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recensione -
Il rospo nel pozzo di Giulia Di Marco (Città del Sole edizioni)
a cura di Maurizio Marino
La prima cosa che ti salta per la testa appena ti metti comodo a leggere Il rospo nel pozzo di Giulia Di Marco è la parola sperimentazione. Non per nulla la collocazione naturale del volume finisce per essere la collana “La bottega dell’inutile” di Città del Sole edizioni. La seconda cosa che ti passa per la mente è una frase che si fa oggetto non appena riesci a stopparla nel fermimmagine della memoria: è una frase di Silvio Orlando sentita giorni prima alla radio, in una intervista nel corso della quale, per spiegare che cos’è teatro, ma vale anche per spiegare che cos’è letteratura, l'attore pesca dal cilindro delle memoria cinematografica un’immagine tratta dal film Il Caimano di Nanni Moretti. Quella, per intenderci, del bambino che cerca una roba da nulla, una piccola costruzione di colore giallo, un banalissimo pezzetto da incastrare nel puzzle a più dimensioni della azione-narrazione ludica. Tradotto: il libro è una ricerca affannosa, un viaggio dentro il mondo dei ricordi, dei luoghi, dei libri, dei gesti, delle persone, che Giulia Di Marco intraprende per sfuggire al tedio quotidiano. Ecco allora spuntare il marchingegno della narrativa a cui la scrittrice non può né vuole sottrarsi perché, senecanamente, “sottrarsi non è salvarsi”. La terza cosa che s’aggira nei pressi di quella roba che gli antichi hanno chiamato anima è l’amore per la scrittura: un tormento che si fa magia, un torrente che stringe il suo letto e comincia a gorgogliare come il rivo strozzato di Montale. Solo che qui non c’è un rivo, ma c'è, più precisamente, un pozzo. E un rospo. Un rospo che spia dal basso del pozzo la luce di sopra. Il rospo nel pozzo vuole essere, infatti, un gracchiare nero da una pozzanghera infima, lontana, minima. Ecco perché è cinematografica la scelta del sottotitolo “E il naufragar m’è dolce in questo mare”. Sembra, cioè, che il pozzo si faccia mare. Che il finitamente piccolo si faccia infinitamente grande. Che il naufragio nel mare leopardiano dell’Infinito finisca per coincidere con la caduta nell’abisso di un pozzo. E quel pozzo, per dirla con le parole di Ungaretti, finisce per essere il mare che il Poeta scandaglia
alla ricerca del porto sepolto, alla ricerca di quell’inesauribile mistero: il rospo nel pozzo diviene così perfetta assonanza del porto sepolto. Il rospo nel pozzo, se guardi bene, è il porto sepolto. Se ti ritagli il tempo giusto – e non troverai scuse, te ne basta poco! – d’un fiato, con gli occhi guizzanti, te ne starai appiccicato a quelle pagine che sventolano la loro lieve e densa atmosfera. Sembra che Giulia Di Marco ci voglia accompagnare per mano dentro i vicoli della sua anima, con la forza delicata che hanno le donne, quando decidono che è giunta l'ora di condurre. Torna alla mente “Mosca” che accompagna Montale: nonostante la vista offuscata è lei a guidare lui nella discesa di milioni di scale. Torna alla mente Beatrice che nel primo canto del Paradiso se ne sta “in sul sinistro fianco” a fissare il sole; “aquila sì non li s’affisse unquanco”, scrive Dante, cogliendo la portata oltreumana dell’atto di fissare, appunto, la luce del sole. E la narrativa declinata al femminile ha questo di bello: che se ne frega di arrovellarsi nello stereotipo del potere, del duca che conduce; e sceglie altri percorsi, altre spiagge, altre case, “come minuscole bricioline di una civiltà messa al margine del vulcano” che brontola sempre quasi a dire “non voglio nessuno sulla mia schiena. Come un cavallo che si scrolla da fastidiosi parassiti”: è lo Stromboli, che sbuca dalla magia del pozzo. Narrato in terza persona, il libro si avvale del dialogo con altri io che dismettono i panni uniformi, di un’unica forma, per scegliere comodi personaggi pirandelliani da cui entrare e uscire a piacimento, come i centomila Vitangeli Moscarda, nell’eterna lotta tra caos e forma. Dardano e l'iperaggettivazione, Psulla di papà Sebastiano e e i roghi funebri della fenice, le ultime pagine del Pavese di La luna e i falò convivono con Moravia, Miller e Amado, fra carrellate di donne con occhi di bambine e occhi scintillanti come pagliuzze d'oro, fra treni in giro per l'Italia e quel pozzo, centro del mondo: qui s'era perso Andrea di De André, qui, alla fine di tutto, ci si rivedrà: sempre se non “ci si vede in giro”.
...e molto altro ancora all’interno.
Il revisionismo non è ricerca è una riscrittura della storia “simbolicamente è una scelta ideologica”
di Pino Rotta Dodici anni fa, accettammo l’invito a partecipare a Napoli ad un convegno organizzato dall’ISSES un istituto di ricerca storica di chiara matrice neofascista. Il convegno in sé fu più che altro una adunata di vecchi e nostalgici reduci della Repubblica di Salò, qualche notizia storica (vedi Benedetta Falco, su Helios Magazine nr. 6/1998) e moltissima retorica propagandistica. Non ho indulgenze sul fascismo, ma, da studioso, quell’evento svoltosi alla luce del sole, senza contestazioni o polemiche, che sarebbero state più che prevedibili solo pochi anni prima, era un caso da osservare e cercare di capire. Mentre giustamente si condannavano tutti i regimi comunisti, cominciava l’epoca italiana del revisionismo storico, accolto da destra e da sinistra come elemento di base per una pacificazione nazionale. I simboli e le parole d’ordine del fascismo e del nazismo cominciarono a riapparire per le strade e soprattutto negli stadi. Secondo Ernst Cassirer il simbolo non serve solo a comunicare un concetto preesistente ma è uno strumento tramite il quale un contenuto si costituisce in una determinata e nuova forma. Quando si vedono le svastiche e i saluti romani inondare gli stadi o le manifestazione dei movimenti neonazisti è necessario quindi porsi due tipi di interrogativi: quale attinenza hanno con i passati regimi che devastarono il mondo nella prima metà del 1900? Il processo di globalizzazione e la conseguente crisi economica hanno alimentato un senso di estraneamento ed un bisogno di identità da recuperare? Circa il rapporto di derivazione tra i passati regimi neonazisti e gli attuali movimenti e partiti (nazionali o regionali) presenti in molti paesi europei, in particolare del centro e nord Europa, è utile richiamare l’assunto di Cassirer per chiarire che i movimenti che oggi recuperano quella simbologia sono formati prevalentemente da giovani che non hanno conosciuto né il fascismo nè il nazismo e che in quei simboli cercano un’espressione di supremazia identitaria ispirandosi a stereotipi riapparsi proprio con la legittimazione revisionistica operata in questi ultimi 30 anni. Ecco che la svastica non suscita più orrore ma è il simbolo che recupera e reinventa un sentimento di appartenenza, di identità riferita a presunti territori, a razze e cosiddette radici. Tutto ciò è conseguenza della globalizzazione che in questi anni ha impoverito l’Occidente e piegato, nella logica dell’egoismo per la sopravvivenza, i diritti dello stato sociale creato con l’abbattimento del nazifascismo,
creando il fertile humus dell’incertezza e della paura. Non è un fenomeno nuovo nella storia, Erich Fromm, in Fuga dalla Libertà, sostiene che l’individuo è propenso a rinunciare alla libertà in cambio della sicurezza. Quindi si generano paure, magari amplificate e rese collettive mediaticamente per fini politici, la tendenza a rifugiarsi in modelli forti, autoritari e che si emotivamente si percepiscono adeguati ai bisogni di sicurezza e identità, prende facilmente il campo e, pur rimanendo minoritaria, questa parte della società diventa l’alibi per politiche improntate alla forza, al militarismo e ad un contraddittorio concetto di patriottismo. Non è nuovo nella storia eppure si ripete senza che si riesca a porre un freno a quelli che i rappresentanti della “cultura alta” giudicano fenomeni pericolosi ed inaccettabili. E nel concetto di “cultura alta” e “cultura bassa” probabilmente va ricercato il motivo di questa incapacità di reagire con strumenti democratici a difesa dei valori propri della democrazia e della libertà individuale. Il revisionismo, quando viene utilizzato in ambienti accademici, in ambito di ricerca storica, da chi è attrezzato a indagare (questo è il concetto di cultura alta) allora può essere utile a capire, a mettere in relazioni fatti, eventi, personaggi e responsabilità, fermo restando il fatto che un regime che ha tolto all’Europa la libertà e causato milioni di morti non può trovare nessuna giustificazione nè storica nè politica. In questi ultimi trenta anni invece si è operato a livello più o meno globale per cancellarla la memoria storica, la capacità di giudizio critico, perché si è reso socialmente ed economicamente risibile il valore dello studio e dell’approfondimento, facendo diventare quella che era fino agli anni sessanta una società, prima una massa e poi un pubblico (concetto di cultura bassa). Come pubblico partecipiamo immobili agli eventi di cui non riusciamo ad essere protagonisti e ci sentiamo atomi smarriti. Allora alcuni cercano di diventare “visibili” con l’uso della violenza, con lo sfoggio di simboli dal presunto potere magico di rigenerare di ciò che non esiste più. L’emulazione è il primo passo per l’accettazione sociale del fenomeno. E quando questi fenomeni rischiano di fa tremare il “quieto vivere” basta rinchiuderli dentro gli stadi di calcio, nuove arene per i nuovi gladiatori, dove hanno il tacito permesso anche di ammazzarsi, ma sotto controllo e in spazi circoscritti. Finchè da minoranza non diventeranno molti più….
Nazisti nel XXI secolo
di Antonella Giglietto (*) I semi dell’odio e dell’intolleranza, infatti, continuano a germogliare tutt’oggi ed hanno trovato nuovi modi di proliferare più latenti e per questo spesso ingovernabili: le nuove forme di comunicazione contribuiscono a far viaggiare senza controllo la maggior parte delle informazioni legate alla sub-cultura naziskin. La rete internet nella sua globalità consente alle varie aggregazioni nazi-fasciste di mantenere un contatto, creando una rete mondiale; su siti eloquenti si possono individuare i luoghi di ritrovo, i concerti e le produzioni discografiche dei gruppi OI (il genere musicale caratterizzato da testi incoraggianti il disprezzo razziale raccolti in dischi le cui copertine raffigurano stivali che prendono a calci in faccia un uomo di colore). Su questi siti vengono promosse teorie negazioniste, deliri xenofobi, esoterismi e misticismo, rivendicazioni di superiorità, onorabilità, orgoglio e patriottismo. Tramite il web l’orrore neonazista ha mezzi illimitati nel formare nuove alleanze: dagli skinheads americani wasp (termine che esprime la tipologia di razza bianca anglosassone protestante) ai naziskin dell’ex Germania dell’est (colpevoli dell’incendio di ostelli per stranieri), dalle teste rasate inglesi (note per l’accanimento sugli immigrati) giungiamo ai gruppi in Italia che si operano nel nordest (in particolare Veneto) e nel Lazio. Nel Belpaese il giro naziskin è molto affermato (negli stadi ad esempio assistiamo a degradanti episodi di razzismo più o meno truci), anche se questo funesto spaccato di realtà diventa rumoroso solo quando ne parlano i media e quando i fatti sono particolarmente clamorosi. Come dimenticare gli scontri in centro a Bologna con relativa tabella punteggi a seconda di chi picchia meglio (tot punti se pesti un extracomunitario, tot punti se brutalizzi un omosessuale, tot punti per un comunista), ricordiamo le ronde della notte e gli efferati omicidi dei barboni, le aggressioni da parte di Forza Nuova alle Arcigay. Desolante risulta l’atteggiamento dei soliti spettatori disinteressati che chiudono gli occhi o le famiglie dei seguaci che colludono in maniera più o meno evidente o liquidano il problema definendo certi atti “ragazzate”; tra le fila di naziskin e skinhead si collocano, infatti, molti giovani, di età spesso compresa fra i 17 e i 20 anni, questi ragazzi esibiscono con orgoglio i simboli a cui si ispirano: le svastiche, le croci celtiche, i fasci littori, le “SS”. Ad una prima analisi la spiegazione potrebbe sembrare difficile, visto che le ideologie a cui si ispirano sono fallite; approfondendo l'argomento, però, si scopre che
questi giovani non sono affatto interessati alla storia, ma vogliono piuttosto riscuotersi dal torpore della vita di tutti i giorni o colmare le loro insicurezze. Questa è la tragedia più grande, il mostro strisciante che seda la coscienza. Il silenzio, l’indifferenza, la paura, la superficialità. Probabilmente il fenomeno dei naziskin sopravvive causa di un razzismo quotidiano e generale, accettato, che ogni giorno ci tocca: ascoltiamo inni urlati, plateali, reali esaltazioni all’intolleranza come quelle leghiste: dallo slogan che dice “padroni a casa nostra”, alle vessazioni psicologiche come i manifesti che raffigurano il sedicente extracomunitario che prevale sul cittadino italiano. Ci sono frasi che serpeggiano mentre si fa la fila (come alla stazione dove un ragazzo di colore veniva trattato bruscamente dall’impiegata e i clienti che spingevano dietro). Ci sono le svastiche sui tronchi e sui monumenti che periodicamente compaiono e non possono più essere categorizzabili come “birbonata”, ci sono gli assalti ai cimiteri ebrei. Ma il nazifascismo è la punta di un iceberg molto più grande. Una malattia aggravata dalle crisi di una società in declino. Non a caso gli stati più coinvolti sono interessati da importanti dissesti del tessuto sociale. Questo decadimento di sistemi che prima assicuravano in un certo modo una appartenenza, una posizione, un ruolo, schiaccia gli individui e li porta verso la paura, la frustrazione. Una rabbia che deve individuare un colpevole, una causa, uno sfogo. La disoccupazione, la globalizzazione senza etica e limiti, lo sradicamento dal territorio, porta gli individui a cercare un capro espiatorio, a vedere nell’altro, nel diverso da noi, un nemico. Il “DIVERSO” diviene il facile obiettivo verso cui convogliare il risentimento e l’acredine. L’unica speranza, per frenare i movimenti xenofobi è ancora una volta la comprensione profonda e la prevenzione e, in questo, le amministrazioni comunali nel loro piccolo possono fare molto. Innanzitutto negando il proprio territorio a raduni e manifestazioni razziste e promuovendo una cultura di tolleranza e convivenza già nelle scuole. La nascita delle coscienza non si inventa, ma va coltivata, bisogna impegnarsi per promuovere i meccanismi di integrazione ed condannare quelli di isolamento. L’educazione dei giovani alla civiltà, all’accoglienza verso il prossimo priva di pregiudizi, alla condanna senza riserve della violenza, può essere infatti una strategia efficace che rompe il muro di diffidenza e degenerazioni razziste. (*) psicologa
Il Simbolismo della forza
di Salvatore Romeo (*) La “Religione del sangue” celebrava il sangue e la forza. Nella tradizione nordica il sangue è stato da sempre simbolo dell’essenza spirituale di un popolo. Questa religione scaturì dalle elaborazioni mistiche di Rosenberg, gerarca nazista e uomo di primo piano dell’Associazione Thule, organizzazione elitaria sorta nell’altrettanto elitario corpo delle SS tedesche. La Thule era apertamente impegnata nella ricerca delle origini ariane del popolo germanico e per tali motivi i nazisti effettuarono diverse spedizioni antropologiche nel Tibet e nell’Europa più misteriosa. L’emblema di questa associazione era un pugnale con una croce uncinata. Sotto l’indicibile progetto della Germania nazista covava, quindi, una religione segreta, impregnata di un esoterismo mistico che intendeva rintracciare le sue origini addirittura nei Cavalieri della Tavola Rotonda e nei Cavalieri Teutonici. Questa élite di superuomini era l’espressione della Religione del sangue e contemporaneamente un suo difensore. Il loro simbolo era un teschio sogghignante, emblema di morte e del terrore. E’ un simbolo che, insieme alle due “S” stilizzate, ritroviamo nei gruppi di estrema destra moderna, di quei Naziskin che si riuniscono in vere e proprie sette o società ristrette, identificate con i simboli comuni e con le parole d’ordine particolari, dove si sentono protetti dalla forza del gruppo, dal sentimento di appartenenza e di unificazione, dove percepiscono finalmente la libertà di esprimere le loro pulsioni aggressive sotto forma di esplicita violenza e di odio razziale e xenofobo. Essi così tendono ad eliminare il diverso, poiché la diversità significa l’ignoto e l’ignoto li terrorizza, mancando di una solida identità personale. La percezione della forza e dell’unione viene conferita loro proprio dai simboli che utilizzano, e che non a caso sono ripresi da quelle ideologie che fondavano il loro dominio sulla forza, sulla prepotenza, sull’imposizione, sul terrore e sull’eliminazione del diverso. Erano, come il Nazismo, ideologie che si basavano su un orientamento psicologico che trovava radici, sebbene quanto mai distorte e strumentalizzate, in quell’arte iniziatica che tendeva ad unificare in sé tanto l’anima sacerdotale quanto quella regale, e il Re-sacerdote era pertanto l’unica entità che poteva sedere sul trono del mondo e amministrare la giustizia in armonia col tutto, perché in lui le potenze umane si erano finalmente tramutate in potenze universali e cosmiche. Egli, infatti, in virtù delle sue qualità ascetiche, diveniva l’asse di congiunzione tra terra e cielo, e solamente le sue qualità infuse al resto del mondo potevano apportare alla terra virtù e benefici. Gli ambienti neonazisti sembrano aver colto, pur senza rendersene forse conto, questa disposizione, senza sicura-
mente averne fatto proprio, però, lo spirito puro e positivo, ma anzi percorrendo vie che portano in direzione diametralmente opposta rispetto alle dottrine iniziatiche. Essi, riproponendo invece gli insegnamenti nefasti dei regimi che li ispirano, vanno verso la divisione e la dissoluzione anziché verso l’unità e l’armonia, verso la guerra anziché la pace e la concordia universale, celebrano la diversità e la superiorità anziché l’uguaglianza, si orientano verso la sopraffazione anziché la tolleranza, con arrogante sentimento di prevaricazione e senza la minima scintilla di umiltà. La loro finalità non coincide per nulla con la realizzazione spirituale e interiore, che è vita, ma si ripromette invece una rivoluzione concreta, materialista e rivolta all’esterno, una rivoluzione che si realizza però unicamente nella direzione della dissoluzione, e la dissoluzione è disarmonia e, in fin dei conti, il trionfo nichilistico della pulsione di morte freudiana. Le loro chiavi di accesso al gruppo si rifanno sì a parole di potere che risalgono a scienze antiche e sacre, ma di queste essi oggi non immaginano nemmeno il significato e il senso che avevano nelle lingue antiche e iniziatiche. In questo modo essi non perpetuano la tradizione insita in quelle Scuole, ma soltanto i significati oscuri che attribuiscono e che assegnano molto liberamente e arbitrariamente a questi simboli. Come nel caso della svastica, per esempio, inteso come simbolo di violenza e di odio. Nelle religioni antiche, specialmente orientali, i quattro bracci della svastica rappresentavano i diversi piani dell’esistenza (del mondo infero, degli animali, dell’uomo e degli dèi), mentre nella cultura nordica essa rappresentava anche il martello del dio Thor, raffigurato sottoforma di una croce uncinata, il sole artico, simbolo di creazione e di vita. Non è la croce uncinata, comunque, il solo elemento affascinante in questo simbolo, bensì anche il senso del movimento che questi bracci sembrano rappresentare, che è un movimento rotatorio compiuto intorno ad un centro o ad un asse immobile. E’ quest’asse, questo punto fisso l’elemento essenziale della svastica, come vedremo. Il simbolo comunica comunque forza, una forza esplicata soprattutto come Energia vitale, considerato che essa trae alimento dal divenire ciclico del Sole e del Tempo, simbolizzato da questo apparente movimento. Anche la croce celtica è un emblema utilizzato da questi nuovi gruppi. Essa deriva dalla sovrapposizione di un cerchio e di una croce i cui centri coincidono. Le sue rappresentazioni sono anteriori al Cristianesimo e sono state individuate nel Nord dell’Europa come croci solari, associate a Odino, il dio guerriero per eccellenza e signore delle Rune, che a loro volta sono le sorgenti magiche di ogni saggezza e potere. Il significato più comunemente associato a questo simbolo è quello solare, ma esso è anche metafora di collegamento e di unione tra il mondo celeste, rappresentato dal braccio verticale, e il mondo terreno, ricondotto al braccio orizzontale. Ancora, qui, ritroviamo la simbologia e la tradizione che abbiamo visto all’inizio, del Re-sacerdote che congiunge le due dimensioni del cielo e della terra. Ma anche nel caso della croce celtica, come della svastica, è sempre il punto centrale, il punto fisso quello che assume un valore simbolico fondamentale, e sempre con lo stesso significato di stabilità e centralità, di fulcro attorno al quale ruota tutto, assimilato al Re Universale, il centro e motore immobile di Aristotele. (*) psichiatra
La visione del mondo nazista: Spazio, Corpo, linguaggio
di Elisa Cutullè In un dizionario Larousse classique illustrè nel 1934 si legge “Un dizionario senza esempi è come uno scheletro”. Nella stessa edizione era possibile trovare il seguente esempio relativo al termine ebreo “Se ne trovano molti in Polonia”. Una frase che il nazionalsocialismo, già al potere da 1 un anno ha fatto diventare un suo motto, un dato di fatto. La storia ne è esempio. Oggi, a diversi decenni di distanza sembrerebbe quasi assurdo pensare che l'umanità abbia tollerato una tale azione e che ad un gruppo ristretto venisse conferito tanto potere. Ma, se la cosa è così assurda, impensabile ed inumana come mai, a decenni di distanza il movimento nazista, o meglio neonazista, è presente in diverse nazioni? Chi sono i Naziskin? Di età tra i 17 e i 20 anni, esibiscono svastiche, croci celtiche e vessilli passati .Tra i gruppi più attivi vi sono gli Skin88. Il loro nome deriva dall'ottava lettera dell'alfabeto latino ovvero Heil Hitler Una potente e rigida organizzazione, attivi non solo in America ma anche negli Stati Uniti dove il gruppo Confederate Hammerskins
ha molti seguaci. Lo storico israeliano Boaz Neumann, docente presso l'Istituto Minerva per la storia tedesca presso l'Università di Tel Aviv, nel suo testo “Die Weltanschauung des Nazismus. Raum-KoerperSprache” [ titolo provvisorio: La visione nazista del mondo. Spazio- Corpo-Linguaggio”] cerca di scoprire la visione del mondo nazista. Non vi sono giustificazioni, né approvazioni o negazioni dell'accaduto, anzi. Un'analisi brillante, distanza e scientifica, analizza le attitudini dei nazisti. I confronti sono antitetici: Il mondo della vita dei nazisti contro il mondo della morte degli ebrei; lo spazio di vita contro i campi di concentramento; lo stadio contro il lager e la nuova città tedesca contro il ghetto. Lo spazio- La nuova città tedesca, concepita da Hitler e Speers è stata anche realizzata parzialmente doveva essere una struttura lineare, costituita da strade perfettamente perpendico-
lari, da piazze immense e da costruzioni monumentali. Una perfetta città ariana in cui gli ebrei, con il proprio disordine ed il modo “meno lineare” di vivere non avrebbero avuto un futuro. Ecco perché la concezione dei Lager, delle città a misura di ebreo. Lo stesso il concetto che stava dietro alla concezione dello stadio vissuto non semplicemente come luogo sportivo, ma come il luogo centrale dello sviluppo politico del regno ariano. Un tale luogo di ritrovo doveva essere negato a persone che non conoscevano l'ordine. Anzi i luoghi della “seconda specie” dovevano essere depurati in modo da poter diventare le nuove città ariane, pure e immacolate da influssi estranei, non puri. Il Corpo - Il popolo tedesco era un popolo unito, un corpo unico (Volksleib), mentre gli ebrei rappresentavano il no-body, ovvero l'egoismo puro nel raggiungimento del proprio io, senza rispetto del bene comune. Il contadino tedesco, figura ruspante e piena di salute, veniva contrapposto al materiale umano, al materiale che poteva essere utile per esperimenti ma che non aveva una valenza propria. Sempre in questa ottica il corpo ariano, al contrario del corpo ebreo, era un corpo organico contrapposto ad uno corpo smembrato, ad un corpo schiavo, ad un non-corpo. Il Corpo ariano è un corpo slanciato, chiaro, bello contrapposto ad un corpo piccolo, brutto e goffo. Questa la ragione per cui era praticamente impossibile che il corpo ebreo potesse diventare unico: anche quando migliaia di corpi venivano ammassati nel lager non riuscivano ad avere quel senso di unità e di eternità che il corpo tedesco riusciva ad ottenere nella sua singolarità. Il Linguaggio - L'azione ed in linguaggio d'azione contrapposto alla mancanza di linguaggio; la chiamata contrapposta al silenzio, la propaganda politica paragonata ad un tedesco da lager ed, infine, il tedesco contro una forma approssimativa di linguaggio tedeschizzato. Un aspetto interessante è certamente la depurazione del linguaggio da qualsiasi forma, termine o influenza straniera, compresi termini ricercati. Il linguaggio dell'ebreo al contrario utilizzava troppo termini ricercati impuri. Una lingua senza potenza, senza forza: non corpo e non lingua. Due mondi: due universi. L'essere ed il non essere. Il mondo ariano è sempre in contrasto con il mondo del diverso per eccellenza, l'ebreo. Il risultato è quasi scioccante: Questo essere così diverso dagli ariani, l'ebreo, non è stato vittima potenziale di uno sterminio perché, in fin dei conti, non ha mai fatto parte della vita. I nuovi movimenti neonazisti sembrano condividere ed accettare queste stesse idee, solo che, questa volta non è la superiorità della razza tedesca ad essere estremizzata, bensì quella ariana e la lotta non è contro l'ebreo, bensì qualsiasi persona non ariana. Ma non è l'interesse alla storia a spingerli: piuttosto una sensazione di inadeguatezza ed insicurezza. Una sorta di paura dell'ignoto, un terrore che li porta a dar vita ad una società chiusa, monadica, dalle rigide e chiare regole in sui si possa essere e rimanere protetti ed inattaccabili. La chiusura del gruppo in effetti permette di staccarsi dal resto del mondo e della storia e trovare adepti e fedeli alle tesi xenofobe e razziste.
Progettare l’oppressione: tedesco chiamava “la parola in pietra” vale a dire un vero e proprio strumento di educazione. La propagancittà naziste e neonaziste
di Katia Colica “Costruire un grattacielo, in tempo di pace, è la cosa più simile alla guerra”. La feroce frase del costruttore newyorkese W .A. Starrett dallo stesso pronunciata alla fine dei lontani anni ’30, ci riporta all’interno di una dimensione realistica dell’architettura. E soprattutto pericolosamente attuale. Il fascino del costruire non ha risparmiato quasi nessun dittatore: la pianificazione delle città resta, infatti, uno degli strumenti più usati dai regimi totalitari. Ma per essere coercitivi, abbiamo imparato dalla storia, non c’è bisogno di una patente da tiranno perché la città rimane sempre la piattaforma privilegiata per il lancio di messaggi inibenti e repressivi, e questo può arrivare da qualsiasi forma governativa. L'architettura nazista, ad esempio, ha avuto una parte fondamentale nel regime svolgendo tre ruoli essenziali: il primo prettamente scenico, il secondo orientato alla simbologia e il terzo, ma non certamente ultimo in ordine d’importanza, pedagogico. Attraverso la scena, quindi, si creava un ambiente coinvolgente e suggestivo: gli orpelli, le bandiere e i movimenti corali che si sviluppavano assieme al costruito, generavano un senso di appartenenza che influenzava lo stato d’animo di chi lo abitava. Le celebrazioni creavano uno spazio fintamente accogliente che, allo stesso tempo, sviluppava un legame tra luogo e cittadino. Il secondo ruolo, molto più agganciato alla simbologia, intanto creava uno stile che rappresentava le costruzioni di regime per poi separare in maniera netta l’architettura nazista da quella che non apparteneva al movimento. (…) Chiunque ad esempio volesse giustificare i disegni o le sculture dei nostri dadaisti, cubisti, futuristi o di quei malati espressionisti, sostenendo lo stile primitivista, non capisce che il compito dell’arte non è quello di richiamare segni di degenerazione, ma quello di trasmettere benessere e bellezza. Se tale sorta di rovina artistica pretende di portare all’espressione del "primitivo" nel sentimento del popolo, allora il nostro popolo è cresciuto oltre la primitività di tali "barbari". A parlare è proprio Adolf Hitler durante il congresso sulla cultura; era l’anno 1935. Emerge, quindi, un annullamento di qualsiasi riferimento a forme diverse. E a forme che, soprattutto, sfuggivano facilmente al controllo di regime. Hitler, dunque, guardava alle costruzioni come monumenti della Germania vincente e molti edifici diventavano un vero e proprio simbolo di vittorie; addirittura anche di vittorie ancora non conquistate. La città come documento pubblico di potere. Infine la città diventa quella che il dittatore
da costruita usava anche strategie urbane di repressione e ammaestramento: le città non avevano centri per la vita sociale, non erano troppo estese e presentavano tratti viari poco intersecati per essere facilmente controllabili. L’architetto personale di Adolf Hitler, Albert Speer ha scritto nel 1978 “La mia architettura ha rappresentato un’esposizione d’intimidazione”. Fu processato a Norimberga e fu l’unico ad assumersi la responsabilità morale per lo sterminio degli ebrei. Oggi il modello di gestione urbanistico nazista continua a pagare e si diffonde in maniera più o meno subdola nelle nostre città. Non è inusuale vedere teatralità che si snodano attorno al territorio tramite celebrazioni di carattere bellico ma che si nascondono dietro il paravento dell’onore militare. Il senso di appartenenza che si genera è sempre immutato e inspiegabile: le parate in divisa trasmettono, ancora, un senso di collettività che difficilmente si riesce a riproporre per obiettivi diversi e ben più alti. La seconda fase, quella simbolica, invece ha preso di nuovo piede negli ultimi anni: le città sono sempre più fascistizzate attraverso obelischi, colonne votive, vie e piazze intitolate a protagonisti negativi della storia. Infine la questione urbanistico-
didattica, è sempre più difficilmente percepibile: non ci sentiamo sicuramente educati o privati delle nostre libertà primarie ma non ci accorgiamo che non è un caso se non ci sono quasi più panchine nelle piazze e lungo le vie periferiche; se le forme d’arte non hanno spazi nei quali rigenerarsi; se i luoghi di ritrovo sociale mancano e i pochi che esistono sono riservati ai grandi centri sociali dove ognuno è ben seguito dalle telecamere e allo stesso tempo può compiere il proprio dovere di cittadino-consumatore. O se, ancora, ordinanze comunali sempre più improbabili diventano strumenti di controllo e repressione. (…) Tuttavia noi, che viviamo nel popolo tedesco il risultato finale in questo graduale sviluppo storico, auspichiamo un'arte che anche al suo interno tenga sempre più conto del processo di unificazione di questa compagine razziale e di conseguenza assuma un indirizzo organico ed unitario”. Questo diceva Hitler, imponendo l’annullamento degli stili non dediti alla rappresentazione del suo potere. La città nazista non è semplicemente storia, quindi, ma è ancora vissuta attivamente, da molti di noi, ogni giorno. Inconsapevolmente.
Polonia Nazionalismo radicale in Polonia
di Olga Łachacz (*) Tante organizzazioni intergovernative e ONG celebrano la commemorazione dell’anniversario dell’esodo degli Ebrei in Germania del 9 novembre 1938 come il Giorno della Lotta al Fascismo e all’Antisemitismo. Benché il fascismo e l’antisemitismo siano comunemente biasimati nel dibatto pubblico, in Polonia e in altri paesi dell’Europa Centrale ed Orientale segnati dolorosamente dalla storia, in alcune cerchia rimangono sempre vivi opinioni e stereotipi pericolosi per una società democratica. I gruppi nazionalistici ultrà presentano opinioni estreme, piene di disprezzo e ostilità nonché mancanza di tolleranza nei confronti di altri gruppi etnici, e rimangono attivi in diversi ambienti. Di conseguenza anche i loro seguaci sono eterogenei e provengono da ambienti intellettuali, ma sono anche impiegati nelle aziende o giovani ribelli, tifosi di calcio, skinheads e vandali. Delle organizzazioni di questo profilo, sul territorio polacco, ce ne sono centinaia. Gli uni si radunano ai concerti, manifestazioni e viaggi, altri, invece, agiscono in modo pienamente clandestino, secondo la regola leadersless resistance che consiste in una struttura basata su più cellule isolate tra di loro, ma aventi lo stesso traguardo da raggiungere. Una tale differenziazione dei gruppi neofascistici intralcia la possibilità di esercitare un controllo su di loro e la loro attività si manifesta in modo molto velato e svolta al margine della legge perché si evitano reati gravi, azioni frequenti e ingerenze nella politica. Internet costituisce un medium di prim’ordine nelle attività dei gruppi neofascistici, dove si conducono le campagne propagandistiche, si pubblicano i materiali e le informazioni inerenti agli incontri. I testi pubblicati nei siti Internet pur sembrando, a prima vista, moderati contengono dei link che reindirizzano a pagine web che propagano idee fasciste. L’eliminazione o il blocco dei siti che diffondono opinioni ultrà e glorificano l’ideologia fascista si rivelano soluzioni esclusivamente a breve termine dato che suddetti siti rinascono a tambur battente su server stranieri. Il linguaggio delle pubblicazioni neonaziste si bilancia tra la libertà di parola
costituzionalmente garantita e il divieto, a livello del codice e della costituzione, di diffusione dei contenuti e simboli fascisti. Gli articoli vengono appositamente ideati per essere politicamente corretti, tuttavia il loro contenuto è ben chiaro e non lascia alcun dubbio sull’intenzione del messaggio stesso. L’integrazione nell’ambito dell’UE favorisce l’intensificarsi dei contatti tra le organizzazioni neofasciste polacche e i loro corrispettivi in Europa. I neonazisti galvanizzano un populismo sociale e esortano ad incolpare gli immigrati di tutto, magnetizzando la gente colpita da una crisi economica e da una sensazione di rigetto da parte del sistema. Notizie inquietanti arrivano dalla Svezia, un paese modello della democrazia, dove, però, il numero di organizzazioni neofasciste cresce a ritmo sostenuto in modo inquietante. Negli anni 20072009 sono state fondate 25 organizzazioni di questa matrice e nel 2009 il numero di incidenti che hanno visto protagonisti i neonazisti si è raddoppiato. E’ stato, appunto, un neonazista svedese ad aver ordinato il furto dell’insegna recante la scritta Arbeit Macht Frei dal museo ad Auschwitz nel gennaio del 2009, sperando di poterlo vendere a organizzazioni neofasciste statunitensi allo scopo di finanziare un colpo di stato. Alcune frazioni del movimento neofascista in Polonia rimangono in relazioni con l’organizzazione britannica Combat e tramite ciò anche con l’organizzazione internazionale Blood and Honour. Nel 2003 la polizia polacca affiancata dall’Agenzia della Sicurezza Interna (Agencja Bezpieczeństwa Wewnętrznego) ha effettuato un blitz contro una frazione della Combat 18 che si è rivelata un retroterra poligrafico della squadra d’azione inglese. I gruppi neofascisti radicali cercano anche di agire a livello politico, lottando per il potere, ma per il momento godono di un appoggio scarso, contrariamente ai loro colleghi tedeschi che sono riusciti a vincere qualche seggio nell’amministrazione locale. Tra i gruppi neofascisti ultrà attivi sulla scena polacca possiamo annoverare Rinascita Nazionale della Polonia (Narodowe Odrodzenie Polski) che finora non è stata in grado di far entrare i suoi rappresentati né nel Parlamento né nell’amministrazione territoriale. I rappresentati di questo partito, assieme ai loro colleghi dalla Spagna e dall’Italia, hanno partecipato alla fondazione del Fronte Nazionale Europeo, un’internazionale fascista, (Europejski Front Narodowy) nel 2005. Un altro gruppo, rimanente al di fuori del panorama politico, che opera come associazione, si chiama Blocco Nazionale-Radicale ed è un’organizzazione giovanile, oggetto di frequenti critiche per la propagazione delle idee totalitarie, delegalizzata nel 2009. Nonostante il fatto che nessuna di queste organizzazioni abbia possibilità di creare una forte rappresentanza politica a livello nazionale, esistono tanti partiti politici aperti agli attivisti originari da gruppi di questa matrice. (traduzione: Anna Górska) (*) Scuola Superiore di Polizia a Szczytno
I movimenti nazionalisti e destra, il PFN (Fronte Nazionale Polacco), invitò in Polonia Wladmir Zyrynowski, il capo dei nazionalisti nazifascisti in Polonia
di Izabela Anna Szantyka Seguaci e praticanti del discorso dell’odio; artisti ribelli, politicamente e socialmente coinvolti che lasciano le loro opere d’arte sotto la forma degli slogan offensivi sui muri degli edifici, vetri delle fermate degli autobus e sul marciapiede; provocatori dei tumulti in occasione della marcia dell’indipendenza da loro organizzata; accusati di diversi atti di vandalismo e banditismo commessi negli stadi e per strada; omicidi ... Tutto quanto in nome della xenofobia, dello sciovinismo nazionale, del razzismo, dell’antisemitismo, dell’omofobia e finalmente dell’antifemminismo. Missione: scrostare dallo Stato quel “fango” di chi ha il coraggio di vivere, amare, credere e pensarla diversamente ed eliminare il nemico pubblico, del quale ebrei, “asfalti”, immigrati, “finocchi”, femministe, pacifisti, anarchisti ed estremisti di sinistra costituiscono un’incarnazione collettiva. Tutto quanto in nome del bene della patria... I movimenti nazionalisti e nazifascisti stanno bene e, apparentemente nascosti ai margini della vita politica e sociale, bordeggiano abilmente tra Costituzione, uffici del Pubblico Ministero, tribunali, poliziotti e servizi segreti. Teste rasate, stretti pantaloni neri, massicce scarpe militari e quelle giacche nere foderate di color arancione – questi sono i soldati, specializzati nelle risse e aggressioni; l’élite, ovvero gli intellettuali che assicurano al movimento le pseudoscientifiche teorie razziali e l’accesso al sapere accuratamente dissecato, si presenta in giacca e cravatta. Il recrutamento dei nuovi membri si svolge conformemente alle regole della democrazia: guarda caso, non viene discriminato nessuno. Vengono a rinforzare le file di questi movimenti, molto disciplinati e ben organizzati e strutturati, i teppisti e vandali comuni, i giovanotti arrabbiati e frustrati dalla vegetazione in disoccupazione nei vecchi palazzi che ricordano il regime comunista, i liceali, gli studenti, gli impiegati per bene e perfino i professori universitari. Il numero più grande di adepti proviene dalle grandi città e dalle piccole cittadine. Tutto iniziò verso la fine degli anni ’80 con la fondazione, ispiratasi alle analoghe organizzazioni inglesi e tedesche, di una frazione ultranazionalista del movimento nazi-skins che si diramò in tre opzioni: cattolico-conservatrice, nazista e neopagana (“nordica” e “slava”), tutte e tre unite da tre principi (antisemitismo, razzismo e sciovinismo). Il potenziale del movimento fu notato dall’exleader del PSN (Partito Nazionale Polacco), che nell’aprile del 1996 organizzò sul terreno del campo di concentramento di Oświęcim una manifestazione, il cui leitmotiv fu lo slogan “Ebrei, via dal governo!”. Successivamente, il leader di un altro partito di estrema
russi. Il partito disponeva delle proprie forze dell’ordine, battezzate “Legione Polacca”, vestite nelle divise ispirate a quelle delle squadre d’azione dell’anteguerra ONR, armate di mazze da baseball e responsabili della morte di due persone nel 1995 a Legionów. Tra le organizzazioni definite comunemente come nazionaliste e nazi-fasciste ed attive fino ai nostri giorni il posto speciale è occupato dalla MłodzieŜ Wszechpolska (Gioventù Onnipolacca) e dal NOP (Rinascimento Nazionale della Polonia). La prima, fondata nel 1989 dall’iniziativa dell’ex-leader del partito di estrema destra, la LPR (Lega delle Famiglie Polacche), si specializza nell’organizzazione di diverse manifestazioni di protesta contro le minoranze sessuali e in difesa della “vita concepita” e si definisce come un movimento sociale ideologico-educativo. Fino al dicembre del 2006 la Gioventù era stata considerata retroterra giovanile della LPR (che durante le elezioni parlamentari del 2005 usava sostituire i propri attivisti con gli onnipolacchi), dopo quella data e diverse notizie di stampa sulla partecipazione di alcuni MW alle feste neonaziste, la Lega ha dichiarato la rottura dei contatti e ha fondato il Movimento dei Giovani della LPR. Il NOP, invece, è stato creato nel 1981 e dal 1992 è registrato come un legale partito politico (per le elezioni di quest’anno ha presentato i candidati in sette voivodati). Secondo il leader, uno storico della Chiesa Cattolica, i principali nemici della nazione polacca sono gli ebrei, i postcomunisti e i “demoliberali” che vanno combattuti dai suoi soldati politici, i “Nuovi Uomini”. Il movimento, antieuropeista e antiamericanista, rivendica “la Polonia per i Polacchi”, glorifica la superiorità della razza bianca e pretende un governo di man forte. Sul loro sito si possono acquistare riviste e libri nazionalisti ed antisemiti, magliette, poster, CD e cassette della musica “white power”. Un altro fenomeno è il reparto polacco dell’organizzazione terroristica inglese, Combat 18 (conformemente alla simbolica neonazista, i numeri 1 e 8 costituiscono la versione codificata del nome e cognome del führer), l’organizzazione affine Blood and Honour e la Chiesa del Creatore (quest’ulima aspira allo status dell’organizzazione religiosa). La domanda che si pone è la seguente: come mai, visti gli articoli 118, 119, 256 e 257 della Costituzione polacca, questi movimenti crescono in potenza, raramente disturbati dalle forze pubbliche? Queste ultime minimizzeranno il problema, credendo candidamente nell’irrilevante dannosità sociale delle azioni intraprese da questi gruppi? O forse quel che li permette di permanere e crescere, a parte l’accesso libero ad Internet e la possibilità di usare i server stranieri, è l’atteggiameno inerte ed indifferente della maggior parte della società polacca? Nel mio lavoro mi sono ispirata ai contributi di Marta Polaczek (“Neofaszyzm w Polsce – geneza, charakterystyka i zagroŜenia”) e di Lech M. Nijakowski (“Neofaszyzm za rogiem”), ambedue disponibili sul sito www.11listopada.org
di tutti, 21 posti su 240 nel Parlamento bulgaro. Bulgaria I nuovi estremisti del post comuni- Siderov lo trasforma in un partito di destra e lui si presenta come un leader nello stesso modo di Hitsmo in Bulgaria /1989-2010/
di Charalampi Baev (*)
Negli Stati dell’ex impero sovietico, inclusa la Bulgaria si rafforzano antiche fedi nazionaliste e tribali, intolleranti e nemiche dei principi democratici. Così, sulle bandiere, simboli neonazisti e falci col martello si ritrovano alleati contro il comune nemico occidentale. In Bulgaria sta apparendo il pluralismo politico dopo 1989 con diverse ideologie, diversi partiti politici. Il fascismo non era mai tanto popolare nel paese. Non è facile orientarsi fra partiti antisemiti e xenofobi come i partiti di destra ed estremi-nazionali. Un esempio interessante con il partito turco che si dichiara neofascista / panturca e neoottomana/, una formazione di diritti e libertà, ma in realtà si presenta molto liberale, anzi fa parte dell’Internazionale liberale..... In Bulgaria ci sono due periodi distinti nello sviluppo del neofascismo: prima e dopo 2005. In questo periodo il partito neofascista più forte dell’estrema destra è il partito Nazionale Radicale, con leader il dottore Ivan Gueorguiev. Caratteristica comune a tutti i movimenti radicali è l’ossessione del nemico. Anche questo partito lotta per i diritti dei bulgari ovunque nel mondo e dentro il paese contro i turchi e gli zingari. Questo partito si presenta anche alle elezioni parlamentari e ha suo giornale “La voce bulgara”. Fino al 2007 è minoranza nelle amministrazioni comunali. Dal 1993 come portavoce del neofascismo in Bulgaria si presenta il famoso padre Gueorgui Guelemenov. Noto nell’ambiente degli skeanhad e nella stampa lui non ha grandi successi. Un vero leader degli skeanhad è stato Boian Rasate, ex-membro del partito radicale e fondatore dell’ Unione nazionale bulgara. Questa si presenta come l’unica formazione neofascista bulgara con una sua propria divisa bruna. Dal 2005 questo partito gravita intorno all’”Ataka”, ma non è presente nella gestione del paese. Nel 2005 nasce il partito “Ataka”, poco amichevole anche nei confronti della minoranza turca. Per le elezioni parlamentari nel 2005 i nazionalisti di sinistra fondano la formazione “Ataka” con leader Volen Siderov. “Ataka” guadagna, con grande sorpresa
ler. Nel 2009 “Ataka” alle elezioni parlamentari ottiene un successo e attualmente è in coalizione con il partito del governo GERB/Cittadini per lo sviluppo europeo della Bulgaria/. Dal 2007 “Ataka” è presente anche al Parlamento europeo ed è membro del così detto “Internazionale bruno/nero/”. Dispone di un canale televisivo “Skat”. Il leader Volen Siderov è l’analogo bulgaro di Jean- Marie Le Pen e Gianfranco Fini. Il partito turco è fondato nel 1990 sulla base dell’organizzazione terrorista “Mano turca”. Il suo leader Ahmed Dogan riesce, molto abilmente, dal 1990 a partecipare nel governo dello Stato. Il neofascismo in Bulgaria è nazionalista, antiturco e antirom. L’antisemitismo non è tanto popolare e si presenta unicamente con il libro “La cospirazione mondiale”/1990/ dello scrittore Nikola Nikolov.
Attualmente più importanti di tutte le formazioni sono “Ataka” e DPC /il partito turco/. In conclusione si potrebbe dire, che il nazionalismo ha due facce: può portare sia a un risorgimento democratico che a un tribalismo persecutore delle differenze. E da notare che, uno degli strumenti di analisi più interessanti del mondo centro-orientale è : «Il materiale da costruzione di questi partiti e movimenti estremisti si articola su temi ricorrenti, come xenofobia, neofascismo, antieuropeismo, fondamentalismo religioso. A seconda che si caratterizzino per la compresenza di tutti questi elementi o solo di alcuni. E’ possibile distinguere fra movimenti di ascendenza neofascista (generalmente marginali nella vita politica) e partiti populisti, capaci di entrare in coalizioni di governo». (*) Docente e scrittore, Yambol , Bulgaria Traduzione di Rosi Taskova
percepito come un attacco. Per potersi considerare Svizzera Le pecore nere e la Sviz- vittima di razzismo pare che lo straniero debba talvolta essere personalmente puntato a dito e insultato, oppure zera verde picchiato. Non basta che pubblicamente, qualcuno che
di Paolo Barcella (*) "Emmanuel Kigabo [cittadino del Burundi di 23 anni] vive a Ginevra da cinque anni e non era mai stato vittima di episodi razzisti in precedenza. Fino allo scorso 8 agosto, quando, insieme a due amici, è stato vittima di un’aggressione tanto violenta quanto gratuita". Intervistato dal quotidiano Emmanuel dichiarava "sono ancora sotto choc, e non esco più molto volentieri di casa, confida quindi. Vivo da cinque anni a Ginevra e non ero ancora stato vittima di razzismo nemmeno verbale" [Le Matin Blue, 17 agosto 2007]. Quando il giovane africano affermava ciò, era da poco iniziata la campagna referendaria del partito dell’estrema destra xenofoba svizzera, l’Unione Democratica di Centro, con la quale si richiedeva l’introduzione delle misure legislative necessarie a permettere l’espulsione di stranieri colpevoli di avere commesso reati. Nel manifesto e sui volantini circolanti nella Confederazione da alcune settimane, venivano proposte bizzarre percentuali di alcuni reati violenti, suddivisi in base alla provenienza del loro responsabile: da quei dati, ricavati secondo i sicofanti di Blocher dagli archivi della polizia federale, si sarebbe dovuto dedurre il rapporto naturale e necessario tra le categorie “crimine” e “straniero”. Inoltre, una vignetta presentava tre pecore bianche, su suolo svizzero, di cui una scacciava e allontanava dal territorio confederale la pecora straniera, nera nel disegno. Nei termini barbaramente banali con cui cercava di presentare un problema e di proporre delle misure correttive, il manifesto era senza dubbio razzista, nel senso che, sulla base di dati falsi o distorti, rappresentava il diverso come criminale a priori e poneva lo straniero, soprattutto quello evidente a causa del colore della pelle, nelle condizioni del presunto colpevole per natura. I dati dell’UDC parlavano chiaro: più dell’ottanta per cento degli stupri, apparivano commessi da stranieri, dunque in quanto tali potenziali stupratori, rappresentati in un disegno con la tonalità del nero. Falso, come qualunque ricerca di settore sulle violenze sessuali, in prevalenza compiute tra le mura domestiche, può attestare. Emmanuel c’era e ha senz’altro letto i volantini e i manifesti dell’UDC, eppure il 17 agosto diceva di non essere “mai stato vittima di razzismo, nemmeno verbale”. La sua esperienza evidenzia come l’atteggiamento ostile, razzista, di interi settori sociali, benché manifesto e reso pubblico da mezzi di comunicazione e dalle polemiche politiche, può apparentemente non essere
rappresenta una grossa percentuale della società in cui vive, dica che la categoria di persone a cui appartiene è costituita da potenziali criminali, potenziali stupratori e, dunque, portatori di una sorta di peccato originale. Non basta che la città in cui vive sia tappezzata sa manifesti che abbiano quel sistema di pensiero razzista tra le proprie linee guida. In questo senso, Emmanuel avrebbe trovato l’accordo dei rappresentanti dell’UDC. Secondo costoro, infatti, il manifesto non aveva carattere razzista, come non ha carattere razzista il partito. La scelta del nero per la pecora e il suo portato simbolico erano puramente casuali. Il partito, effettivamente, non è dichiaratamente una forza di estrema destra nostalgica, o neonazista (per quanto nel nome svizzero-tedesco del partito riecheggino sonorità anni Trenta: Schweizerische Volkspartei). Fa parte dei partiti che gli stessi svizzeri definiscono borghesi ed è il prodotto della fusione ideologica di due correnti politiche principali: il conservatorismo delle aree rurali; e la destra che si sviluppò nelle grandi città a partire dagli anni Sessanta, fondendo istanze diverse, di carattere liberista, libertario, xenofobo, ad ogni modo prodotto di ambienti urbani e industriali. La sua verità politica profonda, si cela tuttavia nelle logiche che hanno guidato la produzione dei manifesti xenofobi negli ultimi anni. L’UDC dal 2007 è il primo partito elvetico, avendo ottenuto più del 29% dei voti. Se esiste in Svizzera il problema della diffusione di forze xenofobe, populiste di estrema destra, senz’altro è qui che occorre guardare, al di là del loro velo pacificoborghese, e non ai gruppuscoli di nostalgici neofascisti i quali, più che problema politico, sono un problema di ordine pubblico. (*) Paolo Barcella è cultore di storia dell’America del Nord e assegnista di ricerca, presso l’Università di Bergamo, e collabora con la Fondazione Pellegrini Canevascini di Bellinzona. Si è dottorato in Storia contemporanea con un progetto di ricerca in cotutela tra le università di Genova e di Losanna, sul tema delle migrazioni italiane nella Svizzera del Secondo dopoguerra. Si occupa, inoltre, di storia locale bergamasca e di culture politiche di estrema destra tra l’Italia e la Svizzera.
Europa: allarme neonazismo
di Linda Chiumiento <<Non si può discendere due volte nel medesimo fiume e non si può toccare due volte una sostanza mortale nel medesimo stato, ma a causa dell’impetuosità e della velocità del mutamento essa si disperde e si raccoglie, viene e va>>. In definitiva, ci insegna Eraclito, che tutto si modifica e nulla rimane uguale a se stesso. Nella trasposizione di questa filosofia arcaica in un excursus sui movimenti che si aggirano nella società attuale si possono, forse indirizzando in maniera innaturale l’evoluzione del ragionamento eracliteo, catalogare entità che scompaiono nei meandri della storia, entità che si destrutturano sino a modificarsi radicalmente ed infine, entità che semplicemente si mimetizzano con fare camaleontico, senza mutare d’abito, rimanendo intimamente se stesse. In quest’ultimo caso, ci si riferisce a un fenomeno sociologico oramai ritenuto esiliato in un passato schiacciato dal consolidamento dei moderni assetti statali e dalla costituzionalizzazione di principi inviolabili: allarme neonazismo. Nel caotico contesto politico italiano, se pur con sporadiche importazioni neonaziste di origine teutonica, la declinazione di questo nuovo, ma sempre vecchio, fenomeno è stata da sempre di matrice fascista. La parola d’ordine dei fascisti del terzo millennio è ‘pulizia’: l’occultamento dei simboli e dei linguaggi direttamente collegabili al ventennio attraverso lo scimmiottamento del mondo tipico della sinistra antagonista. A tal proposito, Marco Phillopat afferma che <<i neo fascisti di questa nostra Italia contemporanea stanno copiando a man bassa dall’immaginario ribelle di oltre vent’anni fa,cercano di confondere le idee, di spargere cortine fumogene per nascondere scopi opposti a quelli storici dell’underground e dell’ambiente contro culturale. Giocano sull’inganno per accecare tutti coloro che si ritrovano immersi in una realtà disperata: in casa, in quartiere e nella città>>. Specularmente, nel resto d’Europa e sino a toccare i territori dell’ex Unione Sovietica, la corrente neonazista mira a gettare terra negli occhi alla memoria storica collettiva. L’ultradestra, infatti, ostenta un connubio stridente tra il proprio retaggio nazista e le campagne su tematiche sociali contingenti: xenofobi, negazionisti, nazionalisti, omofobi e allo stesso tempo contro la globalizzazione, la crisi, la precarietà lavorativa, la difesa delle origini cattoliche e delle istanze relative agli <<interessi locali, fomentando le paure e i pregiudizi>>. Il politologo Giorgio Galli <<ha osservato che la destra radicale è antiglobalizzazione e in alcune sue enunciazioni si propone come una grande epo-
pea anticapitalista. Stiamo attenti, sono posizioni che hanno una forte capacità di impatto, è un fenomeno embrionale e si evolverà in base alle vicende del XXI secolo>>. Un’ulteriore aspetto è quello del rilancio dei simboli storici del nazismo: confusione, svuotamento apparente dell’attributo politico e normalizzazione del loro utilizzo. In Polonia, la propaganda nazista ha trovato un vero e proprio mercato: <<La Polonia è il maggior produttore in Europa di propaganda nazista, poiché non è proibito il commercio di oggetti legati al nazionalsocialismo, ma la loro distribuzione a scopo politico>>. In Germania, invece, il neonazismo mira ad infiltrarsi nella sottocultura giovanile legata all’ambiente gotico, attraverso lo sdoganamento di simboli dal duplice significato: ad esempio, il “Sole Nero”, che nella cultura orientale è sinonimo di fertilità, mentre nelle cicatrici della storia del novecento è simbolo di follia, sterminio e totalitarismo. Uno dei protagonisti della scena gotica tedesca, Mortanius, afferma che <<i nostri simboli in realtà non hanno niente a che fare con il Terzo Reich…Voglio distinguermi dalla massa dei normali dark, wave, folk. Non voglio essere un gotico ordinario. Voglio provocare la gente>>. In realtà se i giovani <<impareranno ad accettare certe ideologie e simboli come una cosa normale, l’estrema destra avrà fatto significativi progressi verso ciò che Scobert afferma essere il suo scopo a medio-breve termine: “la rimozione dei tabù verso i simboli nazisti e l’ideologia razzista e nazionalista”>>. L’elemento da indagare non è tanto, e semplicemente, quello attinente alle peculiarità assunte dal neofascismo e dal neonazismo al giorno d’oggi, quanto quello relativo alle cause che stanno alla base della loro progressiva riaffermazione, tanto in contesti istituzionali tanto in contesti extraparlamentari. In quale humus politico e sociale sta resuscitando il neonazismo? <<La novità è che la società, con la sua assenza di cultura, non riesce più a mettere degli argini naturali in grado di isolare questa gente, di sottrargli spazio, terreno, coltura>>. Il perno dell’esame si incardina sulla indotta debolezza ideologica e culturale in cui versa la popolazione che è stata resa incapace di effettuare una valutazione critica su quanto la circonda: trasversalismo e svuotamento del significato della storia, unito alla incapacità della politica di fornire risposte immediate su problemi concreti. Il rischio reale non è quello di un ritorno violento del nazismo, ma quello di una sua progressiva normalizzazione e immissione subdola nella vita quotidiana.
Spagna L’etnicismo come spettro contemporaneo del razzismo
di Giuseppe Aricò (*)
cato storico e politico. In modo spesso equivoco, con tale termine non solo si suole definire ogni atteggiamento razzista e xenofobo, ma si tende anche a trasformare un vocabolo riferito a una precisa esperienza storica in un'ipotetica categoria sociologica. La storiografia insegna che è indispensabile situare storicamente le dinamiche che attengono ai movimenti politici in generale. Si tratta di riconoscere come nei confronti delle politiche nazifasciste la riflessione sia stata così spesso marcata dal concetto di razzismo, che si è finito col dimenticare quali siano le cause e le condizioni socio-culturali che ne permettono l’affermazione all’interno delle società. Il risultato è stato quello di naturalizzare un attegiamento, e di indulgere in letture semplicistiche delle modalità di costruzione di un “sentimento xenofobo” che non affetta solo il pubblico o il privato, ma in maniera trasversale anche l’insieme dell’apparato istituzionale. Non vi è dubbio che razzismo e xenofobia s i a n o caratteristiche tipiche di qualsiasi partito o gruppo nazifascista, ma credo che oggi non sia piú tanto la razza quanto l’etnia ad essere stata convertita nel fondamento teorico del nazifascismo contemporaneo. Anche se ufficialmente e pubblicamente scartata come categoria di ascrizione, l’idea di razza continua a far parte dell’immaginario dominante grazie all’uso dell’etnia come una lente privilegiata, attraverso la quale l’appartenenza alla condizione sociale degli individui viene disugualmente determinata. Lungi dall’essere un ricordo appartenente al passato, lo spettro del razzismo biologico riecheggia tuttora nelle cosiddette società civili, rivelando la persistenza di un fenomeno che non è per nulla mutato. Ciò che è cambiato sono solo le forme attraverso le quali la xenofobia viene perpetuata, e forse dovremmo cominciare a pensare alla minaccia di un nuovo razzismo: l’etinicismo.
Parlare di nazifascismo richiederebbe, in primo luogo, una precisa contestualizzazione storico-politica. Non dimentichiamo che, benché non costituisca un fenomeno esclusivamente europeo, il nazifascismo ha avuto origine in Europa come conseguenza della grave crisi politica ed economica seguita alla prima guerra mondiale. In questo sconvolgimento sociale, dove l'inefficienza economica favorì lo sviluppo di un sistema politico ostile alle istituzioni liberali e parlamentari, il rafforzamento dei partiti di massa nell’Italia di Mussolini e nella Germania di Hitler giunse al proprio apice. Tuttavia, fu solo con la nascita dell'asse RomaBerlino che il nazi-fascismo cominciò ad essere noto a tutti gli effetti come “movimento”. Con l’intenzione di propagare nel mondo democratico la propria dottrina, il movimento nazifascista articolò una forte propaganda che rivelò presto l’aspetto peggiore della sua aberrante ideologia: il razzismo. Vero e proprio fondamento dottrinale del movimento, il razzismo funzionò come concetto cardine dell’ideologia nazifascista basandosi sull’idea di una presunta superiorità della razza ariana. Giá da molto tempo le scienze bioantropologiche sono giunte alla conclusione che non esistono razze pure, e che la razza è un concetto schematico. La stessa Europa è stata ricettora durante secoli di una gigantesca confluenzia di razze, culture e civiltà che priva di qualsiasi scientificità le teorie razziali del nazifascismo. Affrontare la questione delle razze nella storia dell’uomo implica, piuttosto, considerare la duplicità che è propria e inerente ad ogni individuo. L’essere umano possiede una natura animale e una natura sociale, frutto di migliaia di anni di evoluzione storica: una duplicità che esige essere studiata tanto antropologicamente quanto socialmente. Non è la razza, ma la condizione sociale ad essere decisiva nell’individuo, ragion per cui la storia della società si differenzia radicalmente dallo sviluppo del mondo naturale in cui si situa la storia dell’uomo considerato antropologicamente. Al contrario, la teoria razziale riduce l’uomo alla sua condizione meramente animale, dimenticando la sua condizione di essere eminentemente sociale, che vive ed agisce in un mondo creato da lui stesso e che si regge sulle proprie leggi. E non è un caso che qualunque teoria razzista si opponga a tali leggi o prescinda da (Fonte foto: http://www.adpunch.org) esse, come lo fece il nazifascismo in forma radicale. Tuttavia, nel linguaggio contemporaneo il termine nazifascismo ha finito per acquistare un valore pole- (*) Dottore in Antropologia, Università di Barcellomico e spregiativo, spingendosi al di là del suo signifi- na)
Ricordiamo che secondo alcuni studiosi come ad eGruppi on line: frammenti di umanità sempio Lewin, Tajfel e Sherif : un gruppo è un insie-
di Valentina Arcidiaco (*)
“La forza è nelle differenze, non nelle similitudini" Stephen Covey (scrittore)
me di persone che sono accomunate da interessi comuni e che perseguono lo stesso scopo (teoria del destino comune); nutrono sentimenti reciproci e si identificano secondo le regole e gli stili del gruppo. Ad esempio il Popolo Viola si è sviluppato grazie al web, unendo persone che condividono gli stessi pensieri riguardo alla situazione attuale dell’Italia,con uno scopo ben specifico e soprattutto non riconoscendosi come partito politico ma come gruppo o rete di persone, al cui interno esistono anche microgruppi rispetto alle zone di residenza. Così grazie a Facebook , attualmente il social network più usato al mondo, il popolo viola è stato definito un’onda che ha travolto miglia di persone che dall’aggregazione virtuale è passata alle manifestazioni reali. Se il Popolo Viola, è un gruppo di persone che agisce cercando di far conoscere e di dialogare con lo stato, ed ha usato la rete per diventare una “RETE” nel web un altro fenomeno che ha attirato l’attenzione dei quotidiani e in primis gli organi di sicurezza sociale sono stati i siti e i profili facebook per il reclutamento di persone basati su ideologie politiche relative ai neofascisti, dove le idee politiche vengono riprese ed adattate, assumendo il nome di “Fascisti del terzomillenio” o movimento “Fuori dalle Fogne”. Questa massa di persone riesce nella rete ad unirsi e a condividere gli stessi interessi quindi formando dei veri e propri gruppi sulla base di ideologie fasciste con nuovi intenti riguardanti lo stato, la razza e la discriminazione razziale. L’aggregazione e il gruppo quindi può varie sfaccettature sia a livello politico che al livello sociale, una delle problematiche psicologiche che ci riguarda da vicino è come l’aggregazione in rete rinforzi l’idea di gruppo e come nonostante le distanze riesca a rendere questi nuovi tipi di gruppi politici e non, forti e solidali ma anche autonomi nella globalità della rete. La folla, i gruppi mediatici sono diventati molto più forti dal punto di vista psicologico, essi sono accessibili da dietro lo scherzo e rendono le persone libere di poter esprimersi apertamente, spesso con orientamento diverso dalla realtà, ecco che rispunta l’intramontabile “Uno, nessuno, centomila” di Pirandello che rende sempre più spesso l’idea dell’identità sociale come una personalità frammentata e confusa che preferisce essere nella massa piuttosto che avere una propria identità politica e soprattutto sociale. Ritornando alla frase riportata in cima a questo articolo “La forza è nelle differenze, non nelle similitudini", interpretandola come un individuo pur appartenendo ad uno dei tanti gruppi, dovrebbe riconoscere la forza nella sua differenza sia di pensiero che di personalità.
Ormai viviamo in due mondi paralleli, è un dato di fatto che il 2010 ha sancito ormai l’informatizzazione della vita reale. Pagamenti, gestione ufficio, amicizie, amori ma anche enciclopedie, documentari, curiosità praticamente quello che non si trova nel reale si riesce a trovare nel virtuale. Ognuno di noi vive una quotidianità reale fatta di interazione sociale faccia a faccia, e parallelamente naviga nella realtà virtuale formando ed avendo sempre p i ù spesso gruppi c h e n o n sempre sono concomitanti nelle d u e realtà. Per far capire meglio, mentre nella realtà possiamo partecipare a gruppi sociali o politici – culturali nel web ancora possiamo assumere un'altra valenza non solo personale ma anche ideologica. In mente ci sono venuti due fenomeni che alcuni mesi fa hanno sommerso le testate giornalistiche più popolari: il popolo viola e i nuovi gruppi neo-fascisti. Ora benché siano due fenomeni differenti sia per ideo- (*) psicologa logia che per genere entrambi hanno usato e usano i gruppi on line (tramite social network) per formare gruppi, scambiarsi idee e creare eventi reali.
Informazione e disinfor- quando il processo vero approderà al suo esito giudiziario, la sentenza, se conforme all’esito della rappremazione Intervista a Corrado Calabrò, Presidente dell’Autorità per le garanzie nelle Comunicazioni a cura di Giorgio Neri Dr. Calabrò, perché un tema così inconseguente, tra informazione e disinformazione. “Quando si parla di rappresentazione e realtà, parliamo di una distinzione che si fa a proposito della rappresentazione letteraria. Oggi assistiamo ad un altro tipo di rappresentazione, ben più massiccia, invasiva, suggestiva, la rappresentazione televisiva. La caduta del muro di Berlino; l’immigrazione dai Paesi vicini e meno vicini; i comportamenti sociali e sessuali ; il modo di vestire; il modello esibizionista della donna di successo, come ad esempio le veline televisive; sono tutti accadimenti e comportamenti indotti dalla televisione. Insomma, si potrebbe realizzare il paradosso che la verità reale diventi, rispetto a quella televisiva, secondaria, irrilevante, pagine interne , secondo il gergo dei giornalisti dei quotidiani”. Mi può fare un esempio concreto, recente di verità televisiva sovrapposta alla rappresentazione reale? “Si. La trasformazione dei processi giudiziari in processi mediatici. Un fatto del genere è avvenuto di recente. Anzi, è ancora in corso. Penso alla vicenda di Avetrana che si è trasformata in un ennesimo esempio di televisione del dolore e voyerismo macabro in cui si è assistito alla diffusione di indiscrezioni, compresa la registrazione audio degli interrogatori resi dagli imputati, e di illazioni che pongono sotto nuovi aspetti non solo il problema della tutela della dignità umana ma anche quello della protezione dei minori. Il doveroso e ineludibile diritto di cronaca non deve travalicare il limite del rispetto della delicata fragilità emotiva legata alla fase di crescita dei minori. La reiterazione ossessiva delle immagini, l’affastellarsi di ipotesi delittuose, alimentano incertezza e smarrimento nel pubblico minore all’ascolto, tanto più se in fascia protetta. Nel caso di Avetrana, per esempio, trasmissioni di grande appeal hanno trasmesso in forma spettacolare vere e proprie ricostruzioni di vicende giudiziarie, impossessandosi di schemi, riti e tesi tipicamente processuali, che sono stati così trasmessi con tempi, modalità e linguaggio propri del mezzo televisivo: che è un linguaggio sincopato, non funzionale all’argomentazione. Si è dato vita ad un “foro” mediatico alternativo alla sede naturale del processo, dove si assiste ad una specie di rappresentazione paraprocessuale che tende a pervenire, con l’immediatezza propria della comunicazione televisiva, ad una sorta di convincimento pubblico, in apparenza degno di fede, sulla fondatezza o meno di una certa ipotesi accusatoria. In tal modo la televisione rischia seriamente di sovrapporsi alla funzione della giustizia, con la conseguenza che
sentazione televisiva apparirà nient’altro che la tardiva rimasticatura di quell’esito tempestivamente raggiunto e, se difforme, verrà contaminata dal sospetto di una distorsione del giusto verdetto che, per buona parte dei telespettatori, rimarrà quello del processo celebrato in Tv. In definitiva, c’è una sorta di “giudizio sommario in diretta” che può diventare già esso stesso una condanna preventiva, inappellabile ed indelebile. Una gogna mediatica senza appello e senza riabilitazione”. E che dire dell'uso politico della televisione? “Da noi i telegiornali restano determinanti per orientare il voto. Secondo una rilevazione del Censis, per le elezioni europee del 6-7 giugno 2009, il 69,3% degli elettori si è formato la propria opinione attraverso i telegiornali e il 30,6% attraverso i programmi di approfondimento, sempre in tv. Importanti decisioni del Governo, o significative iniziative legislative, sono ormai costantemente anticipate dalla televisione. C'è una sorta di sostituzione della funzione del Parlamento da parte di trasmissioni televisive di larga audience. Non male, dirà qualcuno. Siamo tornati alla democrazia diretta dell'Atene di V secolo avanti Cristo. La televisione è l'agorà mediatica dei nostri tempi. Ma non è così. Nell'agorà ogni oratore poteva svolgere la sua tesi, argomentare, controbattere. Qui il telespettatore è solo un recettore, non un attore, e men che mai un protagonista del dibattito; senza dire che il Tv chi mena il gioco è il conduttore il quale non sempre è imparziale (e talvolta è tendenzioso)”. Insomma, viene condotto un abile condizionamento del pubblico... “Si, la televisione conforma il pubblico dibattito e, in ultima analisi condiziona la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica. Ha una funzione di traino, ma oggi – credo – non nella direzione auspicata. L'orientamento politico della popolazione risente del modo in cui i fatti vengono porti in televisione. I talk show deprimono i contenuti, li riducono a slogan, uccidono la politica”. O la orientano secondo le attese del pubblico... “La televisione equivale ad una patente di esistenza non solo per i fatti, ma anche per gli individui. Oramai chi non appare in televisione non immagine, non ha consistenza, non ha identità; per cui si ricorre agli espedienti più smaccati per far apparire uomini politici negli spettacoli di intrattenimento, molto più seguiti delle tribune politiche. Non ha importanza quello che dice, in quel contesto, l'esponente politico. Essere un personaggio così noto da essere ripreso in televisione, perfino allo stadio: questo è quello che conta, questo è quello che rimane impresso nell'immaginario colletti-
vo”. E in tutto questo quali sono state le decisioni dell'Autority da lei diretta? “La via che l'Autorità ha sempre privilegiato è quella d'autogestione. Nel maggio dello scorso anno, su impulso dell'AGCOM, è stato sottoscritto un accordo per l'adozione di un codice di autoregolamentazione sulla rappresentazione dei processi in Tv, da Rai, Mediaset, Telecom, dalle organizzazioni associative delle emittenti televisive, dall'Ordine dei giornalisti e dalla Federazione nazionale della stampa, col supporto tecnico degli esperti designati dall'Autorità. Una iniziativa molto apprezzata; anche il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in occasione dell'ultima cerimonia di consegna del Ventaglio ha sottolineato la valenza e la significatività del codice di autoregolamentazione da noi promosso. Il codice riafferma l'esigenza di attenersi alla veridicità, alla completezza, all'imparzialità ed al rispetto del contraddittorio, verificando e garantendo che i fatti e le circostanze rappresentati trovino rispondenza obiettiva in fonti suscettibili di riscontro, secondo le varie fasi delle indagini o dei processi”. Lei, oggi si è soffermato anche sul fenomeno “Internet”, che rischia di soppiantare la televisione? “Non è affatto un caso l'attenzione che sta ricevendo in questi giorni l'alleanza tra Google, Sony ed Intel per sviluppare congiuntamente un set top box che permetta la fruizione di contenuti web come youtube e i social network attraverso la televisione. I ragazzi tendono sempre più ad utilizzare il computer per guardare la televisione; si fanno il loro palinsesto. Col computer si fa di tutto: si chatta, si stabiliscono relazioni, si prenotano treni, alberghi, vacanze, ci si erotizza, si gioca. Oggi, un giovane di Gallico o di Siderno, tanto per restare nel nostro territorio, può giocare ai play-games con un giovane di taiwan, di Kansas City o di Calcutta. E può darsi che conosca il suo interlocutore informatico meglio del ragazzo della porta accanto. Il successo di tanti siti come Facebook o Twitter è la prova di quanto nla socializzazione avvenga per via informatica e di come le comunità virtuali che così si formano siano più coese e interattive di tante basate sulla frequentazione diretta. In meno di 40 anni internet è diventata una infrastruttura da cui dipendono non solo la comunicazione mondiale, ma anche le transazioni economiche di tutti i settori, il trasferimento e la conservazione dei dati, le operazioni militari e altro. Il web ha solo seimila giorni di vita, ma Facebook ha già 170 milioni di aderenti in tutto il mondo e Twitter, l'ultimo nato dei social network ha sfondato la barriera dei 100 milioni di utilizzatori. I giovani nuotano in questo “mare” con una naturalezza che la precedente generazione non ha. E tuttavia oscillano tra comunicazione totalizzante e autoreferenzialità. E' questa la nuova forma di solitudine “socializzata”. La casa reale è ridotta ad un container per la ricezione del mondo esterno via cavo, via telefono, via etere; e quanto più il lontano si avvicina, tanto più il vicino, la realtà di ca-
sa, quella familiare, si allontana ed impallidisce. Le conseguenze non sono da poco. Se il mondo viene da noi, noi non «siamo nel mondo», come vuole la famosa espressione di Heidegger, ma semplici consumatori del mondo”.—————————————————————
Napolitano: “Serve il giornalismo d’inchiesta” PADOVA – Un invito agli operatori dell’informazione ad occuparsi “delle realtà importanti e dei problemi”, anche se “poi ci sono le idee e le chiacchiere”. A lanciarlo è stato il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che questa mattina ha visitato la redazione del Mattino di Padova. In un breve discorso ai giornalisti, il Capo dello Stato ha auspicato “un rilancio del giornalismo di inchiesta”, ricordando che “sono ormai molti anni che non abbiamo grosse inchieste” e “non c’è un’indagine sui problemi del territorio e sul dissesto idrogeologico del Paese”. Il presidente prende spunto dalle parole dei sindaci dei comuni alluvionati del padovano che “mi hanno riferito di essersi sentiti soli perché per alcuni giorni la stampa nazionale non si è occupata di ciò che accadeva qui. Se non si è rappresentati ci si sente soli, ci si sente soli se non si è assistiti e sostenuti dalle istituzioni ma anche se non si parla di noi”. Il Presidente della Repubblica, ha, inoltre, sottolineato che “il sentimento dell’unità nazionale è più forte di quel che non si dica”. Una considerazione che Giorgio Napolitano ha maturato anche dopo aver incontrato i sindaci dei comuni del Veneto colpiti dal maltempo e di aver riscontrato dalle loro parole un sentimento di forte attaccamento ai valori dell’unità nazionale. “Siamo in Veneto – ha aggiunto il Capo dello Stato – dove si potrebbe supporre che il sentimento dell’unità nazionale fosse molto sbiadito, meno forte e meno ostentato. Ma non è così perché i sindaci con cui ho parlato questa mattina hanno avuto accenti sinceri sul tema dell’unità”. La costituzione prevede che il presidente della Repubblica sia “un potere neutro, che non viene stritolato nella mischia politica”, ha spiegato Giorgio Napolitano, ricordando che la funzione “terza” è quella di “rappresentare l’unità nazionale, salvaguardare e trasmettere i principi costituzionali”. Il Capo dello Stato ha poi aggiunto: “Io non posso sostituirmi a chi deve dare le risposte avendo competenze e responsabilità. Mi sono impegnato – ha aggiunto – a rappresentare la situazione e i problemi che i sindaci mi hanno esposto dando prova di avere fatto sforzi straordinari davanti all’emergenza”. (4-11-2010 da: Asca in Notizie – su www.giornalisticalabria.it)
La destra glocalizzante
di Pino Polistena (filosofo) L’occidente attuale si esprime attraverso varie cifre che modulano la sua ricchezza (culturale ed economica) e la sua inquietudine. Una di queste cifre viene sintetizzata dalla metafora dell’ “occidente fortezza”. Se una parte del mondo occidentale si pensa e si comporta come una fortezza da difendere e costruisce un’idea di nemico, può dare il via a fenomeni di ripresa degli antichi miti della destra con le sue idee simil-rivoluzionarie e la sua mitologia. Non è qui il caso di pronunciare un ulteriore anatema contro il rinvigorirsi di queste idee che hanno determinato una rapida crescita dei movimenti ultranazionalisti specie nell’Europa dell’est; ci serve invece qualche momento di riflessione per dare un sguardo complessivo alla questione. Lo possiamo fare con una domanda: è possibile inserire questo ritorno di idee e movimenti di destra entro il fenomeno più vasto della glocalizzazione? Io credo di si. Tale fenomeno indica una reazione ai modelli globalizzanti che sono percepiti come minacce da molti popoli e quindi determinano forme di reazione che consistono nel rivalutare o implementare le radici culturali e identitarie delle varie nazioni. Si tratta del tentativo di combattere un mondo che non si capisce ma che d’un tratto sembra violentemente imporsi. Succede allora che proprio quando il mondo si globalizza emergono elementi antitetici ai modelli globalizzanti, tale fenomeno, che gli studiosi hanno intercettato, ha richiesto il neologismo “glocalizzazione”; gli elementi “glocalizzanti” sono molti, tra questi spiccano le religioni e le varie forme di nazionalismo: i popoli utilizzano gli strumenti della globalizzazione (blog, telefonini, gps) per difendere un’identità atavica e financo tribale. Per difendersi ci si aggrappa alle cose che ci sono più familiari: la nostra identità religiosa, la nostra identità nazionale. Nessuna meraviglia se in queste condizioni una cultura o una parte di essa assume il modello della fortezza da difendere. I fenomeni di glocalizzazione hanno riguardato specialmente i popoli poco sviluppati economicamente o che avevano un forte risentimento nei confronti dell’ occidente. Per questo molti autori pensano che tali fenomeni siano estranei al mondo occidentale ma non è così. In occidente i fenomeni glocalizzanti sono determinati da altri fattori ma sono in pieno svolgimento; un fattore riguarda gli effetti dell’immigrazione che costituisce sempre dei problemi e un certo disagio sociale nonostante la sua indiscutibile necessità. Un altro fattore è costituito dal declino occidentale o per meglio dire, dal fatto che il mondo va verso forme di maggiore equilibrio e non è orientato a lasciare alla parte occidentale, che rappresenta solo un quinto della popolazione del pianeta, il ruolo guida che ha avuto negli ultimi due secoli. Immigrazione e declino costituiscono le basi di una forma di glocalizzazione che riguarda da vicino proprio il mondo occidentale. Quello che accade oggi è certamente il frutto di eventi nuovi che noi inseriamo dentro la complessa categoria della globalizzazione ma non
dobbiamo dimenticare che esistono delle forme “stabili” all’interno delle quali si muovono e si articolano i fenomeni nuovi. Questo ci consente di spiegare perché i fenomeni di concentrazione di potere del passato (dittature, movimenti di destra, populismo) si sviluppavano anche in assenza di una globalizzazione conclamata come quella di oggi. La globalizzazione infatti mette in campo e implementa antiche modalità della specie e della cultura umane come la creazione di un nemico che è una polarità storica e culturale presente lungo tutta la vicenda dell’uomo. Non si tratta di una cosa innata ma certamente di qualcosa che sta dentro i popoli come frutto della loro lungo cammino. Molto autori pensano allora ad un destino, basti ricordare la teoria più famosa che è quella di Carl Schmitt che definisce la politica come la determinazione del rapporto amiconemico. Si tratta di un errore molto grave che in altri lavori ho chiamato “descrizione normativa” che consiste nel far discendere il dover essere dall’essere. In realtà la forte presenza nella storia della relazione amico-nemico non giustifica un principio che può essere formulato solo parzializzando la storia e relegando l’impegno eticoesistenziale dell’uomo. Gli uomini hanno dialogato con le culture “altre”, hanno cooperato e commerciato, non hanno usato solo la violenza e la guerra, cioè l’altra polarità presente dentro di loro, questo non è successo mai per destino ma quasi sempre per mancanza di adeguati strumenti di comprensione, mancanza che ha limitato gli orizzonti e le scelte dei singoli e dei popoli. La creazione di un nemico è un atto assolutamente negativo ma spiegabile e quasi inevitabile in certe circostanze. Lungo la storia questa polarizzazione è stata normale: noi\loro greci\barbari ebrei\gentili ecc, eppure lungo la storia ha operato anche, in senso contrario, un’intelligenza pratica e teorica che ha limitato e ridotto quella polarizzazione opzionando uno dei due termini e riducendo o escludendo l’altro. Un’accezione del termine “civiltà” indica proprio quell’intelligenza che è dei singoli ma anche dei popoli. La coscienza di questo quadro e quindi della polarità non innata ma connaturata, può mostrare l’importanza di un’azione umana come azione pilota o opzionale questa azione dovrebbe riempire ciò che chiamiamo etica o politica. A volte è più facile e comodo affermare che la modalità del nemico e quindi della guerra sia un destino. Si tratta di un oggettivo conservatorismo che intende legittimare ciò che è stato nel passato, in primis la guerra. Non è un caso che Oriana fallaci pensasse e scrivesse che “è inutile cercare di eliminare la guerra” sebbene questa non sia una teoria profonda come quella di Schmitt, è indicativa, attraverso il successo planetario di una giornalista, di come una parte dell’occidente abbia dentro di sé l’incapacità di uno sguardo aperto verso il futuro e quindi di una comprensione di ciò che accade nel mondo. In Europa la destra crescerà se la politica continuerà ad arretrare, se i riferimenti culturali saranno in prevalenza reality, tifo e soldi. Un popolo che si educa a questi valori chiude i propri spazi esistenziali e sociali e arretra quindi ai livelli dove agiscono le polarizzazioni più nette bene\male amico\nemico e allora diventa facile spostare su occasionali capri espiatori le frustrazioni prodotte da un deficit culturale e valoriale. I grandi pessimisti pensano che “nemmeno un dio ci potrà salvare”, io più semplicemente penso che solo la politica ci può salvare, la politica intesa nel senso più proprio e più alto. Una globalizzazione che nasce senza la luce e la guida della politica è un fenomeno che colpisce le culture le quali abbozzano elementari meccanismi di difesa tanto inutili quanto (a volte) anacronistici e feroci.
La sovranità del consumatore
di Francesco Rao (*)
precedono il capitalismo un aumento dei salari, ad esempio in agricoltura, portava ad un aumento di tempo libero, mentre nel capitalismo tale aumento di porta, di regola, ad aumento di consumi a parità di lavoro. In una società agricola esiste “sazietà” nel consumo, mentre in una società capitalistica il consumatore deve “sempre” volere di più. In una società capitalistica il vincolo delle risorse è quasi sempre stringente. In altre parole, una maggiore disponibilità di risorse dovrebbe portare, se si vuole mantenere in funzione il sistema, a consumare una maggiore quantità di beni e servizi. Il disegno teorico del socialismo scientifico era fondato sulla prospettiva di una società comunista in cui una buona famiglia, fosse possibile distribuire tutte le risorse esclusivamente in base al bisogno. Oggi potremo dividerci o trovarci d’accordo su questa prospettiva, ma se tecnicamente tale tesi è stata enunciata per quale motivo nei Paesi in cui il malessere è così evidente non si riesce ad applicarla per rendere la qualità della vita un millesimo più buona? Invece ci troviamo davanti ad un capitalismo imperante che g e n e r a sempre nuovi bisogni e crea sempre maggiore infelicità tra i consumatori perché, a torto o a ragione, non si può avere tutto. Una possibile via d’uscita da questo dilemma consiste nel far riconoscere che la sfera dei bisogni si esprime sia sul piano della quantità che su quello della qualità della vita. Date le attuali tecnologie, la crescita quantitativa senza limiti non è possibile, mentre è invece possibile una crescita senza limiti della qualità della vita. I comportamenti indotti dal motivo della sopravvivenza, prima analizzati, ricordano che accanto al problema dei bisogni illimitati, esiste il problema simmetrico e concreto dei bisogni di sussistenza, che oggi, visto l’alto tasso di disoccupazione dovrebbe iniziare a far preoccupare una classe politica che pensa soltanto a litigare per chi deve tenere in mano la campanella. Problemi come l’alimentazione e la casa, ad un tempo obiettivi principali di conquista sociale oggi stanno per divenire problemi che nessuno vuole risolvere perché forse ha paura di affermare che il treno non può andare sempre avanti ma qualche volta oltre a fermarsi dovrà pur tornare indietro.
La sopravvivenza rappresenta, in un certo senso, il limite inferiore dei possibili comportamenti umani, mentre all’opposto il comportamento economico “razionale” è guidato dall’assenza di limiti di perseguimento dell’utilità o dei profitti: la Dichiarazione di indipendenza americana del 1776, ponendo a proprio fondamento il perseguimento della felicità, oltre che il diritto alla vita e alla libertà, eleva questo comportamento a livello costituzionale. La teoria economica della crescita e, soprattutto, il modello di sviluppo delle moderne economie si fondano sull’esistenza di consumatori e imprese che non hanno alcun limite superiore al perseguimento di una maggiore utilità e di maggiori profitti: sul piano teorico ciò corrisponde all’ipotesi di non sazietà dei consumatori, ovvero all’esistenza di bisogni illimitati. Nel capitalismo contemporaneo le imprese competono, sul piano del prezzo e della qualità, per soddisfare al meglio i bisogni, reali o latenti, dei consumatori e ogni impresa vorrebbe produrre e vendere una quantità ogni anno maggiore. Perché un’impresa concorrenziale farà del proprio meglio per circondare di ogni gentilezza e attenzione il potenziale cliente? Perché il consumatore ha il potere di scegliere preferendo l’impresa concorrente? Se il negozio a cui si rivolge per acquistare un televisore non è in grado di consegnarlo subito, il consumatore può rivolgersi a un negozio concorrente: ed è per questo motivo che ogni impresa mantiene uno stock di beni per rispondere alle esigenze dei consumatori. L’impresa che non voglia farsi trovare impreparata di fronte ad un aumento della domanda dei consumatori, cercherà di mantenere una certa quota di capacità produttiva in eccesso: ma se ciò vale per tutte le imprese la conseguenza è che, in una economia concorrenziale, l’offerta produttiva potenziale è maggiore della domanda aggregata. E’ in questo quadro che deve essere interpretata l’ipotesi di sovranità del consumatore: se vale questa ipotesi l’impresa sopravvive nel mercato solo se si comporta sulla base del principio che “il cliente ha sempre ragione” aggiungo, a patto che abbia il reddito sufficiente per acquistare ciò che l’impresa vende. E’ una ipotesi strettamente legata all’esistenza del mercato concorrenziale: infatti nel caso in cui esista un’impresa monopolista la situazione si rovescia e il consumatore da “re” diviene “suddito”. Come già aveva intuito Max Weber, il soggetto econo- (*) sociologo mico con bisogni illimitati sta a fondamento del capitalismo contemporaneo: nelle forme di società che
In cammino verso la fra settembre e ottobre, s’era trovato tre volte a “navigare” con la macchina sulla via marina. Non gli preistoria
di Mimmo Codispoti Aveva appena posto sul tavolo della sala di lettura della biblioteca i libri richiesti che un uomo gli si avvicinò dicendogli: “Ci sono cose che non si dimenticano e cose che non si sanno: da qui nascono le illusioni. In te predomina il livello di conoscenza o l’oblio del sapere? Più vivi nell’ignoranza e più dimentichi, più vivrai con equilibrio il tuo tempo. Pensaci prima di aprire questi libri”. Con un sorriso così gli apostrofò: “chi sei, un novello Socrate, passato dall’agorà alla biblioteca, fuggendo sempre a Santippe, o un nostalgico dell’Inquisizione e di un nuovo Indice? Non so se conosci “fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e conoscenza”, così come ignoro se sai che niente udito niente linguaggio, niente letture niente pensieri. Non escludo che il tuo livello di conoscenza sia per te causa di tormento, che la tua capacità logica bruci le tue illusioni, che tu sia pervaso da pessimismo esistenziale. Io amo leggere, scrivere e guardare l’alba. Tu sei il crepuscolo, l’ombra, il rifiuto del sapere. Rimani pur sempre uno schiavo della paura, un rinunciatario, un perdente. I periodi più sereni della mia vita li ho passati leggendo e con la lettura ho sognato, viaggiato, vissuto, dando un significato al mio tempo. Lascia che sia io a scegliere come vivere e rispetta il silenzio di questo luogo. Vai in pace, torna a quel paese da dove sei venuto”. Lo guardò uscire dalla sala e tornò alle sue ricerche di etologia comparata. Conoscere la struttura delle società animali lo aiutava a capire meglio i comportamenti umani. Lasciata la biblioteca, si avviò verso casa. La strada era affollata. Camminando guardava da vicino “le scimmie” che, pur ricoperte dagli orpelli della civiltà, ai suoi occhi apparivano nude nei loro istinti. Dalla lettura dei giornali sapeva che la violenza, la rapacità, la sopraffazione caratterizzano tanti di quei primati provvisti di cultura che incontrava, che lo zoo umano è pieno di insidie, che l’unico luogo di pace è dentro se stessi. Si fermò su una panchina e fu sommerso dai ricordi. Provava insofferenza innanzi al vergognoso uso del potere di gran parte della classe politica nazionale, a gente incapace con incarichi prestigiosi, ai messaggi pubblicitari di un consumismo senza fatica, senza sacrificio, senza impegno. Si ritrovò a rimpiangere di essere tornato, dopo l’università, in questa città benedetta dalla natura e devastata dagli uomini. Nello spazio di poco tempo,
risultava che fossero stati eseguiti interventi per evitare nuovi allagamenti. Chiedeva che i responsabili della viabilità si affidassero più alle opere idrauliche e meno alle preghiere per scongiurare le piogge. Soffriva a guardare alcuni alberi, sul più bel Km d’Italia, ridotti dal vento a strisciare sul terreno, altri con evidenti sintomi sui fusti di attacchi fungini. Forse ai responsabili dei parchi e giardini basta il verde presente nella bandiera e sono più portati a consultare i sarti per rattoppare quella che i fitopatologi, docenti del Mottareale e della Facoltà d’Agraria, per curare questi. Sul Corso, ricordava ancora, era stato richiesto il parere dei cittadini per il tipo di selciato che doveva sostituire il bitume ed erano stati presentati i modelli da scegliere. Tutto s’era ridotto a pubblicità sul nulla per la città, lastricando di vantaggi solo la camminata di qualcuno. Sul viale Calabria era stato inaugurato il Terminal bus, trasformando in piazzetta lo spazio più ampio della città. Qualcuno attende ancora alle fermate pullman che non sono mai partiti. Si annunci, per favore, che “i voli” sono stati soppressi e i motivi del ritardo. Sullo stesso viale la scuola Agraria aspetta, da tempo infinito, che gli siano dati locali e strutture adeguate dall’Ente Provincia, preoccupata a parole di bilanci economici e di garantire servizi. Peccato che l’Ente sia tanto lento nell’occupare locali pronti da mesi, quanto lesto nello spostare i laboratori, dotazione inalienabile di una scuola, presso un altro Istituto in altro Comune, così lungimirante da avviare i lavori per la costruzione del Tecnico Agrario a Melito, dove non c’è mai stato un Tecnico Agrario ma esiste da sempre il Professionale per l’Agricoltura e l’Ambiente. Forse credono, i soloni dell’istruzione della Provincia, che quell’indirizzo di studio possa incrementare le nascite. Su via Sbarre, da anni, sono stati eseguiti i lavori per la rete di illuminazione pubblica e nuovi lampioni sono stati installati, scavando buche come per gli alberi. Sono ancora spenti, le lampadine non hanno mai illuminato la notte, presto sui pali spunteranno le foglie. Così le scimmie antropomorfe torneranno a salire sui rami.
Intervista a Joanne Harris autrice del romanzo “Il ragazzo con gli occhi blu” (Garzanti)
a cura di Cristina Marra “Il blu è creativo, malinconico. Il blu è la musica dell’anima. E il blu è il colore del nostro clan, che abbraccia ogni tonalità di scelleratezza, tutti i gusti del desiderio profano”. Il clan è quello di badguysrock, una comunità web dedicata ai “mascalzoni dell’universo narrativo”, ai bad guys, ai cattivi ragazzi che possono vantarsi dei loro crimini e “sfoggiare orgogliosamente la loro malvagità”. BB, blueyedboy, o più semplicemente Blu è il nickname del protagonista dell’ultimo romanzo della scrittrice inglese Joanne Harris. Autrice dell’indimenticabile “Chocolat”, suo romanzo d’esordio, Joanne Harris stavolta scrive un thriller psicologico ambientato nell’universo, a volte insidioso, della rete. “Il ragazzo con gli occhi blu” (Garzanti, pag.455, euro18,60) è un romanzo che parte dal mondo virtuale di Internet per esplorare i lati più nascosti e le pulsioni più nere della mente umana. Blu è un quarantenne insoddisfatto, sensibile alle parole “al loro suono, alle loro risonanze” è un uomo ordinario che vive ancora con la madre a Malbry “uno di quei posti dove i segreti, i pettegolezzi e le voci abbondano”. A Malbry bisogna evitare un’esposizione sbagliata e Blu lo sa bene tanto da crearsi una vita parallela, virtuale che racconta nel suo blog, dove l’impacciato ed emarginato figlio della vedova Gloria Winter, ”minuta ma fatta di ferro”, diventa un killer spietato che fa sfoggio dei suoi omicidi. Blu crede nel crimine perfetto “come il vero amore è solo questione di tempo e pazienza, di avere fiducia, di non perdere la speranza” e medita di uccidere la madre, non prima di aver eliminato altre persone. Ma che verità si nasconde dietro la rabbia omicida di BB? É al suo passato, al rapporto conflittuale con i fratelli “nero e marrone” e con la madre che bisogna risalire. Blu è stato un bambino estremamente sensibile, una sensibilità patologica definita “sinestesia specchio-tattile” che gli fa percepire quanto sentono altri come se lo provasse lui stesso. Goffo e grasso, è emarginato dalla sua stessa famiglia contro la quale scaglierà la sua rabbia e il suo rancore. Blu è come la piccola Emily, lei riesce ad ascoltare i colori della musica, ma non avrà le sue stesse attenzioni dagli adulti. Il passato, le morti, gli incidenti veri o presunti, i traumi di Blu sono sviscerati dai suoi racconti postati quotidianamente sul blog e commentati dagli altri bloggers. Ma dove finisce la fiction e dove
inizia la realtà? Tocca ad Albertine, vecchia conoscenza di Blu, che come lui ha subito diversi traumi adolescenziali, cercare di chiarire i fatti. Ma fino a che punto ne sarà capace? Con i ritmi incalzanti del thriller mozzafiato e la struttura narrativa del romanzo epistolare Joanne Harris sviluppa un plot narrativo avvincente, inquietante, in cui la vita reale e quella virtuale “corrono sullo stesso filo”. Nel suo romanzo i colori identificano le persone. Perchè questa scelta? “Ho fatto questa scelta perchè da anni mi interesso di sinestesia, cioè la mescolanza di sensi: la condizione rara in cui due o più dei cinque sensi si fondono. Ciò dà luogo a qualcosa di diverso rispetto alla percezione dei cinque sensi. Era da tempo che cercavo la scusa per parlare di questo e poi anche se non siamo dei sinesteti, noi tutti tendiamo ad associare colori a stati d’animo. Ad esempio in diverse culture il blu è sinonimo di malinconia e di tristezza, il nero di depressione e il marrone, almeno in inglese, di banalità, di mancanza di originalità. Visto che questo libro si occupa anche dell’effetto dei colori sulla psicologia umana, l’ho iniziato utilizzando questi stereotipi sui colori noti al pubblico per dare questa idea del loro effetto sulla psiche”. Diventare blueyedboy è anche un riscatto sociale per il protagonista? “Direi di sì perchè ci sono diverse sensazioni che vorrebbe esprimere ma che nella vita reale non riesce a fare. É un misantropo, odia le donne gli uomini e soprattutto la madre, quindi, deve fare qualcosa per esprimere la sua aggressività. Sceglie di scriverla in maniera anonima e utilizza i post perchè gli piace essere al centro dell’attenzione”. Il nemico di Blu è la madre. É lei il personaggio forte del romanzo? “Sì. Gloria Winter oscura tutti gli altri personaggi sia femminili che maschili. Gloria ha una personalità dominante, è una donna dura per le difficoltà che ha passato. É stata una donna e una madre sola, non ha mai avuto un uomo vicino e anche per questo esercita una grande influenza sui suoi figli”.