Giornali di Guerra - N. 01

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Colleziona le fedeli riproduzioni dei giornali dell epoca

GIORNALI GUERRA di

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10 giugno 1940

L’ITALIA ENTRA

IN GUERRA

Il Popolo d’Italia 10 giugno 1940 - 11 giugno 1940

Il Nuovo Giornale

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11 giugno 1940

La Tribuna Illustrata 23 giugno 1940

Poster d’epoca “Vincere e Vinceremo”

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La notizia del giorno

Leggere la storia con i giornali dell’epoca

10 giugno 1940

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ettant’anni fa, nella tarda primavera del 1945, aveva termine la Seconda guerra mondiale. Un’Italia devastata dalle macerie guardava finalmente con speranza a un presente di pace tutto da ricostruire. Lo spaventoso conflitto, voluto dal regime fascista, aveva avuto inizio cinque anni prima, con l’annuncio di Mussolini dal balcone di Palazzo Venezia: l’Italia scendeva in guerra al fianco della Germania. Oggi possiamo rileggere le parole pronunciate da Mussolini in quel pomeriggio del 10 giugno 1940 come l’inizio della fine ma allora, a parte pochi oppositori, la fiducia nel regime era ancora alta e le grida di giubilo, più o meno spontanee, accompagnarono il discorso del Duce trasmesso dalle radio nelle piazze delle maggiori città italiane. Quelle parole furono puntualmente riprese dalla stampa nazionale: titoli roboanti, edizioni straordinarie, pagine e pagine di cronache e commenti furono dedicati a quella tappa cruciale nella storia d’Italia. Il fascismo aveva irreggimentato la stampa, soggetta all’occhiuto controllo del MinCulPop, il Ministero della Cultura Popolare istituito nel 1937. Dal Ministero le "veline" raggiungevano gli organi di stampa, specificando quali notizie dovessero essere pubblicate, in che ordine di importanza, con che risalto. Quella del MinCulPop era dunque una capillare opera di propaganda e controllo dei mezzi di informazione. La stampa libera, come la intendiamo oggi, non esisteva nell’Italia del 1940 né vi era una presenza significativa di stampa clandestina: quest’ultima avrebbe conosciuto un crescente sviluppo negli anni successivi. Eppure, a scorrere le pagine dei quotidiani italiani di quel periodo si scorge anche la vita vera: le notizie di costume, gli annunci pubblicitari, i servizi sugli eventi locali. Cronache sportive, recensioni di spettacoli, romanzi a puntate, giochi... Sotto la cappa imposta dal regime scorreva un fiume impetuoso fatto di quotidianità, piccole notizie che gli italiani leggevano ai tavoli del caffè o nel salotto di casa. Rileggere oggi quelle notizie è come ritrovarsi dentro una capsula del tempo, dove tra i grandi fatti della storia, deformati in modo a volte grottesco dalla propaganda, ci si trova immersi nella vita di tutti giorni: una vita che, progressivamente, si fa sempre più dura, cupa. E a mano a mano che la situazione precipitava, la propaganda diveniva sempre più distante dalla realtà, sempre più ideologica. Ma la forza della verità irrompeva sulla carta a dispetto di tutto: le continue sconfitte, la fine dell’Impero, la perdita dell’Africa settentrionale, lo sbarco degli Alleati in Sicilia... e poi la caduta del Fascismo, l’arresto di Mussolini, la tragedia dell’8 settembre, l’occupazione tedesca, l’Italia cobelligerante, la Repubblica sociale e la Resistenza. Tutto fu registrato dalla carta stampata dell’epoca che – al di là della censura – seppe comunque restituire lo spirito del tempo. Leggere oggi uno dei quei giornali significa davvero tenere in mano la storia, stringerla in modo fisico, annullando le distanze del tempo e delle generazioni. Per questo nasce la nostra collana "Giornali di guerra 19401945": con la sua collezione di quotidiani, riviste e manifesti dell’epoca – ristampati integralmente e con la massima fedeltà – rappresenta una straordinaria opportunità per recuperare la memoria di un Paese, il nostro, rivivendo gli avvenimenti con gli stessi occhi degli italiani di settant’anni fa. 28/

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L’entrata in guerra dell’Italia Nove mesi dopo l’invasione tedesca della Polonia, Mussolini dichiarò guerra alla Francia e alla Gran Bretagna con un discorso trasmesso in tutta Italia. I giornali del tempo diedero enorme risalto all’evento. "Il Popolo d’Italia", organo del Partito fascista, uscì in edizione straordinaria. le sanzioni imposte nel 1935 dalla Società delle naVincere! zioni ("l’ignobile assedio societario di cinquantadue stati") a seguito dell’aggressione italiana all’Etiopia. E vinceremo! Ma, soprattutto, rievocò i tentativi di accomodamen-

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uello che sarebbe passato alla storia come uno dei più noti discorsi di Mussolini fu pronunciato dal balcone di Palazzo Venezia, a Roma, alle ore 18 del 10 giugno 1940. Fu relativamente breve – meno di seicento parole – e durò poco più di sette minuti, comprese le numerose pause causate dalle interruzioni della folla. L’evento fu accuratamente preparato: le parole del Duce vennero diffuse con altoparlanti nelle piazze delle principali città italiane e trasmesse in diretta radiofonica dall’EIAR. Il testo fu riportato dai più importanti quotidiani: i nostri lettori lo possono trovare in prima pagina nell’edizione dell’11 giugno 1940 de "Il Popolo d’Italia". Qui ne commentiamo i passi principali. Innanzitutto è interessante notare come, a sottolineare il carattere fascista della guerra – che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto rappresentare il coronamento della politica di potenza del regime – in quell’occasione Mussolini non indossasse la consueta divisa grigioverde ma vestisse l’uniforme nera da Duce del Partito nazionale fascista. Il carattere del discorso fu evidente sin dalle primissime battute, nelle quali Mussolini si rivolgeva dapprima ai combattenti delle tre forze armate e della Milizia e solo in seconda battuta agli "uomini e donne d’Italia, dell’Impero e del Regno di Albania" (il 16 aprile 1939, a seguito dell’occupazione militare italiana del piccolo Paese balcanico, il re d’Italia Vittorio Emanuele III aveva assunto la corona albanese). Come suo costume, Mussolini saltò ogni preambolo e andò dritto al punto: la dichiarazione di guerra era stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e Francia, secondo quella che venne definita una "decisione irrevocabile". La portata della scelta non venne in alcun modo sminuita ( fu definita "un’ora segnata dal destino") e chi fosse il nemico venne chiaramente esplicitato: erano le ricche democrazie occidentali che tarpavano le aspirazioni del popolo italiano. Significativa la mancata citazione del nemico per eccellenza dell’ideologia fascista, ossia il comunismo e il suo massimo campione, l’Unione Sovietica. Il perché era evidente: il patto Molotov-Ribbentrop tra URSS e Germania nazista obbligava Mussolini al silenzio sull’argomento. A proposito del rapporto con la Germania, interi passi del discorso erano dedicati all’alleanza con il Terzo Reich e – significativamente – alla fedeltà agli impegni presi: "Quando si ha un amico si marcia con lui fino in fondo". Davvero sorprendente come queste parole suonino profetiche, alla luce di quanto sarebbe accaduto con l’armistizio dell’8 settembre 1943 e della vicenda della RSI. Ma torniamo al discorso. Dopo avere identificato il nemico, Mussolini dava conto delle ragioni italiane della discesa in guerra. Ricordò i ricatti subiti, come

ti pacifici per i quali egli stesso si era speso in prima persona (il riferimento era soprattutto alla conferenza di Monaco del 1938) e che erano falliti, a suo dire, per il rifiuto delle democrazie occidentali di accettare un diverso status quo. A questo punto il passaggio è obbligato: se un popolo vuole essere davvero grande – argomentava Mussolini – allora si devono accettare i rischi e i sacrifici della "prova suprema". Ma a quale prezzo e, soprattutto, per quali vantaggi? Quali erano gli obiettivi italiani, quale la posta in gioco? In due successivi passaggi del discorso Mussolini chiariva questo punto fondamentale, mescolando – non senza una certa efficacia retorica – due piani: quello degli interessi nazionali e quello ideologico. Il primo era quello relativo alle frontiere marittime: dopo i nuovi confini ottenuti a seguito della vittoria nella Grande Guerra, l’Italia doveva ora garantirsi il libero accesso al Mediterraneo e all’Oceano Indiano (su cui si affacciavano le terre dell’Impero in Africa Orientale), impedito dalle antiche potenze coloniali (Gran Bretagna in primis). È contro di esse che Mussolini si scagliò nei passaggi più ideologici, bollandole come sterili e "volgenti al tramonto" e definendo la lotta che si profilava come quella tra "due secoli e due idee". Seguivano riferimenti classici (i dadi tratti da Cesare al Rubicone, le navi degli Achei bruciate sulle spiagge di Troia), che rimarcavano come oramai non si potesse più tornare indietro, e l’assicurazione delle intenzioni italiane (di lì a poco sbugiardate dai fatti ) di non volere coinvolgere altri Paesi nel conflitto. Verso la fine del discorso, l’immancabile e formale omaggio alla monarchia sabauda e – ben più significativo – quello a Hitler, capo della "grande" Germania alleata. Infine, suscitando le acclamazioni della folla, Mussolini scandì la celebre parola d’ordine ("Vincere!") a cui fece seguire – quasi ci fosse stato bisogno di una tranquillizzante conferma – un altrettanto celebre "E vinceremo!". Si chiudeva così, dopo una rituale esortazione al popolo di correre alle armi con tenacia, coraggio e valore, il discorso che segnò per l’Italia cinque anni di lutti e sofferenze e, per il regime stesso e il suo capo, una tragica fine.

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La notizia del giorno Wikimedia Commons

3 Roma, 10 giugno 1940. Benito Mussolini annuncia dal balcone di Palazzo Venezia a Roma l’entrata in guerra dell’Italia. Per l’occasione indossa l’uniforme nera da Duce del Partito nazionale fascista.

Le reazioni della stampa internazionale

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a notizia della dichiarazione di guerra dell’Italia a Gran Bretagna e Francia fece il giro del mondo in tempo perché i principali quotidiani internazionali la riportassero in prima pagina già l’indomani, l’11 giugno 1940. Tra le reazioni più interessanti da registrare ci furono quelle della stampa transalpina: la Francia, infatti, già sul punto di crollare di fronte all’offensiva nazista, sarebbe stata il primo bersaglio delle operazioni militari italiane che, come noto a tutti, si rivolgevano contro un avversario già al tappeto. Su "Le Figaro" dell’11 giugno, il titolo di apertura a tutta pagina era proprio dedicato alla dichiarazione di guerra italiana. Il resto del giornale riportava le notizie drammatiche provenienti dal fronte ma, subito sotto il titolo, veniva pubblicato con ampio risalto il commento del primo ministro Paul Reynaud alla mossa di Mussolini: "Nulla potrà diminuire la nostra volontà di lottare per la nostra terra e le nostre libertà. È questo il momento preciso, quando la Francia ferita ma valorosa si erge in piedi nella lotta contro l’egemonia della Germania, quando combatte per l’indipendenza di tutti gli altri popoli come per la propria, è questa l’ora che il signor Mussolini ha scelto per dichiararci guerra. Come giudicare questo atto? La Francia, lei, non ha niente da dire. Il mondo, che ci guarda, giudicherà." Si trattava quindi di una lettura estremamente asciutta che, pur senza mancare di infondere fiducia nella resistenza francese, nondimeno non sottaceva quanto la mossa italiana contribuisse ad aggravare le difficoltà della lotta. Nella sua conclusio-

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ne, Reynaud faceva un esplicito riferimento al "giudizio del mondo". Un giudizio che nel giro di poche ore sarebbe stato espresso in modo inequivocabile sugli organi di stampa non solo di Paesi già in guerra ma anche di nazioni (ancora) neutrali. Fu il caso, ad esempio, di un durissimo editoriale dell’americano "Washington Post", intitolato "Mussolini’s war. The tragedy of a Nation". Nell’articolo, firmato dal prestigioso commentatore Barnet Nover, l’entrata in guerra dell’Italia veniva definita uno "spettacolo nauseante", un colpo a sangue freddo inferto ad avversari già ridotti a mal partito. Il tutto, secondo Nover, reso ancora più grave dal fatto che questa mossa dimostrava ormai che gli italiani erano stati ridotti ad agire come un popolo di automi leccapiedi: era questo il senso della "tragedia italiana". Riga dopo riga, i toni si facevano ancora più accesi. Il discorso di Mussolini del 10 giugno venne definito vuoto e retorico, il discorso di un "leader in bancarotta di una nazione in bancarotta": se gli Alleati avessero vinto, infatti, il regime fascista sarebbe certamente crollato; mentre, se avesse vinto Hitler, come avrebbe potuto l’Italia trarne un qualche vantaggio reale? Tutt’al più, sosteneva il "Washington Post", l’Italia sarebbe stata ridotta al rango di gauleiter (governatore) del Mediterraneo per conto di Hitler. Certamente Mussolini e il regime ne avrebbero tratto quantomeno il vantaggio delle apparenze, potendo farsi vanto della vittoria. La guerra, quindi, era stata dichiarata a esclusivo vantaggio del Duce e dell’apparato fascista, non certo dell’Italia come nazione che, anzi, si

era macchiata di "un atto di codardia come difficilmente se ne trovano nei più sordidi annali del genere umano". Nei paragrafi finali, Nover concedeva che Mussolini aveva scelto la tempistica giusta per sferrare la sua pugnalata alla schiena e – con perfida ironia – paragonava quel gesto con la frase pronunciata due giorni prima dal balcone di Palazzo Venezia in cui si ricordava che "un grande popolo è veramente tale se considera sacri i suoi impegni". Infine, la profetica con- clusione: "La fossa che Mussolini ha scavato con tale cinica spudoratezza per la Francia e la Gran Bretagna potrebbe divenire la sua tomba".

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Il quadro storico

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L£Italia alla vigilia della guerra

Albania

L’impero coloniale italiano nel giugno 1940

Il Regno d’Albania era stato invaso dalle truppe italiane il 7 aprile 1939 e rapidamente occupato. Il 12 aprile, dopo la fuga del re Zog I, fu trasformato in Protettorato Italiano del Regno d’Albania e retto da un Luogotenente Generale. Vittorio Emanuele III assunse il titolo di Re d’Albania.

Siglato il Patto d’Acciaio con Hitler, Mussolini si preparava ad affrontare i rischi della guerra con l’ambizioso obiettivo di estendere l’impero italiano nel Mediterraneo e in Africa.

UNGHERIA ROMANIA

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REGIA MARINA 6 corazzate 19 incrociatori 59 cacciatorpediniere 116 sommergibili

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FORZE ITALIANE E A D R AL 10 GIUGNO 1940 IA TI 53 divisioni CO Roma 990 aerei da caccia 1140 bombardieriNapoli

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FORZE ITALIANE AL 10 GIUGNO 1940 (Albania ed Egeo): 6 divisioni 55 aerei da caccia 90 bombardieri

Ankara

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Africa Orientale Italiana

Libia

Il 9 maggio 1936, due giorni dopo l’annessione dell’Etiopia, Mussolini annunciò la "rinascita dell’impero": l’unione della nuova conquista territoriale alle storiche colonie dell’Eritrea e della Somalia italiana costituì infatti l’impero coloniale italiano dell’Africa Orientale. Vittorio Emanuele III assunse il titolo di Imperatore d’Etiopia.

Nel 1934, con il Regio Decreto del 3 dicembre, le colonie nordafricane della Tripolitania e della Cirenaica, annesse al Regno d’Italia con il Trattato di Losanna del 1923, vennero riunite nel Governatorato Generale della Libia.

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FORZE ITALIANE AL 10 GIUGNO 1940 2 divisioni brigate coloniali 70 aerei da caccia 240 bombardieri

FORZE ITALIANE AL 10 GIUGNO 1940 14 divisioni 2 divisioni libiche 210 aerei da caccia 210 bombardieri

Baghda

Haifa

Tobruk

TRIPOLITANIA

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SIRIA

CRETA E D I T E R R A N E O

GI TRA OR N DA S NI A

FRANCIA

O C E A N O AT L A N T I C O

Dodecaneso Durante la visita in Libia del marzo 1937, Mussolini si proclamò "protettore dell’Islam". Nella foto, scattata in quei giorni nei pressi di Tripoli, Mussolini alza al cielo la spada dell’Islam.

Con il Trattato di Losanna del 1923, Rodi e le altre isole dell’arcipelago del Dodecaneso, occupate nel 1912, furono assegnate al Regno d’Italia. Dal 1930 assunsero la denominazione di "Colonia delle Isole Italiane dell’Egeo".

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Le sfide dell£Italia nel conflitto A sinistra, l’arrivo a Tirana, in Albania, delle truppe italiane aerotrasportate dal campo di Grottaglie (Taranto) in una illustrazione dell’aprile 1939.

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on l’annuncio della dichiarazione di guerra del 10 giugno 1940, Mussolini pose fine a un periodo di incertezza che si era protratto, con fasi alterne, dallo scoppio del conflitto in Europa nel settembre 1939. La dichiarazione italiana di non belligeranza, seguita all’invasione tedesca della Polonia, unita alla rapida vittoria nazista e alla mancanza di combattimenti sul fronte occidentale aveva indotto per mesi a ipotizzare che tutto si sarebbe alla fine risolto pacificamente e che l’Italia non sarebbe stata costretta a entrare in guerra. Nella primavera del 1940 la situazione incominciò

Il Patto d£Acciaio La prima proposta per un’alleanza politica e militare tra il Regno d’Italia e il Terzo Reich venne fatta da Hitler durante la sua visita ufficiale in Italia nel maggio del 1938. L’impressione suscitata dall’annessione dell’Austria nel marzo precedente suggerì tuttavia al governo italiano di rinviare la stipula dell’accordo. I colloqui dei vertici militari ripresero in dicembre e il 6-7 maggio 1939, dopo l’annessione tedesca della Cecoslovacchia e l’occupazione italiana dell’Albania, i ministri degli esteri Galeazzo Ciano e Joachim von Ribbentrop si incontrarono a Milano per concordare i termini di un trattato da sancire in tempi brevi. L’accordo – definito da Mussolini "Patto d’Acciaio" per sottolinearne la solidità – venne firmato il 22 maggio 1939 a Berlino da Ciano e von Ribbentrop alla presenza di Hitler e dello Stato Maggiore tedesco; il patto sanciva l’alleanza politica e militare sia difensiva che offensiva tra i due Paesi e prevedeva la consultazione in caso di avvenimenti internazionali che toccassero i rispettivi interessi.

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Baghdad

5 invece a precipitare con una rapida successione di eventi. Il 9 aprile, dopo la conclusione del conflitto russo-finlandese, i tedeschi invasero la Danimarca e la Norvegia e il mese successivo diedero inizio all’offensiva sul fronte occidentale. Il 10 maggio prese il via l’occupazione dell’Olanda e del Belgio, che in breve portò alla disfatta degli Alleati: il 15 maggio l’Olanda si arrese; cinque giorni dopo, l’arrivo delle truppe tedesche sulla costa del canale della Manica permise di accerchiare gran parte delle armate franco-britanniche; il 28 maggio, dopo l’inizio dell’evacuazione dal porto di Dunkerque, capitolò anche il Belgio. Il 29 maggio, nel corso di una riunione con i vertici militari, Mussolini dichiarò la sua volontà di entrare in guerra a fianco della Germania e indicò quale data ideale il 5 giugno, giorno in cui avrebbe preso il via l’offensiva finale tedesca contro la Francia. La data fu poi posticipata, su richiesta di Hitler, al 10 giugno.

Una complessa situazione strategica

A destra, il 22 maggio 1939 Galeazzo Ciano e Joachim von Ribbentrop, alla presenza di Adolf Hitler, firmano a Berlino, nella Cancelleria del Reich, il Patto d’Acciaio.

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Ancora prima dello scoppio del conflitto in Europa, l’Italia aveva valutato le possibili conseguenze strategiche della sua azione politica e militare in rapporto sia ai potenziali nemici sia alle proprie aspirazioni. Una qualunque mossa al fianco della Germania avrebbe infatti comportato una guerra con la Francia e la Gran Bretagna, esponendo così il Paese alle azioni nemiche. Gran parte delle colonie italiane viveva una condizione di sostanziale isolamento: l’estrema difficoltà di contatti con l’Africa Orientale ne rendeva di fatto impossibili i rifornimenti, mentre la Libia poteva essere rifornita solamente grazie all’impiego della marina da guerra che, per contrastare le forze navali avversarie, avrebbe dovuto schierare le proprie unità nel canale di Sicilia. Problematica era anche la situazione del territorio nazionale. Da parte dello Stato Maggiore si considerava infatti possibile un’offensiva francese attraverso le Alpi in direzione del Po, mentre al contrario era considerata pressoché irrealizzabile un’avanzata italiana in direzione del Rodano. A complicare la situazione strategica vi erano poi gli interessi italiani rivolti a Jugoslavia e Grecia, nei cui confronti erano stati predisposti piani d’invasione. La storica vicinanza politica dei due Paesi alla Francia e alla Gran Bretagna poneva di fatto l’Italia tra due fronti. Non a caso, il Paese si sarebbe ritrovato a fronteggiare la sua guerra più rilevante proprio in quest’area, con conseguenze disastrose.

L£inadeguatezza della contraerea italiana Vi era poi un altro grave problema che, nonostante i molti timori, era stato affrontato solamente in maniera marginale: la difesa del suolo nazionale dagli attacchi aerei nemici. Nel giugno del 1940 la contraerea italiana era quasi del tutto inesistente, essendo basata in gran parte su cannoni di vecchio tipo che non disponevano di sistemi di tiro e di controllo moderni come quelli in dotazione alla Germania, a cui si indirizzarono numerose e insistenti richieste di fornitura. Affidata a personale della Milizia, la contraerea era così carente da non permettere una vera e propria difesa delle città e degli impianti industriali; allo stesso modo, la difesa costiera non consentiva di affrontare adeguatamente i possibili attacchi portati dalle navi nemiche.

I vantaggi non sfruttati Al momento dell’entrata in guerra, però, l’Italia si trovò ad affrontare una situazione strategicamente favorevole grazie soprattutto al rapido crollo della Francia. La sua scomparsa dalla scena politico-militare eliminava infatti molti dei potenziali pericoli che gravavano sul territorio italiano e sulle sue colonie e risolveva un buon numero dei problemi strategici che ci si trovava a fronteggiare. In particolare, la sconfitta francese consentiva di riposizionare le forze disponibili sia contro la Gran Bretagna, che sarebbe stata combattuta in Africa e nelle acque del Mediterraneo, sia in direzione dei Paesi balcanici. L’Italia non seppe però approfittare del vantaggio strategico di cui godette nei primi mesi di guerra. Come vedremo, la mancata occupazione di Malta lasciò gli inglesi in possesso di una base fondamentale per il controllo dei traffici con l’Africa settentrionale. In Libia, le male equipaggiate forze italiane passarono all’offensiva solo nel settembre del 1940, avanzando per un breve tratto in territorio egiziano, per poi subire il violento contrattacco britannico. Disastrosa si rivelò anche la campagna di Grecia, decisa da Mussolini nell’autunno del 1940. Nel seguito dell’opera ripercorreremo insieme questi avvenimenti, attraverso il resoconto che ne fecero i giornali dell’epoca. Uomini e mezzi di un reparto di bersaglieri motociclisti schierati in vista di un’ispezione. Al momento dell’entrata in guerra, il Regio Esercito soffriva di gravi

deficienze, soprattutto di armamenti e materiali adeguati. In particolare, la motorizzazione era del tutto insufficiente, così come la disponibilità di carri armati moderni.

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Costume e società

L£entusiasmante vittoria di un giovane piemontese

Il primo Giro di Fausto Coppi

È sulle strade del Giro d’Italia del 1940 che nasce la leggenda di Coppi, forse il più grande campione che si sia visto correre in sella a una bicicletta.

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82 Formigine

Stadio Marzari

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170 Maranello

Stadio Marzari

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682 Pavullo nel Frignano

781 Monfestino 781 Monfestino

850 Lama Mocogno

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1221 Barigazzo

781 Pievepelago

Abetone so 1388 P.

948 Piansinatico

30 40 0 0 0 0 0 0 0 0 32 36 42.5 52.5 62 65 74.5 82.5 94.5 108 118.5

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Abetone so 1388 P.

948 Piansinatico

668 Pontepetri 821 Passo d’Oppio 623 S. Marcello Pistoiese 454 La Lima

60 Pistoia 104 Capo di Strada

761 Bivio s. per Prunetta 761 Bivio s. per Prunetta

668 Pontepetri 821 Passo d’Oppio 623 S. Marcello Pistoiese 454 La Lima

57 Poggio a Caiano

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45 36 Brozzi

0 10 20 Km. Progressivi

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60 Pistoia 104 Capo di Strada

57 Poggio a Caiano

Ponte alle Mosse

0 10 20 Km. Progressivi

Ponte alle Mosse

Bartali e Coppi insieme nella tappa di montagna che affronta le cime delle Dolomiti; sul traguardo di giornata a transitare per primo sarà il toscano.

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A destra, l’altimetria dell’11a tappa, la FirenzeModena, che Coppi vinse per distacco, conquistando anche la testa della classifica generale.

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uando gli italiani entrano in guerra, si è appena conclusa una delle manifestazioni più seguite dai tanti sportivi della penisola. Il 9 giugno del 1940, con arrivo all’Arena di Milano, si è svolta la 20ª e ultima tappa del Giro d’Italia. La corsa si era aperta il 17 maggio con una tappa di 180 chilometri: partenza dalla stessa Milano e arrivo a Torino. Alla vigilia del Giro la stampa sportiva aveva preannunciato che la sfida sarebbe stata tra il toscanaccio Gino Bartali e l’elegante piemontese Giovanni Valetti; un facile pronostico, visto che i due si erano equamente spartiti il bottino delle ultime quattro corse rosa: Bartali aveva trionfato nella classifica generale delle edizioni 1936 e 1937, Valetti in quella degli anni 1938 e 1939. Le cose non andarono così. A sorpresa, infatti, fu l’alessandrino Fausto Coppi, giovane gregario proprio di Bartali, ad aggiudicarsi il 28° Giro d’Italia. Nell’inverno del 1940, per volontà del direttore sportivo Eberardo Pavesi, che lo aveva notato ottimo terzo al Giro del Piemonte dell’anno prima, era stato ingaggiato dalla Legnano per un compenso mensile di 700 lire. Per i due campioni favoriti le cose si erano messe male già a partire dal-

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La curiosa foto a lato, scattata durante il Giro del 1940 e colorata a mano, ritrae il capitano della Legnano Bartali e il giovane Coppi, già con la maglia rosa, che legge La Gazzetta dello Sport.

la seconda tappa, Torino-Genova: Valetti entra in crisi mentre Bartali non è certo assistito dalla fortuna, nella discesa del Passo della Scoffera un cane gli attraversa improvvisamente la strada facendolo cascare a terra. Sul traguardo il corridore toscano giunge con più di 5’ di ritardo, Valetti con quasi 9’; Coppi, invece, è arrivato secondo, preceduto solo da Pierino Favalli. Bartali, addirittura, finisce all’ospedale per l’incrinatura del femore: gli prescrivono venti giorni di riposo assoluto, ma carattere e tempra sono tali che, dopo una notte, esce e risale in bicicletta. Tuttavia, il piazzamento dei due ormai ex favoriti nei giorni seguenti peggiora ulteriormente: alla partenza della 5ª tappa Bartali ha accumulato un quarto d’ora di ritardo, Valetti mezz’ora. Adesso i ruoli si sono invertiti: il giovane piemontese è divenuto l’uomo su cui il direttore sportivo Pavesi punta per la vittoria finale mentre Bartali sarà un gregario di lusso. Il 29 maggio è la volta dell’11ª tappa, la Firenze-Modena, 184 km di lunghezza con ben quattro cime da scalare: Prunetta (761 m), Monte Oppio (821 m), Abetone (1388 m) e infine Barigazzo (1221 m). A 8 chilometri dalla vetta dell’Abetone Coppi stacca il gruppetto dei migliori e va in caccia del toscano Cecchi, in fuga sulle strade di casa; Coppi recupera, scollina con appena 10 secondi di distacco, lo raggiunge poco dopo in discesa e lo salta. A quel punto, distante 100 km dal traguardo, si rende protagonista di una fantastica fuga in solitaria di tre ore; sul traguardo di Modena non solo infligge 3’ e 45’’ ai diretti inseguitori ma conquista anche la maglia rosa, sul cui petto – in ossequio al regime – campeggiava uno scudetto con al centro il fascio littorio. Coppi non cederà più quella maglia; a Milano trionfa in classifica con 2’40’’ su Enrico Mollo e 11’45’’ su Giordano Cottur. Bartali è solo 9° ma si può consolare con la conquista del Gran Premio della Montagna e di due vittorie di tappa. Coppi, con i suoi vent’anni, entrava nella storia del ciclismo come il più giovane vincitore della corsa rosa.

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Costume e società

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A lato, lo scrittore e giornalista Augusto De Angelis in una foto del 1939 con in braccio la nipotina. Qui sotto, a destra, la copertina di un giallo di De Angelis e, a sinistra, la prima uscita della collana "I Libri Gialli" Mondadori.

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l nuovo clima bellico in cui è piombata l’Italia emerge anche da "La Tribuna illustrata" numero 26 del 23 giugno 1940; ne sono prova le tavole di soggetto marziale, opera del celebre disegnatore Vittorio Pisani, e anche la presentazione fotografica a piena pagina dell’Alto Comando Italiano. Tuttavia, i lettori potevano trovare nelle altre pagine del settimanale illustrato del quotidiano "La Tribuna" molte occasioni per evadere piacevolmente, perlo-

meno con il pensiero, da uno scenario di guerra ancora non drammatico ma che di sicuro suscitava diffuse preoccupazioni. Il settimanale presentava infatti articoli di carattere storico e geografico, approfondimenti sulla cronaca nera americana, novelle, curiosità, giochi a premi, vignette umoristiche e suggerimenti pubblicitari. La pagina 2 del settimanale era occupata quasi per intero dalla 17ª puntata de L’impronta del gatto, romanzo poliziesco di Augusto De Angelis. Il genere giallo, che già aveva conosciuto un notevole successo in Paesi quali la Gran Bretagna, la vicina Francia o i lontani Stati Uniti negli anni Venti, era giunto con un po’ di ritardo anche in Italia, ripagato anche qui da una grande e immediata fortuna. Nel 1929 la Mondadori lanciava sul mercato italiano una serie di libri polizieschi denominata "I Libri Gialli". I primi quattro titoli erano di grande effetto: La strana morte del signor Benson di S. S. Van Dine, L’uomo dai due corpi di Edgard Wallace, Il club dei suicidi di Robert Louis Stevenson, Il mistero delle due cugine di Anna Katharine Green. La collana, voluta dal condirettore generale della casa editrice Luigi Rusca, appena quattro anni dopo, nel 1933, aveva già superato

Wikimedia Commons

Le inchieste del commissario De Vincenzi

la sensazionale soglia di un milione e mezzo di copie vendute. Il genere poliziesco non suscita l’entusiasmo dello stato fascista. In una nazione dove i treni devono arrivare in orario e dove la concordia sociale deve regnare tra tutte le classi, la rappresentazione per diletto di delitti poteva infatti suonare disdicevole se non addirittura disfattista. Il MinCulPop (il Ministero della Cultura Popolare creato nel 1937 con la finalità di organizzare la propaganda e controllare e reprimere le pubblicazioni potenzialmente eversive) si premura quindi di disciplinare il giallo con precise indicazioni: i crimini devono verificarsi solo in ambienti esotici e viziosi, cosmopoliti o bohémien; i colpevoli devono essere stranieri o depravati; il lieto fine, col ristabilimento dell’ordine sul disordine, è d’obbligo.

Lo scrittore e giornalista De Angelis, che è il principale rappresentante del giallo all’italiana dell’epoca, si attiene ai "suggerimenti" del MinCulPop; tuttavia, nel rispettarli, lascia trasparire la sua posizione di distanza dal fascismo: il commissario Carlo De Vincenzi della Squadra Mobile di Milano, protagonista delle indagini di De Angelis, è tollerante, malinconico e antieroico. Alla caduta del Duce, nel luglio del 1943, De Angelis sarà per un paio di mesi redattore capo de "La Gazzetta del Popolo" di Torino. Dopo l’8 settembre, il neocostituito Stato fascista nel nord Italia lo fa arrestare e lo tiene recluso nel carcere di Como per alcuni mesi. Uscito di prigione, muore a cinquantasei anni, nel luglio del 1944, per le percosse subite in un’aggressione fascista.

Grandi acciaierie per vincere la guerra Come chiarito dalla Grande Guerra, ferro e acciaio erano fondamentali per affrontare una sfida bellica.

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ella seconda pagina dell’edizione straordinaria del "Popolo d’Italia", uscita il 10 giugno del 1940, campeggia una réclame che si adegua al clima bellico dei tempi e che per le sue dimensioni colossali non può certo sfuggire all’occhio del lettore. La severa e massiccia silhouette di un soldato, con elmo in testa e baionetta innestata sulla canna

A fianco, un manifesto dell’Ilva del periodo autarchico con in primo piano una spettacolare colata di metallo fuso. Sopra, a destra, veduta dello stabilimento Ilva di Vado Ligure, una delle tante unità produttive del grande gruppo siderurgico italiano.

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del fucile, si staglia sullo scenario di un grandioso impianto industriale. A innalzare lo statuario milite è un massiccio basamento nerastro, in ghisa si potrebbe supporre, su cui si legge in caratteri cubitali la scritta ILVA. L’imponenza della pubblicità è adeguata alle dimensioni dell’azienda Ilva, che all’entrata in guerra rappresenta il più rilevante gruppo siderurgico presente sul suolo italiano. Le origini dell’Ilva (antico nome dell’isola d’Elba) risalgono al 1° febbraio del 1905, quando un gruppo di industriali e finanzieri genovesi danno vita alla società con l’obiettivo di realizzare un grande impianto a ciclo integrale nella zona di Bagnoli per potenziare l’offerta di acciaio, sfruttando le agevolazioni previste dalla legge dello Stato per il risorgimento economico di Napoli approvata solo un anno prima. E lo stabilimento Ilva di Bagnoli, che si estende su una superficie di 120 ettari, viene effettivamente costruito dopo cinque anni di lavori. Lo scoppio della Grande Guerra, grazie alle commesse statali che stimolano la produzione di ghisa e acciaio, si rivela un ottimo affare per l’intero settore siderurgico, compresa l’Ilva (divenuta Ilva-Alti Forni e Acciaierie d’Italia nel 1917), che conosce un forte processo d’espansione; le unità produttive del gruppo sono ora: Piombino, Bagnoli, Bolzaneto, Torre Annunziata, San Giovanni Valdarno, Savona, Sestri Ponente, Pra, Portoferraio. La fine della domanda pubblica a guerra conclusa provoca una prima battuta d’a rresto: fortemente

esposta dal punto di vista finanziario, la società viene rilevata dalla Banca Commerciale Italiana, in qualità di maggiore creditore. Una nuova battuta d’a rresto del settore, dovuta agli effetti della grande crisi del 1929, porta l’Ilva Alti Forni e Acciaierie sotto il controllo dello Stato. Nel 1934, infatti, l’Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI) assume il controllo non solo dell’Ilva ma anche di Terni Società per l’Industria e l’Elettricità, Stabilimenti di Dalmine e Società Italiana Acciaierie Cornigliano (che comprende l’Ansaldo). Come già aveva chiarito la Prima guerra mondiale, l’a mpia disponibilità di acciaio e di altri metalli era prerequisito fondamentale per il buon esito di un’impresa bellica e l’Italia da questo punto di vista non brillava. Il 23 marzo del 1936, in un discorso all’A ssemblea Nazionale delle Corporazioni a commento delle sanzioni imposte al Paese per l’invasione dell’Abissinia, così aveva parlato il Duce: "Abbiamo ferro sufficiente per il nostro fabbisogno di pace e di guerra. La vecchia Elba sembra inesauribile; il bacino di Cogne è valutato a molte decine di milioni di tonnellate di un minerale che, dopo quello svedese, è il più puro d’Europa […]. Aggiungendo alle miniere di ferro le piriti, da questo lato possiamo stare tranquilli". Ma allora si trattava di battere l’Etiopia e fare fronte autarchicamente alle sanzioni; nel corso del secondo conflitto mondiale quella ottimistica valutazione si sarebbe rivelata non più valida.

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Gli allegati all£opera

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Giornali di Guerra Regime, censura e propaganda 1 9 4 0 -1 9 4 5

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li anni del regime fascista e della Seconda guerra mondiale conobbero una notevole vitalità degli organi di stampa, nonostante la censura imposta in modo sistematico a partire dal 31 dicembre 1925, quando fu promulgata la legge sulla stampa che consentiva la pubblicazione di giornali solo se questi avevano un responsabile autorizzato dal prefetto. Non mancarono tentativi di mantenere delle voci libere, come il

quotidiano clandestino "Non Mollare" pubblicato nello stesso 1925, ma ben presto soppresso. Nel potenziare l’ufficio stampa dell’esecutivo assegnandogli compiti di controllo e propaganda, IL POPOLO D’ITALIA. Fondato a Milano da Mussolini nel novembre 1914, fu il principale quotidiano della stampa fascista, raggiungendo una tiratura di 434.000 copie nel 1938. Chiuse i battenti nel 1943.

Udine Gorizia Como

Aosta

Milano Torino

Bergamo Brescia

Alessandria

Parma

Ferrara

Cuneo La Spezia

Forlì

SAN MARINO

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Ancona

Livorno

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Grosseto

C

Perug ia

CORSICA (FRANCIA)

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IL PICCOLO. Fondato a Trieste nel dicembre 1881 da Teodoro Mayer, giornalista e senatore a vita, ha una diffusione locale di circa 35.000 copie.

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Firenze

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Lucca

Ravenna

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Tenda

Pola

Modena Bologna

Genova

Fiume

Venezia

Padova

Piacenza

Trieste

Treviso

Verona

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Stampato presso Everprint Srl Carugate (MI)

Il difficile ruolo della stampa italiana, stretta tra i vincoli del regime e la necessità di riportare la verità.

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Gentile lettore, per non perdere neanche un’uscita di “Giornali di guerra” la invitiamo a rivolgersi sempre alla medesima edicola.

Come i giornali raccontavano la guerra

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NUMERO 1 Agosto 2015 Pubblicazione periodica settimanale edita da Hachette Fascicoli s.r.l. Via Melchiorre Gioia 61, Milano Esce il sabato - ISSN 2421-2873 Direttore: Paola Tincani Direttore editoriale: Gualtiero Viganò Redazione: Paolo Rossi Direttore produzione: Lorenzo Cazzaniga Testi: Pier Paolo Battistelli, Carlo Bonfantini, Andrea Molinari Realizzazione editoriale: Milanoedit srl Revisione editoriale: Alberto Pietroboni Progetto grafico e impaginazione: Marco Matricardi Cristina Rainoldi Cartine: Vincenzo Auletta Le copie autentiche dei giornali dell'epoca sono state fornite da: "Archivio R. Guerra, Bologna" Giornali di guerra 1940-1945 © 2015 Hachette Fascicoli srl Registrazione n° 139 del 07/05/2015 presso il Tribunale di Milano - Iscrizione al R.O.C. n. 6800 del 10/12/2001 Direttore Responsabile: Paola Tincani Spedizione in abbonamento postale – legge 662/96 tab B 45% – Filiale di Milano Distribuzione SO.DI.P. S.p.A. - Via Bettola, 18 – 20092 Cinisello Balsamo (MI) L’opera è composta da 52 uscite. Prezzo prima uscita 1,90 euro; prezzo uscite successive 4,90 euro (salvo variazioni delle aliquote fiscali). L’Editore si riserva il diritto di variare la sequenza delle uscite dell’opera e/o i prodotti allegati. L’Editore si riserva anche il diritto di proporre alcune uscite aggiuntive rispetto al piano iniziale dell’opera, al solo scopo di arricchirne la qualità e il pregio. Qualsiasi variazione sarà comunicata nel rispetto delle norme vigenti previste dal Codice del Consumo (D.lgs. 206/2005). L'Editore ha effettuato tutte le ricerche del caso per contattare i possibili aventi diritto sul materiale riprodotto. Si scusa se ne ha dimenticato alcuno e rimane in ogni caso a sua disposizione. Il fascicolo e gli elementi che costituiscono la collana non possono essere venduti separatamente. Servizio abbonamenti Per informazioni sul suo abbonamento o per sottoscriverne uno nuovo: Diemme S.n.c., Via Morandi 24 21047 Saronno (VA) 199 418 030* – 02 39 29 24 94 @ f.g@cliepack.it o www.hachette-fascicoli.it Servizio clienti Per avere informazioni sulla pubblicazione e i suoi allegati: 199 418 030* – 02 39 29 24 94 @ f.g@cliepack.it Servizio arretrati I numeri arretrati sono disponibili per sei mesi dalla data di pubblicazione (salvo esaurimento), senza alcun sovrapprezzo. Per ottenerli può: • rivolgersi al proprio edicolante di fiducia; • telefonare al numero 199 418 030*. In questo caso le copie le verranno recapitate a casa con pagamento in contrassegno del prezzo di copertina più contributo spese di spedizione di € 6,50; • visitare il sito www.hachette-fascicoli.it. * Costo massimo della telefonata da rete fissa € 0,1449 al minuto, IVA inclusa, senza scatto alla risposta. Da rete mobile il costo dipende dall’operatore utilizzato.

Mussolini stabilì anche di sovvenzionare segretamente testate e direttori ‘amici’ e di autorizzare l’iscrizione all’albo dei giornalisti solo a coloro che non avessero svolto attività contrarie agli interessi della nazione. Inoltre, i direttori responsabili potevano essere nominati dopo aver passato il vaglio del Ministero della Cultura Popolare. Lo stesso Ministero indicava le notizie da pubblicare: tutto questo annullava di fatto il margine di discrezionalità di direttori e giornalisti. Tuttavia, con l’entrata dell’Italia nel secondo conflitto mondiale le prime crepe non tardarono ad aprirsi. La propaganda degli Alleati faceva la sua parte (nonostante i divieti, l’ascolto dell’emittente britannica Radio Londra si diffuse sempre di più) e, con una situazione bellica sempre più negativa, le cronache non potevano tacere del tutto ciò che era sotto gli occhi di ogni italiano. Anche la stampa clandestina riprese nuovo vigore, in particolare durante il periodo della Repubblica Sociale. Quello dei giornali di guerra in Italia fu quindi un mondo non privo di varietà e articolazioni. Negli ultimi tempi, alla stampa di regime si contrappose una vivace opera di controinformazione: i giornali locali, attenti alle cronache, concessero ampio spazio agli eventi del territorio; le stesse pagine di costume dei grandi quotidiani e dei periodici registrarono fedelmente il progressivo deterioramento delle condizioni di vita della società civile. È proprio seguendo questo criterio che abbiamo selezionato i quotidiani che compongono la collezione "Giornali di guerra 1940-1945": ridare vita a pagine di cronaca bellica, politica e sociale per raccontare la storia del nostro Paese con la maggiore varietà possibile di voci e prospettive.

Terni L’Aquila

Pescara

ROMA Frosinone

Campobasso

Latina

Foggia

SARDEGNA Napoli Salerno

Sassari

MAR TIRRENO

Cagliari

LA STAMPA. Quotidiano nazionale con sede a Torino, con una tiratura oggi attorno alle 265.000 copie, fu fondato dal giornalista e deputato della Sinistra costituzionale Vittorio Bersezio nel febbraio 1867 con il nome di Gazzetta Piemontese.

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IL RESTO DEL CARLINO. Il quotidiano venne fondato a Bologna nel marzo 1885 da Giulio Padovani, Alberto Carboni, Francesco Tonolla e Cesare Chiusoli. Attualmente tira circa 144.000 copie.

Potenza

Messina

LA NAZIONE. Principale quotidiano di Firenze, vide la luce nel luglio 1859. La sua attuale tiratura è di circa 160.000 copie.

MAR MEDITERRANEO

Palermo Trapani

Reggio di Calabria Catania

Agrigento

SICILIA PANTELLERIA

IL MESSAGGERO. Quotidiano romano, fondato nel dicembre 1878 dai Ragusa Siracusa giornalisti Luigi Cesana e Baldassarre Avanzini, tira oggi 179.000 copie.

Caltanissetta

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