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Avere cura del conflitto, di zionale, è diventato la categoria privilegiata d’indaTiziana Tarsia gine. Migranti, servizi sociali e conflitto diventano (Angeli edizioni) nel volume i tre pilastri di una narrazione che consente al testo di illustrare anche i sociologici fondamenti teorici dai quali la Tarsia riesce a prendere il giusto nutrimento disciplinare per rafforzare l’aspetto più importante della sua ricerca: la dimensione della relazione. È in questo di Maurizio Lozzi (*) spazio che si diventa incapaci di comunicare se si L’incapacità di ascoltare, di ascoltarsi e di essere abbandonano le risorse ascoltati conduce sempre ed inevitabilmente ogni emozionali ed è sempre individuo a dinamiche di chiusura e di isolamento nello spazio della relazione che contribuiscono a snaturare l’indole fortemente che invece può venire fuori comunicativa che appartiene invece ad ognuno di l’infinita varietà cromatica noi. Purtroppo è su questo terreno che finiscono per delle emozioni e dei sani fermentare le sofferenze e i disagi in cui la violenza sentimenti che possono può trovare spazi e manifestarsi come se fosse l’unidare una svolta alla dimensione umana di ognuno. co codice utilizzabile per imporre in maniera distorItaliano o “nuovo italiano” che sia, ognuno ha bisota e deviante i propri desideri. Ma così non è, la viogno di ascolto ed attenzioni lenza non è davvero l’unica possibilità. Quando nesper poter così superare imsuno vuole o desidera impegnarsi per sentire la sofpedimenti personali e sociaferenza dell’altro esistono fortunatamente modalità li che purtroppo condizionaaltre per abitare la complessità delle relazioni e finino spesso negativamente re – o forse è meglio iniziare – a valorizzarne le poquelle che Georg Simmel tenzialità. Fondamentale diventa innanzitutto distindefiniva “microazioni”, guere in due categorie interpretative e diverse l’eriferendosi ovviamente alle mersione della violenza e l’ineluttabilità del conflitinterazioni sociali. Per Simto. La prima esprime e rafforza l’idea che i propri mel e per quanti si avvicinabisogni possano venire soddisfatti solo penalizzando no alle scienze sociali con quelli di qualcun altro e per questo è di per se irriapproccio clinico, le interamediabilmente deprecabile, il secondo invece esige zioni sociali possono assudesiderio e necessità di chiarimento nella relazione mere quel “carattere tracon l’altro. Quindi nessuna similitudine: la violenza sformativo ed integrativo” oggi più che mai indiè una cosa, il conflitto un’altra. Ad educarci a fare spensabile per evitare lo sgretolamento, al quale un buon uso dei conflitti, aprendo un’interessante abitualmente facciamo seguire le dinamiche di conscorcio su questa dinamica relazionale che Max flitto, dimostrando di non essere né abituati a viverle Weber considerava “un elemento dinamizzante della come opportunità, né capaci di discriminarle nell’otsocietà”, è oggi un interessante volume di Tiziana tica dialogica del confronto. Servono allora strumenTarsia, edito dai tipi della Franco Angeli di Milano ti che il volume della Tarsia mette a disposizione del nella collana di Sociologia e, non a caso, intitolato lettore, passando anche attraverso l’essenzialità di “Aver cura del conflitto”. Centrato sulle esperienze Johan Galtung che dell’approccio alla violenza ed ai intrecciate tra operatori ed utenti dei servizi sociali conflitti ha fatto i pilastri su cui costruire nel tempo calabri, questo volume ha il pregio di indagare come il metodo Transcend, uno tra i più importanti nello la complessità della nostra società si pone oggi nei sviluppo delle dinamiche di regolazione pacifica confronti di quelli che personalmente definisco i delle relazioni conflittuali. “Aver cura del conflitto” “nuovi italiani”, termine con il quale possono esseè dunque una lettura apprezzabile in grado di far re legittimati i protagonisti – o le vittime? – dei flusaprire gli occhi a chi ancora si ostina, soprattutto nel si migratori diretti verso il nostro paese, dove il rimondo del welfare, a restare ancorato a vecchi scheschio peggiore che corrono o è quello di diventare mi e procedure davvero incomprensibili in un moninvisibili o è quello di scomparire definitivamente. do che dal paradigma del melting pot degli anni ’70 Osservare con cognizione di causa come i servizi è ormai passato al paradigma della ethnic salad sociali operino e come si interfaccino con i migranti, bowl. non è stata una scommessa per Tiziana Tarsia, ma il frutto di un’approfondita ricerca nella quale proprio (*) Sociologo, Presidente Nazionale Conscom il conflitto, fortemente inteso come relazione emo-
Siamo un pubblico im- è accertato anche che tra massa e pubblico c’è una sostanziale differenza: il pubblico non è un numero paurito “la cultura è una sezione finita dell'infinità priva di senso del divenire del mondo, alla quale è attribuito senso e significato dal punto di vista dell'uomo.” (Max Weber) di Pino Rotta
La definizione di cultura data da Weber ci rimanda ad una questione fondamentale e ad oggi ancora aperta nel dibattito scientifico: in che cultura viviamo? Un’altra grande intellettuale tedesca la filosofa Hannan Arendt afferma la distinzione tra società e società di massa, attribuendo alle due differenti caratteristiche che determinano il concetto di cultura. “La differenza principale tra società e società di massa sta nella <<funzionalizzazione della cultura>>. Nella società, infatti, gli oggetti culturali restano tali, anche quando se ne abusa. Nella società di massa invece i prodotti culturali e le merci offerte dall’industria dello svago vengono consumati come ogni altro genere di merce. La società di massa non vuole cultura ma svago.” (Hannan Arendt, Culture for the millions. Mass Media in Modern Society, 1959). Naturalmente dai tempi di Weber e della Arendt molti sono stati gli studi sul tema e quasi tutti ormai si sono concentrati sull’influenza che i mass media hanno sulla formazione del nostro modo di pensare e di agire (citiamo solo il paradigma olistico, cioè globale, applicato alle scienze sociali). Lo svago a cui la Arendt faceva riferimento, oggi, quasi totalizzante, viene dalla televisione. Essa influenza le coscienze, ai fini del consumo e quindi della produzione, si pone quindi l’attenzione sulla capacità dei mezzi di comunicazione di imporre idee e stili di vita, fino a smontare il concetto tradizionale di trasmissione di saperi ed esperienza tra le generazioni e a sostenere, come fa Jurgen Habermass, che “la famiglia perde sempre più, con le funzioni di formazione del capitale, anche la funzione dell’allevamento e dell’educazione, della protezione, dell’assistenza, della guida e perfino della più elementare tradizione e orientamento...”. L’influenza della televisione segue il meccanismo della ripetizione del messaggio, che però, rispetto ai mezzi di stampa meno diffusi e con effetti di impatto emotivo di gran lunga inferiori, utilizza più canali sensoriali per raggiungere il risultato di persuasione. Utilizza soprattutto l’immagine, il movimento, il colore e il suono, crea emozioni relegando il testo ad elemento spesso marginale del messaggio. Raggiungere l’obiettivo di indurre le persone a determinati comportamenti che sono legati alle esigenze della produzione ed al consumo è un dato dimostrato. Come è dimostrato che il processo di globalizzazione dell’economia stia estendendo uniformità nello stile di vita. Ma
indifferenziato ed omogeneo di persone come lo è per definizione la massa. Questo vuol dire che lo stesso messaggio viene recepito in maniera differente e con reazioni differenti da persone che si trovano in posizioni differenti nella scala sociale, differenza per livello di conoscenza e di potere economico. Il pubblico può influenzare il mercato e quindi la produzione di beni di consumo, quello che rimane consolidato è il meccanismo detto di “coltivazione” cioè il rafforzamento e il mantenimento delle convinzioni di base sui modelli culturali. Ad esempio le donne, anche se nella realtà hanno ruoli produttivi differenziati, nei messaggi televisivi vengono presentate sempre in contesti domestici. Con il tempo il sedimentarsi di questi messaggi crea modelli “accettati” seppure dinamici. La donna può uscire di casa, salire su una bella auto, vestirsi da manager, andare in palestra per rimanere in forma ma il suo “ambiente naturale” rimane la casa. Il messaggio serve quindi non solo ad indurre consumi ma soprattutto a mantenere stabilità sociale. Stabilità che viene cristallizzata dai messaggi a forte impatto emotivo come quelli che suscitano la percezione della paura e del bisogno di sicurezza. Esistono, è evidente, segmenti di pubblico che reagiscono a questi messaggi in maniera critica o addirittura contestativa e la capacità del sistema mediatico è proprio quella di adattarsi a queste istanze in maniera dinamica, offrendo una “percezione di accettazione” della critica o della contestazione a condizione che la maggioranza delle persone rimanga dentro il recinto della giostra dei consumi e del consenso. Possiamo riprendere così il concetto iniziale dato da Max Weber quasi un secolo addietro e confrontarlo con la realtà in cui, dopo un secolo di persuasione mediatica per fini economici e politici, ci ritroviamo a vivere: il mondo visto attraverso l’ottica della televisione ci ha isolati e ha creato un nuovo tipo di tribalità che però parte da dentro le mura domestiche. La casa, la famiglia e l’unità domestica con al centro la televisione come regolatore e metro morale dei comportamenti è l’ambito di azione in cui ci è consentito muoverci, fuori c’è l’estraneo, il diverso, il pericolo, ciò che fa paura. Ecco se dovessi dare un senso alla sezione finita del divenire del mondo in questo momento storico lo definirei: cultura della paura.
Dante, facebook e la digestione lenta della cultura
di F. Carlo Morabito (*) Provare ad argomentare sulla complessa “questione cultura” in questo spazio angusto mi pone subito di fronte ad una contraddizione rispetto alle tesi che mi accingo a esporre. Le nuove tecnologie, e, si badi bene, la caratteristica preminente di queste appare proprio il breve permanere della novità stessa, hanno radicalmente modificato il nostro stile di vita, in un tempo quasi trascurabile rispetto alla durata delle grandi fasi storico-sociali quali Medioevo, Rinascimento e così via. Ciò che si imputa all’innovazione tecnologica è, in realtà, un mero sottoprodotto della più rilevante trasformazione sociale nota come globalizzazione. Gli studiosi di scienza della complessità, ma ancora prima psicologi, fisici e chimici, hanno sperimentato che la struttura delle relazioni in un contesto cambia sostanzialmente allorché si passa dall’interazione locale all’interazione a distanza. E’ stato altresì chiarito dalle neuroscienze che l’emergere di stati di coscienza implica una natura olistica del funzionamento del cervello: la complessità cresce, e quindi il cervello funziona bene, in presenza di collegamenti “long-range”. Allo stesso modo, la complessità e la dinamica del nostro mondo sono cresciute notevolmente attraverso il passaggio da un’economia di interazione locale al modello globale. Per far fronte ad una rapida evoluzione del modo di vivere ed agire quotidiano, l’uomo ha sentito la necessità di escogitare strumenti che consentissero un incremento della velocità d’azione. Il telefono mobile, ad esempio, ha modificato in termini spaziotemporali il nostro diametro di raggiungibilità, spezzettando di frequente la sincronizzazione dei nostri pensieri. Il mondo di Facebook, il più noto e frequentato Social Network, ha introdotto una transizione epocale nell’ambito delle relazioni, trasformando ogni sfera d’influenza umana, dalla religione, alla politica, fino al comportamento. Il modo di interagire (di connettersi agli altri ed alle istituzioni) va evolvendosi. Si osserva, intanto, una forte perdita di credibilità dell’autorità, anche motivata dal flagello della burocrazia; una decentralizzazione, in alcuni casi solo apparente, del potere; una maggiore volubilità del nostro senso d’identità contrapposta ad una interpretazione più lasca del concetto di privacy. Alcune cose considerate “intime” fino a pochi anni fa, diventano oggi tanto pubbliche da essere condivise deliberatamente con milioni di persone. Se Mark Zuckerberg, l’uomo dell’anno di Time, intende lanciare una moda culturale può farlo in poche settimane: una corrente di pensiero (il Decadentismo, per esempio) si può sviluppare in pochi giorni e diventare eventualmente dominante su
scala planetaria; la letteratura nazionale viene rimandata ad un livello gerarchico inferiore, territorializzata, perde d’identità nel frullatore globale della rete. Persino le lingue diventano dialetti da riserva linguistica: l’italiano diventa l’albanese che si preserva in paesini poco raggiungibili della Calabria. Facebook è il prodotto di una generazione ma anche il formatore della generazione stessa; ogni giorno un miliardo di nuovi pezzi di “contenuti” vengono immessi sulle pagine in modo asincrono, ciascuno per sé, riformando il tessuto connettivo di una parte significativa di pianeta, come un’alluvione informativa che determina scelte e paradigmi culturali. I nostri antenati incontravano poche centinaia di persone in tutta la vita, oggi ogni utente di Facebook ha in media lo stesso numero di “amici”. Dante Alighieri, nella tragicomica Commedia, propone un modello antesignano di Social Network, dove concittadini, personaggi storici e mitologici vengono raccolti in gruppi fisicamente collocati in gironi o cerchi definiti da una proprietà caratteristica che li accomuna. La comunicazione “long-range” è però negata e il linguaggio stesso delle comunità nonché la valenza archetipica delle metafore è relegata in ciascun cluster: le diverse puntate della fiction (i Canti) costituiscono episodi con personaggi e intreccio distinti. Senza la possibilità di cambiare ogni giorno spartito, senza continue trasformazioni che non ricordano il passo precedente, Facebook non potrebbe essere così pervasivo e la conseguente perdita d’invadenza lo renderebbe presto uno strumento inefficace. Nel contesto appena delineato, non stupisce che vi sia un sostanziale mutamento della “cultura”, in termini di fruizione, acquisizione, e di destrutturazione dei contenuti. I caratteri principali di questa nuova cultura: 1) è distribuita, ovvero, il libro è sostituito da un’intricata mappa di direzioni e percorsi virtuali; la ricerca scolastica è preparata attraverso Internet; poiché le pagine che ci si presentano prima sono quelle generalmente selezionate, è quindi ripetitiva, riporta pezzi condivisi, riducendo l’apporto personale e la costruzione autonoma; 2) è auto-organizzata e interattiva, al punto che, ad esempio, l’enciclopedia on-line Wikipedia consente correzioni multi-utente e l’inclusione autonoma di pagine e di contenuti, il cui successo (e, dunque, la cui verità) sarà decretato quantitativamente dal numero di accessi e non dall’elaborazione critica del contenuto; 3) è consumistica usa e getta, viene poco elaborata, diventa un oggetto di soddisfazione edonistica temporanea, come lo shopping; attiva le stesse aree cerebrali del piacere transitorio, vive in librerie con scaffali pieni di colori e faccioni televisivi; trasforma la ricetta
del cous-cous in una pagina di poesia; 4) è voyeuristica, perché i media sociali implicano narcisismo e rapida penetrazione nella memoria, sfruttando deliberati meccanismi psicologici e percettivi; 5) è superficiale: confonde la profondità, atto mediato dal pensiero individuale, con l’approfondimento collettivo di modalità salottiera, dove la sovrapposizione di voci deconcentra e la tambureggiante successione dei concetti proposti lascia irrisolta ogni questione; non vi è travaso dalla memoria a breve termine a quella a lungo termine, se non per aspetti marginali e secondari dal punto di vista culturale; 6) è politicamente scorretta, perché rifugge alla diversità, sinonimo di indipendenza e non sottende omologazione; il pensiero prevalente vi diventa dominante: la trasparenza e la condivisione delle informazioni, aspetti potenzialmente positivi della cultura filtrata dalla rete, diventano veicolo di rafforzamento elitario del potere di chi è il gestore o sa gestire questi mezzi. In conclusione, è palesemente inutile contrapporre un risibile cortile delle meraviglie alle corazzate sociali delle reti: questa è la strada che dobbiamo percorrere; è obbligatorio, però, provare ad introdurre dei correttivi affinché l’agorà mediatica faccia quello che il circolo o la piazza fomentavano un tempo. Bisogna ritrovare il tempo, la lentezza richiesta da un approfondimento culturale individuale post-sbornia: è necessario un ritorno ad una privacy goduta, lontana dall’anacronistico ed antistorico tentativo di una limitazione della connettività, ma libera di svilupparsi compiutamente. (*) Docente Ordinario presso la Facoltà di Ingegneria Università Mediterranea —————————————————————--
Cultura e identità: paradigmi di opposizione e integrazione
di Giuseppe Lombardo (*)
Il campo dei concetti-funzione disegnato nella prima parte del mio titolo è talmente vasto che sarebbe illusorio il solo pensare di delimitarne alla buona i confini. Cultura è termine onnicomprensivo per antonomasia, e da sempre ingloba le etichette più diverse e financo contraddittorie. Identità sembra indicare qualcosa su cui è più agevole intendersi, qualcosa di riconducibile alla dimensione personale. E però, quante variabilità non si celano sotto questa etichetta? E quanti errori, per non dire orrori, non si è tentato di giustificare in nome di essa? Se poi l’intento è quello di coniugare i due poli in maniera da trarne esiti ragionevoli o anche solo moderatamente persuasivi, la difficoltà non sfuggirà ad alcuno. Sul problema dell’altro, del diverso, si è giocata e si gioca la credibilità dei moder-
ni ricercatori di scienze antropologiche e sociali. Nel mondo globalizzato, la crescita esponenziale della velocità di spostamento delle masse umane in un contesto privo di “confini” visibili, nel senso di limiti ideologicamente imposti o subiti, ha rimescolato tutte le carte. Nozioni ritenute acquisite e adeguatamente ripensate in una prospettiva di modernità, come straniero, autoctono, cittadinanza, migrante, nazione, etnia, ecc., si sono rivelate insufficienti di fronte al mutamento vertiginoso della realtà. Oggi perfino la definizione dell’oggetto di indagine è divenuta oltremodo elusiva. Svanita per sempre l’ipostasi di confini insuperabili o insormontabili, tanto in termini fisici quanto, e ancor di più, in termini mentali, l’uomo è come riportato al “grado zero” della ricerca, alla sfida della costruzione del primo ponte verso l’altro, al primo atto fondativo della comunità quale esito del tendere al diverso da sé per scoprire l’identità del sé. Più che progredire, l’umanità di oggi sembra chiamata a guardarsi dentro e a scegliere, finalmente, di riconsiderare le proprie radici dimenticate, quasi seppellite sotto secoli di pregiudizio e intolleranza. Per questi motivi, respinta la pretesa in sé irrealizzabile di comprimere un campo magmatico, in continua evoluzione, entro le caselle ordinate di un disegno esaustivo, tenterò invece di mettere a fuoco pochi, ma ritengo significativi, nodi problematici. Se non per altro, essi saranno comunque utili nella ricostruzione delle linee di un dibattito cruciale per noi e per le generazioni future. Nel corso degli ultimi due decenni, le nostre città, le nostre campagne, si sono arricchite di una presenza con la quale non possiamo esimerci dall’entrare in contatto: gli stranieri, o comunque percepiti come tali, sia che siano cittadini o siano in attesa di diventarlo. Molti di loro hanno un lavoro stabile, una casa, una famiglia. I loro figli frequentano le nostre scuole e qualcuno perfino l’università. Essi hanno compiuto una scelta in qualche modo definitiva, e a tale scelta hanno legato le loro speranze, il loro progetto di vita. Nello stesso scorcio di tempo sono mutate profondamente le correnti del flusso migratorio. Nuovi soggetti e direzioni prima inusitate si sono fatti avanti sulla scena: ai somali, agli etiopi, ai libici, fra noi per ragioni storiche legate al colonialismo, si è affiancata una massa crescente di magrebini, egiziani, nigeriani, oltre ai turchi e ai mediorientali. L’ampio ventaglio dei paesi dell’est si è riempito in poco tempo: albanesi, rumeni, bulgari, serbi, croati, georgiani, ecc. sono una presenza cospicua. In zone ben delimitate del nord, consistenti comunità di cinesi o filippini sono la norma. In parallelo, è cambiata anche la nostra società. I nuovi scenari dell’economia globale, la crisi delle ideologie, il venir meno della tradizionale famiglia allargata, ci hanno restituito un paese sempre più frammentato, insicuro, dalle prospettive incerte. Chiamato alla prova dei nuovi flussi migratori, è innegabile che questo paese abbia risposto nel segno della percezione emergenziale dei problemi. Migrante si associa inevitabilmente a illegalità, clandestinità, conflitto. Tutti aspetti che esistono, purtroppo, ma che non
sono i soli, e certamente non irrisolvibili. I media, in nome di un malinteso diritto all’informazione, hanno soffiato e colpevolmente continuano a soffiare sul fuoco, cercando lo scoop e il sensazionalismo ad ogni costo. L’esito è rendere “invisibili” (nel senso ellisoniano del termine) i migranti che fra di noi rispettano la legge, svolgono lavori di grande impatto sociale ma non più appetiti dagli italiani, con basse garanzie e modesti livelli salariali. Stereotipi e pregiudizi si sprecano, mentre nuove “separatezze” nascono all’ombra della spirale discriminazione/isolamento/ illegalità. I percorsi interculturali languono e l’orizzonte si tinge di colori sempre più foschi. Questo, sebbene tagliato con l’accetta, lo stato delle cose. Proviamo a indicare qualche punto fermo. E’ sempre più evidente, e gli eventi tumultuosi che ci coinvolgono non danno il tempo di riflettere adeguatamente, che è giunto il momento di porre fine a quello che Umberto Melotti definisce come abbaglio multiculturale, e tornare a una sana distinzione fra cultura e civiltà. I due termini non sono sinonimi, come a lungo si è pensato, né la presenza dell’uno spiega la presenza/ assenza dell’altro. “Cultura” è primario cronologicamente in quanto connota tutte le reti di significato (materiali, strumentali, o simboliche) mediante le quali una comunità costruisce e governa il proprio posto e il proprio senso nel mondo. Non c’è gruppo umano senza “cultura” e non è possibile stabilire graduatorie fra culture diverse: tutte hanno pari legittimità sul piano antropologico. “Civiltà” è cosa assai diversa: il termine indica uno stadio relativo dello sviluppo di una determinata comunità, quello in cui si registra il ricorso diffuso alla scrittura, si osservano progressi marcati nelle arti e nelle scienze, si riscontra la nascita di strutture politiche e sociali complesse. L’abbaglio multiculturale è consistito nell’avere accostato il singolo immigrante non come portatore di un progetto di vita individuale, con i suoi limiti e i suoi interessi legittimi, bensì quale rappresentante dell’intera cultura/civiltà di provenienza. Ciò ha comportato un rallentamento della spinta all’integrazione e la contestuale riduzione di interi gruppi a testimonianza folklorica del paese d’origine. Il rovescio della medaglia è stato il cristallizzarsi delle politiche di accoglienza in mere impalcature ideologiche che hanno tarpato le ali all’aspirazione umana ad “aprirsi”, a “conoscersi reciprocamente”, a “riconoscere le differenze”. Tutto ciò sta dietro il riduzionismo di cui l’intero spettro politico ha dato prova singolare: comunque la si metta, gli immigrati sono per la sinistra i “nuovi proletari”, per la destra “i nuovi barbari”, e per i cattolici i “nuovi poveri”. La strada maestra, invece, è ancora Melotti a suggerirlo, potrebbe essere quella della rigorosa distinzione fra cittadinanza e nazionalità. Per una integrazione vera degli immigrati, vera perché non ridotta a un fallito tentativo di assimilazione etnocentrica, è necessario convincersi che la nazionalità è un sentimento di appartenenza ad una comunità che bisogna tenere nettamente distinto dal formale diritto di cittadinanza. Non ci si deve sentire italiani per godere dei diritti di cittadinanza. Né si deve costringere
alcuno a sentirsi italiano facendo violenza alla propria identità d’origine. Diritti di cittadinanza e legalità sono i poli di un patto reciproco fra migrante e paese di accoglienza che solo può farci superare i contrasti e le armonie forzate di cui finora si sono nutrite le politiche assimilazioniste frettolosamente messe in piedi. Il nostro secondo punto fermo non può che essere l’assunzione di una prospettiva transnazionale sul problema dei flussi migratori. Parecchi autori hanno sottolineato che la mobilità globale ha dato origine alla formazione di vere e proprie culture transnazionali. L’ecumene globale è contrassegnato da un “traffico” (o “scambio”, o “incontro”) di culture/civiltà che si sviluppa a partire dalla traiettoria, non solo geografica ma anche mentale ed emotiva, che unisce il paese di partenza e quello d’arrivo. I migranti, che definiamo “mobili” per marcare il loro “progetto” di vita, forzatamente imposto o liberamente scelto che sia, disegnano lo spazio unico globale all’interno del quale sono protagonisti in prima persona della produzione, negoziazione, e quindi probabile commistione di significati. E’ un processo che ha le caratteristiche inconfondibili del “meticciato”, in quanto esalta la creatività della differenza culturale, liberando energie che finora sono state troppo spesso compresse dalle politiche di “forzata” e deresponsabilizzante, anche se ammantata di intenti benevoli, omogeneizzazione culturale. Dobbiamo renderci conto che da qui è necessario partire, dalla valorizzazione della “differenza”, se si vuole aiutare il migrante nella sfida della ridefinizione del proprio progetto di vita. Egli deve individuare nuove coordinate di spazio e tempo, deve, per dirla con linguaggio antropologico, “elaborare il lutto” della separazione dal gruppo originario, dai legami costruiti durante l’infanzia e poi interiorizzati nella sua struttura psico-affettiva. In questo senso, le aspettative e le condizioni dell’arrivo sono altrettanto importanti rispetto a quelle della partenza. Come ha osservato A. Sayad, il passaggio dalla “illusione dell’emigrazione” alla “sofferenza dell’immigrazione” è il locus in cui si giocano tutte le possibilità di rielaborare con successo il progetto di vita sopra menzionato. E’ qui che si deve creare il varco che può liberare dalle strettoie di una assimilazione culturale sentita come modello imposto dall’esterno, o di una emarginazione culturale avvertita quale esito di una politica di marginalizzazione e di prevaricazione del più forte. Nella prospettiva transnazionale, l’immigrato non è un soggetto passivo ma può divenire una risorsa in termini di capitale sociale ed economico, un agente creativo di cultura, uno strumento di azione politica
per strategie di “globalizzazione dal basso”. Come confermato da numerose ricerche, le comunità transnazionali favoriscono la nascita di “economie etniche” attraverso l’utilizzo del capitale sociale etnico, facilitando l’inserimento degli immigrati a livello socioeconomico, nelle strutture delle società riceventi. In molti casi, questo schema è del tutto alternativo a quello dell’integrazione formalmente promossa dagli Stati, che ha quasi sempre la peculiarità di riprodurre forme di subalternità sociale e non di sostanziale parificazione del soggetto immigrato in termini di diritti civili e politici. Si ritorna così a quel che dicevamo all’inizio, sulla scorta di Melotti, circa il controverso rapporto tra nazionalità e cittadinanza. E’ solo nella dimensione transnazionale che le due polarità trovano una coesistenza non antagonistica e sono suscettibili di non autoescludersi reciprocamente. Il campo sociale transnazionale è il luogo di riferimento ideale delle reti migratorie globali. La migrazione viene così ad essere incastonata in un contesto sociale multisituato. Ciò significa in termini di prospettive di ricerca adottare un’impostazione inclusiva e onnicomprensiva, che tiene conto del contributo di tutti gli attori e di tutti gli scenari coinvolti nel processo migratorio. In sintesi, l’etnografia transnazionale proposta da George Marcus, che situa oggetti e soggetti dell’indagine qualitativa in un campo d’azione multisituato, può contribuire a chiarire e spiegare molti aspetti delle migrazioni contemporanee. Ultimo punto su cui voglio offrire alcune chiose è un nodo che in anni recenti è venuto sempre più serrandosi: la progressiva femminilizzazione dei movimenti migratori. La categoria delle “donne globali” è entrata di prepotenza nel dibattito degli studiosi di fenomenologie sociali. Lo stato dell’analisi si deve misurare con situazioni in rapidissimo mutamento ma alcune linee di sviluppo ormai consolidate possono essere tracciate. Le donne migranti coprono per lo più specifiche carenze di welfare dei paesi avanzati mentre contribuiscono allo sviluppo dei Paesi d’origine mediante le rimesse periodiche. In questo senso, per rimanere vincolati ad un lessico puramente marxiano, partecipano alla dinamica di classe attuando una “riallocazione” di risorse economiche per lo sviluppo. Per i cultori di un lessico “globale”, divengono invece protagoniste di una vera e propria “delocalizzazione” di tali risorse, e favoriscono un processo di accumulazione di capitale potenzialmente disponibile per l’investimento. Il problema, tuttavia, non lo si può circoscrivere al puro ambito delle variabili economiche. Esso infatti coinvolge una serie di fattori incardinati sul versante della “soggettività femminile”, che pertengono alla posizione occupata dalle donne nella struttura sociale e alla rilevanza delle cosiddette “relazioni sociali di genere” (gender). La maggioranza delle donne immigrate lavora nel settore della cura e dell’assistenza alle famiglie, contribuendo al mantenimento dei legami di riproduzione familiare dei paesi ospitanti. Questa loro presenza in molti casi si trasforma in una sorta di doppia segregazione. Spesso essa viene passata sotto silenzio a livello politico e
di visibilità sociale. Nella maggior parte dei casi, le “badanti” vivono con la famiglia presso la quale prestano assistenza domestica e sono soggette a condizioni di sfruttamento in quanto “irregolari” poiché prive di permesso di soggiorno, esposte così a uno sfruttamento lavorativo e ad una invisibilità sociale. E, se non lavorano nelle nostre case, sono impegnate in mansioni contrassegnate dalle 3D (dirty, dangerous, on demand) facendo quei lavori che nessuno vuole più fare, perché considerati poco remunerativi o di scarso rilievo in termini di prestigio sociale. Molte di queste donne sono sole e senza legami di protezione familiare, e passano il poco tempo libero che hanno con le altre connazionali, di fatto senza entrare davvero in contatto con la realtà locale. Si riuniscono un giorno alla settimana nei luoghi aperti delle città, spesso in punti di confluenza di vari mezzi pubblici (stazioni, metrò, giardini adiacenti, ecc). Si creano così dei veri e propri angoli etnici nelle zone centrali, ove si sviluppano anche attività commerciali informali che permettono di acquistare i prodotti tipici dei loro paesi. Si incontrano i corrieri che fanno la spola e si può così inviare a casa abiti, doni e generi di conforto. Ciò avviene in particolare per le immigrate dei Paesi dell’Est europeo. Poco o niente è stato finora fatto per gettare un ponte con questo universo. Forse è giunto il momento di tentare un’azione sinergica fra antropologia, cultura di gender, e difesa dei diritti umani, nell’ottica, come si diceva, dell’incontro fra transnazionalità e diritto alla cittadinanza quale unica via per conciliare esigenze che altrimenti rimarranno in permanenza divaricate. Azzardo a mo’ di provvisoria conclusione. Un’antropologia transnazionale che, a partire dalla “questione meridionale del mondo globalizzato e dei suoi tanti Sud”, attualizza le sue categorie e recupera una tradizione di impegno etico e civile, mettendosi dalla parte di chi sta in quell’altrove che è anche la nostra condizione. Riferimenti bibliografici: - Ulf Hannerz, La diversità culturale, Il Mulino, Bologna 1996. Francesco Remotti, Contro l’identità, Laterza, Bari 1996. - M. R. Ferrarese, Le istituzioni della globalizzazione. Diritto e diritti nella società transnazionale, Il Mulino, Bologna 2000. - Umberto Melotti, Etnicità, nazionalità, cittadinanza, Seam, Roma 2000. - Umberto Melotti, L'abbaglio multiculturale, Seam, Roma 2000. - A. Petrillo, La città perduta. Eclissi della dimensione urbana nel mondo contemporaneo, Dedalo, Bari 2000. - A. Sayad, La doppia assenza. Dalle illusioni dell'emigrato alle sofferenze dell'immigrato, Raffaello Cortina Editore, 2002 - Simonetta Piccone Stella, Esperienze multiculturali: origini e problemi, Carocci Editore, Roma 2003. - AA.VV., Nomadismi contemporanei. Rapporti tra comunità locali, stati-nazione e “flussi culturali globali”, Rimini, Guaraldi, 2004. - V. Cotesta, Sociologia del mondo globale, Laterza, Roma-Bari 2004. - Umberto Melotti, Migrazioni internazionali, globalizzazione e culture politiche, Bruno Mondadori, Milano 2004. - L. Zanfrini L., Sociologia delle migrazioni, Laterza, Roma-Bari, 2004. - M. Ambrosini, Sociologia delle migrazioni, Il Mulino, Bologna 2005. Paolo Palmeri, Immigrazione conflitti sociali e violenza, in: I rapporti interculturali oggi. Una prospettiva antropologica, a cura di Paolo Palmeri, Cleup, Collana di Antropologia, Padova, 2005. (*) Docente Facoltà di Scienze della Formazione, Università di Messina
La distopia multiculturale, ovvero l’immaginazione della cultura
di Giuseppe Aricò (*)
mento di alcun individuo in una sola unità di appartenenza. Dall’altro, genera simultaneamente, ma in senso inverso, una proliferazione di ascrizioni collettive che invocano una certa nozione di “cultura” per legittimarsi, aspirando a una compartimentazione della società in identità che si immaginano culturalmente incompatibili e socialmente incomparabili. Queste dinamiche di singolarizzazione identitaria appaiono, a loro volta, associate a fenomeni potenzialmente non meno contrapposti. Possono coesionare e motivare comunità che si ritengono oppresse e che rivendicano la loro emancipazione o i diritti che gli vengono negati. Ma possono anche tradursi nell’alibi che giustifica l’esclusione, la segregazione e l’emarginazione di coloro la cui “particolarità culturale” è stata considerata del tutto o in parte inaccettabile, con frequenza sotto un’ingannevole forma di “riconoscimento” dissimulata dietro concetti equivoci come “interculturalità” o “diritto alla differenza”. Non è casuale che, mentre i programmi di “promozione culturale” e i mezzi di comunicazione esaltano il mero folclore della diversità culturale, importanti settori della società continuino a stigmatizare l’altro come “sporco”, “incivile” o “razzialmente inferiore”, opponendo resistenza alla sua più ampia incorporazione all’interno del corpo politico, economico e sociale. Di fatto, credo che la strategia amministrativa delle politiche differenzialiste degli ultimi anni non sia stata propiamente quella di assimilare l’altro attraverso le logiche istituzionali dell’integrazione, quanto piuttosto quella di metterne in evidenza le differenze in uno scenario sociale marcato dal cosiddetto “abbaglio multiculturale”. Uno scenario in cui è possibile osservare come la nozione immaginata di “cultura” sia in grado di organizzare intorno ad essa i discorsi dominanti, nutrendo ideologie identitarie che orientano le discussioni politiche e le polemiche pubbliche sulla base di una multiculturalità distopica.
All’interno delle attuali dinamiche che regolano i meccanismi della globalizzazione, i concetti di cultura e identità svolgono un ruolo fondamentale. La loro forza, e la loro debolezza, consisterebbe nel mettere in atto processi di simbolizzazione che possono essere osservati da una prospettiva non essenzialista, bensì profondamente relazionale ed eterogenea, nella quale si intrecciano questioni come la storia, la memoria, l’azione pubblica e il potere politico. Di fatto, nelle scienze sociali, la forma tradizionale di concepire cultura e identità come elementi omogeneamente radicati in una comunità stabile non rappresenta piú da tempo un approccio valido. Tuttavia, proprio nel momento in cui le scienze politiche e culturali sottolineano quanto le identità siano intrinsecamente flessibili e storicocongiunturali, e gli antropologi sociali scoprono l’immensa forza del carattere relazionale delle identità “tradizionali”, l’idea dominante di “cultura” non smette di produrre e promuovere identità di stampo essenzialistico. È proprio in questo punto che la prospettiva antropologica ha ragione di sentirsi specialmente interpellata da parte della complessa e contraddittoria realtà del mondo contemporaneo, in cui l’uso della nozione di cultura ha ormai assunto un ruolo onnipotente e insignificante allo stesso tempo. Sempre più spesso utilizzata como parola-feticcio per eccellenza, la “cultura” viene invocata tanto per chiarire quanto per rendere incomprensibile qualsiasi aspetto della vita umana, senza dover pagare alcun prezzo in materia di rigore e precisione. Consideriamo, ad esempio, l’accezione più comune che intende la cultura come l’insieme di quei tratti ipoteticamente immanenti che caratterizzano un gruppo umano rendendolo non solo singolare e differente, ma anche incommensurabile. Questa accezione è forse la più delicata e richiederebbe una riflessione seria, soprattutto alla luce delle esaltazioni essenzialiste della “differenza culturale” e dei discorsi pseudofilatropici tanto di moda che convertono magicamente lo sfruttamento umano e le più brutali asimmetrie sociali nel vaporoso fenomeno del “multiculturalismo”. L’idea di multiculturalità racchiude in se una duplice funzione, tanto paradossale quanto energica. Da un lato, annette i fenomeni sociali in reti di mondializzazione sempre più massificate, che tendono a unificare civilizatoriamente l’universo uma- (*) Ricercatore in antropologia Università di Barno, mentre traccia un’infinità di intersezioni e sovrap- cellona (Spagna) posizioni identitarie che non permettono l’incapsula-
L’identità arricchita
di Salvatore Romeo (*) L’identità è un concetto che si struttura su un duplice piano. Da una parte ogni individuo cresce e matura acquisendo il senso di Sé e la consapevolezza della propria storia personale indipendentemente da qualsiasi altra condizione e si percepisce come organismo unitario e completo dotato di una propria immagine (rappresentazione di sé) e di peculiari qualità. Dall’altro egli impara a osservarsi come individuo singolo e differenziato da tutti gli altri che lo circondano. La prima osservazione concerne l’insight e l’autoconsapevolezza di sentirsi una persona compiuta all’interno del personalissimo processo di sviluppo psicomotorio: è la dimensione dell’unicità intrinseca. La seconda invece concerne aspetti intersoggettivi e relazionali e si può realizzare solamente all’interno di una cornice di rapporti interpersonali, nei quali riuscire a stabilire i limiti e i confini della propria personalità: è la distinzione da ogni altra realtà. La cultura comprende credenze, valori e ideali che ispirano i comportamenti e che costituisce un sistema vivente che viene creato, elaborato e trasmesso attraverso la comunicazione di generazione in generazione, perpetuando la memoria storica e le acquisizioni passate come base operativa per le conquiste future. Tra passato e futuro esiste però il presente e la cultura incide in maniera enorme sul modo di essere dei componenti di una società. Inserirsi all’interno di questo sistema significa, da parte dell’individuo, acquisire un sufficiente livello di identità sociale e di adattamento che ne consentono un’esistenza armonica ed equilibrata, conforme alle aspirazioni e alle esigenze che la società si aspetta da esso (ruolo e status). E’ fondamentale che, quindi, attorno al concetto di cultura sia presente anche quello di consenso, ossia che l’individuo accetti le regole e le tradizioni della comunità nella quale è inserito, o si inserisce. Spesso, tuttavia, si tende a guardare a questo aspetto come ad una perdita di identità, quasi come ad un tradimento di quelle che sono le caratteristi-
che peculiari della comunità di origine, delle proprie radici. Nulla di più falso. L’identità è una dimensione complessa, nella quale coesistono aspetti molto vari, come la percezione di se stessi come singolarità ben definita, la percezione dell’altro come entità diversa e distaccata da sé (auto- ed etero percezione), il riconoscimento dell’interdipendenza e della reciprocità, ma anche la capacità di comprendere che essa stessa non è un qualcosa di statico e di immutabile, ma che invece contiene elementi processuali di cambiamento e di adattamento a nuove esigenze e a nuove dimensioni sociali e culturali. L’orientamento deformante attuale è quello che considera quasi un tradimento avvicinarsi a tradi-
zioni e valori diversi, mentre l’identità è invece qualcosa di diverso, è un incontro con la cultura di riferimento, un arricchimento e, forse, un riscoprire aspetti del nostro passato lontano che le sovrastrutture culturali hanno mascherato o modificato spesso in modo drammatico (vedi miti, simbolismi e inconscio collettivo). Un tradire appare anche, però, accogliere le tradizioni e i valori dell’altro in seno alla nostra società.Anche questo è un concetto fuorviante, che, al di là dei valori di solidarietà e di fratellanza universale, trova una sua ragione d’essere anche in quelle prerogative proprie che abbiamo enumerato parlando di identità culturale e che si concretizzano soprattutto nella reciprocità e nell’interdipendenza. Accogliere il diverso non significa quindi solamente dimostrare umiltà e benevolenza, ma soggiace anche ad una regola sociale in virtù della quale la società stessa, soprattutto in quest’epoca di globalizzazione, di emigrazione e di immigrazione, si fonda e continua ad esistere. Non è più una scelta di carità cristiana, ma una necessità sociale e antropologica. (*) psichiatra, psicoterapeuta
Ambiente e personalità: ipote- dalla cultura di appartenenza. si di un rinnovamento culturale Per Mead sia le funzionalità del pensiero umano (propriamente la capacità di pensare) sia la costituzione della soggettività necessitano di flussi scambievoli di messaggi con ciò che è “fuori da noi”, ed individua nei seguenti tre i principali locus di attività intersogdi Cristina Freund (*) gettiva in cui questo avviene: - il linguaggio, comprensivo della comunicazione corporea La riflessione teoretica sulle modalità e sui tempi di - il gioco di immedesimazione, “Play”, nel sviluppo della personalità umana, sia lungo il versante quale il bambino assume il ruolo di un altro individuale che sociale, è indubbiamente assai datata, diverso da sé: finge di essere la maestra, il e in occidentale si attribuiscono a Socrate e alla sua dottore ecc. maieutica i primi tentativi di organica speculazione al - il gioco di ruoli, “Game”, più complesso, infatti il bambino è ora in grado di tener conriguardo. to di tutti i ruoli assunti dai soggetti coinvolti Da allora le osservazioni ed i contributi provenienti da nel gioco. un ampio ventaglio di scienze umane e sociali si sono All’interno di questo Sé emergente e che Mead consimoltiplicati e complessificati, talvolta intrecciandosi dera in continua evoluzione, lo studioso identifica due tra loro per abbracciare o confutare segmenti procesprincipali istanze: il Me e l’Io i quali, sintetizzando ai suali o conclusivi di altri impianti teorici e impedendo minimi termini, rappresentano l’uno la componente di in tal modo, per vastità ed uniformità/difformità di controllo comportamentale tramite le condotte mutuate dalla comunità, l’altro l’aspetto spontaneo e più propriamente originale dell’individuo, che è condizione imprescindibile per la rigenerazione ed il miglioramento sociale. So che è a questo preciso punto che la rassegna fin qui esposta voleva condurre: tentare di dare concretezza a ciò che la coscienza ha percepito di positivo in una speculazione teorica accattivante e generosa, altrimenti, senza fattualizzazione, probabilmente tutto il pensare dell’uomo non avrebbe scopo alcuno. Proviamo quindi. Postulato che l’essere umano è ciò che è per le sollecitazioni, le pressioni e gli stimoli provenienti dalla società e dalla cultura in cui è immerso, è la nostra stessa società, nella figura delle istituzioni e dei singoli individui che la compongono, a doversi prendere in carico lo sviluppo e il potenziamento di quel(nella foto il Club di Chicago) conclusioni, la possibilità di fornire un compendio l’Io spontaneo e sincero indicato da Mead, unico in grado di spezzare il conformismo e la rigidità di una organico del tutto. Peraltro tra le teorizzazioni fino ad oggi elaborate di società autoperpetuantesi e rinchiusa in se stessa. Non notevole interesse e profondità appare l’interazioni- è infatti temendo l’ignoto ed il diverso da noi che gli si smo simbolico di Georg Herbert Mead, che ha dato impedisce di presentarsi. E non si tratta nemmeno di vita ad un sostanzioso filone di ricerca ( Blumer, Kuhn approntare gli strumenti adatti ad affrontare il futuro incombente, perché esso è già qui, con le sue schiere e altri). Ponendosi in contrasto con il riduzionismo insito nel di immigrati e di nuovi poveri italiani e non, con i suoi comportamentismo di Watson, che determina la con- rigurgiti di xenofobia ed insofferenza, con gli incondotta umana quale risposta meccanicistica ad uno sti- cludenti tentativi malamente istituzionalizzati di assimolo ricevuto, Mead considera l’essere umano un milazione culturale mentre per contro si alimentano soggetto fortemente sociale, che struttura se stesso in dottrine di separatismo territoriale ed indipendentismo base ai significati attribuiti ai gesti e alle parole prove- fiscale, con una caduta a picco di moralità ed eticità da nienti dall’ambiente circostante. Questa attribuzione di parte di alcuni autorevoli rappresentanti politici e altro senso è un0operazione complessa che il nuovo nato e altro e altro… Ricostruire un tessuto valoriale rianconduce tra gli spiragli che si aprono nel sincretismo nodando fibre sfilacciate e logore non è cosa da poco, percettivo ed emotivo che lo avvolge alla nascita, ed è ma è un’urgenza che non può più essere dilazionata: a un’attività che intensifica sempre più in base alle ri- volte si ha quasi l’impressione di assistere alla capitosposte ricevute dall’esterno, modulando con i genitori lazione dell’umano…non possiamo permetterlo. tutta una serie di significati condivisi, significati che a loro volta, in linea di massima, gli adulti assumono (*) Pedagogista
Immigrazione e cultura della solidarietà percezione e realtà dei fenomeni migratori
di Massimo Gabellone (*) Sono 8 anni che per lavoro (e per passione) mi sposto in alcuni Paesi Balcanici, tra cui l’Albania. Quando si parla di Cultura e Identità sarebbe a mio avviso opportuno iniziare a ragionare perlomeno partendo dalla conoscenza diretta delle Culture e Identità altrui, analizzando l’altrui Storia e l’altrui percezione, e ben sapendo che, per quanto si possano avere esperienze dirette, e per quanto ci si sia riempiti il cervello di dati storici anche provenienti direttamente dagli altri Paesi, il tutto non potrà essere che parziale e rimanere tale, e ciò per la semplice ragione che qui viviamo e qui ragioniamo, e qui ci siamo formati. Altrimenti si corre il rischio di porsi nei confronti dell’altro senza rispettare lui e il suo “Cosmo”, e l’Umiltà che dovrebbe essere la base per una Conoscenza non inquinata dai nostri prodotti culturali non viene in soccorso all’obiettività acritica che deve sempre essere il risultato da perseguire per non cadere nella trappola del giudizio, o, peggio ancora, del pregiudizio. Sarò drastico, ma la “buona fede” non può essere una attenuante. Non si può infine prescindere, sempre a mio avviso, dal “sistema” socio-economico che rappresenta un contesto determinante entro il quale si possono meglio analizzare dinamiche che altrimenti rimarrebbero o potrebbero sembrare sterili e/o squisitamente “teoriche”. Il “comportamento” dell’immigrato, nel bene e nel male, rappresenta l’espressione di colui che pensa, sente e agisce esattamente come noi, ovvero attraverso la mediazione tra i propri prodotti culturali e la percezione dei nostri. Ovvero senza la conoscenza dell’altro, e compiendo uno sforzo enorme in tale mediazione volta ad una potenziale integrazione, la quale può avvenire su diversi livelli, a seconda vi siano o meno apertura e “cultura” da parte dell’immigrato almeno pari a colui con il quale si trova a dover interagire (ricordiamoci bene che la stessa cosa vale anche per noi), e, comunque, in tutti i casi, in un tempo che sia ragionevole e fisiologico. La cosa si complica e parecchio quando la stragrande maggior parte degli immigrati proviene da territori dove cultura e istruzione non esistono, o esistono in modo, per dirla col nostro “linguaggio”, ad esempio, “primitiva”. Tutte queste condizioni, prescindono assolutamente da strutture ideologiche (associare l’immigrato al nuovo proletariato ad esempio) che di fatto non esistono più. Ritengo piuttosto che uno sviluppo della “Cultura della Solidarietà” che parta dall’analisi dei comuni bisogni primari sia un argomento più funzionale verso un tentativo di integrazione, perché, teniamone ben conto, non siamo più nella condizione esclusiva di “aiuto”, ma, ci piaccia o no, gli immigrati fanno comodo ad un sistema economico di cui beneficiamo tutti che di per sé crea disuguaglianza e iniquità, permettendo al fenomeno migratorio di assumere un ruolo determinante nel nostro sistema di pro-
duzione e spesso anche di distribuzione. Così come fanno pure comodo gli “immigrati studenti”, che riempiono classi che senza di loro non avrebbero ragione di esistere, compresi i docenti (all’Università di Udine sono 400 solo gli studenti albanesi). Certe “professioni” e/o “lavori” gli italiani non sono più disposti a farli. E l’immigrato risulta “utile” anche in questo. D’altra parte, a titolo di esempio, la presenza turca in Germania e di altri immigrati (tra cui gli italiani) fu determinante per la ricostruzione post – bellica. Amburgo, nel 1987, la popolazione di oltre 2 milioni di abitanti, contava il 10% di stranieri. Le badanti, gli /le infermieri/e e altre categorie spesso si trovano “accettati” in un sistema solo per convenienza, anche se ad esempio la lingua italiana la parlano pochissimo, proprio perché, gli italiani certi lavori non li vogliono fare, e tutto ciò avviene, infine, esclusivamente per questioni di budget (un concetto di budget che tuttavia non tiene conto dell’efficienza e della qualità, nonché della capitalizzazione delle professionalità e delle esperienze, in modo particolare nel settore pubblico). Lo sfruttamento dalle mie parti di operai sloveni, serbi, macedoni, etc., nelle imprese edili è oggettivo: 350 euro al mese… ma ci sono delle leggi che lo consentono, così come avviene presso un enorme cantiere navale con la manodopera proveniente prevalentemente dal Bangladesh e le interminabili catene di appalti e subappalti che a loro volta, oltre a stipendi simili al settore dell’edilizia, permettono un mercato degli affitti aberrante con 30 persone che vivono in una camera e con prezzi, per chi semplicemente necessità di un tetto decoroso, assolutamente di conseguenza impraticabili. Concludendo, ritengo che il sistema economico e sociale attuale sia, oltre il recupero di Valori come appunto quello della Solidarietà nei bisogni primari, l’elemento fondamentale nel quale, a caduta, si possano elaborare teorie e buone pratiche che possano dare un concreto contributo a smussare le “differenze” identitarie e culturali che provocano conflittualità, pregiudizi e contrasti da una parte e dall’altra. L’insistere con atteggiamenti culturali autoreferenziali rischia di isolare e allontanare la Cultura e i suoi Valori dalla Gente, che non la riconosce più come un “Bisogno Primario” ma come un’espressione sempre più sterile dedicata a pochi eletti che certo non hanno bisogno di arrivare a fine mese come la stragrande maggioranza delle persone. Mi vengono i brividi, ma ciò che sta succedendo assomiglia molto al concetto elaborato nel Medioevo sulla cosiddetta “Musica Reservata”, dove il sistema politico e sociale si arrogava il diritto di “permettere” lo studio, la composizione, l’esecuzione musicale e la sua trascrizione esclusivamente a caste specifiche, impedendo di fatto a chi non ne faceva parte, di tramandare ogni forma musicale profana. Il risultato fu, che ad oggi non c’è quasi traccia scritta di parecchi secoli di Musica, e, paradossalmente, è l’isolamento dato dalla mancanza di infrastrutture secolare che concede oggi, di venire a conoscenza in alcune aree di veri e propri patrimoni musicali tramandati nei secoli esclusivamente per via orale. Alla faccia della “globalizzazione”. (*) Maestro di musica. Esperto di cooperazione internazionale nei Balcani
Conformità e indipendenza so- nella libertà di scelta della persona. Si ha maggiore reattività quando la libertà minacciata è qualcociale sa di importante e quando è convinzione dell'individuo di avere diritto alla libertà. Anche la censura “il conflitto e il cambiamento sono può accrescere la reattività. Voler essere indipennormali come il sole che sorge” denti può anche significare desiderare di sentirsi unici. L'indipendenza può essere diminuita o acdi Antonella Giglietto (*) cresciuta da diverse condizioni sociali, coloro che hanno un fisico attraente, o possiedono prestigio e Il conflitto tra l’impulso all’autonomia e le spinte conoscenza, hanno particolare successo nell'inall'adeguamento all'esistente, assumono un impor- fluenzare gli altri. Alcune tecniche si dimostrano tanza cruciale nella società: uniformità, conformi- funzionali ad ottenere assenso da parte degli altri tà ed obbedienza sono i tre aspetti della cosiddetta come, per esempio, esprimere un livello moderato «eguaglianza». L'uniformità dei vari tipi di atteg- di sicurezza in se stessi. Anche se perlopiù le maggiamento in vari soggetti può avere diverse motivazioni. Una di queste è la prevalenza in una società, di regole informali grazie alle quali quella cultura diventa operativa: l'uniformità è il risultato dall'adattamento automatico e acritico a quelle norme. Il comportamento del prossimo può essere utile come esempio per il proprio comportamento, l'uniformità è stimolata dalle attività di confronto sociale, le proprie idee e punti di vista vengono paragonati continuamente con quelli degli altri per ottenere maggiore sicurezza di giudizio. Si ha conformità quando l'individuo muta le proprie posizioni o le proprie convinzioni cedendo alla sollecitazione sociale: in un noto studio sulla conformità, Saloinon gioranze esercitano una grossa influenza sul comAsch chiese ai soggetti di confrontare tra loro line- portamento delle minoranze, queste possono riue di diversa lunghezza. Quando un gruppo di col- scire con successo a portare la maggioranza nella laboratori non identificabili si mostrava d'accordo loro direzione, questo spostamento ha possibilità con un giudizio palesemente scorretto, i soggetti si di verificarsi specialmente quando il singolo o le conformavano alla valutazione sbagliata nella mi- minoranze danno prova di coerenza nel tempo e di sura di un terzo delle valutazioni pronunciate. grande investimento nelle proprie idee e fiducia in Il teorico Herbert Kelman ha individuato tre pro- sé. La tendenza a conformarsi, quindi, è radicata cessi di influenza: acquiescenza, in cui la confor- nella nostra società, tanto che non è possibile commità è utile ad evitare la punizione da parte del prendere il comportamento umano senza tenerla in gruppo, l’ interiorizzazione, con cui l'individuo si considerazione. Ma come dice il Professor John C. auto-convince della bontà delle opinioni del grup- Turner la conformità non è sempre la norma: po, l’identificazione, processo con cui vengono “Chiunque guardi fuori dalla finestra in occasione assunte completamente le peculiarità e le qualità di eventi quotidiani di tutto il mondo scoprirà che dei componenti del gruppo. In culture collettiviste la resistenza, il conflitto e il cambiamento sono (soprattutto orientali), a differenza di quelle occi- normali come il sole che sorge”. Comprendere dentali, che sono maggiormente individualiste, quando ci conformiamo al mondo e alle sue praticonformarsi è necessario, poichè non farlo sarebbe che può essere utile; a seconda del punto di vista interpretato come devianza. Lo spirito di indipen- possiamo comprendere il nostro comportamento, o denza può essere favorito da diverse motivazioni quello altrui, nelle diverse situazioni in cui siamo psicologiche, le quali rendono l'individuo capace inseriti.E’ pertanto necessario essere a conoscenza di resistere alle pressioni del gruppo o agli ordini di queste dinamiche, in modo da comprendere impartiti dall'autorità. Una di queste motivazioni è come influenzano aree importanti della nostra vita costituita dalla reattività, una emozione negativa sociale. che si manifesta quando si verifica una riduzione (*) psicologa
Globalizzazione e diritto alla cittadinanza “La cittadinanza è un diritto basilare dell’uomo, nientepodimeno che un diritto al possesso dei diritti” di Olga Łachacz (*)
chance per il riconoscimento dei diritti che gli sono innati cresceranno. Guadagnano del significato, allora, le parole espresse nel 1958 dal Presente della Corte Suprema americana, Earl Warren: “La cittadinanza è un diritto basilare dell’uomo, nientepodimeno che un diritto al possesso dei diritti”. Nel mondo contemporaneo è possibile individuare la presenza del diritto alla cittadinanza nelle vigenti fonti del diritto internazionale, e il suo contenuto consiste nel diritto all’acquisto della cittadinanza, nel divieto della sua privazione e nel diritto di cambiare la cittadinanza. Tuttavia il diritto alla cittadinanza non è ancora un diritto soggettivo e non implica nessun obbligo spettante ai singoli stati. Il riconoscimento del diritto alla cittadinanza crea le più grosse difficoltà perché è legato ad un’eliminazione assoluta dell’apolidìa. Perciò una sola proclamazione del diritto alla cittadinanza nei documenti internazionali non basta, visto che bisogna elaborare dei meccanismi della sua realizzazione. Il bisogno, legato all'effettivo riconoscimento del diritto alla cittadinanza, viene intensificato anche dai processi di globalizzazione e, da essa risultanti, fenomeni di migrazione. Essi accrescono, sfortunatamente, il disvalore intercorrente tra le condizioni che in un dato territorio sussistono tra cittadini e stranieri e ci fanno intavolare il tema della modalità d’acquisto della cittadinanza. Con una migrazione più intensa i principi tradizionalmente applicati, quali lo ius soli e lo ius sanguinis, si rivelano insufficienti. Il criterio di un legame effettivo con lo stato, dove ci si vive per un tempo adeguatamente lungo, potrebbe costituire una soluzione da adottare, premesso che questa sia l’unico completamento del sistema tradizionale. Nei tempi odierni bisognerebbe percepire la cittadinanza dalla prospettiva dei diritti umani, riconoscendo, da una parte, il fatto che essa sia legata all’idea di questi diritti, e dall’altra il fatto che costituisca la loro indiretta garanzia. Si può constatare che la cittadinanza, a prescindere dalla sua interpretazione in quanto categoria giuridica, costituisca anche un dato stato di coscienza umana, nonché stato di convinzione riguardo alla sua appartenenza ad una struttura statale concreta. La cittadinanza garantisce la sicurezza, la mancanza della quale viene spesso sottolineate dagli individui che l’apolidìa riguarda personalmente. Lo sviluppo del diritto internazionale e l’impatto di esso sul diritto interno degli stati ci fa sperare che col tempo il diritto alla cittadinanza diventi il diritto soggettivo che goda di una tutela internazionale.
I processi di globalizzazione hanno un forte impatto su diversi ambiti dell’attività dell’uomo e dello stato. Influiscono sulla vita sociale, economica nonché quella politica portando alla rivalutazione delle istituzioni già esistenti e al loro funzionamento. Un esempio interessante di tale istituzione può essere costituito dalla cittadinanza che pur essendo fortemente radicata nella tradizione degli stati nazionali, non si era opposta alle modifiche apportate dal progresso civilizzatore. La cittadinanza, intesa in chiave giuridica, implicava sempre l’appartenenza ad uno stato concreto con tutti i diritti e doveri da essa risultanti. Invece, dal punto di vista sociologico, la cittadinanza descriveva l’identità dell’individuo, anche di natura politica, e perciò, in questo caso, andava oltre l’ambito puremente giuridico. Attualmente, la stessa cittadinanza, sia nel senso giuridico che politico, è diventata un’istituzione il contenuto e il significato della quale si adattano alle esigenze di una realtà mutevole. I giuristi percepivano la cittadinanza in quanto collegamento tra l’individuo e lo stato. Quando, dopo l’avvento della Seconda Guerra Mondiale, si è assistito ad uno sviluppo del diritto internazionale dei diritti umani, si erano verificati dubbi in merito al fatto di garantire ad ognuno la tutela dei diritti umani e il ruolo che la cittadinanza gioca a questo proposito. Nonostante il riconoscimento dei diritti umani come innati ad ogni uomo indipendentemente dalla cittadinanza, non si può negare che la possibilità di godere in modo effettivo di tali diritti sia condizionata dal fatto di essere cittadini di uno stato. Possedendo la cittadinanza, trattiamo in modo naturale i diritti e doveri che ne risultano senza immaginarsi che cosa succederebbe se ne fossimo privati. Lo stato è soggetto che tutela anzitutto gli individui che appartengono ad esso, da ciò risulta che l’apolide è completamente privato dalla tutela del genere. Così come un intenso sviluppo del catalogo dei diritti umani è avvenuto dopo le esperienze della Seconda Guerra Mondiale, anche i casi di privazione della cittadinanza arbitrariamente, di senza patria e di discriminazioni sociali hanno causato la necessità di completare questo catalogo con un diritto nuovo, cioè il diritto umano alla cittadinanza. Lo scopo di tale diritto è quello di assicura- (*) Docente Scuola Superiore di Polizia a re la cittadinanza ad ogni individuo, grazie a ciò le Szczytno (PL) Traduzione: Anna Górska
La forza di vivere: la speranza di sta persona ha dovuto affrontare, insieme alla sua essere ricordati, la dignità e il co- amabile famiglia, un lungo iter sia dal punto di viraggio sta logistico ( si doveva spostare dalla Calabria) sia di Valentina Arcidiaco (*) L'arte della vita sta nell'imparare a soffrire e nell'imparare a sorridere Herman Hesse
Nel 2010 abbiamo perso qualcosa: nella vita di tutti i giorni, nella politica, nell’economia, nel patrimonio artistico-ambientale, nei rapporti interpersonali. In questo spazio a me dedicato vorrei tanto essere vicina alle persone che nell’anno 2010 hanno perso un familiare o che ancora lottano contro mali definiti “ incurabili” nonostante la scienza abbia fatto passi da gigante. Nell’anno 2010 è morto un giornalista a me molto simpatico, Pietro Calabrese, il quale, oltre ad essere un giornalista di fama mondiale, era anche un articolista per una rivista che esce settimanalmente, un inviato all’estero, ed è stato anche capo redattore di molte importanti testate. Pietro ha cercato di far conoscere ai lettori del settimanale Magazine del “Corriere della Sera”, con le sue “Moleskine”, come stava affrontando il tumore che l’ha portato via il 12 settembre 2010, affrontando l’argomento come se scrivesse di un amico che era andato a fare un normale controllo di routine durante il quale aveva preso coscienza di essere affetto da questo male incurabile. Gino, il nome dell’amico di Pietro,il suo alter ego, ha tenuto legati milioni di lettori che speravano, leggendo quelle righe, che si riprendesse, che sconfiggesse “ quei pipistrelli”, che lo avevano assalito,che riuscisse a scrivere ancora delle sue passeggiate, dei suoi cani, delle persone incontrate al parco. La posta elettronica di Pietro Calabrese è stata invasa letteralmente da messaggi di speranza e sostegno, il suo intento era quello di :" riuscire a portare una speranza a tutti coloro che si trovano a intraprendere lo stesso percorso che ho iniziato io più di un anno fa, e spero di esserci riuscito, almeno in parte". Purtroppo, la terapia non ha dato i risultati sperati, ma tutto è stato raccontato in un libro , uscito postumo, “L’albero dei mille anni” edito da Rizzoli, nel quale Calabrese non racconta soltanto della malattia ma anche del modo in cui la si può affrontare con forza nonostante gli effetti devastanti delle cure, cercando di svolgere una vita “normale” circondato dalle attenzione e dall’affetto dei familiari, degli amici ma anche di tanti sconosciuti lettori e ammiratori di Pietro-Gino. Nello stesso periodo purtroppo, un'altra persona a me cara si è ammalata di un male “oscuro, incurabile, di prognosi infausta”; così come Pietro anche que-
dal punto sanitario ( si sottoponeva ad ogni tipo di cura). Anche questa persona purtroppo ci ha lasciati il 10 dicembre 2010 a quasi tre mesi dalla morte di Pietro, anche lui uomo di indescrivibile bontà e operosità,lavoratore, padre e marito attento e premuroso. Anche lui come Pietro aveva deciso di continuare a usare le parole e a comportarsi con dignità, coraggio e forza. Affrontare in un articolo il dramma della malattia sembrerà riduttivo ma, prendendo esempio da Pietro, di queste cose bisognerebbe parlarne di più, capire e cercare di dare un senso, cercare di essere solidali, non rifugiarsi nel proprio dolore ma fare come queste persone che hanno lottato finché hanno potuto, speranzosi,senza mai arrendersi. E, nel caso i nostri malati non riuscissero a sopravvivere, dar loro la certezza che comunque essi rimarranno vivi nelle nostre menti e nei nostri cuori.Seguire ogni strada, ogni speranza, fare di tutto per loro significa essere accanto a loro, essere familiari di queste persone, significa alimentare anche una fievole speranza se non di guarigione ma,almeno, di un minimo miglioramento, pur sapendo che, se la “prognosi è infausta” e le possibilità sono ridotte; bisogna prendersi cura della qualità di vita del malato, amarlo in questi momenti molto di più di quanto si sia fatto precedentemente. E’ vero la ricerca scientifica continua a fare progressi, ma forse la cosa che dovrebbe interessare al mondo scientifico dovrebbe essere l’aspetto di quella parte di malattia che riguarda la fine, che riguarda la famiglia e il dopo, a livello non solo medico ma soprattutto psicologico per chi rimane. Nella mia professione di psicologa e nella vita personale ho visto famiglie che hanno dovuto affrontare malattie di tipo invasivo spesso senza trovare conforto se non all’interno della propria famiglia; si dovrebbe riflettere molto di più sul sostegno alle persone che rimangono, attivare molti più interventi per la terapia del dolore, in modo da rendere meno drammatica e traumatica la lotta intrapresa dal malato e da color che gli sono accanto contro quelli che Pietro Calabrese, nei suoi articoli chiamava “ pipistrelli” o “pianeta cancro”. Un ultimo pensiero a coloro che rimangono dopo aver lottato accanto a chi ci ha lasciato: bisogna trovare dentro se stessi le proprie risorse personali con la stessa forza e lo stesso coraggio ma soprattutto la stessa dignità che hanno dimostrato quelle magnifiche persone che non sono più fisicamente accanto a noi ma che rimarranno per sempre fra le pagine della nostra vita. (*) psicologa
Indossare il burqa… non è un reato
di Mariella Vizzari (*)
re. Ciò che, ad avviso dei giudicanti, rileva sotto il profilo giuridico è che non si è in presenza di un mezzo finalizzato ad impedire, senza giustificato motivo, il riconoscimento. Difatti, il richiamo all’art. 5 della Legge n. 152/1975, consente, nel nostro ordinamento, che una persona indossi il velo per motivi religiosi o culturali; le esigenze di pubblica sicurezza sono soddisfatte dal divieto di utilizzo in occasione di manifestazioni e dall’obbligo per tali persone di sottoporsi all’identificazione ed alla rimozione del velo, ove necessario a tal fine. Resta fermo che, ad avviso del Supremo Organo Giudicante, tale interpretazione non esclude che in determinati luoghi, o da parte di specifici ordinamenti, possano essere previste, anche in via amministrativa, regole comportamentali diverse incompatibili con il suddetto utilizzo, purchè, ovviamente, trovino una ragionevole e legittima giustificazione sulla base di specifiche e speciali esigenze. Ed invero, dando uno sguardo al resto d’Europa, si rileva che in Francia è stato approvato il disegno di legge in ordine al divieto di indossare in luoghi pubblici il burqa ed il niqab, il velo islamico integrale. Pertanto, nel nostro ordinamento si ritiene necessario un intervento legislativo preciso al fine di consacrare il divieto del burqa, poiché la giurisprudenza contemporanea non dà gli strumenti essenziali per proibire alle donne musulmane di coprirsi in pubblico. Tuttavia, non dimentichiamo che l’individuo, la propria cultura, lingua e tradizione, è fondamentale in una società multietnica come la nostra, ecco perché, nel caso in cui si vanno a ledere dei diritti inalienabili come quelli relativi alla dignità umana, al diritto di scelta, alla democrazia, è condivisibile la tesi secondo la quale debba esistere un limite dettato dal riconoscimento di questi diritti fondamentali. La libertà di professare una religione, il diritto di perpetuare una cultura, finisce laddove viene meno la libertà dell’individuo. Ne consegue che l’obiettivo di integrazione, tanto auspicato in una società multirazziale, deve passare attraverso un processo di affermazioni di diritti come libertà personale e rispetto delle persone in quanto tali.
“Il burqa non è né una maschera, né costituisce un mezzo atto a vietare il riconoscimento”. Lo afferma il Consiglio di Stato nella Sentenza n. 3076 del 15 Aprile 2008 depositata in segreteria il 19 Giugno 2008, con la quale ha definitivamente bocciato l’ordinanza emessa dal Sindaco leghista - Enzo Bortolotti - del Comune di Azzano Decimo (Pordenone) contro l’uso del burqa nel proprio territorio. Ed invero, il punto centrale della controversia atteneva proprio all’interpretazione delle norme che vietano di comparire mascherati in luogo pubblico. Ebbene, secondo i giudici amministrativi, è del tutto errato il riferimento – operato dal Comune di Azzano - al divieto di comparire mascherato in luogo pubblico di cui all’art. 85 del R.D. n. 773/1931, in quanto è evidente che il burqa non costituisce una maschera, ma un tradizionale capo di abbigliamento di alcune popolazioni, tuttora utilizzato anche con aspetti di pratica religiosa. Altresì, il Consiglio di Stato ritiene non pertinente il richiamo, secondo la tesi sostenuta dal citato Comune, all’art. 5 della Legge N. 152/1975 che vieta l’uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo, poiché si ritiene che il velo integrale “non costituisce una maschera, ma un tradizionale capo di abbigliamento, tuttora utilizzato anche con aspetti di pratica religiosa”. La ratio di quest’ultima norma, diretta alla tutela dell’ordine pubblico, è quella di evitare che l’utilizzo di caschi o di mezzi possa avvenire con la finalità di evitare il riconoscimento. Tuttavia, un divieto assoluto vi è solo in occasione di manifestazioni che si svolgono in luogo pubblico o aperto al pubblico, tranne quelle di carattere sportivo che tale uso comportino. Negli altri casi, l’utilizzo di mezzi potenzialmente idonei a rendere difficoltoso il riconoscimento è vietato solo se avviene “senza giustificato motivo”. Orbene, con riferimento al “velo che copre” il volto, o in particolare al burqa, si tratta di un utilizzo che, generalmente, non è diretto ad ottenere il riconoscimento, ma costituisce attuazione di (*) avvocato una tradizione di determinate popolazioni e cultu-
“L’enigma dei numeri primi” visione razionale della realtà è un dato di fatto che di Marcus du Sautoy (ed. Bur trova conferma sia da episodi storici che da racconti avvolti dalla leggenda. Una leggenda particolarmente pagg. 606, euro 12,00) affascinante e rappresentativa è quella che narra della condanna a morte del pitagorico Ippaso, avvenuta per annegamento durante un naufragio, ed eseguita da una di Gianni Ferrara divinità su ordine di Pitagora. Ippaso si era macchiato di una colpa imperdonabile, aveva rotto il giuramento Al Congresso internazionale dei matematici, tenutosi a del silenzio rivelando ai “profani” un segreto Parigi nell’agosto del 1900, Hilber prese la parola e “iniziatico”, ma a rendere la sua colpa ancora più grapropose ai suoi colleghi una sfida: risolvere ventitre ve era la pericolosità del segreto che aveva divulgato. problemi, che ancora insoluti, vivevano nel regno del Pitagora aveva scoperto che il risultato della radice caos. Sempre a Parigi, esattamente cento anni dopo la quadrata di 2 era un numero illimitato non periodico, sfida lanciata da Hilbert, un gruppo di matematici di un numero irrazionale. L’esistenza dei numeri irraziofama mondiale annunciarono un nuovo elenco di sette nali, con tutte le conseguenze matematiche e filosofiproblemi da risolvere, i Millennium Problems, sei ineche che comportava questa scoperta, era una “verità” diti più uno che era già presente nella lista di Hilbert che le “persone comuni” non sarebbero mai riuscite a all’ottava posizione: dimostrare l’ipotesi di Riemann. gestire senza precipitare in una profonda crisi. Quella Du Sautoy apre questo meraviglioso saggio proprio era una “verità” da conoscere e custodire solo all’indall’ipotesi di Riemann, per poi condurci in un viagterno di una ristretta cerchia di pitagorici, quelli che gio nel tempo in cui ci mostra le sfide, le vittorie e le essendo particolarmente sconfitte dei più grandi matematici della storia. Da dotati non avrebbero rimesso sempre i matematici sono stati impegnati a risolvere i in discussione tutti i principi misteri nascosti dei numeri, e in modo particolare fino ad allora dimostrati. quelli dei numeri primi; alcuni sono stati risolti, altri Ippaso mettendo tutti a coinvece, come quello di stabilire se l’ordine di sucessionoscenza di questa scoperta ne dei numeri primi sia casuale o fissato da delle regoaveva scatenato l’ira del suo le, rimane tutt’oggi immerso nella fitta nebulosa delle maestro meritando così la congetture. Bernhard Riemann nel 1859 formulò un’ipunizione più severa: la potesi, che porta il suo nome, a questo essenziale quemorte. In questo appassiosito matematico, ipotesi che ancora attende nel limbo nante libro Marcus du Saudelle verità scientifiche di venire promossa a teorema. toy, narrandoci della vita di Se la dimostrazione dell’ipotesi di Riemann è un diuomini straordinari che hanlemma matematico, gli interrogativi in essa contenuti e no dedicato la loro vita ad le eventuali risposte hanno anche un loro valore filosoesplorare l’infinito mondo dei numeri, e conseguentefico. Non a caso Hilbert, in un’intervista, affermò di mente non solo quello, e utilizzando la forza della ritenere l’ipotesi di Riemann il problema più impormente e il potere del ragionamento, ci porta ad interrotante, non soltanto della matematica ma il più imporgarci sull’essenza di tutto ciò che è. Leggere questo tante in assoluto. In effetti i numeri hanno sempre avulibro significa affascinarsi dinanzi alle opere d’arte del to il compito di “ordinare” la realtà, e i numeri primi, pensiero umano, l’arte Reale per eccellenza che pone in quanto costituenti della realtà numerica, più degli l’uomo sul suo giusto trono. Sono ormai molti i matealtri non dovrebbero sfuggire a un ordine stabilito. I matici che sostengono l’impossibilità di risolvere l’inumeri primi, in fondo, sono come gli atomi, e se quepotesi di Riemann, ma anche nel caso che qualcuno sti si presentano secondo un ordine casuale lo stesso riuscisse a dimostrarla questa “soluzione” ci porterebdeve valere per le microscopiche particelle di materia. be davanti ad un nuovo dedalo di infinite ipotesi e Se però non riconosciamo alla “casualità” un suo valocongetture. La matematica rappresenta più di qualsiasi re di “ordine” non ci resta che affermare che il altra disciplina la ricerca umana: lo svelamento di una “Grande Libro” della natura sia stato scritto da Monverità non è mai il raggiungimento della Verità ultima, sieur il Caso. Ma da questa affermazione hanno poi ma una tappa dell’inesauribile cammino della conoorigine una serie di domande, come ad esempio: cosa scenza. Il matematico francese André Weil disse: “Dio sono il Caso, il Caos e l’Ordine? E ancora, Caos e esiste perché la matematica è coerente, e il demonio Ordine sono davvero due opposti inconciliabili? L’Oresiste perché non possiamo dimostrare che lo è”, e se dine è determinato dal caos o il Caos ha un ordine davvero fosse così noi abbiamo un debito di riconoincomprensibile per noi? Tutte queste domande, infiscenza maggiore verso il secondo rispetto al primo, ne, ne nascondono una che per alcuni suona terribile: e perché è proprio il “vuoto” generato da quell’assenza se noi fossimo i figli del Caos? Ed io quest’ultima la di certezza che ci spinge sempre più lontano, in quel rafforzerei formulando un’altra domanda: perché l’imagnifico viaggio che la semplice accettazione di una dea di essere i figli del Caos ci spaventa così tanto? “verità” non dimostrata ci avrebbe impedito di iniziaChe alcune scoperte matematiche abbiano portato a re. delle situazioni critiche sul piano filosofico e sulla
Marx in cui vi è l'uomo generico contrapposto alla umanità, rappresentata come unità compiuta in sé. L'uomo generico, al contempo, è capace di evolversi e diventa homo sapiens (di conseguenza anche demens), homo faber (attivo nella creziodi Elisa Cutullè ne), homo mitologicus (che si avvicina e si afEdgar Morin è uno dei più grandi pensatori at- fianca al divino), uomo ludens (che apprezza i tualmente in vita: è un profondo conoscitore di Marx. Un valido esempio ne è la raccolta che contiene 5 testi pubblicati tra il 1960 e il 1993. Si tratta di cinque percorsi, di cinque sguardi sull'autore: una sorta di percorsi di scoperta di un viaggio sociale incentrato su Marx ma anche visualizzazione di un percorso di globalizzazione. Il primo capitolo è dedicato a “L'aldilà filosofico di Marx”; il secondo a “La dialettica e l'azione” con uno sguardo sui surrogati sintetici, l'idealismo materialista, il materialismo idealista, la rarefazione politica ed il disgelo politico e dialettico, Il terzo capitolo contiene “Frammenti per u- piaceri) e probabilmente un homo complexus, un n'antropologia”; il quarto capitolo è dedicato a uomo che, allo stesso tempo riunisce ad annulla “Marxismo e sociologia” con un'analisi della pie- tutte le diverse tipologie di umanità. trificazione del marxiIl circuito di “ingenerazione”, rivela i suoi tratti smo, del vero apporto di struttura e di sovrastruttura, manifestando una del marxismo alla sodialettica dialogica che non solo supera ma anche cietà ed una valutaziointegra il sistema dialettico hegeliano marxista. ne della riprisitinabiliNel 1989 Morin riscopre Marx, ma come pensatà del pensiero marxitore della mondializzazione. Questa interpretaziosta; il quinto, ed ultine, proprio nell'anno in cui cade il muro di Berlimo capitolo, si incenno e comincia a sbriciolarsi la grande potenza tra su “alla ricerca dei della Russia, lascia un po' perplessi: Come può fondamenti perduti” Marx essere considerato un fautore della mondiaanalizzando la diffilizzazione? coltà sociale derivante Morin, pur non condividendo lo spirito polemico dalla perdita dei fondi Marx contro Stirner ed alcune sue interpretadamenti esistenziali. zioni un po' troppo “rigide”, evidenzia come L'autore stesso sottolinea che è una scoperta di se Marx, non essendo dominante, anche se multiprestesso sia come marxiano che come marxista, sue sente, riesce ad essere un personaggio chiave nel aspetti simili ma non equivalenti. processo della mondializzazione. Chi era Marx? Un titano del pensiero, un pensa- Morin riesce, in questa raccolta, a dimostrare, a tore complesso, un comunista. Di questa perce- tutti gli effetti, come l'opera di Marx sia veramenzione l'autore condivide l'interpretazione hegelia- te proficua ed utile per scoprire magagne e strutno-marxista, mantenendo una fedeltà alla pro- ture di un sistema dogmatico e chiuso, la diversa spettiva marxiana. visione culturale, gli sforzi “impotenti” delle opSi potrebbe affermare che il percorso su Marx si posizioni e la vera essenza del “non potere”. articola in quattro passaggi: In altri termini ci fornisce le dritte per poter uti1. Etichetta marxista non è interessante lizzare l'opera e il pensiero di Marx, per districar2. Elaborazione del pensiero post-marxiano ci nel complesso panorama politico odierno. 3. Definizione competenze polidisciplinari Un invito a rileggere Marx, a considerarlo come 4. Scoperta della teoria dei sistemi un pensatore moderno e, per la sua epoca, forse Nella fase di contrapposizione si sviluppa un in- troppo all'avanguardia e anche sottovalutato. teresse per i manoscritti dell'opera giovanile di Edgar Morin “Pro e contro Marx” (Edizioni Eriksson, pagg. 112, euro 8,50 )
Viaggio nelle parole
di Mimmo Codispoti
In quel giorno d’autunno, guardandosi nello specchio, si ritrovò invecchiato, più cattivo, più povero di sogni, di illusioni, rispetto a quando c’era l’idealità del comunismo, si identificava la A con l’Amicizia verso l’uomo, con l’Amore verso la vita, con l’Anarchia, c’era l’età e la voglia di ascoltare e credere nelle favole. Nel tempo s’era sempre più convinto che gli uomini di una volta fossero migliori degli uomini di adesso e che la ormai prossima era glaciale avrebbe cancellato tutte quelle figure sbiadite, più stinte che senza colore, che rendevano grigio, come la nebbia in Padania, il paesaggio della politica. Ora doveva scegliere se, nel dialogo, doveva vestirsi da cerimonia, adattandosi alla moda, o coprirsi con l’eskimo, continuando ad essere se stesso, senza infingimenti, falsità, convenevoli. Sapeva bene che in questo mondo, occupato da imbroglioni e da gente da poco, aveva perso la libertà, soffocato dalla necessità del lavoro, spinto dal senso della dignità di svolgere comunque il suo compito, dalla coscienza di non abusare di nulla e nessuno, dagli obblighi sentiti verso il prossimo. E i compromessi, per mantenere la pace fra gli ulivi, avevano scandito il suo tempo e intristito il suo cuore di vergogna. Non si era mai arreso, mai aveva rinunciato a fare quello in cui credeva, a scegliere, sempre nell’osservanza dell’etica e della morale, mentre intorno a lui, per raggiungere “il potere”, vedeva tanta gente squallida che si vendeva e si faceva comprare. Così mentre a lui per vivere bastava guardare la luce dell’alba e i colori del tramonto, quelli davano tutto, tranne l’anima, per raggiungere i loro scopi. Tranne l’anima perché, secondo il suo giudizio, la loro vita era stata caratterizzata dall’avere più “quello”, il culo, che quella, l’anima. Il rispettare, da respicio, guardare indietro, richiede che gli occhi sappiano vedere. Aprire gli occhi e contemplare è la condizione sine qua non per proteggere, custodire. Dall’osservazione dei fenomeni, dalla percezione di ciò che è, l’uomo entra in relazione con gli altri esseri, comunica, da communico, entro in rapporto. Ed ecco la parola, con la magia delle sue lettere, come segno e mezzo di comunicazione, contrapposta al silenzio, forma di rifiuto, tacito assenso di incomunicabilità. Avvertiva che tempo, spazio, relazione, punti di riferimento della nostra presenza nel mondo, ed essere, avere, appartenere, le variabili con cui questa presenza si realizza, non sono più sotto il controllo della saggezza. Inquietudine e cupidi-
gia hanno sovvertito le priorità, creando disarmonia e caos. Considerava suo fine il lasciare una positiva impronta, esercitare la propria creatività, appropriarsi dei beni materiali e dello spazio, non nella dimensione del possesso assoluto e privativo ma in quella dell’utilizzo e della condivisione. Provava a reagire alla filosofia del nulla e del carpe diem, all’assenza dei valori: chiedeva che le leggi dell’economia fossero sottomesse a quelle dell’ecologia, per giungere all’ecosofia, passando dal conoscere della scienza al sapere della saggezza. Non voleva insegnare la vita, il tempo sarebbe stato il maestro ideale per tutti, ma nel girotondo, fra patetici pagliacci ed eroi senza spade e senza terre, avrebbe voluto che la libertà e la cultura si diffondessero, diventassero reali, non naufragassero in un mare d’ipocrisia e d’ignoranza. Andava così al largo, alla ricerca del visibile e dell’invisibile, tra ciò che è e ciò che sarà, alla ricerca della luce, spostandosi dal silenzio e dalle tenebre al bagliore. La voglia d’oblio della realtà, lo portava a relegare nel sogno l’utopia del mondo che verrà, dove non ci sarebbero state processioni di rimpianti, labirinti di banalità, eterni fallimenti di chi, senza mezzi e senza futuro, era preda di famelici lupi. Continuava ad essere un sognatore e a differenza dell’adolescenza, dove c’era sempre qualcuno che gli dava consigli non voluti e non richiesti, ora nessuno riusciva a soffocare il suo senso di rivolta e di protesta. Non stava a preoccuparsi che nessuno seguisse il suo disquisire, sapeva che la verità è un optional in questo mondo di bugiardi, dove i conformisti si travestono da maghi, politici, preti, dirigenti, e i ragazzi non affidano più al diario le fasi della propria crescita ma le diffondono in rete, nelle agorà informatiche. Affrontava la vita con dignità e combatteva le sue battaglie nei suoi viaggi quotidiani in solitudine, senza il conforto della fede, senza cori di approvazione, senza soste in comunità accomodanti e accoglienti. E raccontava le sue storie senza poesia, senza predizioni, a volti sconosciuti che mai avrebbe visto e a cui avrebbe continuato a cantare le sue non canzoni all’infinito e per tutto il suo tempo. Ora andava via, liberando quella scuola da chi esprimeva, con parole ed esempi, il desiderio della conoscenza, da chi additava comportamenti e stili di vita che racchiudevano l’uomo nella sua duplice essenza di organismo animale più evoluto e di animale culturale, volando via come un aquilone, un palloncino, una rondine. Uscendo si imbattè in uno stand su cui un cartello giallo con una scritta nera diceva: “Lega per la difesa del cane”. Alcuni volontari erano indaffarati a raccogliere le adesioni mentre, in un angolo, un cane se ne stava accucciato sul terreno, con la coda fra le gambe e lo sguardo perso nel vuoto. Aderì all’invito non vedendo l’ora, in difesa di quel cane, di abbaiare agli uomini per porre fine, con un bau, al suo viaggio nelle parole.
Appunti sulla teoria della distruzione di Winfried Sebald
di Claudia Ciardi Il libro di Winfried Sebald, Storia naturale della distruzione, (titolo originale: Luftkrieg und Literatur) tradotto da Ada Vigliani, è una raccolta di tre saggi dedicati alla descrizione della “strategia” dell’area bombing e al suo impatto sui civili tedeschi. L’autore si sofferma soprattutto su come l’esperienza dei bombardamenti sia stata assorbita dall’immaginario collettivo tedesco e rielaborata attraverso la scrittura. Il saggio di chiusura, il quarto dunque nell’architettura dell’opera, fa parte per sé ed è un articolo monografico sull’attività letteraria di Alfred Andersch, attorno a cui è peraltro in corso in terra tedesca un dibattito sulla sua riabilitazione. Descritto come un trasformista che cercò di cavalcare e sfruttare ai fini della sua carriera letteraria i rovesci della situazione politica del proprio paese, Sebald ne fa emergere il volto più enigmatico e sfuggente, qui proposto quale “massima e più compiuta espressione” di quella strenua volontà, di cui la Germania del dopoguerra si è solertemente nutrita, di rimuovere gli eventi o ricostruirli secondo una versione considerata accettabile. La coscienza collettiva del popolo tedesco, che per sopravvivere aveva bisogno di dormire sonni tranquilli, e perciò di non scontrarsi con la nuda realtà fatta di macerie e sconfitte, secondo l’analisi di Sebald, aspirò e raggiunse una sorta di apparente “atarassìa” del ricordo, un limbo del pensiero in cui il trauma delle vicissitudini di guerra, stemperato, deformato, quando non addirittura messo alla porta senza tante cerimonie, ha costituito la base più solida ma allo stesso tempo pesantemente minata al suo interno, del tentativo della Germania di recuperare uno spazio politico, economico e culturale nell’occidente appena uscito dal conflitto mondiale. Quello che intende rilevare Sebald è il grande paradosso che ha alimentato la cultura e i sentimenti pubblici e privati nel dopoguerra tedesco: anziché ricostruire sulle vive tracce della memoria, è stato innalzato un edificio che ha le sue fondamenta nell’oblio. A naturale compendio di quanto si è detto vengono in mente le parole di Elias Canetti, che vedeva nella deformazione del ricordo la madre di ogni frainten-
dimento, fino alle sue estreme conseguenze. Il titolo della versione italiana, configurando lo studio di Sebald come un contributo all’analisi della psicologia collettiva plasmata sulla desolazione della guerra, riprende il saggio concepito, e mai messo in cantiere, dal britannico Solly Zuckerman a proposito del bombardamento a tappeto che rase al suolo Colonia, argomenti ai quali lo scrittore riserva una parte del suo commento. Quasi fosse una tessera nel mosaico di un più ampio ragionamento sulle attitudini e le derive della società di massa, Sebald articola i suoi saggi facendo cadere l’accento sul modo in cui si organizzano i comportamenti umani e il loro concreto manifestarsi. Tutto ruota attorno alla incontrollabile pulsione a distruggere e, come per ogni istinto liberato, all’impossibilità di indirizzarlo a un vero obiettivo. Quel che si è soliti definire una strategia si mostra allora per ciò che è: il caos dettato da una necessità senza freno e ben più forte della regola economica, che trova la sua rassicurazione teorica nel professare la “salvezza del mondo” dal nemico. Semmai questi sono i pretesti, sicuramente le mani che hanno aperto e guidato il gioco a distanza, e le motivazioni che bisognava cucire sulle uniformi dei ragazzi spediti in missione. Ma ogni cosa, in un crescendo efferato di truce parossismo, è finita confusa al delirante groviglio: la cosiddetta salvezza ha distrutto “ab imo” ciò di cui si è dichiarata la più valida paladina. Di qui la conclusione che svuota e annulla qualsiasi tentativo di costruzione dialettica attorno alla pratica di guerra: “La guerra costruita sui bombardamenti era guerra in forma pura e scoperta. Dal suo sviluppo, contrario a qualsiasi razionalità, si può rilevare come le vittime di un conflitto (secondo quanto scrive Elaine Scarry nel suo libro di straordinaria acutezza The Body in Pain) siano non già vittime sacrificate sulla via che conduce a un qualche obiettivo, bensì esse stesse – nel vero senso del termine – e l’obiettivo e la via.” (Sebald, p. 31) L’ “epoca delle rovine”, così la chiama anche Roberto Carifi mentre ripensa ai giochi della propria infanzia “in uno spiazzo sterrato e desolato, circondato da edifici sventrati e cadenti”, orlando la vita e la parola ne scandisce l’istante della lacerazione e continua a farvi risuonare la sua eco. Epifania di un senso interrotto che, al deflagrare di
ogni cosa, rivendica per sé un nuovo spazio nel mondo. C’è una consonanza, un accordo sonoro e sensibile, tra ciò che abita l’infanzia di Carifi, non a caso studioso e traduttore di una parte cospicua della produzione poetica tedesca del ‘900, e l’impressione che Sebald riserva a se stesso da bambino: “Ho trascorso l’infanzia e la giovinezza in una zona che si estende lungo il margine settentrionale delle Alpi, zona largamente risparmiata dalle immediate conseguenze delle cosiddette operazioni militari. Alla fine della guerra avevo appena un anno ed è quindi difficile che, di quell’epoca segnata dalla distruzione, io possa aver serbato impressioni fondate su eventi reali. Eppure ancor oggi, quando guardo fotografie o documentari del periodo bellico, ho come la sensazione di esserne il figlio, come se di là, da quegli orrori che non ho vissuto, cadesse su di me un’ombra alla quale non potrò mai sfuggire del tutto. […] Le immagini dei sentieri di campagna, dei prati rivieraschi e dei pascoli montani vengono a confondersi davanti ai miei occhi con quelle della distruzione, e – in maniera perversa – sono proprio queste ultime, non gli idilli infantili divenuti ormai assolutamente irreali, a darmi un senso di casa, forse perché rappresentano la realtà più potente, la realtà dominante dei miei primi anni di vita. Oggi so che allora, mentre ero disteso nella culla sull’altana della nostra casa di Seefeld e, socchiudendo gli occhi, guardavo in su verso il cielo bianco-azzurro, dappertutto in Europa erano sospese nuvole di fumo”. (Sebald, pp. 74-76) Questo agitarsi ossessivo di ombre nella retina dei “figli della guerra” fa parte di un nodo di memorie che chiede di essere sciolto e al contempo respinge chi cerca di attirarlo alle proprie mani; così il suo rivelarsi si ritrova ogni volta confiscato da altre figure d’ombra, artigliato da una lontananza originaria e sostanziale, e il tentativo di abbracciarlo e interporvi un tempo che è al di là della sua misura ne fa una creatura ad-veniente. “Abitare le tracce di un ignoto disastro e offrire ogni cosa ad una vertigine vuota e distante”, così l’Infanzia e poesia di Roberto Carifi esorcizza l’attimo dove, al deviare del vivere umano, si è aperta la ferita contemporanea ma non distoglie lo sguardo da quell’“Angelo bruciato” che sovrasta la “terra desolata” ormai sconfinante sul nostro passaggio. Si tratta di un’inconscia fedeltà a lambire quel che i suoi occhi hanno visitato all’origine della sua stessa fede nel mondo, nella stagione in cui, infanti, ci pieghiamo a guardare le cose e a sillabare le parole che le raccontano, antico ritornello dei secoli, un sentire che tuttavia si vede afferrato dalla perdita e dall’impotenza che riportano indietro. È l’Angelus Novus dipinto da Paul Klee, nel quale
Walter Benjamin riconosce l’angelo della storia con lo sguardo fisso a un passato da cui vorrebbe allontanarsi ma che proprio nel procedere oltre accumula ai suoi piedi il disastro e lo trascina con sé. Ed è in questa stessa immagine che si rappresenta anche l’idea dell’andare in pezzi, beffardamente incarnata dall’“omino con la gobba”, il trickster che anima la celebre filastrocca tedesca recitata da Benjamin a conclusione dell’itinerario ispirato all’Andenken della sua infanzia berlinese: “Chi è guardato da questo gobbetto, perde la bussola. Non bada a se stesso, e neanche al gobbetto. Si ritrova stordito davanti a un mucchio di cocci.” Così, nella disarmante sconfessione di una possibilità di uscita dal giro degli eventi e conseguentemente dell’acquisizione di esperienza da essi, si intravede la soglia sulla quale è raccolta la fragilità della testimonianza umana e “poietica”, ossia del suo divenire qualcosa in opposizione al sopravvenire di tutto, come nella parola che, contesa tra orrore e bellezza, si fa poesia, né è da considerarsi un caso che proprio l’immagine di Benjamin tagli a metà il libro di Sebald e s’incida come epigrafe che riflette l’inconciliabile necessità che in ogni epoca segna l’incerto avanzare degli uomini.
Testo analizzato: - Winfried Sebald, Storia naturale della distruzione, traduzione italiana di Ada Vigliani, Adelphi, 2004 [titolo originale “Luftkrieg und Literatur”] Altri riferimenti bibliografici: -
Walter Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti, in particolare il saggio Tesi di filosofia della storia, traduzione e introduzione di Renato Solmi, Einaudi, 1962 [titolo originale “Schriften”]
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Walter Benjamin, Infanzia berlinese, traduzione di Marisa Bertolini Peruzzi, Einaudi, 1981 [titolo originale: “Berliner Kindheit um Neunzehnhundert]
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Roberto Carifi, Nel ferro dei balocchi, Poesie 1983-2000, Crocetti Editore, 2008. Una silloge delle poesie di Roberto Carifi, corredata di una ricca nota biografica e di commento è stata riproposta nell’elegante volumetto curato da Fabrizio Zollo: Roberto Carifi, D’improvviso e altre poesie scelte, Via del Vento edizioni, collana “Le Streghe”, 2006
Intervista a Olav Hergel autore puoi dire ciò che vuoi. Ho scelto il thriller per le mie conoscenze in materia di politica e immigrazione, perdel thriller politico ché volevo un genere che mi permettesse di raggiun“Il fuggitivo” (Iperborea) gere più lettori possibili, e il thriller me lo consente”. Il romanzo nasce dalle tue conoscenze sul campo. È stato difficile inventare una storia in cui inserire fatti reali? “Questo romanzo è frutto di quindici anni di ricerca. Molte delle vicende che racconto sono reali, solo i personaggi sono tutti inventati. Ho inserito personaggi romanzeschi nella realtà e in tre mesi e mezzo ho scritto “Il Fuggitivo”. di Cristina Marra Perchè la Danimarca è cambiata? “La Danimarca è sempre stata un paese accogliente e “Durante la Seconda Guerra Mondiale il mio paese ha tollerante ma negli ultimi quindici anni si è trasforma- salvato moltissimi ebrei e questa storia che mi raccontatva sempre mia madre mi riempiva di orgoglio. Ho ta nel paese europeo più intollerante. Sono arrivati oltre trecentomila musulmani e hanno sempre creduto che la mia nazione fosse pacifica e avuto difficoltà ad integrarsi. Considerati con sospetto e relegati nei campi profughi, non sono considerati individui ma una massa da tenere a distanza. Ho visitato quei campi, ho fatto un’inchiesta e credo che ci sia davvero bisogno di una legge comunitaria per tutelare gli immigrati”, così il noto giornalista Olav Hergel vincitore del premio Carling nel 2006 per la sua inchiesta sui centri di accoglienza in Danimarca descrive la nuova situazione socio-politica danese che racconta e denuncia nel suo romanzo d’esordio “Il fuggitivo” (Iperborea, pagg. 398, euro 17,50). Hergel, giornalista del “Politiken”, ambienta il suo romanzo nella Danimarca odierna, intollerante e xenofoba, impaurita dalla diversità a cui reagisce con la legge anti-immigrazione più severa d’Europa. “Il fuggitivo” è un thriller di denuncia di cui si fa portavoce la protagonista, la giornalista Rikke Lyngdal del Morgenavisen Danmark, “stufa del giornalismo da salotto”. Inviata in Iraq e rapita da “un gruppo di spietati terroristi iracheni”, Rikke è mutilata in diretta tv dal giovane Nazir, diventa merce di scambio col governo danese: la sua vita in cambio del ritiro delle truppe militari. Il governo non cede al ricatto, e improvvisa- tollerante. mente si apprende della fuga di Rikke che torna in Questa immagine è cambiata soprattutto negli ultimi patria accolta come un’eroina. Dietro la sua fuga si quindici anni. Siamo diventati un paese chiuso, con le nasconde un’altra verità che coinvolge il giovane Na- leggi sull’immigrazione più severe d’Europa. Prima di zir, dagli “occhi azzurri scintillanti” e la sua decisione questa attuale crisi economica, in Danimarca c’è stato di diventare un terrorista. La società danese diventa la un periodo di grande ricchezza e secondo me proprio vera materia d’indagine dell’autore che con uno stile quel benessere e quella ricchezza hanno portato alla narrativo incalzante in cui si alternano suspense e a- chiusura. Ho visitato i campi profughi dove i rifugiati zione lascia che siano gli occhi di Rikke, ciò che ha sono accolti e trattati bene ma da cui sia i bambini che visto e che comincia ad esserle più chiaro a denuncia- gli adulti non possono uscire. I bambini non possono re: i media al servizio del profitto, gli slogan politici frequentare le scuole danesi. Con questo romanzo ho che fomentano le paure xenofobe, le condizioni degli voluto anche denunciare il crescente nazionalismo a livello europeo”. immigrazione e la loro impossibilità a integrarsi. Uno degli ospiti più attesi a “Più libri più liberi”, la La tua protagonista è una giornalista coraggiosa e fiera romana della piccola e media editoria, Olav He- determinata. Com’è nato il personaggio di Rikke? gel, mi racconta della sua Danimarca e della sua deci- “Quando ho iniziato a scrivere il romanzo il protagonisione di scrivere un romanzo per far conoscere una sta era un uomo, ma visto che sono molto conosciuto come giornalista non volevo essere identificato col situazione che accomuna diversi paesi. Perché hai scelto il thriller per la tua denuncia so- mio personaggio. Scegliendo una donna, mi sono sentito più libero e ho potuto farla più coraggiosa, più ciale? “Perché come giornalista non puoi avere un’idea poli- sexy e più bella di me”. tica, devi essere imparziale, invece come romanziere