Gobi, un piccolo cane con un grande cuore

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GOBI UN PICCOLO CANE CON UN GRANDE CUORE

DION LEONARD CON CRAIG BORLASE

traduzione di ANITA TARONI


ISBN 978-88-6905-307-8 Titolo originale dell’edizione in lingua inglese: Finding Gobi. W Publishing Group An Imprint of Thomas Nelson © 2017 Dion Leonard Traduzione di Anita Taroni per studio pym Realizzazione editoriale: studio pym / Milano Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa edizione è pubblicata per accordo con HarperCollins Publishers LLC, New York, U.S.A. Questa è un’opera di non fiction. Tutti gli avvenimenti e le esperienze descritti sono veri e sono stati riportati fedelmente come l’autore li ricorda o come gli sono stati riferiti da persone presenti ai fatti. Altri hanno letto il manoscritto e confermato la veridicità del suo resoconto. In alcuni casi, tuttavia, i nomi sono stati cambiati per tutelare la privacy delle persone coinvolte. Tutte le fotografie sono pubblicate previa autorizzazione. Le fotografie relative alla Kalahari Augrabies Extreme Marathon del 2013 e 2014 sono pubblicate per gentile concessione di KAEM / Hermien Webb. © 2018 HarperCollins Italia S.p.A., Milano Prima edizione HarperCollins marzo 2018

Questo libro è prodotto con carta FSC® certificata con un sistema di controllo di parte terza indipendente per garantire una gestione forestale responsabile.


A mia moglie Lucja. Senza il tuo incondizionato sostegno, la tua dedizione e il tuo amore, niente di tutto questo sarebbe mai stato possibile.



Prologo

La troupe se n’è andata ieri sera; domattina arriverà qualcuno della casa editrice. Sento ancora addosso il jet lag e gli effetti collaterali di quarantun ore di viaggio. Io e Lucja abbiamo deciso di fare la nostra prima corsa dell’anno. Una cosa facile. E poi non dobbiamo più tener conto soltanto di noi due. Adesso c’è anche Gobi. Ce la prendiamo comoda. Passiamo davanti al pub e proseguiamo oltre Holyrood Palace, dove il cielo azzurro e terso cede il posto ad Arthur’s Seat, la collina verdeggiante che domina il profilo di Edimburgo. Non ricordo nemmeno quante volte sono salito lungo le sue pendici, ma so che possono essere spietate: il vento è talmente forte da spingerti indietro e i chicchi di grandine graffiano la pelle come lame. In quei momenti, desidero fortissimamente i cinquanta gradi del deserto. Oggi, però, non c’è vento e non grandina. Nell’aria non c’è alcuna minaccia, come se la collina volesse mostrarsi in tutto il suo splendore. Appena ci inoltriamo nell’erba, Gobi si trasforma.

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Questa cagnolina, così piccola da starmi sotto il braccio, quando sale il pendio diventa un leone feroce. «Wow!» esclama Lucja. «Che potenza!» Prima che io possa replicare, Gobi si volta con la lingua penzoloni, gli occhi che brillano, le orecchie tese in ascolto e il petto gonfio. Sembra quasi che abbia capito. «E non hai ancora visto niente» dico, aumentando appena il ritmo per allentare un po’ il guinzaglio tesissimo. «Si comportava allo stesso modo anche sulle montagne.» Continuiamo la salita. Ripenso alla prima volta che l’ho notata sui gelidi e aspri saliscendi ai piedi del Tian Shan, nonostante poi le abbia dato il nome di un deserto. Lei adora arrampicarsi e a ogni passo pare trovare sempre più energia. Dimena la coda così velocemente che diventa una macchia indistinta e saltella in preda alla gioia. Si volta di nuovo: giuro che sta ridendo. Su, andiamo!, ci vuole dire. In cima, mi godo il panorama che conosco bene. Edimburgo si apre davanti a noi; più in là ci sono il Forth Bridge, le colline di Lomond e il West Highland Way, un sentiero di centocinquantacinque chilometri che ho attraversato dall’inizio alla fine. Vedo pure North Berwick, a una maratona di distanza: adoro correre sulla sua spiaggia, anche se in certi giorni il vento è talmente violento da farmi cadere, e ogni centimetro da superare è una lotta. Sono trascorsi più di quattro mesi dall’ultima volta che sono stato qui. Mi è tutto familiare e al contempo c’è qualcosa di nuovo.

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Gobi. Decide che è ora di tornare e mi trascina giù. Non imbocca il sentiero, taglia dal prato. Io salto sopra ciuffi d’erba e rocce grandi come valigie, mentre Lucja mi corre di fianco. Gobi supera gli ostacoli con fare esperto; Lucja e io ci guardiamo e ridiamo, godendo di questo momento che abbiamo atteso a lungo: essere una famiglia e poter finalmente correre insieme. Ecco la differenza. Di solito correre non è tanto divertente. Anzi, io non mi diverto mai. È gratificante, mi regala soddisfazioni, ma di certo non mi diverto al punto da scoppiare a ridere. Come invece mi capita adesso. Gobi vuole continuare a correre, e lasciamo che prenda il comando. Ci porta dove vuole lei, talvolta in salita, talvolta in discesa. Con lei non ci sono programmi di allenamento né mappe da seguire. Non ci sono preoccupazioni né pensieri. È un momento di pura allegria. Per questo, e per molto altro, le sono grato. Dopo gli ultimi sei mesi, sento di averne bisogno. Ho dovuto affrontare sfide che non avrei mai immaginato, e tutto per questa piccola palla di pelo marrone che tira il guinzaglio rischiando di slogarmi una spalla. Ho avuto paura come mai prima. Ho provato la disperazione che rende l’aria immobile e senza vita. Ho dovuto guardare in faccia la morte. Ma la mia storia non è solo questo. C’è molto altro. La verità è che soltanto ora inizio a intuire come que-

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sta cagnolina mi abbia cambiato. Ma forse non lo capirò mai del tutto. Una cosa però la so: trovare Gobi è stata una delle avventure più difficili della mia vita. Essere trovato da lei, invece… una delle più belle.

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PARTE PRIMA



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Uscii dall’aeroporto. Eccomi in Cina. Mi fermai un momento e lasciai che il caos mi travolgesse i sensi. Migliaia di motori rombavano nel parcheggio, facendo a gara con una miriade di voci che urlavano al cellulare intorno a me. I cartelli erano scritti in cinese e in un’altra lingua; arabo, pensai. Non conoscevo nessuna delle due, allora mi unii a una folla di gente accalcata in attesa di un taxi. Svettavo sugli altri di una trentina di centimetri, eppure ero invisibile. Mi trovavo a Ürümqi, una metropoli nella provincia dello Xinjiang, nell’angolo nordorientale della Cina. È la città più lontana dal mare del mondo. Durante il volo da Pechino, avevo visto vette aguzze coperte di neve e ampi scorci di deserto. Da qualche parte là sotto, gli organizzatori della corsa avevano ideato un percorso di quasi duecentocinquanta chilometri attraverso quelle montagne ghiacciate e una regione brulla, disabitata, senza vita e battuta da un vento incessante nota come deserto del Gobi. Presto avrei corso l’equivalente di poco meno di una maratona al giorno per i quattro consecutivi e quasi due maratone il quinto; infine, l’ultimo giorno, la gara si

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sarebbe conclusa con uno sprint di una decina di chilometri. Questo tipo di gara si chiama ultramaratona a tappe e forse non esiste niente di più spietato per saggiare la propria resistenza fisica e mentale. Quelli come me pagano migliaia di sterline per avere il privilegio di subire ogni genere di supplizio, fino a perdere il dieci per cento del proprio peso. Ma ne vale la pena. Ci sfidiamo nelle zone più remote e affascinanti della Terra e ad assisterci ci sono persone scrupolose e medici molto preparati. A volte affrontiamo prove durissime, ma che ci cambiano la vita, e raggiungere il traguardo è una delle esperienze più gratificanti. Tuttavia può capitare che le cose non vadano sempre bene. L’ultima volta che avevo tentato di correre l’equivalente di sei maratone in una settimana ero arrivato a metà classifica, agonizzante. Sul momento mi ero convinto di essere al capolinea e che non avrei mai più gareggiato; invece poi ero riuscito a riprendermi per tentare di nuovo. Se nell’ultramaratona del Gobi avessi fatto una buona performance, forse significava che non ero ancora finito. Nei tre anni precedenti, da quando cioè avevo preso seriamente la corsa, avevo scoperto che salire sul podio trasmette una bellissima sensazione e il solo pensiero di non poter più competere mi dava la nausea. Se le cose si fossero messe davvero male avrei addirittura rischiato di morire, com’era successo a un altro runner qualche anno prima.

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Secondo internet, per raggiungere il mio hotel in taxi dall’aeroporto ci volevano tra i venti e i trenta minuti. Ma ormai eravamo in viaggio da quasi un’ora e il tassista era sempre più seccato. Era già irritato quando aveva capito che ero un turista di lingua inglese e mi aveva chiesto una tariffa tre volte superiore a quella che mi aspettavo, poi il suo umore era persino peggiorato. A un tratto si fermò davanti a un edificio di mattoni rossi e, sbracciandosi, mi spinse praticamente giù dalla macchina. Guardai fuori dal finestrino, poi osservai l’immagine a bassa risoluzione che avevo mostrato al tassista prima di partire: i due palazzi si somigliavano un po’, ma era evidente che quello che avevo di fronte non era un albergo. «Mi sa che devi metterti gli occhiali, amico!» esclamai provando a sdrammatizzare. Non funzionò. Il tassista tirò fuori il telefono brontolando e urlò a qualcuno all’altro capo della linea. Arrivati finalmente a destinazione venti minuti dopo, era furioso e se ne andò sgommando e agitando i pugni. Non ci badai. L’ultramaratona tempra tanto il fisico quanto la mente e si impara in fretta a non farsi distrarre dai piccoli inconvenienti, come le unghie che si staccano o i capezzoli che sanguinano. Il nervoso provocato da un tassista arrabbiato era una cosa assolutamente trascurabile. Il giorno successivo, invece, fu tutta un’altra storia. Dovevo prendere un treno ad alta velocità per rag-

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giungere Hami, una cittadina a qualche centinaio di chilometri da Ürümqi, dove si trovava il “quartier generale” della competizione. Nel momento stesso in cui arrivai in stazione, capii che il viaggio che mi aspettava avrebbe messo a dura prova la mia pazienza. Mai visto un tale dispiegamento di forze in una stazione ferroviaria. C’erano veicoli dell’esercito ovunque, transenne che convogliavano il flusso dei pedoni e poliziotti armati che dirigevano il traffico. Mi era stato consigliato di presentarmi due ore prima della partenza, ma guardando la marea di gente che avevo davanti mi domandai se sarebbero bastate. La corsa in taxi del giorno precedente mi aveva insegnato una cosa: se avessi perso il treno, forse non sarei stato in grado di superare la barriera linguistica per comprare un altro biglietto. E a quel punto, se non fossi arrivato puntuale all’incontro con gli organizzatori della corsa, non era scontato che mi avrebbero fatto partecipare. Di sicuro il panico non mi avrebbe portato da nessuna parte. Inspirai a fondo, cercai di calmarmi e mi diressi al primo controllo di sicurezza. Quando finalmente lo superai e capii dove dovevo andare a ritirare il biglietto, scoprii di essere nella fila sbagliata. Trovai quella giusta, solo che ormai mi restava pochissimo tempo. Se quella fosse stata una competizione, mi sarei ritrovato nelle retrovie. E io non correvo mai nelle retrovie. Ora mi restavano meno di quaranta minuti per passare un altro controllo, far esaminare al microscopio il mio passaporto da un poliziotto fin troppo scrupoloso,

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dribblare cinquanta persone in attesa di accedere ai binari e fissare, sempre più in ansia, cartelli e tabelloni sforzandomi di capire da dove cavolo sarebbe partito il mio treno. Per fortuna, non ero completamente invisibile e un ragazzo cinese che aveva studiato in Inghilterra mi batté sulla spalla. «Serve aiuto?» L’avrei abbracciato. Feci appena in tempo a sedermi nella sala delle partenze che tutti si voltarono all’arrivo del personale di bordo. Sembrava di essere in un aeroporto negli anni Cinquanta: i macchinisti indossavano uniformi immacolate, guanti bianchi e avevano l’aria di chi ha tutto sotto controllo; le assistenti erano gentili e impeccabili. Le seguii sul treno e affondai esausto nel mio posto. Erano passate quasi trentasei ore da quando ero partito da Edimburgo e tentai di allentare la tensione accumulata nella mente e nel corpo. Guardai fuori dal finestrino, ma il paesaggio – troppo poco coltivato per essere terreno agricolo e troppo poco disabitato per essere un vero deserto – si susseguiva monotono. Era soltanto un’immensa estensione di terra sempre uguale per chilometri e chilometri. Ero sfinito e stressato. Non era affatto così che volevo affrontare la gara più importante della mia, seppur breve, carriera di ultramaratoneta. Avevo partecipato a competizioni più prestigiose, come la famosa Marathon des Sables in Marocco, universalmente riconosciuta come la prova più difficile del mon-

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do: per due volte avevo corso insieme ad altre tredicimila persone, attraversando il Sahara con temperature che raggiungevano i cinquantun gradi di giorno e precipitavano a quattro la notte. La seconda volta mi ero addirittura classificato trentaduesimo. Un risultato rispettabilissimo. Da allora però erano trascorsi quindici mesi, ed erano cambiate tante cose. Tutto era cominciato durante un’altra gara di duecentocinquanta chilometri nel deserto del Kalahari. Mi ero spinto oltre – decisamente oltre – per piazzarmi secondo: sarebbe stato il mio primo podio in un’ultramaratona a tappe. Purtroppo, non mi ero mantenuto abbastanza idratato e la mia urina era diventata del colore della Coca-Cola. In seguito, il medico mi aveva spiegato che la mancanza di liquidi aveva portato i reni a contrarsi e il continuo sforzo fisico li aveva danneggiati; per questo avevo il sangue nelle urine. Qualche mese dopo, durante un’altra gara, mi erano venute le palpitazioni: il cuore batteva all’impazzata ed ero stato travolto da un’ondata di nausea e vertigini. I disturbi erano poi completamente spariti non appena avevo cominciato la Marathon des Sables. Ignorando la sofferenza e stringendo i denti fino alla fine, ero riuscito ad arrivare tra i primi cinquanta. Il problema era che avevo davvero esagerato: tornato a casa, avevo iniziato a soffrire di violenti e dolorosissimi spasmi al tendine posteriore del ginocchio che mi prendevano anche se camminavo, figuriamoci se avessi corso. Ero rimasto a riposo per qualche mese, dopodiché

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ero passato da un fisioterapista all’altro, però tutti mi ripetevano sempre la stessa solfa: dovevo seguire la nuova combinazione di esercizi di resistenza e potenziamento che mi consigliavano. Provavo qualsiasi cosa, ma niente mi aiutava a riprendere a correre. Impiegai quasi un anno per incontrare un fisioterapista e un allenatore che capissero cos’avevo e trovassero una soluzione: parte del mio problema era che non correvo nel modo corretto. Sono alto più di un metro e ottanta, e ho una falcata ampia e precisa che mi viene facile e naturale. Ma non usavo i muscoli giusti, per questo avevo degli spasmi improvvisi e dolorosi alle gambe ogni volta che correvo. Dunque l’ultramaratona in Cina era la prima occasione per testare la mia nuova andatura, più corta e veloce. Mi sentivo in gran forma. Ormai in allenamento riuscivo a correre per ore senza sentire male e avevo seguito in maniera rigida la mia solita dieta pre gara. Da tre mesi avevo completamente eliminato l’alcol e le schifezze; in pratica mi nutrivo soltanto di pollo e verdure. Avevo addirittura rinunciato al caffè, sperando che così avrei scongiurato il rischio di palpitazioni. Se grazie a questi sacrifici la mia prestazione in Cina fosse stata buona come pensavo, quello stesso anno avrei affrontato un’altra gara molto prestigiosa nel Salar de Atacama, in Cile. A quel punto, se l’avessi vinta, l’anno successivo sarei stato pronto per tornare alla Marathon des Sables e farmi finalmente un nome nel mondo della corsa.

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Ringraziamenti

Sono felice di aver trascorso tutto quel tempo in Cina: ha portato nella mia vita moltissime cose belle. In un paese con oltre un miliardo di anime, ho conosciuto alcune delle persone più generose, premurose e gentili che mi capiterà mai di incontrare. Kiki Chen è stata con noi fin dall’inizio e ha reso possibile tutto questo. Chris Barden è uno che sa davvero «sussurrare ai cani»: ha formato la squadra di ricerca ed è stato fondamentale per il ritrovamento di Gobi. A Lu Xin devo moltissimo. Non ha mai smesso di cercare Gobi e mi ha fatto capire che cosa sia la vera generosità. Jiuyen (Lil) è stata ben più di una semplice interprete, le sue parole mi hanno aiutato nelle circostanze più difficili. Sono profondamente riconoscente ai volontari che si sono impegnati giorno e notte per aiutare un completo estraneo. Non potrò mai ringraziarli abbastanza, ma spero che sappiano quanto sono stati importanti per la conclusione positiva di questa vicenda. Sono molto grato alla famiglia Ma per aver ritrovato Gobi. Il sostegno e l’assistenza del WorldCare Pet sono

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stati fondamentali, e il team di WorldCare Pet di Pechino ha dimostrato un amore, una cura e un interesse continuo nei confronti di Gobi. Ancora rido quando ricordo i momenti trascorsi con i ragazzi di Ürümqi del ristorante Lvbaihui Tribes Barbecue (soprattutto se ripenso al liquore che mi hanno fatto assaggiare. Ganbei Maotai!). Mi mancano i miei fratelli pechinesi dell’Ebisu Sushi e sono orgoglioso di poter dichiarare che Ürümqi è la mia «città natale» in Cina. Non esiste al mondo un luogo più solidale, gentile e generoso. I media cinesi hanno dato un’enorme eco alla nostra storia e all’affetto che ha saputo suscitare. Per venire alla Scozia, niente di tutto questo sarebbe stato possibile senza Lisa Anderson, che si è presa cura di Lara e della nostra casa. Iona, Kris, Tony e Gill sono solo alcune delle persone meravigliose che sono state accanto a Lucja lungo tutto il percorso. Ross Lawrie, ho soltanto una cosa da dirti: bobby-dazzler! La stampa ha avuto un ruolo importante in questa vicenda. Jonathan Brown del Daily Mirror è stato il primo giornalista a interessarsene, Judy Tait l’ha fatta conoscere a Bbc Radio 5 Live e il conduttore, Phil Williams, ci ha sostenuto sin dall’inizio. Hanno saputo vedere la nostra storia da prospettive inedite e mi hanno aiutato a condividerla con il mondo. Un aiuto inestimabile è venuto da Bbc Uk e World

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Services, da Christian DuChateau della Cnn, Amy Wang del Washington Post, Deborah Hastings di Inside Edition, Oliver Thring del Times, Victor Ferreira del Canadian Post, Nick Farrow e Steve Pennels di Channel 7 Australia, Pip Tomson del programma di Itv Good Morning Britain, e dall’Eric Zane Show podcast. Voglio infine ringraziare tutti gli altri giornalisti e conduttori radio e tv che hanno seguito la storia e ci hanno dato una mano nel corso del nostro viaggio. Moltissime persone hanno donato soldi, ci hanno inviato messaggi di affetto e sostegno, hanno pregato ogni giorno. Non soltanto hanno creduto in noi, ma hanno reso possibile tutto questo. Voglio anche ringraziare Winston Chao, Mark Webber per il tweet («Aussie Grit!») e il dottor Chris Brown per l’aiuto, la competenza e l’assistenza. Richard Henson è un mito assoluto: è venuto fino a Ürümqi. Tommy Chen, per essere un grande avversario e ambasciatore di Taiwan... L’allenatore Donnie Campbell, «uno-due-tre-uno-due-tre»; Waa Ultra Equipment è sempre stata al mio fianco, e William Grant & Sons sono i datori di lavoro migliori che si possa avere. Un grazie anche a Dfds Seaways e a Air China. Infine, un grazie all’intera squadra «Dion e Gobi». Per merito di sua figlia Quinn, Paul de Souza ha reso tutto questo realtà. Jay Kramer ci ha fornito il suo sostegno,

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i suoi consigli e la sua esperienza inestimabile. Matt Baugher ci ha appoggiato e ha creduto in noi, e a lui e a tutto il team di W Publishing, Thomas Nelson e HarperCollins dobbiamo un immenso ringraziamento per il loro impegno nonostante le scadenze cosÏ ravvicinate. L’intelligenza, il supporto e la pazienza di Craig Borlase nel realizzare questo libro sono stati incredibili.


Questo volume è stato stampato nel febbraio 2018 presso Rotolito S.p.A. - Milano


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