, come ricorda il suo stesso marchio, dal 1950.

Verso le 8 è già un via vai continuo di clienti, la maggior parte dei quali habitué, e si capisce che, anche senza bisogno di essere sedotti dal profumo mattutino, in molti l’hanno eletto a locale d’eccellenza. Qui incontriamo il direttore, Marco Serra, e proviamo a chiedergli la ricetta di questo successo. Un segreto vero e proprio non c’è, ma ci sono due fattori fondamentali, che ritengo siano validi per qualsiasi professione: il primo è sicuramente lo spirito di squadra che esiste nella nostra pasticceria (che dà lavoro a quasi 40 persone, ndr), l’altro è l’amore per il nostro lavoro, per ciò che facciamo.

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E poi ci sono le motivazioni legate alle scelte di Bastianello. Anzitutto il fatto di puntare sulla qualità. Non è una frase banale: qui davvero ogni singolo ingrediente viene scelto accuratamente, perché solo la somma di prodotti d’eccellenza permette un certo tipo di risultati. Niente nasce dal caso, dal cacao al latte, dal burro alle nocciole, dai canditi alla miscela di caffè, per arrivare all’acqua e allo spumante, che abbiamo deciso di “marchiare” con il nostro nome. E poi presumo ci sia un grande pasticciere… Esatto, noi siamo un team affiatatissimo che lavora attorno a un grande artista, la vera e propria mente creativa del gruppo, che è Nicola Gervasio. Quanto si diceva prima sull’amore per ciò che si fa trova in lui la massima espres-

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Io credo proprio di sì. Un tempo le persone forse non capivano la filosofia di Bastianello di creare sempre prodotti nuovi e di optare per una maggiore qualità a fronte di un prezzo superiore. Oggi invece la nostra clientela è disposta a spendere di più ma ricevere in cambio un prodotto di qualità assoluta. La gente è attenta a ciò che mangia, sa riconoscere ciò che è buono e ciò che lo è di meno. E poi il lavoro artigianale offre anche al cliente delle possibilità in più.

sione. Gervasio ha sempre idee nuove, sta sempre creando; quasi sta male se non lo fa. In lui professionalità e fantasia vanno di pari passo. Anche quando prende spunto da dolci tradizionali, li reinterpreta a modo suo, non sono mai una “copiatura”. Da voi viene tutto prodotto artigianalmente, giusto? Tutto quanto viene prodotto da noi è artigianale, ed è per questo, e per l’utilizzo di materie di primissima scelta, che il rapporto qualità/prezzo è così alto. Dietro ogni prodotto e ogni singolo gesto ci sono professionalità e lavoro, e questo ha un suo prezzo, ma ciò che si offre è sicuramente di altissimo livello. Una colomba artigianale e una industriale hanno un profumo e un sapore completamente differenti, quasi non sono più lo stesso prodotto. Crede che la gente apprezzi la vostra scelta di puntare sulla qualità?

Per esempio? Per esempio adesso, per Pasqua, le uova di cioccolato, che sono tutte prodotte nel nostro laboratorio, possono essere personalizzate completamente, dalla decorazione di glassa al tessuto con il quale possono essere rivestite, fino alle dimensioni e alla sorpresa da inserire all’interno. È capitato che qualcuno dei nostri clienti ci abbia chiesto di mettere dentro le uova alcuni gioielli… A proposito della Pasqua: noi di “Gustare l’Italia” le abbiamo dedicato ampio spazio in questo numero, compresa la copertina (con l’uovo realizzato proprio dalla pasticceria Bastianello). È una festa ancora sentita? Meno se la si confronta al Natale, ma comunque è ancora molto sentita. Forse cambiano i tempi dell’attesa della festa. Mentre il periodo natalizio inizia molto presto e dura per un mese e anche più, sembra quasi che a Pasqua tutti si ricordino della festa all’ultimo momento, e si lavora molto soprattutto negli ultimi giorni. È un peccato, soprattutto per i clienti che

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non possiamo soddisfare, perché non è detto che un dolce appena sfornato sia nella condizione ottimale per essere consumato Il giorno stesso. Ogni tipo di prodotto ha bisogno dei suoi tempi, ma la gente oggi spesso va di fretta. Noi cerchiamo intanto di portarci avanti, allestendo prima i locali. Anzitutto con creazioni originali, che cambiano di anno in anno, dedicate principalmente ai bambini, dalle uova ai cestini con gli ovetti e i pulcini alle riproduzioni dei personaggi dei cartoni animati di cioccolato. La Pasqua è infatti ancora una festa sentita dai bambini, e anche da chi, come me e il pasticciere Gervasio, si ricorda ancora dei giochi pasquali di quando si era piccoli. Anche gli adulti possono però trovare da noi uova per tutti i gusti, anche confezionate cone tessuti pregiati, pronte per diventare regali di alta classe

A fianco della pasticceria avete ormai creato anche tutta un’altra serie di servizi per il pubblico… Da quando siamo in via Borgogna, cioè da una decina d’anni, abbiamo allargato la nostra offerta, che oggi è rappresentata da un bar, un servizio di catering, aperitivi e ricevimenti per feste di laurea. Stiamo anche pensando di esportare il nostro marchio in altri Paesi europei, ma il cuore di Bastianello è e sarà sempre la pasticceria. Tutto ruota attorno a essa, e anche per noi nulla è confrontabile al piacere di arrivare qui la mattina presto e fare colazione con un caffè e una brioche appena sfornata, guardando Milano che si sveglia. Beh, questo ci rallegra…se anche chi ci lavora non riesce a resistere al profumo del forno mattutino, come potremmo restare indifferenti noi?

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di Raffaele Montagna

“Panem Nostrum cotidianum da nobis hodie”

Per millenni il pane è stato il fondamento dell’alimentazione umana. È sinonimo di cibo e a esso si accompagna qualsiasi altra pietanza (non a caso, in questo senso, si usa la parola companatico, cumpanaticum). Il pane, più di qualsiasi altro alimento, sazia la fame, dà energia e si pone, anche in senso simbolico, come ricompensa del duro lavoro umano (“d’ora in avanti lavorerai col sudore della fronte”). Per i cristiani (cattolici e ortodossi, non per i protestanti) è il simbolo dell’eucarestia, il sacramento istituito direttamente da Cristo nel corso dell’Ultima Cena, nel momento in cui lo distribuì ai suoi discepoli. Ma anche nell’Antico Testamento il pane era ritenuto un dono di

Dio; infatti Dio stesso parla di sé proprio attraverso il pane: al popolo ebraico che marcia nel deserto dona la manna come testimonianza della sua considerazione. Nella Bibbia sta scritto che “non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”, per dire che proprio come il pane (ma più di esso) Dio è indispensabile alla vita. Gesù Cristo, attraverso il “Padre Nostro” (la più bella e significativa preghiera cristiana), ci insegna a domandare il “pane quotidiano”, quello indispensabile alla vita. Anzi, Cristo stesso è pane (“prendete e mangiatene tutti, questo è il mio corpo,...”) e attraverso questo pane è possibile superare anche la morte e vivere in amicizia con Dio e

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L’arte della panificazione in Egitto

nella sua grazia (“chi mangia questo pane vivrà per sempre”). Già dalla preistoria il pane veniva preparato macinando rozzamente dei cereali, impastandoli con acqua e cuocendoli su delle pietre arroventate; tale tipo di pane non lievitato (azzimo) è uno dei primi citati nella storia e fu usato dagli Ebrei in fuga dall’Egitto. Attorno alla metà del terzo millennio a.C. proprio gli Egiziani scoprirono la fermentazione (fenomeno diverso dalla lievitazione), che dona al pane un odore più piacevole di quello azzimo e una certa, relativa sofficità. Successivamente, i Greci sperimentarono con successo l’aggiunta di latte, olio, miele ed erbette aromatiche e conferirono al pane l’importanza di elemento basilare dell’alimentazione; furono i primi a panificare di notte per avere il pane fresco al mattino! Il pane non fu (e non è) prodotto solo con farina di frumento, tipica dell’area mediterranea, ma, in base alle diverse latitudini e longitudini, anche con farine di segale, avena, mais, riso, patata, miglio, sesamo; alcuni tipi di pane non sembrano rientrare nella concezione che noi italiani abbiamo del pane stes-

so, in quanto non per tutti sono possibili la lievitazione e la fermentazione. Fino a cinquant’anni fa, quantomeno nell’Italia rurale, tradizionalmente, ogni casa possedeva un proprio forno, che serviva per cuocere il pane necessario al fabbisogno familiare; e un mobile, tra tutti, spiccava per la sua importanza: la “madia”, una sorta di alta cassapanca, sul cui piano superiore, sotto un coperchio ribaltabile, s’impastava, appunto, il pane, che, dopo cotto, veniva riposto al suo interno, ben sistemato dentro i cassetti ai quali si accedeva attraverso due sportelli posti in basso. In quest’ultimo mezzo secolo la produzione del pane si è evoluta non poco e nei Paesi occidentali si è addirittura notevolmente raffinata, tanto che ormai, per ogni “companatico”, esiste il corrispondente “tipo” di pane, la cui qualità dipende sostanzialmente dal genere di molitura (procedimento con il quale si separano con cura tutti i componenti della macinazione stessa) e dal lievito usato (quello “di birra” per le produzioni industriali e quello “naturale”, adoperato quasi esclusivamente in ambito domestico, perché provoca una lievitazione lenta, ma presenta pani di qualità decisamente superiore). I forni, come si chiamavano un tempo le rivendite di pane, si sono trasformati in negozi eleganti, nei quali si può soddisfare qualsiasi sfizio, considerata la varietà tipologica di articoli sfornati. Se avessimo ancora a disposizione la vecchia “madia”, dovremmo riempirla con una vasta gamma di prodotti utili a soddisfare ogni possibile accostamento.

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A questo proposito, il Panificio “Colombo & Marzoli”, che a Varese rifornisce diversi negozi di vendita, consiglia una “carta del pane” che ci piace qui sintetizzare allo scopo di allargare sempre più una cultura gastronomica improntata anche sulla raffinatezza del gusto e del sapore negli abbinamenti. La “carta del pane”, dunque, ci suggerisce: • per crostini e tartine - salmone e caviale: carré bianco in cassetta classico; carré bianco al burro a forma di cuore, fiore, esagono, tondo; carré integrale in cassetta classico; carré integrale a forma di cuore, fiore, esagono, tondo; carré alle olive in cassetta classico;

• per ostriche e salumi (speck, bresaola, salami di cacciagione): pane di segale in filoni o ciambelle; • per il fois gras: pan brioches; carré al burro; • per i formaggi: filoncini alle noci; filoncini alle noci ed all’uvetta; carré alle noci in cassetta classica o a forma di cuore, fiore, esagono, tondo; • per i salumi: filoncini francesi con farina biologica; filoncini di grano duro con farina biologica; • per la prima colazione: pane in cassetta di farine miste, nocciole, albicocche secche; pan brioches; • per i pasti quotidiani: panini mignon al latte, di soia, alle olive, alle noci; panini ai semi di papavero, sesamo e misti; aurora e barchette di grano duro al latte; pane al latte con forme diverse; quadrucci francesi; • pane da tenere per ogni evenienza: pagnotta pugliese da chilo e/o da mezzo; pagnotta e filone francese da chilo e/o da mezzo; filoni di grano duro; ciabatta al latte; ciabatta integrale.

PANE NOSTRO - Matvejevic Predrag Pane nostro è il frutto di vent’anni di lavoro. Quella del pane è una grande storia, ricca di sapienza e di poesia, d’arte e di fede. Abbraccia l’intera storia dell’umanità; dal giorno lontano in cui i nostri antenati si stupirono per la simmetria dei chicchi sulla spiga fino a oggi, quando miliardi di esseri umani ancora soffrono la fame e sognano il pane, mentre altri lo consumano e lo sprecano nell’abbondanza. Sulle rive del Mediterraneo, dalla Mesopotamia alle tavole del mondo intero, il pane è stato il sigillo della cultura. Ha accompagnato - anche nella forma della galletta, della focaccia e del biscotto - viaggiatori, pellegrini, marinai. Si è ritrovato al centro di dispute sanguinose e interminabili: le guerre per procacciarsi il cibo, ma anche le lunghe controversie sul pane - lievitato oppure azzimo - da usare per la comunione. Perché il pane è anche un simbolo, al centro del rito eucaristico. E lo si ritrova, nelle sue mille varietà, in molte opere d’arte, dall’antico Egitto alla pop art. Edizione: Garzanti - Pagine: 232 - Prezzo: € 18,60

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di Paolo Bonagura

Le “Città del Pane” “Quando uno ha fame o si ribella, o fugge o muore”. Questa dura affermazione ha accompagnato le recenti rivolte della fame in Medio Oriente. A saziar la fame sembra rimasto, come nei secoli passati, l’alimento base, l’affetto sincero, il punto di riferimento per la dieta mediterranea: il pane. Ma il simbolo del pane ha valori ben più profondi. Il pane è stato ed è simbolo di povertà, amicizia, pace e condivisione ma, soprattutto, di sacralità (pensiamo alla tradizione dei pani votivi e alla feste collegate come quella del “covo” a Campocavallo, carro ricoperto di spighe che riproduce ogni anno un simbolo di fede diverso). Tuttora, nei diversi Paesi del mondo, il pane viene lavorato secondo le tradizioni del luogo, che conferiscono a ogni territorio una tipicità di panificazione unica e distintiva. In Italia esiste una rete di 45 comuni che stimola la diffusione della cultura del pane, tutela la qualità dei pani, promuove la valorizzazione delle risorse ambientali, paesaggistiche, artistiche e storiche dei territori che hanno la tradizione dell’arte bianca: l’associazione Città del Pane. La pala del fornaio per simbolo, la fetta di pane a forma di Italia per obiettivo. Tutela del prodotto e promozione del territorio. La prima passa dalla difesa delle 200 specialità di pane (metà delle quali iscritte nell’elenco del Ministero delle Politiche Agricole, dove spiccano il “pane di Altamura DOP”, “il pane di

Matera IGP”, “la coppia ferrarese IGP” e “il pane casareccio di Genzano di Roma IGP”) attraverso campagne per l’inserimento della dicitura “pane fresco artigianale” (acqua, farina, sale e lievitazione di una notte) sulle etichette (rispetto al pane conservato con antiossidanti ed emulsionanti che sta conquistando la grande distribuzione). La promozione si manifesta nell’organizzazione di eventi quali “Pane nostrum” a Senigallia, “Pane in piazza” a Corciano, la “Festa del pane tradizionale” a Pellegrino Parmense, la “Festa del pane” di Altopascio (dove nel

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medioevo i Cavalieri del Tau servivano il pane ai pellegrini in sosta lungo la via Francigena) e quelle di Altomonte, Cantiano, Gonnosfanadiga, Genzano di Roma e Savigliano. Quest’ultima è ogni anno scenario della cerimonia dello scambio dei pani tra i popoli, inteso come scambio tra culture, identità. Ma anche come elemento di integrazione interculturale, come il recente progetto di creazione di un forno in piazza ad Avigliana, dove poter cuocere i pani delle diverse etnie residenti sul territorio, con particolare riferimento alle donne. Donne che in passato preparavano il pane in casa, lo cuocevano nel forno pubblico, recuperavano gli avanzi in intingoli che rappresentano la storia della nostra cucina; donne che oggi, nelle panetterie, fanno le commesse lasciando l’odore della farina nei laboratori agli uomini. Già, il rapporto fra donne e pane è frutto di diverse lievitazioni. Lievitazione naturale ma anche sociale, con i laboratori di panificazione

per bambini pronti a diplomarsi “scultori del pane”, con i percorsi di educazione alimentare e di lotta all’obesità infantile come il “Processo alla merendina” per una riscoperta della salubrità della merenda di un tempo, con i concorsi didattici “I bambini raccontano il pane” e i “I bambini colorano il pane”. Lievitazione culturale ma anche turistica, sulle rotte del “pan turismo” attraverso visite ai forni accesi, itinerari culturali tra i forni diffusi (a Maiolo), mostre nei Musei del Pane (ad Altomonte, Cerchiara di Calabria, Sant’Angelo Lodigiano, Maiolo, Borore, Villaurbana, Salemi e nel futuro Museo Officina del pane a Pellegrino Parmense). Lievitazioni di qualità che corrispondono a pani di qualità, elementi di cultura materiale trainante per i nostri territori. Per informazioni: www.cittadelpane.it

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L’unità d’italia è stata costr ed è ben rappresentata d auspichiamo una filiera agri S PA Z I O E V E N T I - M I L A N O


Grafica di Daniele Colzani

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L’unità d’Italia è stata costruita anche a tavola ed è rappresentata dai prodotti tipici: auspichiamo una filiera agroalimentare ostruita anche a tavola tutta italiana. ta dai prodotti tipici:

agricola tutta italiana.

www.gustarelitalia.it INFORMAZIONE PUBBLICITARIA


di Raffaele Montagna

L’artigiano in tavola

Il decanter: un valido accessorio per gustare il vino Tempo fa (non diciamo quanto!), ancor giovane e non uso a centellinare ogni aspetto della vita, un vecchio amico m’insegnò, contrariamente a quanto io pensassi, che il vino non si beve, ma si “gusta”, che non conta la quantità bevuta, ma la qualità gustata e il tempo (abbondante) di degustazione. La miglior degustazione - mi disse - può avvenire soltanto dopo una corretta “ossigenazione”, inframmezzando un adeguato arco di tempo tra la stappatura della bottiglia e l’assaggio; il vino è un frutto “vivo” della terra, lavorata con passione e fatica ed è perciò consigliabile, per rispetto, “farlo respirare”. La degustazione, quand’è ben praticata, diventa arte. Ed è per questo che ci si giova di un accessorio - il decanter - capace di esaltare tutte le virtù, le caratteristiche proprie del vino, al di là dei tipi di uva e vitigno, delle tecniche di vinificazione e di invecchiamento: il decanter dà modo di poter servire il vi-

no in maniera ottimale e funzionale alla miglior degustazione possibile. Stappare, quindi, la bottiglia e “scaraffare” il vino, versandolo nel decanter, diventa una manovra fondamentale foriera di una corretta degustazione; in tal modo il vino si “ossigena” e diffonde tutta la sua fragranza, permettendo di percepire il suo bouquet di sensazioni aromatiche e profumate. Il decanter si usa soprattutto per i vini rossi e, comunque, per tutti i vini “invecchiati” e ben strutturati, quelli che generano fragranze profumate, vistose e accentuate. I vini bianchi e i rossi giovani, frizzanti, non hanno bisogno di decantazione, ma possono, tuttavia, nel decanter, essere appoggiati su una base colorata, contenente ghiaccio tri-

Decanter della serie “Vinocchio” Gustare l’Italia 74


tato, per essere rinfrescati). Se non avessimo timore di esagerare potremmo dire che ogni vino ha un suo decanter; in ogni caso, bisogna preferire quelli in cristallo ed evitare qualsiasi altro materiale (acciaio, peltro, rame zincato, ceramica e terracotta) che non faccia trasparire la luce; sembra, infatti, che sia proprio la luce (solo per il tempo di decantazione, cioè, al massimo qualche ora) a rendere il vino vivace ed espressivo. Come per i bicchieri, il cristallo dev’essere relativamente sottile e puro, in modo che possa far apprezzare subito il colore e le diverse sfumature che il vino presenta. Per quel che concerne le forme, si va dalle più “canoniche” alle più strane e originali: con

o senza manico, tozzi e panciuti, bassi e allungati, con l’imboccatura tagliata o reclinata; una volta avuto riguardo per una base relativamente larga, atta a incrementare il processo di “ossigenazione” e un collo stretto che consenta una facile mescita, gli unici limiti sembrano essere quelli Decanter “Alavin” con base refrigerante

dell’inventiva e della genialità. Il mercato dei decanter è abbastanza diffuso, sicché è facile reperirli nei negozi che commercializzano arredi e complementi per la tavola. Vi suggeriamo, tuttavia, quelli prodotti da “Italesse”, un’azienda triestina, giovane e dinamica che trae la sua produzione dall’esperienza che il titolare ha acquisito nel variegato mondo della ristorazione. Particolare della base refrigerante “Alavin”

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Con precisione, sensibilità e passione “artigianale” sono nate, così, diverse collezioni di articoli (tra i quali i decanter), tutte create da designer italiani e realizzate con materiali innovativi.

tano sempre più attenti, curiosi e sensibili alle proposte che il mercato presenta. Le linee di decanter “Alchemy”, “Alavin” e “Vinocchio”, con i loro relativi supporti per l’asciugatura, sorprendono e meravigliano per l’eleganza, la pulizia, la rigorosità delle forme e la modernità dei colori. Esse vengono richieste e utilizzate nelle più importanti degustazioni internazionali, in quanto rappresentano la sintesi ottimale di forme, materiali e tecnologie, finalizzata a procurare il massimo piacere possibile a chi della degustazione fa professione o se ne interessa per passione. Per info: www.italesse.it

Decanter della serie “Alchemy”

La filosofia e la politica aziendale - che hanno cercato e trovato un filo conduttore, un legame, tra i diversi accessori per “gustare” il vino - attraverso la sintesi costante tra stilisti, nuove tecnologie e selezione dei materiali, hanno ottenuto, attualmente, un esito eccezionale: quello, cioè, di far vivere gli oggetti al di là della loro funzione. La tecnologia “xtreme” (brevetto Italesse) - diretta a conferire alla pasta di vetro una notevole resistenza, al fine di scongiurare nefaste rotture - e il “policrystal” (brevetto Italesse), materiale policarbonato che assicura una straordinaria resistenza e una luminosa brillantezza, pongono “Italesse” ai vertici dei produttori di accessori destinati a coloro che consumano buoni vini e che risul-

Supporto per asciugatura “Vinocchiodrop”

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I Consorzi

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di Alan Mieli

I Consorzi di Tutela dei prodotti tipici Come accennato nell’editoriale, a partire da questo numero “Gustare l’Italia” dedicherà una rubrica a un prodotto italiano di qualità certificata. Dal vino alle carni, dagli ortaggi alla frutta esistono già forme di tutela delle produzioni d’eccellenza, ratificate con il conferimento di un marchio. Dal D.O.P., la denominazione di origine protetta, all’I.G.P. (indicazione geografica protetta) per i prodotti alimentari tipici al D.O.C. (denominazione di origine controllata), D.O.C.G. (per quelli di origine controllata e garantita) e I.G.T. (indicazione geografica tipica) per vini e distillati.

Ovviamente i singoli produttori possono fregiarsi di questi marchi per i loro alimenti e i loro vini, ma chi tutela e promuove questi prodotti sono i consorzi. “Gustare l’Italia” vuole a sua volta valorizzare il lavoro di queste realtà, sostenendo produzioni che siano di assoluta garanzia per il consumatore. Grazie al disciplinare di produzione, oltre alla conformità alle leggi italiane ed europee, chi acquista i prodotti a marchio di denominazione è sicuro che essi nascono da un territorio preciso, con il quale intrattengono un legame indissolubile e che sono tracciabili in ogni fase della loro lavorazione. I privati che si riuniscono in consorzio hanno anche modo di “fare rete” tra loro per diffondere la conoscenza e l’informazione sul proprio prodotto, ma anche per combattere in modo efficace le contraffazioni e promuovere una cultura alimentare del buon mangiare e del buon bere. Al tempo stesso unirsi in consorzio significa inoltre offrire al consumatore l’occasione di trasformarsi in turista e visitare un territorio dove alle eccellenze enogastronomiche si affiancano anche quelle storiche, artistiche e naturalistiche. Insomma, un’occasione in più per “gustare l’Italia”!

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L’Abbacchio Romano IGP Nel nostro speciale dedicato alle tradizioni di Pasqua abbiamo detto che tra le carni più utilizzate per il pranzo domenicale predominano il capretto e l’agnello. A Roma, e più in generale nel Lazio questa tradizione culinaria, legata alla figura di Cristo visto come agnello di Dio che si offre in sacrificio per l’umanità, è ancora molto sentita, almeno a tavola. Da secoli il periodo primaverile, e in particolare la festa per la Resurrezione di Cristo, sono considerati l’occasione ideale per macellare gli agnelli. Anzi, in alcuni casi era l’unico momento dell’anno nel quale ciò era consentito ai pastori, i quali altrimenti potevano macellare soltanto ovini adulti. Gli agnelli da latte scelti per essere sacrificati sulle tavole dei laziali sono detti abbacchi.

Abbacchio ha un’etimologia controversa. Sembra certo faccia riferimento al vocabolo latino baculum, che significa bastone. Da qui partono diverse interpretazioni del termine: c’è chi lo collega al fatto che gli agnelli vengono legati a un palo, un bastone per non farli scappare, quindi si trovano ad baculum, vicino a un bastone; altri si rifanno al baculum quale strumento con il quale gli agnelli venivano uccisi, che venivano quindi “abbacchiati” (che oggi si usa anche per indicare una persona mesta e triste, proprio come se stesse per essere condotta al macello). Comunque lo si legga, il vocabolo è ormai indissolubilmente legato alla tradizione gastronomica laziale di Pasqua. Affinché questa tradizione non si risolva in una brutta esperienza - anche a livello econo-

L’abbacchio allo scottadito: il tipico piatto della cucina “romana”

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mico - il consiglio è quello di rivolgersi a quegli allevatori e macellai che aderiscono al “Consorzio di Tutela IGP Abbacchio Romano”. Molte delle carni che nelle settimane precedenti la Pasqua compaiono miracolosamente in grande quantità, nelle macellerie come negli ipermercati, spesso non sono di agnello da latte oppure provengono dall’estero (addirittura dalla Nuova Zelanda). Il vero abbacchio romano proviene soltanto da quegli allevatori che rispettano tutte le norme previste dal Disciplinare del consorzio. Quello dell’“Abbacchio Romano IGP” è un consorzio giovane: dopo aver ottenuto il riconoscimento formale soltanto nel giugno del 2009, è stato ufficialmente istituito nell’agosto dello stesso anno. Al 31/12/2010 le aziende assoggettate alla certificazione IGP erano 220, con oltre 45.000 capi certificati. Attualmente sono iscritti al Consorzio oltre 80 allevatori e 10 tra macellatori e porzionatori. Gli attori della filiera che possono aderire al Consorzio sono infatti gli allevatori, tra i quali il

presidente del Consorzio, Benedetto Tocchi, i macellatori, i porzionatori e i confezionatori. La zona di produzioAbbacchio Rone dell’“Abbacchio mano IGP” comprende tutto il territorio laziale, il quale, grazie alla natura dei rilievi (vi si trovano colline e monti calcarei e vulcanici), al livello annuale delle precipitazioni e a una temperatura media annuale variabile compresa tra i 13 e i 16°C, offre condizioni ottimali per l’allevamento ovino di qualità. Qui gli abbacchi, cioè gli agnelli da latte, vengono nutriti con latte materno, con la possibilità dell’integrazione al pascolo con alimenti naturali ed essenze spontanee, escludendo in modo assoluto (anche per l’alimentazione delle madri) l’utilizzo di sostanze di sintesi e geneticamente modificati (OGM). Non solo. Oltre alle forzature alimentari, gli agnelli e le “pecore madri” non sono soggetti nemmeno a stress ambientali o sofisticazioni ormonali finalizzate a un incremento della produzione. L’attenzione nei confronti degli animali è tale che durante il periodo estivo si pratica la tradizionale monticazione: le pecore e gli agnelli vengono portati in altura, di modo che da un lato possano sfuggire alla calura estiva, e dall’altro che le pecore si nutrano di foraggio fresco. Non tutte le razze possono fregiarsi della denominazione di “Abbacchio Romano IGP”, che è infatti riservata esclusivamente agli agnelli di entrambi i sessi na-

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ti e allevati allo stato brado e semibrado, di razza Sarda, Comisana, Massese, Merinizzata italiana, e la pregiata Sopravissana. Se risulta sicuramente difficile per il consumatore verificare che la carne che stanno per acquistare provenga da una delle razze citate, lo è meno il riconoscerle dalle caratteristiche visibili della carne stessa: quella dell’Abbacchio Romano si presenta rosa chiaro di colore, con il grasso di copertura bianco, una tessitura fine, una consistenza compatta e leggermente infiltrata di grasso. Il suo sapore è delicato, e sprigiona gli odori tipici di una carne giovane e fresca. La presenza di grasso, sia di copertura, sia infiltrato è decisamente scarsa. La carne viene commercializzata in tagli differenti (intero, mezzena, spalla e coscio, costolette, testa e coratella). Una volta la carne d’agnello era consumata quasi esclusivamente dalle persone dei ceti popolari, che peraltro le rendevano onore cucinando anche le interiora. I nobili la trascuravano a favore di quella di

altri animali, su tutti il capretto, con qualche eccezione eccellente; per Giovenale, per esempio, l’agnello giovanissimo era: “il più tenero del gregge, vergine d’erba, più di latte ripieno che di sangue”. Da qualche tempo l’abbacchio è invece molto apprezzato anche da chef rinomati, che hanno inventato nuovi modi per cucinarlo, affiancandoli a quelli più tradizionali. Noi abbiamo chiesto qualche consiglio a Severino Gaiezza, chef dell’“Enoteca Regionale Palatium”, che ci ha regalato tre ricette di piatti gustosissimi rigorosamente a base di Abbacchio Romano IGP.

Il contrassegno del Consorzio La carne di Abbacchio Romano deve essere immessa al consumo provvista di contrassegno, costituito dal logo, a garanzia dell’origine e dell’identificazione del prodotto. Il logo è costituito da un quadrato composto da tre linee colorate (una verde, una bianca e una rossa), interrotto in alto da una linea ondulata rossa che si collega a un ovale rosso, contenente una testa di agnello stilizzata. In basso il perimetro è interrotto dalla scritta a caratteri maiuscoli rossi I.G.P. in basso, all’interno del perimetro quadrato, è riportata l’indicazione del prodotto “ABBACCHIO” in caratteri maiuscoli di colore giallo, e “ROMANO” a caratteri maiuscoli di colore rosso.

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Antipasto: “Polpettine d’abbacchio di Sopravvissana, cicoria di campo di Sezze e marzolina del frusinate” Ingredienti per 6 persone: 600 gr

di cosciotto d’Abbacchio Romano IGP - 200 gr di pane raffermo - 200 gr di pecorino romano DOP - un uovo (si consigliano uova biologiche San Bartolomeo) - 30 gr di mentuccia romana - olio extravergine della Sabina DOP - noce moscata q.b. - sale q.b. - pepe q.b. Preparazione: disossare il cosciotto, tritare e aggiungere il pane raffermo, i cubetti di pecorino romano, l’uovo, il trito di mentuccia, il sale, il pepe e la noce moscata. Confezionare le polpettine e friggerle nell’olio extravergine. Ingredienti per la cicoria di contorno: 500 gr di cicoria di campo - 500 gr di brodo di carcasse di cosciotto d’abbacchio - un cucchiaio di concentrato di pomodoro - un filetto d’acciuga sotto sale dissalata - olio extravergine della Sabina DOP - uno spicchio d’aglio di Proceno - scaglie

di formaggio marzolina - 2 gr di peperoncino fresco Preparazione insalata: sbollentare la cicoria, scolarla, strizzarla e tritarla. In un pentolotto con olio extravergine fare sciogliere l’aglio tritato, l’acciuga e il peperoncino, aggiungere la cicoria, il concentrato di pomodoro e il brodo. Portare a cottura in 5/6 minuti. Servire nei piatti fondi la zuppa di cicoria e adagiare le polpettine e finire con alcune scaglie di formaggio marzolina.

Primo piatto: “Gnocchi di semolino alla romana con ragout d’abbacchio di Sopravissana e chips di carciofi di Ladispoli”

Ricette

Ingredienti per 6 persone Per gli gnocchi: 1 l di latte della Centrale del latte di Roma- 300 gr di semolino - 250 gr di pecorino di Picinisco - 6 tuorli d’uovo - 150 gr di olio extravergine d’oliva di Canino DOP - noce moscata q.b. - sale q.b. Preparazione gnocchi: far bollire il latte con l’olio, sale e noce moscata, aggiungere il semolino e cuocere per 5 minuti. Togliere dal fuoco e aggiungere il pecorino e i tuorli d’uovo mescolando di tanto in tanto.

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Versare il composto sul marmo, appiattirlo in uno spessore di 4 cm e con un coppapasta (dal diametro di 3 cm) ritagliare a formelle cilindriche. Ungere una pirofila di ceramica e posizionare gli gnocchi, cospargerli di pecorino e gratinare in forno già caldo per 15 minuti. Servire gli gnocchi conditi con il ragout d’abbacchio e chips di carciofi. Ingredienti per il ragout d’abbacchio: 500 gr di polpa d’Abbacchio Romano IGP - 500 gr di brodo di carne - 100 gr di sedano - 100 gr di carote - 50 gr di cipolla - uno spicchio d’aglio - 10 gr di timo - 10 gr di maggiorana - 6 carciofi - olio extravergine d’oliva di Canino DOP fecola di patate Preparazione ragout: in una pentola capiente brasare gli odori tritati finemente, tagliare la polpa di abbacchio a cubetti e aggiungerla al trito, unire il brodo e profumare con il timo e la maggiorana. Portare il tutto a cottura.

Nel frattempo ottenere le chips tagliando carciofi a lamelle, infarinandoli nella fecola di patate e friggendoli in olio extravergine d’oliva.

Secondo piatto: “Costolette d’abbacchio alla scottadito intingolo di cacciatora e puntarelle alla romana” Ingredienti per 6 persone: 18 costolette d’Abbacchio Romano IGP - 500 gr di puntarelle (cicoria

catalogna) - 150 gr di salsa alla cacciatora (olio extravergine d’oliva, capperi, olive, salvia e rosmarino) - 100 gr di battuto per le puntarelle (alici, aceto, olio extravergine d’oliva, aglio) Preparazione: cuocere le costolette d’ab-

bacchio sulla griglia. Nel frattempo preparare la salsa alla cacciatora con olio, aceto, rosmarino, salvia e capperi. Accompagnare le costolette con le puntarelle in insalata.

“Enoteca Regionale Palatium” Via Frattina 94 - 00187 Roma tel. 06/69202132

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MURI D’AUTORE Via Magenta, 31- 21100 Varese Tel. e Fax: 0332 830951 info@muridautore.it - www.muridautore.it

ASSOCIAZIONE ITALIANA PAESI DIPINTI Via Magenta, 31- 21100 Varese Tel. e Fax: 0332 289755 info@paesidipinti.it - www.paesidipinti.it


Rubriche

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di Cino Tortorella

Le lune di Gustare l’Italia

“Dal Mago” Questa rubrica è dedicata ai ristoranti immeritatamente ignorati o sottovalutati dalle varie Guide; ve ne sono in tutte le regioni italiane ma la gran parte di loro sono del Sud, e la disattenzione nei loro confronti è da riferirsi a diversi motivi, il primo dei quali - forse - è dovuto al fatto che quasi tutti i critici risiedono al Nord e arrivare a Castrovillari o a Putignano non è come andare a Gallarate o a Busto Arsizio. Noi di “Gustare l’Italia” ci siamo ripromessi di ovviare - per quanto ci sarà possibile - a questa situazione; per riuscirci chiediamo la collaborazione degli amici lettori, che stanno diventando sempre più numerosi anche sul nostro sito www.gustarelitalia.it. Segnalateci i ristoranti che a vostro giudizio sono sottovalutati dalle guide e penseremo noi a dare loro il giusto riconoscimento attribuendogli, visto che soli, stelle e pianeti sono già tutti occupati, la nostra risplendente luna di qualità.

Il locale del quale vi parleremo è un classico esempio della disattenzione degli ispettori delle guide; si tratta del ristorante “Dal Mago” di Morro d’Alba, in provincia di Ancona, un delizioso borgo il cui centro storico è un gioiello d’architettura, a pochi km dall’aeroporto di Falconara.

Qualche anno fa, quando l’ho conosciuto mi sono chiesto per quale motivo molti italiani vanno all’estero alla ricerca di esotiche terre lontane, quando a due passi da casa c’è ancora tanto da scoprire. Per ragioni di lavoro giro l’Italia da più di quarant’anni, percorrendo migliaia di chilo-

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metri; pensavo di conoscere bene lo Stivale, anche nei paesini più nascosti, eppure mi trovo continuamente di fronte a sorprese spesso molto piacevoli. Una terra della mia predilezione che credevo non avesse per me più segreti è la regione Marche, dove torno da anni con allegria perché alla piacevolezza dei luoghi si unisce il carattere della gente, generoso, gioviale, sincero... gente per la quale, come nel paese sognato da Zavattini, “buongiorno” vuol dire davvero “buongiorno”. Eppure mi è capitato di scoprire un paese del quale ignoravo l’esistenza, gli esaltanti prodotti della sua terra e un piacevole, gustoso e segreto ristorante, rifugio sicuro per gourmet alla ricerca di una tavola dove poter gustare antichi sapori e il bed&breakfast “Shanti House”. L’uno e l’altro appartengono alla famiglia di Raoul Romiti, bizzarro e simpaticissimo proprietario. Siamo alla quarta generazione dei Romiti che hanno inaugurato la trattoria; ha incominciato il bisnonno Giuseppe detto Peppetto alla fine dell’Ottocento, ha continuato il nonno Spartaco che si è guadagnato dai clienti il titolo di “Mago” per la sua allegria e per l’eccellenza della cucina. È toccato poi a Raoul e alla sua bella moglie Lorena e sono già pronti Heidi e Loris, i figli che, dopo alcune esperienze in giro per il mondo, stanno per raccogliere il testimone da mamma e papà. Raoul, che per tutti è naturalmente il “Mago”, si è ritagliato il compito di ricercare i prodotti più esclusivi della sua terra dai contadini della regione; ha creato catene di piccoli produttori che gli procurano i salumi, i formaggi, la carne di favolosi polli, conigli e oche e, in stagione, funghi e cacciagione che la signora Lorena trasforma in manicaretti che non hanno rivali nell’entroterra anconetano.

Da ottobre a maggio, per chi ama la cacciagione, il “Mago” è un appuntamento irrinunciabile; un drappello di cacciatori batte la campagna per fornire la cucina di lepri, pernici, tordi, beccacce, allodole... In quel periodo non possono accedere alla trattoria i vegetariani, le anime sensibili e gli stomaci delicati. Non è la sola proibizione per

chi si avventura nell’antro del Mago; all’ingresso c’è un cartello in dialetto che vieta tassativamente l’ingresso: • A chi viene quà giusto pè fasse n’insalatina scondita e ‘n bicchiero d’acqua (se state male state lì a casa). • A tutti quelli strani che se fa le paranoie e non se sa quel che vole (gide dallo pissicologo). • A quell’altri che non je va bè niente (gide al mecchedonalde, che è tutta salute). • Noi qua’, è quattro - dico quattro - generazioni che damo da magnà li mejo cose in assoluto. Quà se magna e beve come Dio co-

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manda. Ordunque, tutte ste gente particolari meno ce viè, mejo è. Sono soltanto due i vini che si bevono dal Mago; la sua è l’unica trattoria dove un gourmet raffinato non considera deplorevole sentirsi chiedere: “bianco o rosso?” al momento di scegliere il vino. Bianco o rosso dunque, ma bianco sta per “Verdicchio” e rosso sta per “Lacrima”. Entrambi scelti da Raoul tra quelli prodotti nelle migliori cantine. Erano anni che avevo smesso di bere il Verdicchio, perché ogni volta era un delusione: senza profumo, senza corpo, senz’anima, un vino spesso anonimo, inespressivo. Poi ho assaggiato quello del “Mago”, che gli arriva per vie misteriose da piccoli produttori il cui nome non rivelerebbe nemmeno sotto tortura, e mi si è rivelato in tutta la sua fragranza: terso, vellutato, lucido, gagliardo, ambra purissima, nato per accoppiarsi con gli antipasti che inaugurano i pranzi della signora Lorena, un vino “ben bel po’ buono”,

come dicono gli anconetani per indicare qualcosa di superlativo. Ho gridato al miracolo. E non avevo ancora assaggiato il Lacrima. È curioso che questo vino sia stato a lungo ignorato anche dai più attenti intenditori; l’incongruenza è forse giustificata dal fatto che i vigneti sono frazionati e limitati, i proprietari sono una cinquantina in circa cento ettari, ognuno gelosissimo del proprio prodotto e qualcuno addirittura restio a venderlo. D’altra parte chi può separarsi con leggerezza da un vino così? Scriveva Omar Khaiam: “Mi chiedo con stupore: i produttori di vino che cosa possono comprare di meglio di quello che han venduto?” E non conosceva il “Lacrima”. È difficile da raccontare a chi non l’ha mai assaggiato. Si può dire che è di un colore rosso rubino, che ha un bouquet ampio e ricco di uva appena pigiata, fragrante, sensuale, che è di sapore intenso e morbido, pieno e armonico, allegro e vitale, che mantiene tutto ciò che promette al primo respiro, appena uscito dalla bottiglia e aggiunge poi altre sensazioni che attengono al mondo dei sogni e della magia.

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D’altronde questa è terra di magia: fino al XIV secolo, durante il novilunio di Maggio, arrivavano a Morro maghi e negromanti per procurarsi il Lacrima, del quale si servivano per fare filtri d’amore, elisir di lunga vita, rimedi contro l’impotenza e la sterilità. Al “Lacrima” venivano attribuite anche qualità che assicuravano a chi ne faceva un uso costante una vecchiaia serena e attiva (da queste parti c’è ancora oggi la più alta percentuale di ultranovantenni lucidi e operosi). “Dal Mago” non esiste il menù; i piatti vengono proposti da Raoul col suo divertente accento marchigiano. Quelli che vengono suggeriti sono in assoluto i migliori di tutta la provincia: i “Tagliolini” fatti rigorosamente in casa come li faceva la nonna e poi la mamma di Raoul, i “Ciavattoni al pepe del Mago” succulenti, superbi, le “Mezzemaniche con salsiccia e fagioli”, i “Rigatoni di Lallì”, i “Tortelloni giganti cacio e pepe” e, naturalmente, la succulenta polenta

alla marchigiana, che in autunno e in inverno accompagna strepitosi arrosti di cacciagione. “Marchescià magna pulenta” (marchigiani mangia polenta), recita del resto un detto dell’Italia Centrale. Non sono proprio piatti leggeri e per animi sensibili e delicati ma per un gastronomo sarebbe un delitto che grida vendetta non aver gustato almeno una volta il “Galletto in potacchio” del Mago. Viene cucinato in tre versioni: col galletto, col coniglio o - sublime - con i capponi che prepara una contadina della campagna circostante. Va da sé che il vino da abbinarvi non può che essere il Lacrima e mai matrimonio sarà stato più armonioso. Il Mago se lo procura dai suoi misteriosi fornitori senza nome tranne uno: l’Azienda Badiali che produce il “Paucca”, nome dialettale dell’upupa, ritenuto qui un uccello magico. È un vino che raggiunge, e a volte supera, i 14 gradi, ma lo senti sempre giovane e fra-

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grante; nasce ed è subito perfetto così che alla luna di marzo la sua maturità è completa e per tutto l’anno mantiene inalterata la piacevolezza della gioventù. Il suo colore è un viola abissale come forse sono le acque del Lete; quando lo si beve, dopo il terzo bicchiere si dimenticherà ogni tormento, ogni angoscia, ogni sia pur lieve contrarietà, e ci si potrà librare nell’aria come le creature di Chagall. Per trascorrere la notte allo “Shanti House” non occorre però arrivarvi in volo. Il “Mago” è sempre pronto infatti a trasportarvi con la sua Land Rover per coprire le poche centinaia di metri che separano la trattoria dal b&b. È stata Heidi a volerla chiamare con la parola indiana che significa “serenità”, ed è il nome più appropriato perché qui dovunque si respira pace e tranquillità. È un luogo perfetto per la meditazione e per la contemplazione, ma soprattutto per l’amore. Sarebbe quasi delittuoso essere soli in questo luogo: la felicità non deve essere vissuta in solitudine. Byron ha scritto: “Chiunque voglia conquistare il piacere deve spartirlo con altri, la felicità è nata gemella.” La villa, sospesa nel silenzio e circondata dai vigneti, si trova al centro di una vallata che da una parte arriva fino alle pendici del monte Conero e dall’altra alle prime case dell’abitato di Morro, senza che nulla ne turbi l’armonia e l’incanto. È la realizzazione del sogno di Heidi, una creatura bella e solare come la mam-

ma, allegra e spiritosa come il padre. Se gli ospiti sono due innamorati sarà lei che li accompagnerà in una delle belle e accoglienti camere del relais, dove trascorreranno una notte indimenticabile. Per propiziarla farà trovare accanto al letto un vino da meditazione scelto dal Mago; è ancora un “Lacrima” nella versione “vino di visciole” che si ottiene facendo macerare ciliege selvatiche - visciole, in dialetto - nel vino durante la fermentazione. Si crea così un li-

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quore dal sapore antico, sensuale, penetrante, un vino d’amore per trascorrere una notte “ben bel po’’ straordinaria. A questo punto ritorno all’inizio di questo articolo e mi chiedo: è possibile che un locale come questo sia ignorato dalle guide? E non solo da una o due, ma da tutte, proprio tutte le più importanti che coprono l’intero territorio nazionale. È possibile che “Dal Mago” con la sua cucina, con il delizioso bed&breakfast a pochi passi dal borgo non si meriti, non dico stelle o soli, ma nemmeno una misera forchetta, un piccolo gamberetto, un cappello? Vado a vedere com’è la situazione a La Morra d’Alba, in provincia di Cuneo, paese che ricorda molto il quasi omonimo marchigiano (anche il prefisso è quasi uguale, 0173 per La Morra e 0731 per Morro d’Alba). Entrambi alti sulla collina e circondati da vigneti di vini favolosi. A La Morra sono segnalati 3 ristoranti: Belvedere, Bovio e Vineria del Barolo. A Morro niente.

Per i severi giudici delle guide italiane il ristorante “Dal Mago” semplicemente non esiste, e se esiste è paragonato a una banalissima Pensione Aurora e non è degno nemmeno di un piccolo cenno. Mi rifiuto di pensare che un critico gastronomico si sia recato dal “Mago”, abbia assaggiato i suoi salumi e i suoi formaggi scelti con attenzione maniacale, si sia fatto servire i “Ciavattoni al pepe”, il “Galletto in potacchio” o le “Mezzemaniche con salsiccia e fagioli” e non li abbia giudicati degni di una menzione; mi rifiuto di credere che dopo aver dormito (magari non da solo) in una delle deliziose stanze della “Shanti House” immerse nel silenzio assoluto, non l’abbia ritenuta degna di essere segnalata a turisti innamorati… Per fortuna ci siamo noi di “Gustare l’Italia” pronti a intervenire e a dare a Cesare quel che è di Cesare, a Raoul quel che è di Raoul: ecco dunque anche per lui, Lorena, Heidi e Loris la nostra luna, luminosa e scintillante come gli occhi degli innamorati...

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di Alessandro Milani

Qui mangiava Garibaldi Guida eno-gastro-bellica al Risorgimento È inutile stare tanto a girarci intorno: l’Unità d’Italia si è fatta a tavola. Mangiando e bevendo il conte Camillo Benso di Cavour strinse alleanze, intrecciò le sue trame, stipulò patti e accordi più o meno segreti. A tavola Garibaldi riceveva a Caprera gli ospiti italiani e stranieri che gli facevano visita per proporgli di organizzare rivoluzioni nei vari Mondi nei quali fu eroe. A tavola gli italiani hanno imparato a conoscersi, dopo che le battaglie e le diplomazie ebbero sancito l’unità territoriale del Paese. Già, perché gli italiani prima non si conosce-

Libri da mangiare

vano affatto tra loro, e gli scambi, anche quelli

Sono stati per primi i Mille di Garibaldi a capire che fuori dai confini lombardo-veneti e piemontesi esistevano piatti, vini e sapori del tutto inediti e straordinari, spesso inebrianti.

culinari tra le tradizioni delle diverse regioni,

Ecco dunque l’idea di “Qui mangiava Gari-

erano ridotti al minimo, e riguardavano solo al-

baldi”, una - come recita il sottotitolo - “guida

cuni ceti sociali.

eno-gastro-bellica al Risorgimento”. I personaggi dell’epopea risorgimentale, scelti per importanza e cercando di rappresentare quante più regioni italiane possibili, vengono visti attraverso il loro ruolo nell’opera di unificazione politica del Paese, ma anche alla luce di aneddoti legati al cibo, alle proprie preferenze e abitudini culinarie, spesso figlie dell’area geografica di provenienza. Si scopre così che Cavour fu, oltre che un’ottima forchetta, anche uno degli “inventori” del Barolo, oggi una delle DOCG italiane d’eccellenza mondiale, che Vittorio Emanuele aveva modi piuttosto rudi, anche a tavola, dove apprezzava i sapori rustici piemontesi, che Mazzini mangiava poco per poi ingozzarsi di dolci (dei quali inviava le ricette alla madre), che Garibaldi era astemio, che Ferdinando di Borbone conosceva quasi per nome tutti i propri sudditi napoletani, soprattutto i contadini, con i quali si fermava spesso ad assaggiare i “prodotti” del suo regno.

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Giuseppe Garibaldi, Vittorio Emanuele II e Camillo Benso Conte di Cavour In ogni capitolo, alla biografia del personaggio

queste specialità; locali storici perché magari

segue un itinerario risorgimentale nella città o

sono gli stessi che già esistevano al tempo dei

nella zona dove egli ha vissuto, per riscoprire le

fatti narrati, o perché meglio di altri hanno sapu-

tracce del Risorgimento presenti ancora oggi.

to e sanno interpretare i piatti della tradizione e

Fin qui la storia, a volte aneddotica e quasi romanzata, sorta subito dopo l’Unità per celebrarne gli eroi (o per raccontare a tinte più fo-

permettono, ogni giorno, che essa sia ancora viva e continui a celebrare l’Unità nazionale. A tavola. Dove altrimenti?

sche i nemici) e renderli più vicini al popolo. Oltre alla storia c’è però anche la cucina, che è più viva e presente che mai: da qui i prodotti e le ricette dei piatti che, regione dopo regione, vengono raccontati indugiando su quelli giunti fino a noi praticamente identici, o su quelli che

“Qui mangiava Garibaldi Guida eno-gastro-bellica al Risorgimento” A cura di: Paolo Paci Edizione: De Agostini Pagine: 284 - Prezzo: € 14,00

hanno a loro volta una storia degna degli eroi risorgimentali: dal pesto alla genovese al risotto alla milanese, dalle crescentine all’acquacotta, dagli spaghetti alla carbonara alla pasta con le sarde. Piatti e storie tutt’altro che banali. E infine - come poterne fare a meno? - in ogni capitolo le segnalazioni dei locali che ancora adesso permettono

di

assaporare

Il calendario dell’anno 1861

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della Redazione

Pane, dolci e biscotti - Leila Lindholm L’autrice è una cuoca di enorme successo e carisma. In questo libro, adatto sia al principiante, sia all’esperto, rivela più di 200 delle sue ricette preferite, dai biscotti, cupcakes, crumble e torte di compleanno ai panini dolci, dal tipico pane croccante della Svezia alle confetture da spalmarci sopra. Edizione: Il Castello - Pagine: 224 - Prezzo: € 22,00

Pane, pizza e torte - Leila Lindholm Della stessa autrice, questo utilissimo volume vi mostrerà come preparare in casa il pane, la pizza e la pasta fresca, dall’inizio alla fine, utilizzando il lievito naturale. Inoltre svela un sacco di suggerimenti per chi vuole scoprire e imparare trucchi preziosi, sia per cuochi esperti, sia per i principianti assoluti.

Libri da mangiare

Il volume raccoglie più di 150 ricette per ogni occasione, per quellele volte che vi sentite ispirati e per ogni giorno dell’anno. Edizione: Il Castello - Pagine: 224 - Prezzo: € 22,00

Cuochi della domenica - Viaggio verso casa tra ricette e colori Dal centro diurno per persone senza dimora “Binario 95” di Roma nasce questo ricettario che raccoglie venti proposte gastronomiche di facile preparazione e tre a contenuto speciale, tra le quali una donata dal famoso chef siciliano Filippo La Mantia. La gastronomia, in questo caso, è il pretesto per ricordare quanto sia importante il concetto di casa per una persona che vive per strada. L’idea di un libro di ricette, sperimentate all’interno di un centro di accoglienza, nasce dalla constatazione che una persona senza fissa dimora, oltre ai bisogni primari, necessita di specifici momenti per rimettersi in connessione con una vita “normale”, fatta di relazioni, gusto e sensibilità. Un momento a tavola è, per eccellenza, simbolo quotidiano della convivialità, della socializzazione e dell’unità familiare. La ricetta di una vita felice, che chiude il libro, strappa una riflessione necessaria sui diritti inalienabili che ogni uomo dovrebbe avere per natura, e che spesso non vengono riconosciuti. Cuochi della domenica può essere acquistato online sul sito www.ecedizioni.it. La casa editrice lancia, per questo prodotto, un nuovo modo di sostenere la cultura e il sociale: con “Offerta Libra” è il lettore a decidere il prezzo di vendita. E chi non sarà soddisfatto verrà rimborsato. Edizione: EC Edizioni - Pagine: 192 - Prezzo: € 9,90

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Ravanelli al burro per antipasto Insalata risorgimentale

Indice delle ricette di aprile

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Risotto rosa - Profiterol alle fragole

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Polpettine d’abbacchio di Sopravvissana, cicoria di campo di Sezze e marzolina del frusinate Gnocchi di semolino alla romana con ragout d’abbacchio di Sopravissana e chips di carciofi di Ladispoli

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Costelette d’abbacchio alla scottadito, intingolo di cacciatora e puntarelle alla romana

www.gustarelitalia.it Gustare l’Italia 98


L’Associazione Res Tipica è stata creata dall’ANCI nel 2003 per promuovere in Italia e nel mondo le identità territoriali e ad oggi riunisce 27 Associazioni di Identità, 1.842 Comuni, 4 Unioni di Comuni, 40 Province, 2 Regioni, 51 Comunità Montane, 8 Enti Parco, 8 Strade del Vino, 11 Camere di Commercio, per un totale di quasi 2000 Enti locali.

ASSOCIAZIONE ITALIANA PAESI DIPINTI

Il network, rivolto principalmente ai Comuni di piccole e medie dimensioni, intende preservare e favorire l’immenso patrimonio che incorpora i saperi delle comunità, le caratteristiche dell’ambiente e le produzioni tipiche, trasformando questo grande capitale culturale e sociale in qualità della vita e in occasioni di sviluppo sociale ed economico rispettoso dei valori e della cultura locale.

www.restipica.net


Tonno Colimena Unico, inimitabile, pugliese...

Siamo presenti ad AGRIFOOD VERONA (7 - 11 Aprile) Pad. C - Box 1c

Colimena s.r.l. - Z.I. - Avetrana (Ta) - Tel. 099 - 9707955 Filiale: Brugherio (Mb) - Via Manin, 49 - Tel. 039 - 878598 www.tonnocolimena.it - mar.srl@virgilio.it


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