THE ART ISSUE P RO LO G O D I A L E S S A N D RO M I C H EL E Maggio-Giugno 2019, N.230
KANYE WEST MASSIMO D E C A R LO B I EN N A L E D I V EN E Z I A DA N I EL E S I LV E S T R I
KEANU REEVES FOTO G R A FATO P E R G Q DA DA N I E L JAC KS O N
The New Tambour Horizon Our journey, connected.
louisvuitton.com
PROLOGO
C O U R T E S Y O F T H E A R T I S T A N D G A L E R I E J É R Ô M E P O G G I , P A R I S / G O O D M A N G A L L E R Y , J O H A N N E S B U R G A N D C A P E T O W N / TA N J A WA G N E R G A L L E R Y , B E R L I N
U N A STO R I A C H E N O N T I A S P E T T I . P R I M A C H E C O M I N C I Q U E STO N U M E RO D I G Q
Kapwani Kiwanga ,
Pink – Blue, 2017 , un’opera della mostra The Artist
Is Present, curata da Maurizio Cattelan e Alessandro Michele
a Shanghai lo scorso ottobre. Quest’anno Gucci è main sponsor del Padiglione Italia alla 58 a Esposizione internazionale d’arte della Biennale di Venezia
IL MOVENTE DELL’ARTE I L D I R E T T O R E C R E AT I V O D I G U C C I R A C C O N TA A G Q P E R C H É L ’ I N S O D D I S F A Z I O N E P U Ò D I V E N TA R E U N A L E VA P O T E N T E C H E G E N E R A R I B E L L I O N E E S C O N F I G G E L ’ A S F I S S I A D E L L A B A N A L I TÀ . R E S I S T E R E P O R TA A R I S U LTAT I S O R P R E N D E N T I T E S TO D I
ALESSANDRO MICHELE*
PRO LO GO
Sopra, l’esposizione Lo stupore della materia . Il teatro
di de Berardinis – Peragallo (1967/1979) , voluta da Alessandro Michele in occasione della sfilata Gucci Primavera-Estate 2019 a Milano. A destra, la riproduzione della Cappella Sistina di Maurizio Cattelan alla mostra The Artist Is Present di Shanghai
1 8 / MAGGIO-GIUGNO 2019
F OTO C O U RT E SY O F G U C C I
Fin da piccolo mio padre mi portava ogni domenica a visitare i Musei Capitolini o il Museo di Villa Giulia. I musei erano il mio parco giochi, un luogo di divertimento assicurato. Un luogo di scoperta, di crescita e di libertà. Quelle visite domenicali hanno cominciato a nutrire profondamente il mio amore per l’arte e per le sue forme mutevoli e stratificate. Erano forme che facevano precipitare bellezza, che rispondevano a un’urgenza espressiva. Forme che traducevano le ragioni vitali e profonde della loro genesi: ragioni storiche, culturali, simboliche. In quel momento ho cominciato a capire che l’arte non è separabile dalla vita che la produce, che l’arte ha bisogno di un movente per dare espressione a quel nucleo di inesprimibile che ci precede. Contattare questo movente è ciò che mi ha permesso di dare spazio al mio percorso creativo. Un percorso che nasce dall’insoddisfazione rispetto a ciò che è incrostato, univoco, fisso. È l’insofferenza che si riaffaccia potente ogni volta che contatto la rigidità mortifera di ciò che è istituito. È l’asfissia che si produce di fronte alla negazione della diversità. In fondo anche Deleuze parlava dell’atto di creazione come di un atto di resistenza. Un atto che smuove, denaturalizza, terremota e riconfigura. Un processo carico di divenire e di apertura verso un’ulteriorità. Nel mio piccolo è quello che G Q I TA L I A . I T
PRO LO GO
Sopra, la performance del ballerino e coreografo Michael Clark e della sua compagnia al Gucci Hub di Milano (2018). A destra, Marcello Mastroianni in un ritratto di Paolo Di Paolo: il Maxxi di Roma e Gucci presentano le opere del grande fotografo nella mostra Mondo perduto (fino al 30 giugno)
F OTO G R A F I C O PA O LO D I PA O LO - C O U R T E S Y O F G U C C I
cerco di fare. Posso ribellarmi, creando. Con gli strumenti che ho e rispetto al mio campo d’azione. In questo processo di resistenza creativa il passato è sempre stato un mio grande complice. Non ho mai interpretato le tracce del passato, infatti, come reliquie afone e pietrificate da esporre in una vetrina. Quelle tracce sono un materiale incredibilmente prezioso perché conservano un cuore di brace che può essere nuovamente incendiato. Spesso aspettano solo una scintilla per essere riattivate e riabitate in forme nuove. In fondo sono le tracce di un tempo continuamente operante, in cui il passato, il presente e il possibile non sono separabili. Quel viaggio iniziato da bambino non si è mai concluso, quello stupore e quel senso di possibilità che Roma mi regalava continuano a vivere nel canto che cerco ogni volta di intonare per celebrare bellezza e diversità.
*Alessandro Michele è nato a Roma 46 anni fa.
© ARCHIVIO
Direttore creativo di Gucci dal 2015, nel 2018 ha inaugurato il museo Gucci Garden nel Palazzo della Mercanzia di Firenze, dove espone i capi più iconici del suo atelier
2 0 / MAGGIO-GIUGNO 2019
G Q I TA L I A . I T
CR AF TING TOMORROW IS A NE VER ENDING S TORY W H AT ’ S Y O U R N E X T A C H I E V E M E N T ?
DEFY INVENTOR
T H E W O R L D ’ S M O S T P O W E R F U L S PA C E S H I P. F O R N O W .
T H E F U T U R E O F S W I S S WATC H M A K I N G S I N C E 18 6 5
L’ E D I TO R I A L E
L’IMPRINTING DELL’ARTE
L’arte è forse la più antica passione dell’uo-
Racconta di come i Musei Capitolini o il Museo
mo. Ogni tanto sbuca da una caverna una
di Villa Giulia fossero il suo parco giochi nelle
pittura rupestre che retrodata la prima ope-
domeniche trascorse in compagnia del padre. E
ra figurativa mai realizzata. L’ultimo caso nel
di quanto questo abbia segnato il suo percorso
Borneo, penisola Sangkulirang–Mangkalihat,
umano e lavorativo. Massimo De Carlo è il più
dove l’immagine di un di toro pare abbia la
importante gallerista italiano. Confessa che fu
bellezza di 40mila anni. Dall’11 maggio al 24
un biglietto ricevuto in regalo dalla madre dopo
novembre si scatena a Venezia la 58ª Biennale
la Maturità a portarlo a New York, dove visitò
d’Arte. Una lente magica - capace di generare
il MoMA, vide Guernica di Picasso e comprò
entusiasmi planetari difficilmente ripetibili -
Interviste a Francis Bacon di David Sylvester; di
per osservare i cambiamenti. Così, abbiamo
cui non capiva nulla perché non leggeva l’inglese.
chiesto a Vanessa Beecroft, artista femminista,
Ma quelle figure lo illuminarono. È diverten-
che nel 2015 ha esposto al Padiglione Italia, di
te anche ascoltare Silvia Venturini Fendi, che
realizzare una copertina per GQ, tracciando la
mentre disserta di design, architettura e cinema,
sua visione della mascolinità contemporanea.
ricorda i “sacri” mobili del soggiorno di sua
Ne è nato un ragionamento affascinante sulla
madre, firmati da Alvar Aalto. Ha scritto per GQ
vulnerabilità, che ha coinvolto Kanye West e la
un gentleman come Martin Bethenod, direttore
sua performance Sunday Service. Lo abbiamo
e ad di Palazzo Grassi - Punta della Dogana
unito al racconto in bianco e nero di due arti-
(quest’ultima restaurata 10 anni fa da Tadao
sti narratori di umanità inconsuete. Al cinema
Ando per dare vita alla Fondazione Pinault). E
Keanu Reeves (20 anni dopo il primo Matrix).
ha scritto anche Alessandro Sciarroni, che il 21
Al pianoforte Daniele Silvestri (il 25 maggio al
giugno riceverà il Leone d’oro per la danza della
Wired Next Fest di Milano). Componendo i
Biennale. Lui racconta dei pomeriggi di gioco
pezzi di questo Art Issue di GQ, mi ha colpito
con sua zia Pia, che aveva la sindrome di Down
quanto la prima parte della nostra vita risulti
e passava la scopa ininterrottamente per ore. E
fondamentale nella formazione di una sensibi-
di come questo gli abbia insegnato che il tempo
lità artistica. Alessandro Michele è il direttore
sembra dilatarsi quando fai a lungo una cosa.
creativo di Gucci, grande promotore delle arti.
Anche ballare. Fino a perderne la cognizione, pur
Ci ha fatto l’onore di scrivere il Prologo di GQ.
rimanendo presente. Non trovate sia bellissimo?
I G : @AU D I F F R E D I T W I T T E R : @ GAU D I F F R E D I
2 2 / MAGGIO-GIUGNO 2019
G I OVA N N I AU D I F F R E D I
G Q I TA L I A . I T
Dati riferiti ai modelli Cayenne Coupé. Consumi ciclo combinato: 11,4 – 9,3 I/100 km. Emissioni CO₂ combinate: 261 – 212 g/km
MAGGIO—GIUGNO 2019
Silvia Venturini Fendi,
#230
direttore creativo uomo, bambino e accessori donna del brand, su una seduta
RUBRICHE
della collezione Back Home
17
P RO LO G O Dove nasce il desiderio di sfidare la banalità di Alessandro Michele
31
G Q TA L KS Il triangolo artistico di Martin Bethenod. Il Leone d’oro di Alessandro Sciarroni
39
G Q ST Y L E Indossato: la potenza del technicolor. I primi 40 anni di Slam. Le nuove boutique con spazio espositivo
53
GQ LIFE Antonio Banderas in Dolor y gloria . Gli 80 anni di Batman. Don Cheadle e la serie caustica Black Monday
135
G Q PA S S I O N I Le novità di Rolex e di Patek Philippe, l’apertura del ristorante Feroce a NY, l’evoluzione della Porsche Carrera
163
G Q WA R D RO B E I giovani attori Alessandro Fella e Lorenzo Zurzolo interpretano la moda della P/E 2019 firmata Giorgio Armani
214
FENDI CASA
90 113
G Q TOYS Il design intorno alla pallina
154
Parka, trench, camicia e pantaloni VA L E N T I N O
MAGGIO-GIUGNO 2019 / 2 5
SO MMARI O
78 STORIE 78
M A S S I M O D E C A R LO Storia del Jedi dei galleristi
86
L A S A LV E Z Z A D E L L’A RT E Grandi capolavori in formato digitale
90
S I LV I A V E N TU R I N I F E N D I Conversazione su arte e design
96
L S D S OT TO E S A M E La Silicon Valley prova le microdosi
101
LO R E N ZO G I U ST I Come si cura la GAMeC di Bergamo
104
5 8 A B I E N N A L E D ’A RT E Dodici appuntamenti a Venezia
Massimo De Carlo, milanese, 61 anni. Semplicemente: il più grande
MODA
gallerista italiano, tra i più influenti a livello
113
Le sovradimensioni dell’eleganza
internazionale
COVER
142
178
KANYE WEST Il poeta simbolo della mascolinità secondo l’artista Vanessa Beecroft
190
KEANU REEVES Ecco perché si trova nei panni di John Wick per la terza volta
204
DANIELE SILVESTRI Con il suo nono album ritorna a cantare il proprio tempo
163
214
Da sinistra: maglia,
Maggio-Giugno 2019, N.230
THE ART ISSUE
THE ART ISSUE
P RO LO G O D I A L E S S A N D RO M I C H EL E
P RO LO G O D I A L E S S A N D RO M I C H EL E
KANYE WEST
Maggio-Giugno 2019, N.230
MASSIMO D E C A R LO B I EN N A L E D I V EN E Z I A DA N I EL E S I LV E S T R I
THE ART ISSUE P RO LO G O D I A L E S S A N D RO M I C H EL E Maggio-Giugno 2019, N.230
MASSIMO D E C A R LO
KANYE WEST
B I EN N A L E D I V EN E Z I A
MASSIMO D E C A R LO
KEANU R EE V E S
B I EN N A L E D I V EN E Z I A
DA N I EL E S I LV E S T R I
KEANU R EE V E S
pantaloni GIORGIO ARMANI;
cardigan, gilet, pantaloni e mocassini
KEANU REEVES FOTO G R A FATO P E R G Q DA DA N I E L JAC KS O N
KANYE WEST
FOTO G R A FATO P E R G Q DA VA N E S SA B E E C RO F T
DANIELE SILVESTRI FOTO G R A FATO P E R G Q DA A N DY M AS SAC C E S I
GIORGIO ARMANI
Le tre cover di GQ. A sinistra, Keanu Reeves fotografato da Daniel Jackson. Giacca e pantaloni T H E
ROW,
camicia B R I O N I , cravatta C H A R V E T , mocassini TOM FORD.
Al centro, Kanye West ritratto da Vanessa
Beecroft. A destra, Daniele Silvestri nella foto di Andy Massaccesi. Smoking e camicia T A G L I A T O R E
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2 6 / MAGGIO-GIUGNO 2019
G Q I TA L I A . I T
Direttore Editoriale LUCA DINI
Digital Editorial Director JUSTINE BELLAVITA
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Q U A L I T Y
I S
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Brand Advertising Manager
Ci accontentiamo semplicemente del meglio e creiamo i migliori prodotti editoriali. Per questo abbiamo GQ, il mensile maschile più letto, e Wired, il brand divenuto ormai sinonimo di innovazione e futuro. Per questo siamo l’editore italiano più seguito sui social. Per questo ogni mese oltre 6 milioni di uomini scelgono i nostri siti. Tradotto in una parola, Qualità. In due parole, Condé Nast.
D I R E T TO R E R E S P O N SA B I L E
GIOVANNI AUDIFFREDI direttore.gq@condenast.it FAS H I O N D I R E CTO R
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OLGA NOEL WINDERLING (CAPOREDATTORE) , CRISTINA D’ANTONIO (VICE CAPOREDATTORE) , LAURA PACELLI (CAPOSERVIZIO)
UFFICIO GRAFICO
U F F I C I O F OTO G R A F I C O
S E G R E T E R I A D I R E DA Z I O N E
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FRANCESCA MOROSINI (PHOTO EDITOR) RAFFAELLA ROSATI (PHOTO PRODUCER)
SILVIA STEFANI
GQ.COM
CAMILLA STRADA (WEB EDITOR), VALENTINA CAIANI (VICE CAPOSERVIZIO) , PAOLA MONTANARO (VICE CAPOSERVIZIO)
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Responsabile Content Experience Unit VALENTINA DI FRANCO
Responsabile Digital Content Unit SILVIA CAVALLI
Moda e Oggetti Personali: MATTIA MONDANI Direttore. Beauty: MARCO RAVASI Direttore. Grandi Mercati e Centri Media Print: MICHELA ERCOLINI Direttore. Arredo: CARLO CLERICI Direttore. Branded Content Director RAFFAELLA BUDA . Digital Sales GIOVANNI SCIBETTA Responsabile. Triveneto, Emilia Romagna, Marche: LORIS VARO Area Manager. Toscana, Umbria, Lazio e Sud Italia: ANTONELLA BASILE Area Manager. Mercati Esteri: MATTIA MONDANI Direttore. Uffici Pubblicità Estero Parigi/Londra: ANGELA NEUMANN
New York: ALESSANDRO CREMONA
Barcellona: SILVIA FAURÒ
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ALICE ABBIADATI, SIMONA AIROLDI, CRISTIANA ALLIEVI, NICOLÒ ANDREONI (FASHION EDITOR) , MARTIN BETHENOD, VALERIO BONI, MICOL BOZINO RESMINI, ENRICA BROCARDO, SONIA CAMPAGNOLA, SARA CANALI, WALTER JUNIOR CASSETTA (TRADUZIONI) , ELISABETTA COLANGELO, FERDINANDO COTUGNO, ROBERTO CROCI, CLAUDIA LA VIA, ALESSANDRA MAMMÌ, GIULIANA MATARRESE, ALESSANDRO MICHELE, GIAMPIERO NEGRETTI, MICHELE NERI, GIACOMO NICOLELLA MASCHIETTI, MARZIA NICOLINI, RAFFAELE PANIZZA, ALEX PAPPADEMAS, ESSIA SAHLI, GEA SCANCARELLO, ALESSANDRO SCIARRONI, ALBA SOLARO, STUDIO DIWA (CORREZIONE TESTI) , MARCO TRABUCCHI, CHIARA UJKA (TRADUZIONI) , ALESSANDRO VAI, MICHELE VIOLA (FASHION MARKET CONSULTANT) , DESIRÉE ILARIA ZAZZINI (TRADUZIONI)
Monaco: FILIPPO LAMI
EDIZIONI CONDÉ NAST S.p.A. Presidente GIAMPAOLO GRANDI Amministratore Delegato FEDELE USAI Direttore Generale DOMENICO NOCCO
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VANESSA BEECROFT, MATTHEW BRANDT, ALESSANDRO FURCHINO CAPRIA, MAKI GALIMBERTI, MARCO IMPERATORE, DANIEL JACKSON, ANDY MASSACCESI, JAMES ROBJANT
Vice Presidente GIUSEPPE MONDANI Direttore Centrale Digital MARCO FORMENTO Direttore Circulation ALBERTO CAVARA Direttore Produzione BRUNO MORONA Direttore Risorse Umane CRISTINA LIPPI Direttore Amministrazione e Controllo di Gestione LUCA ROLDI Digital Marketing MANUELA MUZZA Social Media ROBERTA CIANETTI Digital Product Director PIETRO TURI Head of Digital Video RACHELE WILLIG Digital CTO MARCO VIGANÒ Enterprise CTO AURELIO FERRARI Digital Operations e Content Commerce Director
L E F I R M E D I Q U E STO M E S E
ROBERTO ALBANI
VANESSA BEECROFT
ALESSANDRO MICHELE
JAMES ROBJANT
Grande artista italiana
Archeologo del bello,
Cresciuto in Cornovaglia,
Storica dell’arte
nelle sue opere dialoga
appassionato d’arte, il
dal 2006 lavora come
e giornalista, per anni
con bellezza e sofferenza.
direttore creativo di Gucci
fotografo tra Londra e
inviata de L’Espresso,
Per GQ racconta la nuova
firma il Prologo di questo
New York. Suo lo
ha intervistato Massimo
mascolinità attraverso
numero esponendo il
shooting di GQ Moda
De Carlo, l’Obi-Wan
l’immagine di Kanye West,
retaggio della creatività
dedicato alla sartorialità
Kenobi dei galleristi d’arte
cover story ( PAG .
( PAG . 17 )
oversize ( PAG .
contemporanea ( PAG .
178 )
113)
ALESSANDRA MAMMÌ
78 )
Sede: 20123 Milano, Piazzale Luigi Cadorna 5 - tel. 0285611 - fax 028055716. Padova, via degli Zabarella 113, tel. 0498455777 - fax 0498455700. Bologna, via Carlo Farini 13, Palazzo Zambeccari, tel. 0512750147 - fax 051222099 - Roma, via C. Monteverdi 20, tel. 0684046415 - fax 068079249. Parigi/Londra, 3 Avenue Hoche 75008 Paris, tel. 00331-53436975. New York, Spring Place 6, St Johns Lane - New York N Y 10013 - tel. 2123808236. Barcellona, Passeig de Gràcia 8/10, 3° 1a - 08007 Barcelona - tel. 0034932160161 - fax 0034933427041. Monaco di Baviera, Cuvilliés strasse 23, - 81679 - München - Deutschland - tel. 0049-1525334561. Redazione: 20123 MILANO - Piazzale Luigi Cadorna 5 - tel. 0285611 - 0285612347
39° 35’ 0.478” S 71° 32’ 23.564” W
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CARRERA 1020/S
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U N A V I TA N E L L ’ A R T E / 1
IL TRIANGOLO DELLO STUPORE Testo di M A R T I N B E T H E N O D
Il 2019 è un anno speciale per noi: sono trascorsi dieci anni dall’apertura di Punta della Dogana, luogo simbolo di Venezia, che si distingue sia per la sua posizione – affacciata sulla meravigliosa laguna veneziana – sia per la struttura architettonica a pianta triangolare, dovuta alla sua funzione originaria di sede della ex Dogana da Mar. Gli spazi di Punta della Dogana, dal 2009 affidati alla Pinault Collection, sono stati restaurati da – e da allora consacrati all’esposizione di Tadao Ando arte contemporanea, ricoprendo un ruolo importante nel presentare e condividere con il pubblico l’arte del nostro tempo attraverso il dialogo con l’architettura e il contesto veneziano. Molte volte ho potuto sperimentare come gli artisti invitati a esporre prendessero il confronto con lo spazio come una sfida o una risorsa da cui trarre rinnovata energia. Oggi siamo abituati alla reazione positiva, ma ricordo bene all’inizio quanto questo entusiasmo da parte degli artisti – da noi sempre invitati a non porsi limiti nella realizzazione dei loro progetti – riuscisse ogni volta a superare le nostre aspettative. Ho vissuto questa relazione virtuosa tra spazio e artista sia come direttore che come curatore delle ultime due mostre a Punta della Dogana. In particolare, Luogo e Segni – che ho co-curato con Mouna Mekouar, in corso fino al 15 dicembre – presenta alcuni lavori emblematici delle precedenti esposizioni, in dialogo con opere mai esposte prima nell’ambito delle mostre della Pinault Collection. La mostra porta con sé il tema della relazione tra l’artista e il contesto sociale, politico e geografico, le relazioni, le affinità e le complicità tra gli artisti stessi. Molte opere esposte sono infatti frutto di collaborazioni o di citazioni tra artisti, così come non mancano rimandi e dialoghi tra opere iconiche della Pinault Collection e artisti mai G Q I TA L I A . I T
MARTIN BETHENOD , parigino, 53 anni, direttore e amministratore delegato di Palazzo Grassi – Punta della Dogana, della Fondazione Pinault, da cui nel 2013 è scaturito anche lo spazio del Teatrino, nel cuore di Venezia
MAGGIO-GIUGNO 2019 / 3 1
TALK
La mostra Treasures from the Wreck of the Unbelievable di Damien Hirst (a Palazzo Grassi e Punta della Dogana, 2017). A destra, dall’alto in basso: un’opera di Urs Fischer nella mostra Dancing with myself (Punta della Dogana, 2018); François Pinault con Martin Bethenod
M I E M OZ I O N A P E N SA R E C H E C ’ È U N P I C C O LO A N N I V E RSA R I O A N C H E P E R M E : I L P R I M O G I U G N O S O N O N OV E , I N T E N S I S S I M I A N N I DA L M I O I N S E D I A M E N TO A L L A D I R E Z I O N E D I PA L A Z ZO G R AS S I . È U N T E M P O
presentati prima negli spazi della Pinault Collection. C’è questo grande insegnamento, quindi, che mi sento di condividere come indicazione di percorso, di quanto agire all’interno di una cornice identitaria forte in piena libertà di pensiero e azione possa essere fonte di nuova luce e ispirazione. Così scopriamo che possiamo superare le nostre stesse aspettative. Ne sono un esempio mirabile tutte le grandi personali cartes blanches affidate a illustri protagonisti della creazione contemporanea ospitate nei diversi spazi della nostra istituzione: Urs Fischer, Rudolf Stingel, Martial Raysse, Danh Vo, Damien Hirst, Albert Oehlen e quest’anno Luc Tuymans… Ciascuno di loro ci ha permesso, in modo sempre differente, di superare l’idea e la pratica dell’istituzione museale, aiutandoci a definire con sempre maggior chiarezza la nostra risposta alla domanda su cosa debba essere oggi un’istituzione di arte contemporanea. Ed è proprio per rispondere a questo che sei anni or sono abbiamo aperto il Teatrino, straordinaria esperienza di 3 2 / MAGGIO-GIUGNO 2019
creazione architettonica nel cuore di Venezia, sempre affidata a Tadao Ando–, che ha portato in scena circa 500 eventi culturali, alcuni dei quali davvero indimenticabili, prodotti e presentati dalla nostra istituzione, spesso in collaborazione con partner locali, italiani e internazionali. Infine, mi emoziona pensare che c’è un piccolo anniversario in avvicinamento anche per me: l’1 giugno saranno nove, intensissimi anni dal mio insediamento alla direzione di Palazzo Grassi. È un tempo felice, pieno di colori e di riflessi: quelli che vengono dal riverbero della luce sulle acque veneziane, ma anche i rispecchiamenti che queste tre istituzioni collegate in un unicum sono in grado di generare in questa città magica. Venezia è per me la città delle sfide e dei progetti, cui oggi si aggiunge l’ulteriore avventura a Parigi, con l’apertura della Bourse de Commerce nel 2020 che disegnerà una dimensione internazionale in collegamento e complementarietà con quella veneziana e forte di tutta l’esperienza e di tutte le risposte che il dinamismo in laguna ci ha permesso di conoscere e sperimentare. In primis, l’esperienza dello stupore. G Q I TA L I A . I T
F O T O D I M AT T E O D E F I N A
F E L I C E , P I E N O D I C O LO R I E D I R I F L E S S I
TALK
U N A V I TA N E L L ’ A R T E / 2
CHIUDERE GLI OCCHI È UNO SPETTACOLO Testo di A L E S S A N D R O S C I A R R O N I
Il primo ricordo che lego al mio lavoro è un’immagine di me a occhi chiusi. Da piccolo passavo molto tempo a osservare fosfeni: fenomeni visivi che avvengono in assenza di luce, caratterizzati dalla percezione di puntini luminosi e scintille, causati dalla stimolazione meccanica della pressione delle palpebre sui fotorecettori. Se provate a chiudere gli occhi per qualche istante li vedrete anche voi. Sembrano macchie luminose in continua evoluzione. M’incantava e mi faceva paura pensare che lo spazio dentro ai miei occhi fosse senza fine.
M I S E M B R A C H E I L M I O S G UA R D O S I A A N C O R A Q U E L LO D I U N BA M B I N O C H E S F I DA I L I M I T I D E L L A S UA I M M AG I N A Z I O N E
Quando li riaprivo, mi chiedevo come fosse possibile che gli esseri umani continuassero a vivere sereni conoscendo così poco del mistero dell’esistenza. Quest’anno compirò 43 anni e il 21 giugno riceverò il Leone d’oro alla carriera per la danza dalla Biennale di Venezia. La notizia di questo premio mi ha colto molto di sorpresa, mi ha riempito di gioia e mi ha obbligato a guardare al passato e al lavoro fatto. Come artista, mi sembra che il mio sguardo sia ancora quello di un bambino che sfida i limiti della sua immaginazione. Solo che lo fa usando il corpo e la sua rappresentazione. Dicono che il mio lavoro sia basato sul concetto di ripetizione e che porti i performer all’esaurimento fisico. In realtà questo non è il mio obiettivo. La ripetizione mi aiuta a trasportare gli spettatori e gli interpreti in una dimensione in cui il tempo si dilata. Ho passato tutti i pomeriggi della mia infanzia in casa, a giocare assieme a mia zia Pia, che aveva trent’anni 3 4 / MAGGIO-GIUGNO 2019
ALESSANDRO SCIARRONI Marchigiano, 42 anni, attivo nell’ambito delle Performing Arts, ha alle spalle diversi anni di formazione nel campo di arti visive e ricerca teatrale. Il 21 giugno riceverà il Leone d’oro alla carriera per la danza dalla Biennale di Venezia
G Q I TA L I A . I T
TALK
N O N H O ST U D I ATO DA N Z A C L AS S I CA . VO L E VO FA R LO DA A D O L E S C E N T E , M A E R A R I T E N U TA U N A C O SA DA R AGA Z Z E
Sopra, Alessandro Sciarroni bambino vestito da principe. A fianco, un momento del suo dramedy teatrale Augusto, del 2018
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più di me e la sindrome di Down. Durante quelle ore potevamo vivere momenti di grossa euforia. Eppure, ciò che ricordo principalmente è la dimensione dello scorrere del tempo. Mia zia iniziava a passare la scopa in casa alle 14.10, quando mia madre usciva per andare al lavoro. Quando rientrava, alle 18.45, Pia non aveva ancora finito. Il tempo si dilata quando fai a lungo una sola cosa. Da lei ho imparato a perdere la cognizione del tempo restando conscio. Questa è la mia danza. Non ho mai studiato la tecnica classica, la moderna o la contemporanea. Avrei voluto farlo quando ero adolescente, ma era considerata una cosa da ragazze e mi vergognavo di andare a lezione. Per questo non sono in grado di montare coreografie basate sulla composizione di passi legati a queste discipline. Ma il fatto di non poter attingere al vocabolario di questi linguaggi mi ha spinto negli anni a cercare la danza in altre pratiche. Il mio lavoro parte da attività già esistenti, che decontestualizzo e ricreo in teatro. Negli anni ho praticato queste operazioni astraendo alcune sequenze di movimento da alcune danze popolari, dalla giocoleria, e da pratiche sportive. In altri casi ho scelto singole azioni o movimenti: nel progetto Turning i danzatori girano su loro stessi, in Augusto ridono a oltranza, in altri spettacoli si lavora sul salto, sul camminare eccetera. Attraverso la ripetizione di queste pratiche, per una durata indeterminata si rivelano davanti ai miei occhi nuovi significati. Nei miei spettacoli, i giocolieri sono come lama tibetani, le danze popolari tirolesi diventano forme archetipiche di un pensiero antichissimo e una disciplina paralimpica per non vedenti può trasformarsi in un’esperienza sulla percezione. Quest’ultima l’ho intitolata Aurora, perché la mancanza di visione (ancora: a occhi chiusi) è il principio di una nuova maniera di sentire e non solo una disabilità. Quando sono seduto tra gli spettatori non riesco quasi mai a sentirmi parte dell’evento, perché ho troppa ansia di capire come sta andando lo spettacolo. Ma quando assisto alle prove, sento di nuovo quella sensazione di eccitamento e paura che avevo da piccolo, quando chiudevo gli occhi e trasformavo fosfeni nel mistero dell’infinito. Se penso alle persone con le quali ho lavorato durante questi anni, mi piace ricordare quel momento speciale nel quale mi sono trovato con ognuna di loro: il primo giorno di prove. Per iniziare propongo sempre la stessa pratica. A occhi chiusi. G Q I TA L I A . I T
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L’A N N I V E R S A R I O
La LANTERNA nel cuore Una capsule e un progetto fotografico, lì dove tutto è nato: Slam compie 40 anni Testo di P A O L A M O N TA N A R O
Che rumore fa il vento quando sbatte sulle vele? “Slam”. Una parola onomatopeica che, se per alcuni rimane solo tale, per altri è un mondo intero. Un universo di suggestioni, di colori, profumi, storie di passioni e di sport che si intrecciano attorno al mare. Slam nasce così, nel 1979: l’idea è di un gruppo di amici velisti che ben presto si rendono conto che per andar per mare mancano i capi giusti. Non quelli fighi, quello poi lo diventeranno. Giusti nel senso di tecnici, performanti, adatti ad affrontare un mare in burrasca e pretendere di rimanere asciutti. I ragazzi sono di Genova, e dalla città ne ereditano il simbolo che possa rappresentarli, la lanterna. I capi che vogliono sono di matrice sportiva, ma finisce che si usano tanto in regata quanto in banchina. Il resto è storia e oggi il marchio «piccolo ma globale, presente nelle marine di tutto il mondo», come racconta il direttore marketing e comunicazione Federico
Federico Repetto, 54 anni, direttore marketing e comunicazione di Slam
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Giacca termonastrata impermeabile e traspirante con interno fodera a righe in perfetto stile nautico. Al suo fianco, la 24 Bottle Slam 40° in acciaio creata in collaborazione con 24Bottles
Repetto, celebra i suoi 40 anni proprio con un omaggio alla città da cui tutto è partito. «Slam è un brand di Genova per i genovesi, loro saranno i protagonisti assoluti di uno shooting fotografico firmato da Settimio Benedusi che giorno per giorno, a partire dal 20 maggio, comporrà un immenso ritratto della città». Non una celebrazione classica, ma il rilancio di un marchio storico, che torna alle origini con i valori che gli sono propri e che si ritrovano anche nella capsule collection realizzata per l’occasione, in cui le giacche, le polo, i cappelli sono capaci di trasmettere un certo modo di vivere con i loro tratti ruvidi e sinceri. «Capi double face, con il nuovo logo realizzato ad hoc
dove si leggono l’anno della fondazione, 1979, e della ricorrenza, 2019». E dove i tessuti tecnici sono realizzati grazie anche al contributo dei campioni olimpici delle classi veliche che il marchio supporta. Da Matteo Capurro e Matteo Puppo. Nel nuovo soffio di vento di Slam anche un progetto che coinvolge una grande personalità del mondo dello sport, nonché lui stesso velista, Marcello Lippi, che sarà a fianco del brand con la onlus Insuperabili per avvicinare e far provare i benefici della vela ai ragazzi diversamente abili.
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G Q I TA L I A . I T
ST Y LE
racconta Okamoto. «Non avevo mai lavorato con il mondo della moda prima, ma mi ha colpito il legame del brand con la natura: avrei potuto dar libero sfogo alla mia passione per il sound design, specialmente con i suoni della pioggia». Suoni che, per l’artista, veicolano emozioni profonde: «Molto di quello che percepiamo dipende dallo stato d’animo del momento. Anche la pioggia può essere triste o allegra a seconda di quello che si sta vivendo». La collezione Nomad è composta da due giacche da uomo e due da donna, studiate in collaborazione con Gore-Tex, in grado di garantire la massima protezione. La preferita di Okamoto? «Abbiamo fatto alcune riprese a Wakayama durante una gelida settimana invernale. La troupe e io abbiamo girato per varie location lungo la Via dei Pellegrini dall’alba al tramonto. Abbiamo camminato nella foresta, scalato montagne, siamo scesi lungo percorsi rocciosi e attraversato le città sempre immersi in una fitta nebbia e sotto una pioggia quasi primaverile. Indossavo il modello HyBridge Lite, che è caldo e consente di muoversi agevolmente. È perfetto per i pomeriggi freddi. Il guscio impermeabile, sorprendentemente leggero, mi ha completamente protetto dall’acqua e dal freddo. È traspirante e ha resistito alle lunghe ore di riprese in condizioni climatiche mutevoli. Indossare contemporaneamente il guscio impermeabile e la giacca HyBridge mi ha permesso di essere asciutto e caldo per tutta la durata della spedizione in montagna».
L’artista Kouichi Okamoto a Wakayama, in Giappone, mentre registra il suono della pioggia per l’installazione Canada Goose all’ultimo Salone del Mobile. In basso, un capo della linea Nomad, disponibile in Italia nel negozio Antonioli di Milano
I L P RO G E T TO
Sotto la PIOGGIA si può essere felici La capsule di Canada Goose con il sound designer Kouichi Okamoto Testo di P A O L A M O N TA N A R O
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Nella lingua giapponese ci sono circa cinquanta parole per indicare la pioggia. Quelle preferite da Kouichi Okamoto sono due e rimandano ad altrettante immagini che in italiano tradurremmo «Pioggia che impedisce ai visitatori di partire» e «La pioggia che cade sotto il sole». Okamoto è nato e cresciuto in Giappone, nella vita fa il sound designer ed è l’artista che il brand di outdoor Canada Goose ha voluto per raccontare il suo ultimo progetto, Nomad, una capsule collection lanciata inizialmente in Giappone e arrivata in Italia in occasione della Design Week, pensata per proteggere dagli elementi atmosferici. «Quando sono stato contattato per la campagna di Canada Goose ho sentito subito il desiderio di essere coinvolto», G Q I TA L I A . I T
ST Y LE
OPENING/1
LA VISIONE di Hedi
Gli interni della nuova boutique di
Materiali naturali contrapposti a superfici ultramoderne. Céline, con la supervisione di Hedi Slimane, rinnova tutte le boutique e ne apre una a Milano. Il nuovo spazio integra il concetto di new design progettato dallo stilista con l’imponente presenza di una scultura in cedro rosso firmata da David Adamo. _ (La.P.)
Céline in via Santo Spirito 22, a Milano
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R E ST Y L I N G
Café CHANTANT Istituzione gourmand dal 1936, la pasticceria Cucchi di Milano si rinnova: dopo aver ospitato il progetto d’interni di Cristina Celestino, ha chiesto a Massimo Giorgetti di MSGM di ridisegnare le uniformi del personale: le sue righe colorate aggiungono vivacità a completi neri o gessati. (La.P.)
Gli interni della pasticceria Cucchi
PA S T I C C E R I A C U C C H I . I T
di Milano
OPENING/2
Luogo D’ARTISTA Sperimentazioni estetiche e contaminazioni materiche. Nel nuovo negozio Aspesi a Milano convivono elementi diversi, dalla vetroresina alla pietra intarsiata, un luogo d’eccezione anche per l’arte: a esporre nel negozio, ultimo in ordine di tempo, Jonathan Binet con le sue opere in vetro, tela e acciaio. (La.P.)
Lo store di Aspesi in via San Pietro all’Orto 24, a Milano
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G Q I TA L I A . I T
ST Y LE
L'A N N I V E R S A R I O
Tutto il valore di un PENNY
Sopra, Søren Lerby e Lothar Matthäus del Bayern Monaco con alcune modelle e Ivan Foltyn, negli Anni 80. A fianco, la riedizione della 1a T-shirt per i 40 anni di Pence 1979 P E N C E 1 979 . C O M
I L PA S S E PA R TO U T
La prima SCELTA
Era il 1979 quando Otello Zecchin, titolare di un piccolo laboratorio di confezione nel cuore del Veneto, tornava da un viaggio a Londra con pochi penny in tasca. È in quel momento che decide di intraprendere un nuovo progetto e di registrare il marchio Pence Jeans, che più tardi cambierà in Pence 1979. Per celebrare l’anniversario: la T-shirt con l'autentico logo, un progetto green-charity, il nuovo sito web e un evento a Milano a settembre. _ (La.P.)
Sneakers in pelle con tomaia
Davanti alla scarpiera non si hanno mai dubbi: per un look casual o per una serata più formale, la scelta ricade quasi sempre sulle sneakers. Perché comode e facilmente abbinabili. Quelle di Harmont&Blaine per la bella stagione sono leggere e in materiali traspiranti, con tanti dettagli funzionali ed estetici: dal rinforzo sul retro al sottopiede in pelle rimovibile, al logo in rilievo sulla tomaia. (La.P.)
in otto tessuti e suola in Eva ultralight di Harmont &Blaine
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G Q I TA L I A . I T
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LIFE
G U A R D A R E , L E G G E R E , S E N T I R E , V I A G G I A R E : L E S C E LT E D E L M E S E
Nel 1949 Peggy Guggenheim (foto) realizzava la prima mostra a Palazzo Venier dei Leoni, sul Canal Grande, oggi sede veneziana della Peggy Guggenheim Collection. Settant’anni dopo (40 dalla sua morte) la mostra Peggy Guggenheim. L’ultima Dogaressa (dal 21/9) racconta la sua filantropia
P54
CARTOON, P66
ARTE,
P56
BATMAN,
P68
LIBRI,
P70
P58
CINEMA,
FICTION,
P72
P62
MUSICA,
SOCIAL
LIFE
CARTO O N
L ’ U LT I M O E P I S O D I O
TOY STORY SI FA IN 4 Sul set del film con il regista Josh Cooley Testo di R O B E R T O C R O C I
Indirizzo: 1200 Park Avenue, Emeryville, California, a pochi chilometri da San Francisco. Qui si nasconde il mondo dei Pixar Animation Studios, una delle tante intuizioni di Steve Jobs (fu lui ad acquistare la divisione di computer graphic della Lucas Film), il luogo in cui sono nati molti dei capolavori dell’animazione mondiale. Come Toy Story, arrivato al suo quarto capitolo (in sala dal 26 giugno) dopo una lunga storia di successi. Il primo episodio fu anche il primo lungometraggio d’animazione al computer: costato appena 30 milioni di dollari, ne incassò 373,5 in tutto il mondo. L’appuntamento è con Josh Cooley, regista, animatore e produttore del nuovo film, lo stesso uomo dietro a Inside Out, Up e Ratatouille. Si riparte da Woody, il giocattolo preferito da Andy? Sì. Credevo che la storia tra i due si fosse conclusa con Toy Story 3: invece, come nella realtà, ogni fine è anche un nuovo inizio. Woody torna, ma in una nuova cameretta, con nuovi giocattoli e un nuovo bambino. Non mancheranno le sorprese... Decisamente. A iniziare da quando Bonnie, la bambina che nel terzo capitolo riceve in dono da Andy i suoi giocattoli, parte con la famiglia portando con sé i suoi piccoli amici. Lì Woody farà una deviazione e ritroverà l’amica scomparsa, Bo Peep, la donzella che Woody e Buzz hanno spesso salvato dai guai. Se ne erano perse le tracce, ma ora si saprà dove ha vissuto, cos’ha fatto, che tipo di impatto ha avuto sulla vita di Woody. E i nuovi personaggi? Ci sarà Forky, che mostrerà a Woody fino 5 4 / MAGGIO-GIUGNO 2019
a che punto può essere grande il mondo per loro. Forky è un cucchiaio-forchetta usa e getta che Bonnie ha trasformato in pupazzo, e che di conseguenza ora si trova ad affrontare una crisi di identità: desidera infatti portare a compimento il proprio scopo di posata, ma in quanto giocattolo si trova ad avere anche nuovi obiettivi. Che cos’è cambiato in questi 24 anni, dal primo Toy Story? Soprattutto il pubblico: ci sono nuovi bambini e i giovani adulti che non abbandonano la serie, ma vogliono trovare qualcosa di adatto anche a loro. Per riuscirci abbiamo puntato ai valori umani, inserendo elementi di avventura, umorismo, sentimento e passione.
Woody insieme all’esordiente Forky, cucchiaio-forchetta trasformato in pupazzo, in una scena di Toy Story 4, nelle sale dal 26 giugno
G Q I TA L I A . I T
LIFE
NUMBERS
IL SUPEREROE
BATMAN, 80 A NNI DOPO Maggio 1939: l’uomo pipistrello di Bob Kane e Bill Finger debutta sulla rivista Detective Comics. Ha già tutti i numeri per diventare un mito Testo di C L A U D I A L A V I A
Costi assurdi, incassi strepitosi: al cinema
8
28
5.343
Batman è un supereroe
GLI ANNI
I GADGET
I VOTI
da record. Per quantità
che ha Bruce Wayne quando assiste alla morte dei genitori. Agli inizi della carriera varia i modi di liberarsi dei nemici: buttandoli in una vasca di acido, rompendo loro il collo con un calcio, impiccandoli.
della Bat-cintura contati dai fan. Tra le risorse: il batarang, l’arma da tiro a forma di pipistrello, il repellente per squali, le batbombs (granate a forma di pallina da golf) capsule di fumo letale, gel esplosivo.
che decretarono la morte di Robin: furono i lettori a decidere, quando gli autori dell’episodio 427 chiesero di votare se volevano o meno che fosse ucciso dal Joker. “Solo” 5.271 telefonarono per salvarlo.
24
11,6 mld $
10mila
di versioni, autorizzate e no, e per aver totalizzato due volte più di un miliardo di dollari al botteghino (Il cavaliere oscuro e Il cavaliere oscuro − Il ritorno di Christopher Nolan). Il prossimo capitolo nel 2021, per la regia di Matt Reeves
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I GRANDI NEMICI
I L P AT R I M O N I O
I C AVA L L I
Sono 24. Il numero uno è il Joker, che compare già nel primo numero del comic (a breve il film a lui dedicato, Joker, con Joaquin Phoenix, dal 3 ottobre). Tra i più famosi: Due Facce, Pinguino, Catwoman.
Gli studenti di economia dell’Università di Lehigh hanno fatto i conti in tasca a Bruce Wayne, che sarebbe il 72esimo uomo più ricco del mondo. La sola multinazionale WayneCorp avrebbe un utile di 1,5 mld $ all’anno.
della Batmobile. Stando al Batmobile Owner’s Manual redatto da DK Publishing, il suo motore è ora 12 volte più “energico” di quello della 812 Superfast, la Ferrari più potente di tutti i tempi.
A N TO N I O B A N D E R A S
COPIA CONFORME Come diventare Pedro Almodóvar, e rinascere Testo di C R I S T I A N A A L L I E V I
Banderas e Almodóvar, attore e regista di Dolor y gloria (in sala dal 17/5). A destra, sul set e con Nora Navas
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Che cosa ha imparato dalla morte? «A vivere». Antonio Banderas ha 58 anni. Due anni e mezzo fa il suo cuore ha ceduto. Letteralmente. «Ha lasciato tracce visibili», dice. Intende soprattutto nelle reazioni a catena che quel crac ha provocato. Per esempio, il ritorno a bomba. Da Hollywood alla Spagna. Alla sua prima patria. Da Pedro Almodóvar, il regista che 38 anni prima lo aveva notato fuori da un caffè di Madrid. Banderas aveva i capelli lunghi e la barba del personaggio che interpretava a teatro, Almodóvar gli disse: «Dovresti fare cinema, hai una faccia romantica». Banderas diventerà la musa di Almodóvar, e il regista il suo mentore assoluto. Una fila di film insieme, il successo planetario. E poi l’ambizione: quando bussa nuovamente alla porta dell’attore, lui saluta e parte per gli Stati Uniti. In cambio avrà fama, una moglie, Melanie Griffith, una figlia, Stella, un divorzio, una carriera come produttore. Almodóvar resta solo, con l’amaro in bocca e un nuovo film in cerca di attore. Ma il tempo è passato, l’acqua sotto i ponti ha smosso i detriti. E quando Antonio ha avuto bisogno di Pedro, Pedro lo ha accolto. In Dolor y gloria, in sala in Italia il 17 maggio,
in contemporanea con la proiezione al Festival di Cannes, dove è in concorso. Un film in cui i “ricongiungimenti” hanno una parte importante. Nei giorni di questa conversazione Antonio Banderas è a Madrid, occupato dal copione di The Hitman’s Wife’s Bodyguard, il sequel del campione di incassi Come ti ammazzo il bodyguard. Si unisce ai tre volti del primo capitolo: Ryan Reynolds, Samuel L. Jackson e Salma Hayek. «Ogni tanto una commedia così mi diverte. Anche Dolor y gloria lo è, ma in modo diverso…». Lo dice con una sonora risata, cosa che rifarà − ridere − molte altre volte. “Il nostro ottavo film insieme restituisce un’immagine diversa di Antonio”: sono parole di Almodóvar. Le condivide? È vero, e non tanto perché sembro più vecchio: tutti invecchiamo. È cambiato radicalmente il mio modo di recitare: ho lavorato per eliminare ogni sicurezza, ogni appiglio creato in anni di mestiere. Era necessario, l’ho capito dalle prove di Dolor y gloria: dovevo abbandonare le certezze per camminare in un luogo completamente sconosciuto. Solo così, giorno dopo giorno, potevo aggiungere qualcosa di nuovo con le indicazioni di Pedro, che non G Q I TA L I A . I T
LIFE
CINEMA
solo è il regista di questa storia, ma ne è anche il protagonista. E cioè Salvador Mallo, il personaggio che interpreto. Un uomo che va in pezzi. E che li rimette assieme andandoli a cercare nel suo passato. La somiglianza è fortissima. Non volevo copiarlo. Ho i capelli dritti come i suoi, mi vesto come lui e la casa in cui mi muovo è la copia della sua. Ma ho cercato di tirare fuori Salvador Mallo da dentro di me, con pazienza e spostamenti sottili. Pedro viene spesso confuso con i suoi film: rock, sgargianti, infuocati di colore. Ma negli ultimi anni Pedro ha sofferto: a causa di alcune malattie è diventato un solitario, dedito all’introspezione, ai suoi libri, al cinema. Questo è l’uomo che mi interessava e che volevo mostrare al pubblico, un uomo che osserva la realtà e cerca di sistemare le cose che sono andate a ramengo. Dolor y gloria è una forma di riconciliazione con se stesso, il suo passato, la madre, il fidanzato, il cinema. Direi che è venuto a patti con la vita intera, per quel che è stata. Le cito ancora Almodóvar: “Sulla faccia di Antonio vedo gli interventi al cuore, la sua esperienza col dolore”. È leggermente diverso. Non ho provato troppo dolore fisico, per la verità, ma essere vicino alla morte ha lasciato tracce che riconosco non tanto sul mio volto, quanto nella mia anima: ha cambiato il mio modo di vedere la vita. In che modo? Ho compreso che l’unica verità dell’esistenza è la morte, e la conseguenza è stata l’arrivo di una certa tristezza, che ho accettato. Adesso so che la morte è perfetta, e che ogni altra cosa è relativa. Da lì in avanti, cosa cambia? Ho iniziato a dare molta importanza a ogni secondo che ho. È arrivato un tempo, nella vita di Pedro e nella mia, in cui c’è spazio solo per la verità, e nessuna stupidità. Quando ho letto le parole che ha scritto per il film mi sono detto: capisco tutto quello che sta dicendo, e il modo quasi minimalista di porlo. La storia del film ha scatenato emozioni forti dentro di me, Pedro mi ha chiesto di non nasconderle ma di mostrarle al pubblico. Così ho fatto, mettendoci dentro anche la depressione. Mostrarsi depressi e fragili, in un’era in cui vige l’immagine “up”? L’immagine è l’immagine, non me ne curo. Oggi mi sento molto bene, corro otto chilometri al giorno, sono di nuovo l’uomo che tutti conoscono, con una differenza: ho già visitato un posto, so che esiste e anche che prima o poi sarò di nuovo lì. Il riconoscimento della vita e della morte è un fatto naturale, se vogliamo, ma ci vuole il fegato di metterlo sullo schermo e raccontare alla gente che questa è la realtà MAGGIO-GIUGNO 2019 / 5 9
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CINEMA
della vita. Almodóvar ha trovato in me uno specchio per farlo, dopo 40 anni che lavoriamo insieme, dopo che abbiamo attraversato ogni evento possibile, dalla storia del nostro Paese alla nostra personale, passando per quella del cinema. Credo che nessuno lo conosca come lo conosco io. Le ha mai detto di essersi sentito tradito, quando lo ha abbandonato per l’America? Sì, me lo ha detto, anche perché mi aveva appena offerto un altro film. Ma in quel momento io volevo volare, ero nel pieno dei miei vent’anni, non volevo essere associato a un solo regista. Parliamo della sua ambizione, allora, di quell’Antonio che Almodóvar descriveva giovane, pieno di passione e di follia. Lo ricordo con molto humour. Volevo bermi la vita e l’ho fatto davvero. Volevo tutto e subito. Ero giovane, con abbastanza soldi in tasca, le notti erano piene di tentazioni e di bellezza. Ma ci sono stati momenti in cui mi sono chiesto: ok, ma quanto posso continuare così? A un certo punto devi crescere, e cresci. Poi è arrivata un’altra fase, un nuovo millennio, che mi ha visto impegnato nella mia vita personale. 6 0 / MAGGIO-GIUGNO 2019
Cosa le hanno dato gli Stati Uniti? Film che non avrei potuto girare in Spagna, perché non c’erano copioni nati per diventare blockbuster. Ricorderò sempre con un sorriso La maschera di Zorro, Desperado, Intervista col vampiro. Ed è in America che mi sono innamorato, mi sono sposato, dove ho avuto una figlia meravigliosa, Stella. Da padre è iniziata una vita parecchio diversa da quella che avevo fatto a Madrid, le follie dei night club negli Anni 80 e 90 sono finite. “Dolor y gloria è una sorta di nuova nascita per Antonio, o quanto meno l’inizio di una splendida tappa di maturità”: è sempre Pedro a parlare. Quella è iniziata prima, con La pelle che abito, un lavoro molto più difficile di questo: all’epoca era quasi impensabile destrutturarmi. Mi sono sentito spinto in avanti, all’improvviso, non sapevo se sarei finito in acqua o su una roccia. Ma quando ho visto il film ho capito una cosa importante: non sapevo di avere quell’uomo dentro di me, fino a quel momento. Lì è iniziata una nuova maturità, forse Pedro non se n’era ancora accorto.
Dove la porta l’ambizione, adesso? Sono diventato attore grazie al teatro, e ho scoperto il modo migliore per rovinarmi romanticamente: ne ho comprato uno a Malaga, in realtà sono due. Il primo ha 1.000 posti, il secondo è inserito in una scuola di recitazione che si chiama Esaem, in cui gli attori imparano a recitare, danzare, suonare. La scuola ha 600 studenti, il teatro configurabile ne tiene 300. È un progetto molto ambizioso senza nessun finanziamento pubblico, un’organizzazione culturale e teatrale oltre che un centro di produzione. Malaga palpita cultura, e produrremo spettacoli che faranno il giro del mondo. Tutta la mia forza è lì, adesso, voglio essere circondato da gente giovane e dare quello che non ho mai avuto io, quando ho iniziato.
Banderas e le attrici di Esaem Teatro Antonio Banderas, a Malaga: lo ha inaugurato nel 2017
G Q I TA L I A . I T
LIFE
MUSI CA
Brian Fennell in arte SYML, 36 anni. Il tour dell’album omonimo, uscito il 3 maggio, farà un’unica tappa in Italia,
FENOMENO SYML
DEBUTTO COL BOTTO Il primo album e il brano da 300 milioni di stream Testo di A L B A S O L A R O
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SYML (si pronuncia “simmel”) significa “semplice” in gallese. Brian Fennell, 36 anni, l’ha scelto come nome d’arte in un progetto musicale che parla di cose apparentemente facili come l’amore, i figli, un bosco che va a fuoco, le montagne che vede dalle finestre, la paura, la gioia. Volendo riassumere, parla della vita. Cioè la faccenda più complicata che ci sia. E anche le sue canzoni alla fine di semplice hanno poco, costruite come piccole sinfonie di pop malinconico, strati su strati di suono emo che lievita. Il 3 maggio è uscito il suo omonimo album di debutto, che contiene Where’s My Love, pezzo da 300 milioni di stream online; il 1° luglio sarà al Magnolia di Milano per l’unico show italiano. Da Issaquah, nei sobborghi di Seattle dov’è cresciuto, rac-
conta via Skype come tutto è iniziato, quando a 17 anni ha composto la sua prima canzone. «L’ho scritta per una ragazza il giorno che lei è morta in un incidente stradale, per colpa di un tizio che guidava ubriaco. La conoscevo appena, ma la nostra era una piccola comunità, avevamo diversi amici in comune. Quando è successo sono andato con gli altri sul posto. L’auto era ancora lì, scaraventata su un lato della strada, e all’improvviso è partita a tutto volume della musica: quella che lei ascoltava quando è morta. Ci ho pensato tutto il giorno, sono tornato a casa e mi sono messo a scrivere. Per la prima volta avevo cercato di dire quello che provavo». Come tutti gli adolescenti nati a Seattle negli Anni 80, «ovviamente la dieta musicale era a base di grunge. Amavo i Rage Against The Machine e gli Smashing Pumpkins». Finché ha scoperto Jeff Buckley: «L’equilibrio perfetto tra emozione e suono». Con la sua prima band, Barcelona, Brian Fennell ha fatto quattro dischi senza arrivare da nessuna parte. Il successo, una volta in proprio, è arrivato con Where’s My Love. Era il 2016, la canzone fu infilata a sua insaputa nella colonna sonora della serie di Mtv Teen Wolf (stagione 5, episodio 14), il giorno dopo in milioni l’hanno cercata con Shazam e lui si è ritrovato star di Spotify. Di cosa parla quel pezzo? «Di come non siamo mai veramente soddisfatti, anche quando pensiamo di avere in fondo una vita felice». Per Fennell, la scoperta di essere stato adottato ha avuto un’influenza profonda sulla sua musica. La famiglia d’origine è gallese, «ma non l’ho mai conosciuta», dice. «La prima persona con cui ho avuto a che fare che ha il mio dna è stato il mio primo figlio. In passato ho provato rabbia, confusione, ma ora sono adulto: ho imparato a incanalare le mie emozioni nella creatività». Durante i suoi concerti, è interessante perfino il merchandising. Ci sono anche due candele, create da SYML con un profumiere di L.A., una ispirata ai profumi del Galles, l’altra «più dark e piovosa, come il clima di Seattle. Le essenze sono una mia passione, e mi sembrava più interessante che fare le solite T-shirt. Le ho chiamate N. 1 e N. 2». Semplice. G Q I TA L I A . I T
F OTO D I S H E R V I N L A I N E Z
a Milano, l’1 luglio
LIFE
MUSI CA
IL LUOGO
A CACCIA DI LIVE Lo spicchio di New Jersey dove nascono leggende Testo di G I U L I A N A M ATA R R E S E
La locandina del documentario di Tom Jones sulla storia musicale di Asbury Park, in sala dal 22 al 24 maggio, e (sopra) una d’epoca dell’Upstage Club. In alto a destra: Bruce Springsteen all’Harvard Square Theatre nel 1974
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C’è un posto sulla costa del New Jersey che gli appassionati di rock e jazz conoscono: Asbury Park, a un’ora da New York. Lo conoscono perché The Who, The Doors, Ella Fitzgerald, Charlie Parker, i Rolling Stones e Bruce Springsteen (nato poco distante, a Long Branch) ci sono passati: a farsi le ossa, in una scena musicale abbastanza unica, che ora è tornata a riservare delle sorprese. È la storia che Tom Jones racconta nel documentario Asbury Park: Lotta, Redenzione, Rock ’n Roll (al cinema dal 22 al 24 maggio). Lo fa partendo dagli inizi, e cioè dagli Anni 30, quando i binari della Long Branch Railroad dividevano la città in due: l’Ovest dall’Est, il quartiere dei neri e degli immigrati (italiani) e quello dei bianchi ricchi. Ma le prove tecniche della segregazione, che diventerà legge qualche anno più tardi, «non possono nulla contro il potere della musica», spiega il regista. Infatti i bianchi si spostano nelle zone proibite:
«Quelle del Turf Club o dell’Orchid Lounge, dove suonano Dizzy Gillespie, Ray Charles e Louis Armstrong». Sarà un crescendo: di mescolanze, di generi, di sperimentazioni. Negli Anni 60 la città e la sua Convention Hall sono la prima scelta dei profeti del rock, dai Byrds agli Who: un laboratorio crossing sul quale soffierà, da lì al decennio successivo, l’ennesimo vento nuovo. Sarà il momento di Bruce Springsteen, che ne parla nel documentario: «Tra quel meltin’ pot di influenze, il pop, l’r’n’b, il soul, è nato il mio suono, quello a ovest dei binari». Dice Tom Jones: «All’Upstage Club potevi suonare solo brani originali, le cover erano bandite: il proprietario, Tom Potter, aveva compilato una lista di regole su tutto, come quella che concedeva alle ragazze di rimanere in topless per un massimo di tre, quattro ore ciascuna». Messa a ferro e fuoco nel 1971 dagli scontri tra forze di polizia e Black Panthers, che rivendicavano i diritti civili degli afroamericani, Asbury Park ora è rinata puntando, di nuovo, sulla musica. In due chilometri e mezzo di lungomare si concentrano una decina di venue per la musica dal vivo: lo storico The Stone Pony, dove si è fatto conoscere anche Jon Bon Jovi, e il Wonder Bar, più i locali dove le gig sono comprese nel prezzo del drink, come l’Asbury Park Yacht Club, il Langosta Lounge o il Danny Clinch Transparent Gallery. E poi i raduni: il prossimo evento imperdibile è il festival di musica, arte e surf culture Sea.Hear.Now, in programma il 21 e il 22 settembre.
G Q I TA L I A . I T
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ARTE
OLIVIER WIDMAIER PICASSO
IL NONNO, CHE TESORO Come si cura il patrimonio dell’autore più prolifico del 900: Pablo Picasso Testo di E L I S A B E T TA C O L A N G E L O
Ottantamila opere. Quattro figli da due donne diverse. Due mogli. Uno stuolo di amanti. Proprietà ovunque. Quattro musei a lui dedicati. Quando muore, Pablo Picasso non lascia traccia delle sue volontà. Ma un immenso patrimonio sì. Se ne occupa, con lo zio Claude, Olivier Widmaier Picasso, una delle voci del docufilm Il giovane Picasso (dal 6 all’8/5, distribuito da Nexo Digital). Che cosa racconta il documentario? Di quanto Pablo Picasso fosse consapevole del proprio talento, e di come il metterlo a frutto divenne per lui una sorta di missione. È morto nel 1973, senza fare testamento. È stata una successione complicata, ma non una guerra, come ha detto qualcuno. C’erano cinque eredi, tra figli e nipoti. Uno di loro, Claude, fu incaricato dal tribunale di amministrare il patrimonio, che restò indiviso. Quante opere ci sono in circolazione oggi? 80mila. Dopo la sua morte trovammo 25mila dipinti, che aveva tenuto per sé. La sola collezione di famiglia vale 10 miliardi di euro. Cosa comporta la gestione dell’eredità? Soprattutto i problemi legati al copyright, a protezione del quale Claude ha creato la Picasso Administration. È vero che Picasso è il brand più piratato al mondo? Lo è stato fino a una ventina di anni fa. Chi può usarlo oggi? Abbiamo in attivo solo una decina di licenze per abbigliamento, arredi e altre cosette. Il contratto con Citroën, che era il più importante, dopo 20 anni è stato chiuso. È vera la storia del risarcimento da James Cameron, che mostrò Les Demoiselles d’Avignon in Titanic senza permesso? No. Claude protestò perché si trattava di un falso storico: il dipinto non poteva trovarsi su quella nave. Ma non chiedemmo soldi. I diritti sul brand terminano nel 2043. E poi? Chiunque potrà riprodurre un Picasso. Un suo ricordo finale? Quando andò all’asta Les Femmes d’Algers per oltre 179 milioni di dollari, mia madre si ricordò che lui ne aveva dipinte almeno una quindicina di versioni. Ci lavorava di notte e la svegliava per mostrargliele... F OTO G E T T Y I M AG E S
LIFE
Olivier Widmaier Picasso: è il figlio di Maya, che il pittore ebbe con la modella Marie-Thérèse Walter
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G Q I TA L I A . I T
LIFE
LIBRI
C O N T E M P O R A N E I TÀ
A OVEST DEI SOGNI Il più caustico, tenero e disordinato cantore della cultura americana abbandona la New York delle élite per avventurarsi su un autobus negli Stati profondi del risentimento e del disagio. Con Destinazione America (Guanda, traduzione di Katia Bagnoli, pagg. 400, 20 €), Gary Shteyngart ha scritto il reportage narrativo più spudoratamente onesto sul Paese di Trump. E non fa sconti a nessuno, nemmeno a sé. _ (Michele Neri)
Olivier Guez La danza del pallone
Elogio della finta,
Victor LaValle E tutti vissero in un mondo assurdo La storia di Apollo Kagwa, la sua esasperata ricerca della moglie e di una salvezza per sé e per il figlio, in una metropoli ipnotica e misteriosa, ha conquistato due primati. È il romanzo meno classificabile e più inventivo degli ultimi anni, un Blade Runner della coscienza, e il più ammirato. Tra i tifosi − hanno scomodato Murakami, Poe e i fratelli Coen − il Booker Prize Paul Beatty e il Pulitzer Anthony Doerr. La favola di New York, di Victor LaValle, Fazi. Traduzione di Sabina Terziani. Pagg. 450, 20 €
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di Olivier Guez, Neri Pozza. Traduzione di Margherita Botto. Pagg. 120, 12,50 €
Il calcio come illusionismo e ubriacatura di sensi, leggerezza di tocco e pantomima per schernire: da Garrincha in avanti, il Brasile ha sfornato i più grandi campioni di dribbling e palleggio. L’alternativa scanzonata alla ruvida ricerca del contatto fisico dei giocatori bianchi risplende con tutta la sua eleganza e dignità in questo breve e appassionato omaggio.
Giovanni Montanaro
Un maestro di vita L’universitario Jacopo trova nel rapporto con un ex professore di liceo un rifugio dalle prime complicazioni dell’esistenza. Grazie alle discussioni e ai silenzi con lui e la sua figlia disabile, e per effetto della natura selvaggia e carezzevole di un’isoletta nella laguna Veneta, Jacopo riuscirà a trasformare le sue inquietudini nell’idea di un destino. Un romanzo delicato e confortante sulla fatica di diventare adulti senza tradirsi.
Le ultime lezioni, di Giovanni Montanaro, Feltrinelli. Pagg. 170, 15 €
G Q I TA L I A . I T
LIFE
FI CTI O N
DON CHEADLE
FOLLIA A WALL STREET Arriva Black Monday, la serie abrasiva sul crollo delle Borse Testo di R O B E R T O C R O C I
Sniffa cocaina da una Nes Light Gun (con il permesso di Nintendo, s’intende), viaggia in Lamborghini, dice cose orrende sull’Aids. È insomma nel suo, Don Cheadle, attore che ama trattare temi seri con un senso critico corrosivo e pennellate di umorismo intelligente, anche esagerato: proprio come in Black Monday (su Sky, dal 10 maggio, in seconda serata), la serie ambientata nella Wall Street fine Anni 80. Il lunedì nero del titolo è il 19 ottobre 1987, quando i mercati mondiali crollarono del 22%, più del doppio del martedì nero del 1929. Produttori sono lo stesso Cheadle con Seth Rogen e Evan Goldberg, con cui l’attore condivide uno spirito critico verso la gestione americana dell’economia e del potere. Cosa le piace di Mo, l’operatore di Borsa politicamente strascorretto che interpreta? Che è completamente pazzo, perfetto per quegli Anni 80, tra decadenza e avidità, che hanno ispirato Oliver Stone per Wall Street, Martin Scorsese con The Wolf of Wall Street, Adam McKay per La grande scommessa. Dov’era il 19 ottobre 1987? Non certo a divertirmi come Mo. Tutti i miei averi stavano nel baule della macchina: e meno male che quell’anno ho girato Hamburger Hill - Collina 937 di John Irvin. Quanto c’è delle malefatte descritte in Black Monday nel mondo finanziario di oggi? Tutto. Perché più le cose cambiano, più rimangono le stesse. Chi crea instabilità la fa sempre franca. La serie affronta argomenti seri, e per farli digerire al pubblico usa l’umorismo, l’unica arma con cui far riflettere. Quanto sono lontani gli Anni 80? Anni luce. Le battute di allora oggi verrebbero condannate come razziste e sessiste. Ma è questo il bello: non c’erano filtri. Neri, asiatici, donne, omosessuali, disabili: sono tutti sotto la stessa lente d’ingrandimento. Donald Trump: è o non è tra i personaggi? Lo scoprirete da soli. Ma già a quei tempi, come oggi, era impossibile ignorarlo. Che cosa sniffate davvero sul set? Montagne di vitamina B12! Dicono che aiuta a prevenire la caduta dei capelli: almeno quelli, se non i soldi, sono salvi!
Una scena della serie Black Monday (dal 10/5 su Sky) con, in alto, Don Cheadle
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G Q I TA L I A . I T
(a)
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(c-d)
e B-C* dA* b 70-75 dB*
LIFE
SO CIAL
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D I N N E R PA R T Y
RIFLESSO DI STILE
1. Jordi Balleste, presidente di Angelini Beauty, e Giovanni
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Audiffredi, direttore
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di GQ Italia (3. sotto con Michelle Hunziker);
A Milano, da Carlo & Camilla in Segheria, allestita come una giungla urbana, 100 invitati per la cena placée dedicata al lancio della nuova 12 fragranza Trussardi
2. Tomaso Trussardi e André Hammann testimonial della campagna del profumo Trussardi Riflesso; 8
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6. Daniela Collu; 7. Aurora Ramazzotti; 8. Loris De Luna; 9. Alberto Soiatti; 10. Maddalena Corvaglia e Lucilla Agosti; 11. Romano Reggiani; 12. Elbio Bonsaglio e Marta Sanchez
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F O T O D I F . I O N À E I VA N L AT T U A D A
11 5. Ginevra Rossini;
LIFE
SO CIAL
Da sinistra, Vincenzo Pujia, Europe managing director Bvlgari, Giovanni Audiffredi, direttore GQ Italia, e Ghali. In questa foto, Ghali firma la cover di GQ aprile
C O C K TA I L P A R T Y
5. Vincenzo Pujia e Maria
GENTLEMEN Ăˆ PRIMAVERA
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Stancanelli; 7. Fabio Marelli e Nik Piras, 3
Dev; 2. Maria Vittoria Paolillo; 3. Nicole Mazzocato; 4. Andrea Bosca e Tarcila Bassi
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direttore moda di GQ; 8. Sandra Vecchi Berton con il figlio Edoardo;
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9. Gilda Ambrosio, Paolo Stella ed Elisabetta Marra; 10. Candela Pelizza
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1. L’esibizione di Dj Davide
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9 F OTO D I D A N I E L E V E N T U R E L L I
Cinquecento invitati al Bvlgari Hotel di Milano per il lancio della Spring Issue di GQ, che compie 20 anni, come i gioielli B.zero1 di Bulgari. Ospite speciale il gentleman di copertina: Ghali
Paola Traldi; 6. Francesca
STORIE
J I M M I E D U R H A M , S E L F - P O R T R A I T, 2 0 0 7. C O U R T E S Y C H R I S T I N E KÖ N I G G A L E R I E , V I E N N A
I R E P O R TA G E , L E F I R M E , L E I N T E R V I S T E D E L M E S E
Attivista dell’American Indian Movement, performer, saggista, poeta, scultore di creature totemiche, spesso con teschi animali: Jimmie Durham è l’artista premiato (l’11 maggio) con il Leone d’oro alla carriera durante la 58esima Biennale di Venezia
P78 P90
LA TESI DI MASSIMO DE CARLO,
P86
I FILE SALVA ARTE,
IL DESIGN DELLA SIGNORA FENDI,
P96
MICROPROVE DI LSD,
P101
MUSEO DI PROVINCIA A CHI?,
P104
VENEZIA E LA BIENNALE
IL CUORE DEL DISCORSO
Massimo De Carlo, 61 anni, nella sua galleria degli Anni 30 in viale Lombardia, a Milano. Ha un altro spazio in cittĂ , uno a Londra e un quarto a Hong Kong
STO RIE
Per obbedienza ha studiato da farmacista. Ma avrebbe voluto essere produttore musicale. MASSIMO DE CARLO è diventato l’Obi-Wan Kenobi dei galleristi. Con un’idea innovativa dello spazio (espositivo). E una forza: «L’emotività nell’arte è una cosa da dilettanti» Te s to d i A L E S S A N D R A M A M M Ì F o to d i M A K I GA L I M B E R T I
Non è figlio d’arte, ma semmai un fratello per molti artisti. Vive e lavora a Milano, ma ha un raggio d’azione che abbraccia Asia-America-Europa. Voleva fare il produttore musicale e invece è il Numero Uno dei galleristi italiani e tra i più influenti al mondo. Si chiama Massimo De Carlo ed è uno di quei personaggi che dietro le quinte scrivono la storia dell’arte, ma non vogliono mai che qualcuno scriva la propria. È un’occasione eccezionale, dunque, quella di convincerlo a parlare non solo del business ma del businessman: vita, amori ed errori di un self-made man in quel mondo così particolare e misterioso che circonda la creatività e il mercato, il pubblico e il collezionismo, le istituzioni museali e le potenti fondazioni private. Un grande circo di cui la vecchia galleria è ancora il centro e il cuore. De Carlo, poi, di gallerie ne ha ben quattro: una a Hong Kong all’interno del Pedder Building; una a Londra che occupa tre piani di una palazzina chic a Mayfair; e ben due nuovi spazi a Milano. Rami di un’impresa strutturata come una vera e propria azienda, con un sistema di governance interno e figure specializzate, in un quartier generale che dalla periferica via Ventura ha appena traslocato in un appartamenMAGGIO-GIUGNO 2019 / 7 9
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to degli Anni 30 in viale Lombardia, un’opera magistrale dell’architetto Piero Portaluppi, recuperata alla sua epoca fin nei minimi particolari e che insieme all’altra, sontuosa e barocca sede di palazzo Belgioioso segna per De Carlo il definitivo addio ai grandi loft, ai neon e al bianco chimico del white cube. «Tutte cose che hanno fatto il loro tempo», ci dice l’uomo che ha accettato di raccontare in queste pagine tanto il futuro della galleria, quanto storia e passato del gallerista. Cominciamo dall’inizio, signor De Carlo. La sua nascita, la sua famiglia, i suoi studi… Sono nato il 31-1-1958. Segno zodiacale: Acquario. Famiglia di piccola borghesia
Tra gli artisti rappresentati dalla galleria di Massimo De Carlo: Maurizio Cattelan, Rashid Johnson, Dan Colen, Rudolf Stingel, Paola Pivi, Carsten Höller e Paul Chan
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italiana dalle buone e solide ambizioni, tra le quali un “figlio dottore”. Poi, un collegio cattolico dove insegnavano preti reietti, gesuiti sposati e pensatori a rischio eretico e infine, in obbedienza ai desideri materni e paterni, una laurea in farmacia. Voleva davvero fare il farmacista? Per niente. Come ho detto, obbedivo. Non sono mai stato un rivoluzionario: innovatore sì, ribelle no. La mia aspirazione era fare il produttore di musica d’avanguardia, lavorare al fianco dei musicisti. Dai 19 ai 26 anni sono stato direttore artistico di una piccola società, minipromoter di gruppi, organizzatore di concerti e produttore di musica ad alto livello. Forse la galleria nasce sulle basi di un lavoro che già facevo. L’arte, invece, quando è arrivata nella sua vita? Per la mia maturità, nel 1977, mia mamma mi regala un biglietto per New York dove sono ospite di un grande musicista: Muhal Richard Abrams, compositore afroamericano, e con lui vado per mostre, visito il MoMA, vedo Guernica in deposito all’epoca perché Picasso non voleva che rientrasse in Spagna fino alla morte del Caudillo. Fu
allora che comprai il primo libro di arte contemporanea: Interviste a Francis Bacon di David Sylvester. Non l’ho mai letto perché non sapevo l’inglese, ma guardavo le figure. Forse tutto è partito da lì. Comprese le leggende. Si narra che lei, dopo i turni di notte in farmacia, la mattina si trasferisse nella galleria di Piero Cavellini a imparare il mestiere. E un paio d’anni più tardi nel suo spazio di via Panfilo Castaldi, dove qualcuno giura di averla vista vagare in pigiama... Può essere vero. Lavoravo diciannove ore al giorno, ne dormivo appena due, ma mi sosteneva il fisico e non l’ho mai percepito come un sacrificio. Non fu niente di drammatico, ma ero costretto a lavorare per mantenere me e la galleria, che avevo aperto nel 1987. Uno spazio dai soffitti altissimi e pareti bianche, con un pavimento in marmo nero che ai tempi sembrò un’eresia, ma che son sicuro entrerà nella storia per l’epocale installazione di Cady Noland. Però non si guadagnava una lira. Perché non lasciava perdere allora? Perché mi piaceva. Credevo nel mio lavoro. E nelle mie relazioni con gli artisti. Erano gli anni G Q I TA L I A . I T
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Righton a Milano alla console durante il party per i GQ Best-Dressed Men 2019. Total look G U C C I
in cui la mia ostinazione e la mia voglia di non fermarmi mai si traducevano anche nel fatto che rimanevo almeno due volte al mese per strada senza benzina. Vedevo la lucina della riserva e mi dicevo: «Vado avanti ancora un po’, ce la faccio». E invece restavo a secco. Nella galleria, invece, lei non è mai rimasto a secco. Un sacco di volte invece! Lo sapeva bene il mio padrone di casa quando mi telefonava: «De Carlo, ma qui ci sono quattro mesi da pagare! Che facciamo?». Fortunatamente ho potuto contare sul sostegno degli artisti, ho sempre avuto un rapporto empatico col fattore creativo e con chi lo esprimeva. Questa è la differenza fra un gallerista e un mercante:
Massimo De Carlo ha iniziato a lavorare come gallerista per Piero Cavellini, a Brescia. Nel 1987 ha aperto la sua prima galleria a Milano
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il mercante si relaziona a qualcosa di morto, di inanimato, io mi confrontavo con passioni, insicurezze, nevrosi, entusiasmi e poi i miei mentori sono stati i musicisti, che mi hanno insegnato ad avere fiducia nelle arti. Quali furono gli artisti della prima ora? All’epoca accanto a me c’erano già John Armleder, Olivier Mosset, Thomas Grünfeld, mentre Cattelan lo incontrai nel 1989. Nel 1988, invece, decisi di fare una retrospettiva di Alighiero Boetti, la prima in una galleria privata. Andai a Roma e lui fu affettuoso, entusiasta, anche se in realtà era solo interessato a vendermi qualcosa. Prima di andar via mi mise in mano una decina di suoi ricamini dicendo: «Prendili, portali con te». «Non posso pagarli», risposi. «Non ti preoccupare, quando li vendi ne parliamo», mi rassicurò. Invece due giorni dopo mi ha chiamato la sua gallerista per chiedermi i soldi, trattandomi malissimo. S’impara anche da questo. A cosa attribuisce il successo che da quei tempi incerti l’ha portata a essere uno dei protagonisti del sistema arte? All’ambizione, forse. All’abitudine al lavoro duro. All’insoddisfazione costante che alla fine mi porta sempre a dovermi
confrontare con qualcosa di nuovo. Perché chiudere l’enorme spazio ex industriale in via Ventura per tornare all’appartamento borghese da format Anni 60? Ho percepito il fastidio e l’irrigidimento di una pratica espositiva che dura da cinquant’anni. Il white cube ha esaurito le sue funzioni, insieme all’idea che l’arte debba andare in luoghi emarginati per risanarli. Ma l’arte come strumento di riscatto è cosa superata, proprio perché lei stessa non è più un residuo marginale della società, ma è al centro di interessi che abbracciano ragioni di mercato, il lifestyle di alcune fasce sociali, una sorta di star system che circonda gli artisti, riti e cultura dell’upperclass. È un vantaggio o uno svantaggio? Dipende: se ci si vuole considerare parte di una élite e portavoce di un pensiero, oppure fare il proprio lavoro cercando delle opportunità senza necessariamente rinunciare a se stessi. Io sono snob e snob morirò, ma non significa che non voglio cercare di capire quello che la contemporaneità sta offrendo al mio lavoro. Non penso che sia uno svantaggio quello che è successo in questi trent’anni G Q I TA L I A . I T
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al di là di inevitabili prezzi da pagare. C’era più pensiero quando non c’era una lira? Forse sì, ma intanto… Intanto lei oggi ha una galleria che di fatto è una media impresa italiana, con un fatturato intorno ai 45 milioni di dollari e una cinquantina di dipendenti. Ma soprattutto le cose vanno molto meglio per gli artisti. Mi hanno raccontato che Kounellis nel 1968 aveva uno studio in un garage, eppure era già un nome riconosciuto. Oggi invece devo continuamente rispondere a chi si scandalizza per i prezzi milionari delle opere. Ma son gli stessi che se vedono un film non si chiedono quanto ha preso DiCaprio
Nel 2016 Massimo De Carlo è stato incluso nella lista di Artnet I 10 commercianti d’arte più rispettati d’Europa
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e se vanno a un concerto non fanno i conti in tasca ai Rolling Stones. Tra i prezzi da pagare ce ne sono alcuni che coinvolgono anche la sfera privata ed emotiva? Non ho famiglia, non ho figli, ma non perché li ho sacrificati al lavoro. Non ho pagato nessun prezzo. Il lavoro mi ha dato moltissimo anche se l’emotività nell’arte mi sembra una cosa da dilettanti. Preferisco sempre l’aspetto adulto, la sintonia intellettuale all’affettività. C’è una sorta di buonismo rispetto all’emozione in cui non mi riconosco. Eppure non sono cinico, distante e calcolatore. I cinici non perdono il controllo, io invece mi arrabbio moltissimo e vado avanti per desiderio. Lei si racconta come un eroico imprenditore del primo Novecento. Qui non c’è niente di eroico! La mia è la storia di chiunque sia partito da una miniazienda e l’abbia fatta diventare qualcosa di consistente. È la storia di tanti artigiani del Veneto, di caseifici del Sud, di un appassionato meccanico di motori che dà vita alla Ferrari… insomma non c’è nulla di innovativo in questo formato, tranne il fatto che è applicato a un contesto che in Italia
sorprende. Il problema in questo Paese è che la visione dell’arte è vittima di una sovrapposizione fortissima tra pensiero crociano e marxista. Formula capace di affossare qualunque possibilità per l’arte che non sia frutto di cultura statale o accademica. Qui il privato che lavora con l’arte è visto male. Meglio una mostra di manifesti al Circolo Bertolt Brecht che un artista internazionale da Massimo De Carlo a Belgioioso. Anche gli artisti italiani hanno il mito della marginalità? In Italia si diventa artisti per stare fuori dalla società, mentre in America si fa l’artista per portare nella società la propria innovazione. Ma qualche errore lo avrà pur fatto. Cosa si rimprovera? Io sono il tipico italiano medio che si autocommisera ogni sera tornando a casa ed elencando tutti gli sbagli della giornata. Ma in realtà l’unica cosa che mi rimprovero davvero è, per pigrizia o per sfiducia, non aver aperto una galleria a New York alla metà degli Anni 90. L’errore più grande è quello di non essere riuscito a scollarmi definitivamente da Milano. Ma continuerò a combattere da qui. G Q I TA L I A . I T
IN FILE VERITAS La digitalizzazione delle opere d’arte è una risposta efficace al bisogno di sicurezza di galleristi e collezionisti. CosÏ i musei possono proteggere i grandi capolavori. Ed editare copie in tiratura limited
Digital Art Work della Canestra di frutta di Caravaggio (in mostra alla Pinacoteca Ambrosiana di Milano fino al 3 giugno) e, a lato, del Cristo morto di Mantegna, presto in
Te s to d i G I AC O M O N I C O L E L L A M A S C H I E T T I
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esposizioni internazionali
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Quello che sta accadendo ha il profumo della rivoluzione. Il futuro dell’arte passerà attraverso il digitale? Probabilmente sì. Dopo aver già contaminato e progressivamente stravolto il mondo dei libri, del cinema, della musica, il digitale e le sue più concrete applicazioni si sono infatti rivolti al mondo delle arti visive. Sono già decine le start up che si stanno affacciando sul mercato con importanti soluzioni, sia a livello di servizio che di prodotti. Con un meccanismo simile a quello che ha cambiato le vite dei consumatori: come pochi anni fa eravamo soliti pagare con le banconote e oggi viaggiamo invece con dei bit in tasca (le carte di credito, i bancomat), le possibilità dell’archiviazione in cloud e la condivisione di contenuti ora sono soluzioni facilmente applicabili anche al mondo dell’arte. Globalmente si tratta di G Q I TA L I A . I T
un settore molto appetibile, che vale ben 67 miliardi di dollari l’anno, e che muove beni worldwide coinvolgendo alcune decine di migliaia di persone impiegate in gallerie, fiere, biennali, musei, fondazioni.
I L D ATA B A S E B LO C KC H A I N PUÒ CERTIFICARE IL “PEDIGREE” DI UN’OPERA È facile intuire come molte aziende e ricercatori stiano trovando soluzioni innovative per entrare nel mercato. Per cominciare, molti player stanno prendendo in considerazione la tecnologia
della Blockchain, per sfruttarne i vantaggi nelle archiviazioni e nelle compravendite di opere. Ora, la Blockchain (letteralmente “catena di blocchi”) è un database condiviso e immutabile. Il suo contenuto, una volta scritto, non è più modificabile né eliminabile grazie all’uso di tecniche crittografiche. Questa tecnologia, applicata al mercato dell’arte, potrebbe consentire per esempio agli artisti di autenticare le proprie opere facendo valere il diritto d’autore e riducendo il rischio di duplicazioni e falsi, contribuendo a tutelare anche investitori e collezionisti, oltre ad accrescere il livello di fiducia dei potenziali acquirenti. In questo contesto, è in fase di lancio Art Rights: fondata dal gallerista sardo Andrea Concas, è la prima piattaforma italiana a valenza legale che supporta la gestione e la certificazione delle opere d’arte a tutela di MAGGIO-GIUGNO 2019 / 8 7
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artisti, collezionisti e professionisti del mondo dell’arte. Perché la “qualità” comprovata delle opere è un punto cruciale per chi compra e per chi vende arte: la tecnologia Blockchain può essere di fondamentale aiuto per certificare il “pedigree” di un dipinto, una scultura, una videoinstallazione. A proposito di autenticazione e tutela di capolavori: c’è un brevetto di ultimissima generazione che sta facendo parlare di sé in tutto il mondo. Si tratta di Save The Artistic Heritage, start up culturale che mette il digitale a servizio del nostro patrimonio artistico. L’obiettivo è quello di salvare le opere dei musei italiani attraverso i Daw (Digital Art Works). Si tratta di serie limitate in scala 1:1 dei più grandi capolavori della storia dell’arte, certificate e non riproducibili. Copie digitali, in pratica, autenticate dai musei che ne custodiscono l’originale, la cui vendita (per il 50% al netto dei costi) va a sostenere immediatamente il museo proprietario.
UN ARCHIVIO D I G I TA L E E DINAMICO DELLE OPERE NON È RIMANDABILE Si tratta di un sistema di business innovativo per rendere i musei indipendenti. A capo del progetto ci sono due imprenditori con alle spalle una lunga esperienza del mondo digital nella Silicon Valley: il danese John Blem e l’italiano Franco Losi, mentre presidente onorario dell’associazione è Mario Cristiani, uno dei tre fondatori della nota galleria di arte contemporanea Continua di San Gimignano. All’iniziativa hanno già aderito le Gallerie degli Uffizi di Firenze, il Complesso Monumentale della Pilotta di Parma, la Pinacoteca di Brera, la Veneranda Biblioteca Ambrosiana a Milano e molti altri. Proprio in questi giorni è possibile ammirare il Daw della Canestra di frutta del Caravaggio alla Pinacoteca Ambrosiana di Milano (fino al 3 giugno) in sostituzione dell’originale in prestito. Quella in mostra è l’edizione 3 di 9 (il massimo riproducibile, proprio 8 8 / MAGGIO-GIUGNO 2019
Andrea Concas, esperto d’arte digitale e fondatore della start up Art Rights
come con le sculture) ed è destinata, non appena la mostra terminerà, al mercato dei collezionisti. Il valore stimato di queste edizioni digitali è concordato con il museo che detiene l’originale, ed è proporzionale a quello del capolavoro. L’alto contenuto tecnologico (reso possibile dall’azienda Cinello, che ha depositato il brevetto) rende i Daw assolutamente non riproducibili e ne garantisce l’unicità. Queste riproduzioni digitali offrono infine ai musei italiani e internazionali la straordinaria possibilità di allestire vere e proprie mostre impossibili, quando non è possibile spostare gli originali. Per questo sono già stati richiesti Daw per importanti mostre internazionali: in giugno una selezione di capolavori di Leonardo sarà esposta in Arabia Saudita a Jedda, mentre in autunno sarà il turno di esposizioni in Cina. Tra i vari problemi che il digitale può già risolvere c’è anche quello, spinoso, delle archiviazioni. È noto come uno dei maggiori problemi di musei, fondazioni o semplici collezioni private sia la corretta archiviazione delle opere. Disporre di una catalogazione digitale aggiornata e dinamica è un’esigenza non rimandabile. Un’opera non archiviata o priva di documentazione aggiornata è, semplicemente, senza valore. Da questa domanda è nato Artshell: ideato da Bernabò Visconti, prevede un innovativo software per la gestione completa e integrata delle opere di una
collezione. Il servizio è pensato in modo specifico per le gallerie, le fondazioni, i musei. La piattaforma è in grado di gestire una collezione già digitalizzata, oppure può occuparsi anche della catalogazione attraverso un team di conciergerie dedicato. Anche il problema dello spazio, in questo caso, è risolto perché Artshell non ha bisogno di essere installato e dispone di un cloud illimitato. Infine, la promozione: come può il digitale aiutare la diffusione dell’arte e del design? Attraverso il web ovviamente. Il mondo del design si è affacciato già da molti anni a internet, grandi piattaforme aiutano aziende nazionali e internazionali a diffondere e vendere i propri prodotti. Designitaly.com ha fatto però un passo in più: ideato da Roberto Ferrari, ex direttore generale di CheBanca! ed esperto di Fintech, è un marketplace digitale per la valorizzazione del design italiano delle piccole marche. Un modello di “piattaforma boutique” per far emergere eccellenze poco conosciute nell’ambito del design, un settore nel quale l’Italia è molto forte. Su designitaly.com si possono trovare pezzi di arredamento e home decor, ma anche accessori, pelletteria e gioielli: tutti accomunati dall’italian touch. Appena lanciata, la nuova piattaforma si occuperà di tutte le fasi di vendita, dalla gestione del catalogo e degli ordini fino alla logistica e ai pagamenti. G Q I TA L I A . I T
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Silvia Venturini Fendi, direttore creativo uomo, bambino e accessori donna di Fendi, la casa di moda fondata dai suoi nonni nel 1925. In queste foto è nello showroom di Milano. A destra, la collezione delle lampade da tavolo, da terra e a sospensione è ispirata ai gemelli da polso maschili, FENDI CASA
CREAZIONE E DISCIPLINA Da bambina guardava la tv sui divani di Alvar Aalto, frequentava Federico Fellini, Luchino Visconti e Karl Lagerfeld. Un imprinting colto che SILVIA VENTURINI FENDI ha trasferito alla moda, con tutto il rigore del caso. E, adesso, anche in una nuova home collection Te s to d i E N R I C A B R O C A R D O F o to d i A L E S S A N D R O F U R C H I N O C A P R I A
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Silvia Venturini Fendi davanti a una specchiera ispirata ai gemelli da polso, con due elementi orientabili, composta da un intarsio di specchi, F E N D I
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Silvia Venturini Fendi è seduta su uno dei divani della capsule Back Home nata dalla collaborazione con la designer Cristina Celestino, pezzi che coniugano arredamento, moda e arte. Addosso, una giacca di pelle che indossa come un’armatura. L’impressione è che le torni utile anche per tenere nascosta un’altra versione di sé, quella più giocosa, che ha deciso di non mostrare in pubblico. Di preservarla. Per la sua (grande) famiglia. Che rapporto c’è tra moda e arte? Dialogano. Anche se sono molto diverse. La creatività nella moda deve rispettare certe funzionalità che nell’arte non necessitano di essere prese in considerazione. La moda ha più regole, più vincoli. Lei è una collezionista? No. Il collezionismo è quasi una professione. Richiede molto tempo a disposizione. Che io non ho. La mia collezione personale comprende quello che mi basta per riempire le pareti di casa, scelgo ciò che mi piace, seguo il mio istinto, la pancia. Non tengo l’arte nei caveau. 9 2 / MAGGIO-GIUGNO 2019
Se avesse più tempo libero, che cosa le piacerebbe fare? Per cominciare, vorrei pensare a quello che mi piacerebbe fare. Proviamoci adesso. Sono curiosa di tutto: mi piacciono l’arte, la moda, il design, l’architettura. Probabilmente se avessi più tempo sarei una “turista completa”, frequenterei musei, gallerie d’arte, ma anche Paesi, città, viaggerei. Qual è l’ambiente della casa che lei ama particolarmente? Mi piace molto stare sdraiata sui miei divani. Apprezzo la comodità. Da bambina sono vissuta in una casa arredata con pezzi di arredamento antichi, importanti. Un giorno chiesi a mia madre se potevamo cambiare le poltrone del salotto dove noi bambine giocavamo e guardavamo la tv. Erano fatte di legno, in seguito scoprii che erano di Alvar Aalto.«Assolutamente no. Anzi, potete sedervici ma senza muovervi troppo». I poster che all’epoca i ragazzi della mia età attaccavano alle pareti delle loro camere io potevo appenderli sono nell’armadio. E che poster aveva, dentro l’armadio? Me ne ricordo uno in particolare, di Rod Stewart. Ma non mi lamento, mia madre mi ha sempre insegnato che l’estetica è sostanza. E rispetto: una sedia non è solo un oggetto, c’è qualcuno che l’ha ideata. Per i vestiti le regole sono state altrettanto ferree? Erano la parte più importante. Ad agosto con le mie sorelle andavamo in vacanza al mare. Mamma lavorava e con noi non trascorreva tanto tempo, per lo più stavamo con la tata. Un giorno, una signora in un negozio le disse: «Che peccato che queste bambine così carine siano orfane». «Orfane?». «Be’, tutte vestite di nero...». «Ma, no, è che la loro mamma lavora nella moda». Lei non ha cresciuto i suoi figli allo stesso modo, vero? Sui divani potevano saltare. Con una certa attenzione, però. In questa capsule ci sono molti riferimenti a Karl Lagerfeld, che ha collaborato con la sua famiglia per oltre cinquant’anni. Il suo primo ricordo legato a lui? Non saprei dire quando l’ho conosciuto ma, da piccola, capivo che Karl stava per arrivare a Roma perché mia madre non aveva tempo per nessun altro. Pensai: «Se è così importante per lei, lo diventerà anche per me». Casa vostra è stata frequentata da molti artisti, attori, registi... Ricordo Federico Fellini, Luchino Visconti, G Q I TA L I A . I T
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Silvia Venturini Fendi su una delle sedute della linea home (rivestite in pelle nabuk o con motivo Pequin) che traggono ispirazione dai portagioie déco, F E N D I
CASA
Mauro Bolognini. Durante le feste, o in occasione dei compleanni, ci si riuniva a casa della nonna, si tendeva un lenzuolo bianco sulla parete e si proiettava un film. I titoli erano sempre scelti sulla base di un pubblico femminile, e i miei cugini erano scocciati di dover vedere film come Il Gattopardo o Tutti insieme appassionatamente. Lei ha prodotto un paio di film di Luca Guadagnino... Io sono l’amore e Suspiria. Ma prima ancora lavorammo insieme a due cortometraggi. Avevo deciso di non sfilare, ma di presentare le collezioni in quel modo. Da lì nacque l’idea di fondare insieme una casa di produzione. Il cinema però è una macchina molto complessa, con tempi lunghi. Io sono abituata alla moda, dove per vedere un’idea realizzata basta un secondo. Da quando ha cominciato a oggi, però, sono cambiate tante cose. Che cosa le piace di più rispetto a una volta? E che cosa rimpiange? Rimpianti non ne ho, di nessun tipo. Mi piace 9 4 / MAGGIO-GIUGNO 2019
il cambiamento e, attraverso la moda, mi piace leggere l’evoluzione della società. E mi piace anche aprirmi alle collaborazioni, con artisti e non solo. Nessuno sta più chiuso nel proprio mondo e si andrà sempre di più verso la condivisione, la contaminazione. La campagna di quest’anno ha avuto come guest artist Nico Vascellari. E sarà sempre lui a firmare la prossima. Vascellari è anche il compagno di sua figlia Delfina. Sì, fa parte della famiglia. Do spazio alla mia gang. E chiedo sempre il parere di tutti quelli che lavorano con me. Non sono dittatoriale, ma inclusiva. Me lo ha insegnato Karl. All’ultima collezione uomo avete collaborato. Al di là del lavoro, quanto le manca? Moltissimo (Le si incrina la voce, fa un gesto come a dire: «Non posso dire altro», ndr). Non è curioso che Karl Lagerfeld, che creava in un mondo in evoluzione continua, avesse deciso di apparire sempre identico a se stesso? Aveva una grande personalità, non ha mai seguito le tendenze, ma quello che faceva bene a lui. Era un uomo molto rigoroso. Un grande lavoratore, ogni disegno che usciva era fatto da lui, con le sue mani. E lei è una donna rigorosa? Sì, abbastanza. Sono abituata alla disciplina del lavoro. Ho cercato di deviare, ma solo nella vita privata. Lì sono più incasinata. Un po’ di scombussolamento tre figli lo portano di certo. E adesso sono arrivati i nipoti. Cinque. Sono stata una nonna per caso, perché la prima nipotina è arrivata che ero ancora giovane. Adesso, invece, sono una nonna vera. La più grande ha 12 anni, i più piccoli un anno. I gemelli... Due maschi. Un bel colpo! Non ce l’aspettavamo proprio. Abbiamo sempre sostenuto di essere una famiglia matriarcale e, invece, adesso ci ritroviamo con più maschi che femmine. Mi diverto moltissimo con i miei nipoti, e a loro piace stare con me. Abbiamo una linea per bambini e spesso sono proprio loro a ispirarmi nuove idee. E poi mi regalano un senso di libertà, mi piace vedere come giocano, mi piace immaginare come saranno da grandi. È vero che quando lascerà il lavoro le piacerebbe trasferirsi in campagna a dare da mangiare alle galline? Più precisamente, a fare una collezione di galline. È da un po’ che ci provo, ma ogni volta la volpe se le mangia. G Q I TA L I A . I T
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PENSARE CREA DIPENDENZA La tentazione di assumere microdosi di Lsd sta seducendo i migliori cervelli della Silicon Valley. Che accettano il rischio di sottoporsi a dei test, alla ricerca di performance cerebrali. Con il sogno di una nuova visione Te s to d i G E A S C A N C A R E L LO A r t d i M AT T H E W B R A N D T
Dannata Silicon Valley, s’è presa anche questo. Prima la tecnica, poi le idee, infine lo sballo. E non per viaggiare con la mente, amare il prossimo o smetterla con le guerre. Macché: per produrre di più. E meglio: senza costrizioni mentali, imbarazzi, vincoli all’immaginazione. Con una creatività liberata dalle catene della razionalità: psichedelica, insomma. Come quella che il prestigioso Imperial College di Londra, istituzione in campo medico e scientifico, sta studiando con centinaia di volontari di tutta Europa. Obiettivo: capire se è davvero l’Lsd ad aumentare le capacità immaginifiche e cognitive di chi ne fa uso, o se concorre anche la suggestione. E in che misura. Il protocollo è il microdosaggio, e cioè l’assunzione di quantità ridotte di sostanze psichedeliche, in modo continuativo e controllato, secondo procedure più o meno codificate. Chi si sottopone all’esperimento le rispetta alla lettera, ma chi deve inventarsi il prossimo smartphone si concede probabilmente dei margini di libertà: in ogni caso, si tratta di quantità compatibili con la vita sociale, il lavoro, la cura di sé e della famiglia. Capitoli dell’esistenza G Q I TA L I A . I T
affrontati però con un’altra visione: multicolor, ipersensoriale e con una diversa consapevolezza delle proprie possibilità. Sarà bene precisarlo: microdosare, come si dice in gergo, è ancora illegale. Lsd e parenti − come la psilocibina contenuta nei funghi allucinogeni – sono da tempo vietati. Ma è in corso, e sempre meno sottotraccia, un ritorno alle origini. Cioè alle convinzioni del padre dell’acido, il chimico Albert Hofmann, che lo sintetizzò nel 1938 all’interno dei laboratori della casa farmaceutica Sandoz (oggi un ramo di Novartis) quasi per errore. Nel 1943 l’assunse per la prima volta, in modo del tutto casuale, quando gliene cadde un po’ su una mano: l’inizio di un viaggio sorprendente. Nonché delle avventure di Timothy Leary, profeta dell’Lsd ma prima rispettato psicologo che insegnava ad Harvard, da cui fu cacciato nel 1963 proprio per i suoi esperimenti con l’acido: lo prendeva insieme agli studenti dei suoi gruppi di ricerca. Benché allora la sostanza non fosse ancora fuori legge – lo sarebbe diventata solo nel 1968, in parte a causa della grande opera di divulgazione di Leary stesso – il suo enfatizzarne il potenziale per le cure psichiatriche e per
espandere la coscienza divenne ben presto indigesto, ingestibile e infine intollerato dalle autorità americane. Non prima però che Cary Grant si facesse un centinaio di viaggi in acido alla ricerca di se stesso, annunciando infine di essere rinato: «Eccomi arrivato dove volevo essere». Decenni dopo, la riscoperta delle proprietà dell’Lsd attraversa comunità molto diverse, e con forme socialmente più rispettate di un tempo. Ai giovani techies dei giganti del web, rei secondo i più spirituali di aver messo la creatività indotta dall’acido lisergico al servizio dell’industria, si contrappongono nel Vecchio Continente gruppi ed esperimenti per cercare di fornire la prova scientifica del potere della sostanza,
A sinistra, Seljalandfoss, opera dell’artista Matthew Brandt che utilizza processi fotografici alterntivi come la gomma bicromata
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A destra, Dettifoss, un’altra opera di Matthew Brandt: il suo effetto visivo che ricorda l’allucinazione da Lsd
ammettendo anche l’onere del dubbio. In estate saranno disponibili per esempio i dati raccolti dall’Imperial College in partnership con la Beckley Foundation per verificare «se esista un effetto placebo del microdosaggio», spiega Balázs Szigeti, biologo e neuroscienziato, membro del team di ricerca. Altrimenti detto, se si diventa più creativi e ci si sente meglio perché si è convinti di aver assunto la droga, anche se così non è. «L’esperimento dura dieci settimane: ogni soggetto segue un protocollo, in cui si alterna un giorno in cui si prende realmente Lsd e altri due in cui si butta giù una capsula identica ma con dentro zucchero», racconta. «Ciascuno dei partecipanti è tenuto a rispondere a un questionario e a effettuare test cognitivi in media due volte a settimana, dopo l’assunzione, senza sapere che cosa ha ingerito. Con i risultati in mano, confermeremo per la prima volta scientificamente l’esistenza dell’effetto placebo, e l’importanza dell’autosuggestione». La peculiarità dell’approccio è che nessuno dei volontari è fisicamente dentro al centro di ricerca: «Sarebbe troppo caro», precisa Szigeti, e richiederebbe una catena di permessi, anche solo per maneggiare grandi quantità di acido, molto difficile da avere: così, invece, anche le autorità possono chiudere un occhio. Le persone seguono dunque istruzioni dettagliatissime – il manuale distribuito ai partecipanti include il link ad Amazon per ottenere le capsule e le pinzette con cui prepararle –
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da casa propria, e si sottopongono al test mentre procedono con le loro vite. In cui, frequentemente, Lsd in microdosi era già presente. Quanto questo mondo sia distante dallo stereotipo dei figli dei fiori sballati e contenti lo spiega con pacatezza Hein, 45enne, olandese, due figli, e la richiesta di non pubblicarne il cognome «perché faccio un lavoro in cui alcol e droghe sono proibite: non vorrei avere problemi». Da anni, si è fatto carico di raccogliere
I N TA N T O , L A C O M U N I TÀ SCIENTIFICA FA NUOVI TEST S U I V O L O N TA R I le informazioni sul microdosaggio in un sito (microdosing.nl), che è anche il punto di incontro di una comunità molto variegata. «La gente che usa sostanze psichedeliche fa di tutto: ci sono avvocati, medici, operai, portuali e cassiere. Non siamo un gruppo di hippy», precisa anticipando le domande. La sua ossessione è la ricerca scientifica e terapeutica: iniziò a prendere Lsd in piccole quantità insieme a un amico che soffriva di emicranie a grappolo, per cui l’acido era l’unico sollievo; una testimonianza tutt’altro che isolata in pazienti affetti dalla
stessa patologia. Morto l’amico, Hein sta cercando di catalizzare sforzi e attenzioni per spingere le autorità a investire seriamente nella ricerca scientifica, liberandosi dai preconcetti sedimentati negli Anni 60 e 70. «Il 70% di chi assume Lsd in microdosi nella nostra comunità lo fa cercando percorsi di crescita e di trasformazione interiore», spiega. «Un altro 69%, e ovviamente in parte i risultati si sovrappongono, vuole aumentare la propria creatività: personalmente, dopo due mesi di assunzione i miei pensieri hanno iniziato a essere più fluidi, meno imbrigliati, anche nei giorni in cui non prendevo nulla. Vent’anni dopo, non ho ancora smesso di microdosare». Né, però, di lottare contro gli stereotipi, e i rischi legali. La speranza, per lui e per molti altri, anche in Italia, è che la giustizia segua lo stesso corso della Norvegia, dove un consumatore di Lsd finito nei guai ha perorato la propria causa fino alla Corte Suprema: i magistrati, dopo aver ascoltato e analizzato le ultime evidenze, hanno creduto agli effetti terapeutici dell’acido lisergico, e hanno ridotto la pena ai soli servizi sociali per chi ne viene trovato in possesso, anche in quantità significativa. L’alternativa è confidare nella Silicon Valley: se alimentando la propria creatività i suoi adepti riusciranno a fare più soldi, è lecito aspettarsi a breve i lobbisti in Parlamento a perorare i viaggi psichedelici. Con buona pace della lotta al materialismo di Leary e compagni.
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Spring Summer 2019 Telagenova.it
MACCHINA DEL TEMPO
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La scelta di una mostra dedicata a Jenny Holzer è l’occasione per immergersi nel GAMeC di Bergamo, guidato da LORENZO GIUSTI. Valorizzatore del luogo tra passato e presente Te s to d i C R I S T I N A D ‘A N TO N I O
Jenny Holzer è la santa protettrice di Lorenzo Giusti, 42 anni, il direttore di un museo, la GAMeC, che la riporterà in Italia dopo molto tempo: precisamente a Bergamo, dal 30 maggio all’1 settembre, nella Sala delle Capriate di Palazzo della Ragione. Holzer è l’artista dei Truisms, brevi frasi impattanti, forma estrema di riflessione. Uno di questi, Protect me from what I want, «proteggimi da cosa voglio», è stato a lungo l’immagine del profilo Instagram di Lorenzo Giusti. Quest’anno Jenny Holzer è anche al Guggenheim di Bilbao e alla Tate di Londra. Lei perché l’ha voluta? È un’artista straordinaria, con un lavoro attuale: agisce sulla comunicazione, contro la banalizzazione e la mistificazione dei messaggi. Le ho chiesto di sviluppare un tema che le è caro: la crisi migratoria. Lo farà con una grande installazione, che prevede la proiezione di testi e poesie di autori italiani da Amelia Rosselli a Pier Paolo Pasolini, e stranieri, tra cui James Schuyler. Al centro della sala ci saranno nove panchine in marmo, messe in cerchio, prodotte con la Fondazione Henraux, che avranno incisi sulla seduta altri testi. Sarà un grande ambiente per l’esercizio del pensiero critico. Lei è direttore della GAMeC da un anno e mezzo: come è andata, fino a oggi? Abbiamo puntato sul confronto tra contemporaneo e moderno: più che celebrare figure G Q I TA L I A . I T
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già note, abbiamo cercato di riscoprire esperienze innovative e attuali. Come Gary Kuehn l’anno scorso e, adesso, Birgit Jürgenssen. Con progetti che sono nati dalla collaborazione con gallerie e musei internazionali, collegando Bergamo con il resto del mondo. Un nuovo corso che coinvolge anche la struttura? Abbiamo recuperato le forme e i colori con cui Vittorio Gregotti aveva ristrutturato l’antico Convento delle Servite, all’inizio degli Anni 90: sono tornati il grigio antracite e la luce naturale in alcuni spazi. Anche il patrimonio della galleria è stato riorganizzato. La nostra collezione è composta da opere donate da collezionisti privati. Si va dai maestri del Novecento − Kandinsky, Morandi, De Chirico − agli artisti contemporanei internazionali. Una ricchezza eterogenea, difficile da trattare. Da qui, la scelta: liberare gli spazi della collezione permanente per destinarli alle attività didattiche, affacciate sulla piazza, mostrando così un museo sempre vivo. Così nasce il progetto di Collezione impermanente? Potremmo definirla “neoistituzionalista”: interpretiamo la collezione come una macchina del tempo evocatrice di memorie. Creiamo ogni volta percorsi nuovi. Sempre trovando un dialogo tra locale e globale. Non bisogna essere una capitale per avere voce nell’arte contemporanea. Ho due considerazioni. La prima: l’Italia non è come la Francia, che ha una vocazione centralista. Da noi la provincia resta sempre
STUDIANDO IL CONTEMPORANEO I L “ P R I M A” T R O VA R A G I O N I NEL “DOPO” una grande ricchezza, anche in termini di produzione e proposta. La seconda: Bergamo offre molto dal punto di vista paesaggistico e della storia. Ed è sempre stata audace nelle sue scelte: una realtà che va fatta conoscere. Come ci riuscirete? Creando un ponte tra l’antico e il contempo-
A fianco, For the Academy, mostra romana del 2007 di Jenny Holzer, member Artists Rights Society (ARS), NY (foto di Attilio Maranzano). Sopra: l’esposizione Jenny Holzer, Solomon R. Guggenheim Museum, New York, 1989 (foto di David Heald)
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raneo. È il progetto dell’estate: favoriremo il collegamento tra piazza Vecchia e piazza Carrara, dove ha sede la Galleria. Un percorso pedonale per conoscere la città, le sue architetture, i suoi sentieri interni. Questo ponte avrà il suo fulcro nel Palazzo della Ragione, che da giugno a settembre diventerà uno spazio satellite della GAMeC e ospiterà importanti progetti d’arte contemporanea, come quello di Jenny Holzer. Gli affreschi staccati del Bramante, dentro la Sala delle Capriate, faranno da sfondo alle straordinarie proiezioni dell’artista. Quanto contano le scelte coraggiose nel costruire il calendario di un museo? Sono fondamentali, specie per le istituzioni che hanno la propensione verso la ricerca. Ma occorre dare al pubblico le chiavi di lettura. Se no rischiamo di correre troppo avanti, girarci e scoprire che siamo rimasti soli. Cos’è oggi la contemporaneità? Non è sinonimo di presente. Studiando il contemporaneo si può non soltanto comprendere meglio quanto già accaduto e coglierne aspetti inediti, ma anche capire come il “prima” trovi ragioni nel “dopo”, e come lo spessore storico del passato sia mutevole. L’arte scaturisce ancora dai luoghi che la ospitano? In un’epoca post-digitale i musei potrebbero sembrare sempre meno legati ai luoghi in cui operano, in realtà bisogna favorire il contrario. L’arte è spesso svincolata dai luoghi, ma è nei luoghi che trova senso e ragione. G Q I TA L I A . I T
GQ PER LAND ROVER
La REGINA è tornata sul trono I nuovi motori mild hybrid benzina e diesel saranno accompagnati, entro la fine dell'anno, da una inedita versione plug-in hybrid prestazionale e sostenibile
La più compatta delle Range Rover è un’icona di modernità e design senza tempo che la pone al vertice del proprio segmento Nata per mixare i percorsi metropolitani con le fughe dalla routine, la nuova Range Rover Evoque arricchisce il suo fascino, con una decisa evoluzione del design che lʼha resa celebre a cui si aggiunge una tecnologia d'avanguardia. Allo stile definito dalle superfici scolpite e dalla meticolosa cura per il dettaglio si accompagna lʼattenzione alla sostenibilità. Le nuove motorizzazioni mild hybrid - sia benzina che diesel - riducono consumi ed emissioni, aumentando contemporaneamente il piacere di guida, mentre i rivestimenti dei sedili sono disponibili in pelle, oppure in kvradat che è realizzato con la lana e materiale
plastico riciclato, o ancora in fibre naturali (eucalyptus).Poi ci sono dispositivi unici, come il ClearSight Ground View che attraverso una serie di telecamere permette di riprodurre graficamente le immagini del terreno antistante e sottostante il frontale del veicolo, con un angolo di campo virtuale di 180°, rendendo il cofano virtualmente invisibile. Basta un semplice tocco, invece, per trasformare il retrovisore intelligente in uno schermo video ad alta risoluzione che riproduce tutto quello che accade dietro lʼauto.
www.landrover.it/vehicles/new-range-rover-evoque
IN CHE TEMPI VIVIAMO? «Potrebbero essere interessanti». È la risposta di Ralph Rugoff, direttore della Hayward Gallery di Londra, che cura la 58 a BIENNALE D’ARTE intitolata: May You Live In Interesting Times. L’esposizione internazionale ai Giardini di Venezia con 90 Paesi partecipanti (cinque debutti nazionali) e 21 eventi collaterali. Dall’11 maggio al 24 novembre. Ecco dodici tappe selezionate da GQ Te s to d i C R I S T I N A D ’A N TO N I O
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Chromo Sapiens, installazione di Shoplifter, Padiglione Islanda, Spazio Punch, Giudecca E anche questa volta Hrafnhildur Arnardóttir, aka Shoplifter, userà i capelli, il marchio di fabbrica della sua ossessione e della sua arte, iniziata vedendo la nonna riporre una ciocca dei suoi in un cassetto, per ricordo. Ora lui ne porta a tonnellate, veri e sintetici, a tinte flou, per creare nel padiglione islandese Chromo Sapiens una caverna multisensoriale, in cui materiali, colori e la musica della band heavy metal HAM guideranno in un viaggio attraverso i sensi nella direzione della consapevolezza. Una psichedelia senza droghe, che allude alle forme che prende la natura, dalle sue evidenze microscopiche a quelle over.
Nervescape VII, 2017. L’opera è stata esposta alla National Gallery of Iceland
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BDM Gruppe (BDM Group), George Baselitz, 2012. Collezione privata (foto di Jochen Littkemann)
Baselitz - Academy, Gallerie dell’Accademia, Venezia Sculture giganti in legno scolpito, ritratti a testa in giù, figure spaccate in due. L’espressionismo e la brutalità
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(a volte anche nelle dichiarazioni dell’artista). A 81 anni George Baselitz, da sempre una voce fuori dal coro − specie se deve prendere una posizione rispetto alla storia − è il primo autore vivente a cui le Gallerie dell’Accademia dedicano una retrospettiva. In una parola: immensa.
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The Piedmont Pavilion, Combo Venezia, Campo dei Gesuiti
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La Venere degli stracci di Michelangelo Pistoletto. Il Barolo. La Fiat 500 del 1957. The Piedmont Pavilion (dal 7/5 al 20/7) è il progetto extramuros alla Biennale pensato da Fondazione Sandretto Re Rebaudengo e Castello di Rivoli per parlare delle eccellenze piemontesi: di arte contemporanea, ma anche di altre opere dell’ingegno locale. Una mostra, a cura di Marianna Vecellio, che inaugura gli spazi di Combo, in Campo dei Gesuiti, nel Cannaregio, il primo di tre ostelli (i prossimi a Torino e Milano) con la vocazione di spazio culturale.
Pendio piovoso frusta la lingua, Diego Perrone, 2010 (courtesy Fondazione Sandretto Re Rebaudengo)
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Red Regatta, Melissa McGill, bacino di San Marco
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SaF05 di Charlotte Prodger, 2019, Scotland + Venice, evento collaterale, Arsenale
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A Venezia arriva con un nuovo lavoro, dopo aver vinto il Turner Prize 2018 con Bridgit, viaggio nella solitudine, in Scozia, girato con l’iPhone. Charlotte Prodger, 44 anni, britannica, comunica con le immagini in movimento, mischiando standard a bassa definizione e HD: il suo strumento di elezione è, appunto, il cellulare. Esplora classi sociali, paesaggi, generi e tecnologia «da una prospettiva queer». Studi alla Goldsmiths di Londra prima e alla Glasgow School of Art poi, ha tirato avanti in molti modi prima di cominciare a collezionare riconoscimenti. Ora, a Venezia, l’incoronamento definitivo.
Charlotte Prodger. A dicembre ha vinto il Turner Prize
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per l’opera Bridgit (foto Emile Holba)
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Ghana Freedom, autori vari, Padiglione Ghana, Arsenale Sei artisti, tre generazioni, le radici salde in Ghana o nei luoghi della diaspora del suo popolo:
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il Paese è uno dei cinque al debutto in Biennale, e dedica il proprio padiglione a una canzone simbolo, la Ghana Freedom di E.T. Mensah (l’occasione buona per conoscere la Highlife, genere musicale dell’Africa occidentale). L’arte è stata uno strumento importante nel processo di riunificazione del Paese alla sua indipendenza dalla Gran Bretagna, nel 1957, e Accra è ormai una delle città emergenti nel radar di quella contemporanea. Un nome? Marwan Zakhem, imprenditore e collezionista, che ha scelto di battezzare il suo spazio, non a caso, Gallery 1957.
Radical Trysts, Lynette Yiadom-Boakye, 2018. Originaria del Ghana, l’artista è nata a Londra ed è stata candidata al Turner Prize
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Jannis Kounellis, Fondazione Prada, palazzo di Ca’ Corner della Regina
Ritratto di Jannis Kounellis, Galleria L’Attico, Roma, 1972 (foto di Claudio Abate)
C’è Germano Celant dietro a questa retrospettiva, la prima dedicata all’artista greco Jannis Kounellis dopo la sua scomparsa, nel 2017, con prestiti importanti e alcune grandi installazioni (come quella con i sacchi di chicchi di caffè). 70 lavori, dal 1958 al 2016, con i suoi materiali più cari: volatili, terra, cactus, lana, carbone, cotone e fuoco.
Sun & Sea (Marina), performance, Padiglione Lituania, Arsenale
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Per la Biennale i bagnanti sono stati selezionati a Venezia
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Sun & Sea (Marina), la performance di Rugile Barzdžiukaite, Vaiva Grainyte e Lina Lapelyte, alla National Gallery di Vilnius.
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Spiaggia, modalità relax, qualche risata. Gente in costume, odore di crema protettiva. Le canzoni e quel crick della plastica quando si muove nel vento. Benvenuti al centro dell’opera-performance delle artiste lituane Rugile Barzdžiukaite, Vaiva Grainyte e Lina Lapelyte, mentre ai visitatori tocca osservare dall’alto, dal punto di vista del sole. Che cosa? La scena dell’Antropocene, l’epoca geologica attuale, nella quale l’essere umano e le sue azioni sono la causa principale dei cambiamenti climatici.
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Roman Opalka, Dire il tempo, Fondazione Querini Stampalia
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Chiara Bertola ha curato un doppio progetto espositivo che si dipana tra Milano e Venezia. In laguna le opere di Roman Opalka, artista enigmatico con una storia di creatività che indaga in prima persona il lento degradare del tempo, dialogheranno con quelle di Mariateresa Sartori, nelle sale della Fondazione Querini Stampalia. A Milano invece (fino al 20 luglio) i quattro piani espositivi di Building sono dedicati a una grande retrospettiva sull’artista. Le mostre ruotano intorno al progetto Opalka 1965 / 1-∞.
SP
LE BIEN
STO RIE
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OPALKA 1965 / 1-∞ Détail, Roman Opalka, per la prima volta in assoluto saranno esposte la prima e l’ultima opera della serie
ENNALE
Fino al 10 agosto la mostra curata dal direttore di Flash Art, Gea Politi, in collaborazione con l’Accademia delle Belle Arti di Venezia, si dipana in un insieme di stanze fluorescenti che formano un condotto estetico mentale di uno degli artisti più significativi del movimento neoconcettualista. In realtà si tratta di un’installazione unica di 40 metri che approfitta dell’imponente navata dei magazzini per narrare l’eterotopia: lo spazio altro abitato da altri.
1 1 0 / MAGGIO-GIUGNO 2019
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Heterotopia I, Peter Halley, Magazzini del sale N.3, Zattere
ECIAL
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New York New York, Peter Halley, 2018, Lever House, New York, USA.
G Q I TA L I A . I T
STO RIE
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ECIAL
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NNAL
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Domus Grimani 1594-2019 e Pittura/Panorama, Paintings by Helen Frankenthaler, 1952–1992, al Museo di Palazzo Grimani
Sopra, busto femminile, copia di età adrianea
Una doppia mostra. La celebrazione dopo oltre quattro secoli del ritorno a Palazzo Grimani della collezione di statue classiche appartenuta al Patriarca di Aquileia Giovanni Grimani (fino a maggio 2021). Helen Frankenthaler torna in laguna dopo la Biennale del 1966 con 14 quadri che offrono una retrospettiva sui 40 anni di carriera dell’artista americana.
(117-138 d.C.), da un originale greco della seconda metà del V secolo a.C. In alto, Italian Beach, 1960, Helen Frankenthaler.
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© A N G E L O S _ P H W O L F F&W O L F F
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The Man who Measures the Clouds, Jan Fabre, Palazzo Balbi Valier Joannas Vos cura il progetto speciale in laguna di Jan Fabre. Una statua di 9 metri di altezza
ricoperta in foglia d’oro, che rappresenta l’impossibilità di misurare un sogno, ovvero una nuvola che si addensa nel cielo di Venezia. L’opera è una versione particolare di un lavoro iconico dell’artista. Sarà esposta fino al 24 novembre, sul Canal Grande e probabilmente diventerà una meta di selfie nel giardino di Palazzo Balbi Valier. Per Fabre è la decima partecipazione attiva alla Biennale d’Arte, dove aveva debuttato a 27 anni nel 1984, ai Giardini, come rappresentante del Belgio. L’ispirazione di The Man who Measures the Clouds nasce dalla storia dell’ornitologo Robert Stroud, che al momento della sua liberazione da Alcatraz si è dedicato unicamente a “misurare le nuvole”. Invito a riflettere sul ruolo dell’artista.
MAGGIO-GIUGNO 2019 / 1 1 1
MODA
I L FA S H I O N S H O OT I N G D E L M E S E
Da sinistra: parka, dolcevita e pantaloni BOTTEGA V E N E TA ,
sneakers
D O L C E &G A B B A N A ;
camicia BALENCIAGA,
pantaloni P R E M I U M MOOD DENIM SUPERIOR,
sneakers
F OTO D I J A M E S RO B J A N T
DSQUARED2
A L O N D R A P E R R A C C O N TA R E U N A N U O VA E S T E T I C A D E L S A R T O R I A L E
Da sinistra: giacca, camicia e pantaloni LOUIS VUITTON;
giacca, camicia e pantaloni L O U I S VUITTON,
sneakers
D O L C E &G A B B A N A ;
bomber e pantaloni PA U L S M I T H ,
camicia X A C U S
LA POETICA DELL’OVER Foto di Servizio di
James Robjant Nik Piras
Camicia e pantaloni G U C C I
Giacca, camicia e pantaloni VERSACE
In primo piano: giacca G I O R G I O
A R M A N I . In
secondo piano: giacca, gilet e pantaloni G I O R G I O
ARMANI
M O DA
Giubbotto S W OBRUDR 6 .4 Trench e T-shirt B.E6R R4Y, camicia P E N C E bandana S A I N T
1 9 7 9 , pantaloni C O R N E L I A N I ,
L A U R E N T B Y A N T H O N Y VA C C A R E L L O ,
cintura C E L I N E
Da sinistra a destra: cappotto, giacca e gilet G A B R I E L E PA S I N I ;
giacca
e gilet G A B R I E L E PA S I N I
Cappotto, camicia e jeans D O L C E & G A B B A N A , cintura S A I N T
L A U R E N T B Y A N T H O N Y V A C C A R E L L O , scarpe C E L I N E
M O DA
Da sinistra: giacca, camicia, pantaloni e stivali C E L I N E ; giacca, camicia e pantaloni G U C C I , foulard e cintura S A I N T
L A U R E N T B Y A N T H O N Y VA C C A R E L L O ,
stivali C E L I N E
Parka P A L
ZILERI,
occhiali L O U I S
maglia N A V I G A R E , pantaloni R E - H A S H , sneakers D S Q U A R E D 2 ,
VUITTON,
portachiavi C H U R C H ’ S , marsupio V A L E N T I N O
G A R AVA N I
jeans
stivali
stivali
CELINE
MADE & CRAFTED,
C E L I N E , calze N I K E ,
giubbotto L E V I ’ S
M E L L O , jeans B E R W I C H , cintura O R C I A N I ,
L A U R E N T B Y A N T H O N Y VA C C A R E L L O ;
B L A U E R , cintura S A I N T L A U R E N T B Y A N T H O N Y V A C C A R E L L O ,
bandana S A I N T
Da sinistra: camicia F R E D
camicia X A C U S ,
D O L C E &G A B B A N A
Giacca e camicia
Cappotto, dolcevita e pantaloni P R A D A
Giacca L U I G I
BIANCHI
M A N T O VA ,
maglia
PA L Z I L E R I ,
pantaloni
DOCKERS,
sneakers D S Q U A R E D 2
In questa pagina e a fianco: parka, trench, camicia, pantaloni e sneakers V A L E N T I N O
In questa pagina da sinistra: giacca, camicia e pantaloni MERT & MARCUS 1994 X DSQUARED2;
camicia
e pantaloni M E R T & MARCUS 1994 X DSQUARED2.
Nella pagina a fianco, da sinistra: giacca, camicia e pantaloni M E R T & MARCUS 1994 X DSQUARED2, DSQUARED2;
sneakers
camicia, top
e pantaloni M E R T
&
MARCUS 1994 X DSQUARED2,
sneakers
DSQUARED2
Da sinistra: giacca C I R C O L O
1901,
camicia A L E S S A N D R O
trench I M P E R I A L , giacca A L V I E R O
GHERARDI,
MARTINI 1A CLASSE,
T-shirt e pantaloni L A
MARTINA;
maglia D I K T A T , pantaloni B E R W I C H
Fashion Editor: Nicolò Andreoni. Grooming: Christian Fritzenwanker using Chanel and La Biosthetique. Styling Assistant: Yves Tronnier. Modelli: Roberto Sipos and Tim Schuhmacher. Fashion Market Consultant: Michele Viola
Giubbotto H A R M O N T&B L A I N E ,
camicia P O R T O F I O R I Fashion Editor: Nicolò Andreoni; Hair Stylist: Ryuta Saiga; Make-up Artist: Yin Lee using Giorgio Armani Beauty Face Fabric; Modelli: Barnaby, Aldridge, Leigh e Ottawa @Wilhelmina; Styling Assistant: Yuriko Hiratsuka; Fashion Market Consultant: Michele Viola Giacca, camicia e pantaloni I M P E R I A L , bandana S A I N T
L A U R E N T B Y A N T H O N Y VA C C A R E L L O
Al passo, con i TEMPI I modelli che hanno fatto la storia di Clarks Originals indossati dagli influencer del futuro nella campagna How to Wear
GQ PER CLARKS
Lucien Clarke, 30 anni, skateboarder professionista e membro fondatore di Palace Skateboards e Tom Grennan, 23 anni, cantautore londinese eletto nel 2018 dalla BBC Music come Introducing Artist of the year. Nelle foto indossano Desert Boots e Wallabee della collezione P/E 2019 di Clarks Originals, distribuita in Italia da Asak & Co.
Dai piedi dei ragazzi che negli anni Sessanta protestavano compatti in marcia contro la guerra in Vietnam a quelli dei piloti degli Spitfire durante la seconda guerra mondiale, amate da divi del cinema e regine. Le scarpe Clarks hanno fatto la storia e in equilibrio tra innovazione e tradizione hanno mantenuto inalterato il loro appeal fin dal 1825, anno di fondazione del marchio nel Somerset a opera della famiglia Clark. Anche le icone, però, hanno bisogno di nuove generazioni da conquistare, e proprio a loro è dedicata la nuova campagna How to Wear, che vede il brand rivolgersi a giovani talenti inglesi seguitissimi non solo nel Regno Unito. Influencer atipici, apprezzati per le loro doti oltre che per il loro stile. Come Tom Grennan, affascinante cantante dalla voce graffiante che realizza sold out a colpi di hit planetarie come Sober e Something in the Water, o Lucien Clarke, skateboarder professionista e modello anticonvenzionale, origini giamaicane, ha vissuto a New York prima di trasferirsi a Londra, dove è stato nominato tra i talenti più brillanti della Gran Bretagna. Entrambi
contano più di 100mila follower su Instagram, social d’elezione dove condividono entusiasti il loro mondo. Con la loro attitudine cool e cosmopolita che mescola i codici dell’eleganza british allo street style londinese, indossano i modelli iconici della collezione Primavera-Estate 2019 di Clarks Originals con rilassatezza e creatività: i mitici Desert Boots, gli scarponcini con la suola in para ispirati a quelli dei soldati pashtun, e le inconfondibili Wallabee, i mocassini destrutturati dalla forma lineare, realizzati magistralmente con due soli pezzi di pelle scamosciata. Best seller riconoscibili al primo sguardo, che vengono rieditati in tinte inedite oltre alle classiche, come blu elettrico, rosa polveroso e bianco latte. Gli influencer li abbinano con nonchalance a cargo pants e giacchini sportivi in tessuto tecnico, così come a jeans effetto invecchiato e pullover estrosi. Accostamenti liberi e creativi, che scardinano gli stilemi tradizionali e regalano un’immagine sempre nuova a modelli che rimangono fedeli a se stessi sin dagli esordi, traendo proprio dalla continuità estetica e dalla forza dell’heritage il loro straordinario successo. Ciò non vuol dire che manchino le innovazioni tecnologiche, a partire dalle recenti Trigenic Flex, evoluzione della filosofia Hygenic per cui è la scarpa ad adattarsi al piede e non viceversa, mutuandola in una stringata che pare ibridata con una sneaker, resa performante dalla tripla suola con sottopiede in PU a doppia densità e super moderna grazie alla silhouette asimmetrica.
www.clarks.it
G Q P E R TA N Q U E R AY
Un GIN&TONIC al tramonto
Tanqueray Flor de Sevilla. E il drink è come una danza andalusa. Agrodolce e irresistibile Assaporare un gin premium è un po’ come compiere il giro del mondo guidati dall’olfatto e dal gusto. Immaginiamo, dunque, quale tesoro si trova nelle oltre trecento ricette compilate da Charles Tanqueray, fondatore della distilleria dello storico London Dry Gin, duecento anni fa. Quali e quanti spunti troviamo ancora oggi utili a creare spirits innovativi e sorprendenti. Così è nato Tanqueray Flor de Sevilla, il gin che consente, come nel jazz, di reinterpretare in modo originale standard quali il Gin&Tonic o il Negroni. Un tocco di genio, per cui le note sensoriali del Tanqueray acquistano un timbro tutto nuovo, agrodolce e agrumato, ottenuto con l’infuso di arance di Siviglia, già sperimentato da Tanqueray
nell’800. Le sfumature d’ambra e arancia rossa, la freschezza mediterranea e la ventata estiva fragrante del gin con l’apporto degli agrumi andalusi ben si bilanciano con l’aroma del ginepro, con il coriandolo e con le altre botaniche del distillato inglese. E nel cocktail, dove il gin si combina con la tonica o con vermouth di alta qualità, la musica diventa ancor più seduttiva, vivace e avvolgente. Immaginiamo, dunque, un aperitivo al crepuscolo durante il quale la Swinging London e l’atmosfera andalusa si fondono ovunque ci troviamo nel mondo.
www.tanqueray.com
Nella foto, Gin&Tonic Tanqueray Flor de Sevilla. Riempire la coppa di ghiaccio, aggiungere a 30 ml di gin 90 ml di tonica, guarnire con una fetta d’arancia di Siviglia e cannella.
PASSIONI
FA R E , G U S TA R E , C O M P R A R E : O G N I M E S E L A S E L E Z I O N E D I G Q
Si chiama E64 Colnago ed è la prima bici a pedalata assistita dell’azienda lombarda, leader nel settore dei modelli da corsa: appena 12 kg di peso, batteria compresa, sistema di servosterzo Ebikemotion, ruote in carbonio. A partire da 4.950 €
P136
TIME,
P142
P154
TASTE,
LAB,
P156
P146
TRAVEL,
SPORT,
P160
P148
MOTORS,
BEAUTY
TIME LA COMPLICAZIONE
EDIZIONE SETTIMANALE Patek Philippe sorprende con 5 lancette e un datario Testo di G I A M P I E R O N E G R E T T I
Dopo le grandi complicazioni, una specialità della Patek Philippe, ecco una novità “piccola” e inconsueta: oltre a data e giorno, il nuovo modello (ref. 5212 A) mostra anche il numero della settimana e il relativo mese. A parte il datario, che è digitale, l’indicazione avviene tramite le due lancette con contrappeso rosso che vanno ad aggiungersi alle altre tre relative a ore, minuti e secondi. Nonostante le numerose indicazioni il quadrante, con fondo opalino argentato, è ben leggibile, con scritte e numeri realizzati in caratteri tipografici creati appositamente, così come il nuovo movimento di base. Quest’ultimo, automatico e di manifattura, ha rotore di carica in oro e spirale Spiromax amagnetica. La grande qualità e la precisione di marcia sono certificate dal Sigillo Patek Philippe: un attestato che rilascia la maison dopo test approfonditi.
R EG O L A Z I O N E Correzioni di giorno e numero della settimana sono sempre possibili e non creano danni
Patek Philippe GIORNI
Calatrava Calendario
Il primo a comparire ogni settimana è il lunedì,
Settimanale:
non la domenica come avviene in alcuni Paesi
cassa (40 mm) in acciaio con
SETTIMANE Ne sono riportate 53, anziché 52, per gli anni (ogni 5 o 6) che ne prevedono una in più
fondello trasparente e movimento in vista. Cinturino in vitello. Prezzo: 30.850 €
1 3 6 / MAG RG ZO I O2- 0 G1I 8 UGNO 2019
G Q I TA L I A . I T
I L V E L I S TA
LA LEGGENDA DEGLI OCEANI Il nuovo Yacht-Master 42 di Rolex è uno scrigno in (oro) bianco e nero ad alta tecnologia Testo di M I C O L B O Z I N O R E S M I N I
L’intera storia di Rolex è strettamente legata al mare. È proprio tra le onde, infatti, che la casa della corona ha affrontato alcune delle sue più grandi sfide in termini di impermeabilità e di precisione nella misurazione cronometrica. Ecco perché negli anni l’azienda svizzera, attraverso la Fondazione, ha restituito molto agli oceani con sponsorizzazioni di imprese esplorative e delle più belle manifestazioni veliche mondiali. Ora Rolex ribadisce il suo profondo legame con il mare lanciando l’Oyster Perpetual Yacht-Master 42, una delle più importanti novità dell’ultimo Baselworld. Primo di questa famiglia, realizzato in oro bianco, il modello è proposto con bracciale Oysterflex e fermaglio di sicurezza Oysterlock brevettato per evitare aperture involontarie e per essere facilmente regolabile in lunghezza. Lo Yacht-Master 42 rientra fra i modelli professionali di Rolex e introduce in collezione un calibro automatico di nuova generazione, particolarmente attendibile in termini di affidabilità e precisione.
LA CASSA G a ra nt i ta i m p e r m e a b i le f i n o a 1 0 0 m e t r i , i n o ro b i a n co e i n u n’ i n e d i ta ta gl i a d i 42 m m
L’Oyster Perpetual Yacht-Master 42 garantisce un’ottima
IL MOVIMENTO II calibro 3235 a carica automatica ha il rotore Perpetual certificato Cronometro Superlativo
leggibilità in ogni circostanza grazie alle ampie lancette e agli indici di grandi dimensioni rivestiti
L A LU N E T TA
della sostanza
Girevole e bidirezionale, è dotata di disco
luminescente
Cerachrom graduato in ceramica nera opaca
Chromalight. Prezzo: 25.950 €
MAGGIO-GIUGNO 2019 / 1 3 7
PAS SI O NI
TIME
Tudor Black Bay P01,
I L M I L I TA R E
RITORNO AL FUTURO A mezzo secolo dal prototipo, il P01 di Tudor segna il passo anche per chi non è arruolato
cassa (42 mm) in acciaio satinato e con finitura opaca, impermeabile fino a 200 metri. Prezzo: 3.760 €
Testo di G I A M P I E R O N E G R E T T I
Era un modello progettato per la Marina americana alla fine degli Anni 60, con il nome in codice di Commando, ma nonostante la qualità e le innovazioni, l’orologio rimase un prototipo. Ora, a mezzo secolo di distanza, è stato ripreso ed è diventato realtà con il nome P01: un modello di forte impronta sportivo-militare, la cui sigla significa proprio prototipo n.1. Realizzato in acciaio, ha diversi punti di caratterizzazione: per esempio, la corona di regolazione situata alle ore 4 e con due spallette che si prolungano dal fianco cassa per proteggerla dagli urti. L’elemento più caratterizzante, tuttavia, riguarda la ghiera con riportate le ore: questa, infatti, può essere fatta ruotare (è bidirezionale) soltanto premendo la grande maglia mobile del cinturino posta sopra le ore 12 e che, sollevandosi, libera la ghiera consentendone la rotazione; richiudendo la maglia, la ghiera viene invece bloccata, evitando così spostamenti accidentali. Il modello ha il quadrante bombato e impiega un calibro di manifattura e a carica automatica con spirale in silicio amagnetica. Vanta 70 ore di autonomia di marcia e certificato di cronometro Cosc.
Q UA D R A N T E Indici e lancette luminescenti; lancetta delle ore di forma Snowflake
M OV I M E N TO Datario con avanzamento a scatto rapido e sistema stop secondi per una perfetta sincro
C I N TU R I N O Sviluppato per il modello, è di tipo ibrido: base in caucciù, finitura in pelle marrone
1 3 8 / MAGGIO-GIUGNO 2019
G Q I TA L I A . I T
I L P R I M AT I S TA
SOTTIGLIEZZE DA CRONOGRAFO Il Bulgari Octo Finissimo è anche iperleggero, grazie alla struttura in titanio
Anche quest’anno, nel corso della grande rassegna internazionale orologiera di Basilea, Bulgari ha presentato un modello dalle caratteristiche uniche. Fa parte della collezione Octo ed è il Finissimo Cronografo Gmt Automatico, cui spetta lo scettro di re della sua categoria in termini di sottigliezza. Si tratta del quinto primato in questa specialità della maison di Neuchâtel dopo quelli stabiliti, a partire dal 2014, con un Tourbillon a carica manuale, un Ripetizione minuti, un movimento automatico di nuova concezione e un Tourbillon automatico. La famiglia di appartenenza del nuovo modello è immediatamente riconoscibile per il design: la lunetta rotonda si sovrappone infatti alle linee diritte e spigolose che caratterizzano la struttura della cassa, in cui la figura geometrica predominante è l’ottagono. Oltre a essere il più piatto della categoria (lo spessore totale della cassa è di 6,9 mm), il nuovo modello è anche leggerissimo perché realizzato in titanio, materiale impiegato sia per la cassa che per il bracciale e il quadrante. Quest’ultimo reca a ore 3 il quadrantino ausiliario con l’indicazione del secondo fuso orario, mentre a ore 6 si trova il contatore dei minuti (fino a 30) della regi-
Q UA D R A N T E In titanio sabbiato, con numeri e indici allungati in rilievo
CASSA È strutturata su più livelli nonostante la sottigliezza estrema
B R AC C I A L E Integrato, ha maglie sottili e allungate che riprendono alcuni elementi della cassa
Bulgari Octo Finissimo Cronografo Gmt Automatico: cassa (42 mm) e bracciale in titanio; movimento con 55 ore di autonomia di carica. Prezzo: 17.400 €
strazione cronografica. Sul fianco della cassa e allineati alla corona si trovano i pulsanti del cronografo, mentre sul lato opposto a ore 9 si trova il pulsante per impostare il secondo fuso. Il pregevole movimento cronografico integrato e di manifattura ha uno spessore totale di appena 3,3 mm: la misura record è stata ottenuta impiegando come massa oscillante non, come in diversi altri casi, un rotore decentrato inserito nel movimento, ma un rotore di carica periferico, ovvero un anello situato a filo del movimento stesso e che gli ruota attorno senza aumentarne lo spessore. _ (G.N.) MAGGIO-GIUGNO 2019 / 1 3 9
PAS SI O NI
TIME
La Norton L A PA R T N E R S H I P
AL POLSO DEL GENTLEMAN RIDER Giochi di stile tra un orologio e una moto cult: la connessione tra le icone Breitling e Norton
Commando 961 Café Racer MKII Breitling Limited Edition e il Breitling Premier B01 Chronograph 42 Norton Edition. Prezzo: 7.570 €
Testo di M I C O L B O Z I N O R E S M I N I
«Anche se si tratta di un prodotto molto tradizionale, la cui tecnologia non è sostanzialmente cambiata nei secoli, un orologio può essere molto sexy e attraente. Tutto dipende dalla sua personalità: gli altri brand di solito hanno un approccio conservativo. Io credo invece che uno storytelling cool, giovane, fresco e rilassato sia la chiave di tutto». Georges Kern, Ceo di Breitling dal 2017, ha le idee chiare sul nuovo corso della maison: l’estrema personalità degli orologi, appunto. La partnership con Norton, brand di motociclette di culto per l’esclusiva ingegneria britannica, fa parte di questo preciso percorso identitario e ha come prodotto-simbolo il nuovo Premier B01 Chronograph 42 Norton Edition. La sua cassa in acciaio inossidabile da 42 millimetri, impermeabile fino a 100 metri, sfoggia il logo Norton inciso su una targhetta sul lato sinistro, mentre sul fondocassa trasparente sono raffigurati il logo e una motocicletta Norton. L’orologio è azionato dal calibro automatico di manifattura Breitling 01, certificato Cosc, in grado di fornire una riserva di carica di circa 70 ore. Dotato di scala tachimetrica
I L C I N TU R I N O I n p e lle m a r ro n e v i nta g e . È d i s p o n i b i le a n c h e u n e le g a nte b ra cc i a le i n a cc i a i o
LA COLLEZIONE Presentata per la prima volta negli Anni 40, la linea Premier è stata rilanciata nel 2018
IL MOVIMENTO Il movimento automatico di manifattura batte alla frequenza di 4 hertz
1 4 0 / MAGGIO-GIUGNO 2019
posizionata sulla lunetta interna bianca, con la scritta tachymeter in rosso, ha lancette delle ore e dei minuti rivestite di Super-LumiNova ed è concepito per essere perfettamente leggibile su qualsiasi itinerario un motociclista decida di percorrere, da una via cittadina a una remota strada secondaria. Moderno, ma dal sapore vintage, ha un quadrante nero con i contatori del cronografo argentati a ore 3 e ore 9 che creano un contrasto con il cinturino in pelle invecchiata che rimanda immediatamente all’universo café racer. Non a caso, da questa partnership nasce anche la Commando 961 Café Racer MKII Breitling Limited Edition, serie limitata di 77 motociclette che, oltre al motore da 961 cc sviluppato internamente da Norton, ha per tratto distintivo la lettera “B” di Breitling in stile vintage incisa sulla frizione e cucita in nero tono su tono sulla sella. I quadranti del tachimetro e del contagiri sono progettati dalla casa d’orologeria svizzera.
LA SFIDA
C’È SEMPRE UNA PRIMA VOLTA Dolce&Gabbana firma un calibro esclusivo di manifattura per 6 modelli limited edition Testo di M I C O L B O Z I N O R E S M I N I
Dolce&Gabbana faceva il suo ingresso nell’olimpo dell’alta orologeria due anni fa, con uno stile barocco opulento, che richiamava le tradizioni artistiche e manifatturiere italiane: si trattava di quattro pezzi unici e di una formula capace di spiazzare anche i più scettici, costretti ad ammettere il potenziale ancora non del tutto esplorato della maison italiana. Una sfida in cui Domenico Dolce e Stefano Gabbana hanno dimostrato di credere sul serio, dedicando tempo e investimenti per realizzare un calibro esclusivo di manifattura. Dopo due anni il sogno – condiviso da molti brand dell’orologeria – è diventato realtà. «Il tempo è un valore importante che ci permette di dedicare amore, attenzione e cura alle nostre creazioni», sottolineano i due designer. «La costruzione di un orologio, così come di una giacca sartoriale, necessita di molte ore di lavoro, di dedizione, di passione». Il risultato è la nuova linea Manifattura Italiana composta da sei modelli, tutti in edizione limitata a 13 esemplari ed equipaggiati dal calibro DG 01. Come tutti i movimenti più raffinati, il calibro DG 01 nasce in Sviz-
zera, per la precisione dalla collaborazione con la ginevrina MHC Manufacture Hautes Complications di Pierre-Laurent Favre, che da Dolce&Gabbana ha avuto la richiesta di alcune specifiche caratteristiche: dimensioni contenute (il calibro ha un diametro di 30,5 mm e uno spessore di 4 mm), la presenza del microrotore, una buona capacità di carica (che infatti garantisce un’autonomia di 58 ore) che potesse essere la base per una serie di complicazioni come il chrono, le fasi di luna, il Gmt. Un aspetto che suggerisce qualcosa anche dei progetti futuri della maison. Attualmente sono due le varianti proposte: DG 01.01, automatico a 12 ore, finemente decorato e assemblato a mano dai maestri orologiai di Ginevra, e DG 01.02, che a queste caratteristiche artigiane unisce la complicazione del quadrante diviso in 24 ore. Se il cuore della linea Manifattura Italiana è Swiss Made, il tributo al saper fare nostrano è comunque molto presente: dal nome dei modelli (Firenze, Venezia, Milano, Roma, Palermo e Napoli) alle lavorazioni di casse e quadranti, interamente realizzate sul territorio italiano.
Movimento Swiss Made DG 01 e artigianalità italiana per i modelli della nuova linea Manifattura Italiana di Dolce&Gabbana. Prezzo: 45.000 €
I L R I F E R I M E N TO Il modello Firenze (in alto) cita l’orologio meccanico nella controfacciata del Duomo
LA COMPLICAZIONE Si rifà all’ hora italica , che suddivideva la giornata in 24 ore a partire dal tramonto
LA CASSA In oro bianco e rosa, ha un diametro di 42 mm ed è incisa a mano da maestri artigiani
G Q I TA L I A . I T
MAGGIO-GIUGNO 2019 / 1 4 1
TASTE Martina Caruso, chef del Signum di Salina, ha ricevuto il Premio Michelin I L R E S TA U R A N T M A N
Chef Donna 2019, sponsorizzato
FEROCE (MENTE) ITALIANO
dalla Maison Veuve Clicquot. hotelsignum.it
Panella porta a Manhattan nuovi classici della penisola Testo di L A U R A P A C E L L I
Francesco Panella, 49 anni, dopo l’Antica Pesa a Brooklyn, ha aperto il ristorante Feroce al Moxy Hotel di Manhattan
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e in ultimo, ma solo in ordine di tempo, apre un nuovo ristorante, caffè e lounge bar all’interno del Moxy Hotel a Chelsea, questa volta a Manhattan, e questa volta con una formula tutta nuova. A cominciare dal nome: «Volevamo cercarne uno che non fosse abusato o già usato: vorace? Verace? Feroce era perfetto per comunicare con forza chi siamo noi italiani», spiega Panella con famelico orgoglio patriottico. «Un traguardo importante non tanto per me quanto per il mio Paese: finalmente a New York da oggi si comincia a parlare italiano con un’altra voce che finalmente sentono tutti», aggiunge. La nuova struttura sorge all’interno dall’edificio di nuova costruzione
in stile rétro-industriale che riprende quello del quartiere tra i più shabby chic della City, il Flower District di Chelsea: al piano terra si accede al ristorante con un’offerta enogastronomica italiana con qualche rivisitazione più contemporanea. «Nelle caserecce alla Luciana, per esempio, aggiungiamo foglie e pop corn di capperi. Tra le novità proponiamo i malloreddus con salsiccia e pecorino o lo gnocco fritto con la mortadella, che qui non sanno ancora cosa sia», spiega Panella. Non mancano la cacio e pepe («tra i primi più richiesti e di tendenza negli ultimi tempi»), la cotoletta alla milanese, il pacchero al pomodorino del Piennolo, tutti con ingredienti di piccoli produttori
F O T O D I R A O U L B E LT R A M E
Negli Stati Uniti il suo volto è quasi più noto dei suoi ristoranti. Francesco Panella, erede assieme ai fratelli Simone e Lorenzo dello storico Antica Pesa di Roma, è uno di quelli che in gergo si chiamano “restaurant man”, tradotto: imprenditore di successo nel food & beverage. Prima apre il ristorante omonimo di famiglia a Williamsburg, nel cuore di Brooklyn, a New York (dal 2012 una delle mete preferite dalle celebrities, Leo DiCaprio in cima alla reservation list). Poi, sull’onda dell’entusiasmo, scrive un libro, Brooklyn Man. La guida insolita alla cucina di New York; non contento inizia a condurre alcune trasmissioni televisive (ben tre) sul cibo italiano all’estero;
L A M O ST R A
IL CIBO È SENZA FINE
Individui, comunità e organizzazioni innovative stanno reinventando radicalmente
il modo in cui si produce, si distribuisce e si vive il cibo. La mostra Food: Bigger than
the Plate al Victoria & Albert Museum di Londra, dal 18 maggio al 20 ottobre, guida i visitatori in un viaggio sensoriale attra-
verso il ciclo alimentare, dal concime alla tavola. In esposizione oltre 70 progetti
contemporanei, nuove commissioni e collaborazioni di artisti e designer che lavorano con chef, agricoltori, scienziati e comunità locali. Ma anche pubblicità antiche di cibi, che hanno avuto molta
influenza nel passato, e diverse cose che cresceranno fisicamente nello spazio
della galleria. Quattro le sezioni: Compost
(concime), Farming (agricoltura), Trading (commercio) e Eating (mangiare). Per
ognuna sono presentati progetti sperimentali, spesso provocatori: idee e futuri
B OT T I G L I E D A C O L L E Z I O N E
alimentari, esperimenti gastronomici e
interventi creativi in agricoltura.
F O T O D I M I C H A E L K L E I N B E R G - C O U R T E S Y V& A M U S E U M
vam.ac.uk
italiani e locali. Dal ristorante si accede al bar e pasticceria Feroce Caffè per una colazione all’italiana o un pranzo veloce, magari con un maritozzo. Fiore all’occhiello di tutta la struttura, The Fleur Room, la rooftop lounge al 35° piano del Moxy Chelsea con vista a 360° sullo skyline di Manhattan, dalla Statua della Libertà fino all’Empire State Building. Ma non finisce qui. Da vero “restaurant man” Panella ha già pianificato, entro l’estate, la nuova apertura dell’Antica Pesa a Shanghai; ma anche le nuove puntate in tv di Little Big Italy, in onda da pochi giorni sul Nove, il Mio piatto preferito sul canale Food Network e Brooklyn Man su quello del Gambero Rosso. G Q I TA L I A . I T
Sopra, The Fleur Room, la lounge al 35° piano del Moxy Chelsea di New York realizzata da TAO Group e Rockwell. moxy-hotels. marriott.com/nyc/
Un manifesto pubblicitario di Bovril del 1905 esposto al V&A Museum di Londra all’interno della mostra Food: Bigger than the Plate
chelsea
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PAS SI O NI
TASTE
Un piatto a base di ananas creato da Filippo Sisti in abbinamento al rum Diplomático Reserva Exclusiva
I L RU M
GUSTO DIPLOMATICO Tutti gli aromi caraibici di un distillato da miscelare o da degustare in purezza Testo di S I M O N A A I R O L D I
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Da chiusura del pasto alla sua intera conquista. Il rum come ingrediente trasversale, in purezza, nei drink, come accompagnamento alle pietanze, instillato direttamente nei piatti. Per Nelson Hernández, mastro ronero di Casa Diplomático «abbinare il rum giusto è un matrimonio, bisogna avere pazienza e sensibilità». Lo stesso vale per i processi di distillazione dei laboratori di La Miel, ai piedi delle Ande: da qui arriva Pot Still numero 3 della collezione Distillery, maturato in botti di rovere e dall’aroma rotondo, con sentori di frutta rossa e tropicale, caramello e vaniglia. Da degustare rigorosamente assoluto. Per la cucina liquida di Filippo Sisti, vulcanica mente (e shaker) dietro Talea, cocktail bar sperimentale di Milano, i più indicati per i blend sono altri: il Diplomático Reserva Exclusiva amplifica le note asprigne dell’ananas cotto con burro di cacao, latte di cereali, salamoia di shiitake, verdure in salamoia e cenere di agrumi (nella foto in alto), mentre il Diplomático Planas abbraccia il gusto vegetale di tarassaco, germogli, polvere di pomodoro e sedano assieme a birra al cedro, limone e liquore al lulo. Perfetto anche per rivisitare il Bloody Mary con latte fermentato e succo di jackfruit che ne esalta la parti saline. Un’alchimia calibrata in bilico tra crudo e cotto, in cui i distillati non soverchiano mai gli altri elementi gustativi, ma li nobilitano per immersione e infusione balsamica.
Sopra, il mastro ronero di Diplomático Nelson Hernández. In basso, da sinistra: la Mantuano, la Reserva Exclusiva e la Planas
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TRAVEL L’hotel The Oberoi Amarvilas, in India, tappa del viaggio Perle dÕOriente di Gattinoni Mondo di Vacanze. Sotto, uno dei boeing con cui si partirà nel 2020
IL VIAGGIO
LA DIFFERENZA È SAPER VOLARE Itinerari a tappe alla scoperta dell’Africa e dell’Oriente, a bordo di boeing privati Testo di M A R Z I A N I C O L I N I
Partenze previste a marzo e a novembre del 2020 per due viaggi superlusso che, in meno di tre settimane, promettono un’immersione completa nelle civiltà africana e orientale, scoprendone il meglio in maniera selettiva. La nuova proposta di Gattinoni Mondo di Vacanze destabilizza ogni aspettativa: un tour esplorativo in stile ottocentesco, con tutti i plus del comfort e della tecnologia attuali. I due itinerari studiati a tavolino da Air 1 4 6 / MAGGIO-GIUGNO 2019
Cruise Collection – Perle d’Africa e Perle d’Oriente – si traducono in viaggi culturali di fascia alta, permettendo a due fortunati gruppi di cinquantasei persone ciascuno di macinare tappe a bordo dei confortevoli private jet della Air Cruise Collection. Questa è la vera peculiarità del programma: i Boeing privati in questione (modello 737-500 o 737700) saranno allestiti in business class per gli ospiti, con alcuni punti fermi a garanzia di voli di tutto riposo: spostamenti per un tempo massimo di sei ore ciascuno e sempre in orario diurno, per permettere ai partecipanti di riposare in hotel a molte stelle, azzerando i rischi legati allo stress e al jet lag. Il viaggio Perle d’Africa toccherà sette Paesi in diciotto giorni: tratta internazionale da Copenaghen a Marrakech, e da lì un susseguirsi di esperienze emozionanti e autentiche, dalle lezioni di cucina marocchina alle degustazioni di vini tra i filari del Sudafrica, senza trascurare il tour in elicottero alla scoperta di aree naturalistiche riservate. L’idea è quella di sorprendere costantemente
l’ospite, al punto che molte attività verranno svelate solo poco prima di praticarle. Per l’itinerario Perle d’Oriente si vola da Londra, mettendo in conto sette tappe in diciassette giorni (Giordania, India, Vietnam, Laos, Cambogia, Maldive ed Emirati Arabi). Anche in questo caso le avventure si susseguono, dalla navigazione su un’imbarcazione di lusso nelle acque smeraldo della baia di Halong alla cena in stile Lawrence d’Arabia in Giordania, senza disdegnare una tappa paradisiaca di puro relax tra gli atolli dell’Oceano Indiano. I prezzi? Su richiesta, ma sicuramente non per tutti.
La lounge del Mandarin Oriental Milan
L’ H OT E L
QUANDO LEONARDO DIVENTA UN SERVIZIO Nell’anno delle celebrazioni vinciane, il Mandarin svela il Cenacolo con dinner Testo di M A R Z I A N I C O L I N I
In una vietta silenziosa a un passo dalle principali vie dello shopping di lusso e dal Teatro alla Scala, l’hotel Mandarin Oriental Milan nasconde un’anima intima e calda dietro la rigorosa facciata settecentesca. Non a caso, lo studio di architettura Antonio Citterio Patricia Viel Interiors – anima creativa del progetto di interior design dell’intera struttura – si è ispirato alle eleganti dimore alto borghesi degli Anni 30 e 40 per seleG Q I TA L I A . I T
zionare arredi (firmati B&B Italia, Maxalto, Flexform), colori e finiture. Lo stile che accomuna spazi comuni, camere e suite è contemporaneo, ma con richiami ai grandi maestri del design, e sottolinea i concetti di comfort e accoglienza che si respirano fin dall’ingresso nella lobby. L’ambizione della struttura è quella di rendere qualsiasi soggiorno indimenticabile. Per questa ragione, Mandarin Oriental ha unito le forze con il tour operator di lusso Abercrombie & Kent, mettendo a punto un’offerta di esperienze profondamente radicate nel territorio. E così, nel cinquecentenario della morte di da Vinci, gli ospiti hanno ora la possibilità di una visita privata e guidata all’Ultima Cena di Leonardo, da concludere con una cena suggestiva all’interno della basilica di Santa Maria delle Grazie. Per gli appassionati di moda e accessori, l’hotel mette invece a disposizione un personal shopper, che accompagna i clienti nelle più esclusive case di moda milanesi, offrendo consigli cuciti su misura.
Oltre agli ospiti in visita alla città, sono in realtà molti gli stessi milanesi che prenotano un tavolo al Ristorante Seta e al Bar & Bistrot del Mandarin per gustare la cucina (due volte) stellata dello chef Antonio Guida – noto al pubblico dei gourmet per le sue preparazioni in bilico tra tradizione e innovazione, nel segno dell’italianità – e la pasticceria di Nicola Di Lena. Nella stagione estiva, il piacere del buon cibo si somma all’esperienza della cena in corte, mentre nelle sale interne resta garantito lo spettacolo della cucina a vista che consente di scoprire i retroscena dei piatti in menu. L’origine giapponese del gruppo alberghiero si esprime invece al livello meno 1, in una spa capace di coniugare nei suoi trattamenti viso-corpo il meglio di Oriente e Occidente, rilassando già a partire dal design minimalista, in perfetto mood nipponico. Sempre per rendere omaggio alle proprie radici asiatiche, l’hotel ha inventato anche gli Oriental Saturdays, i sabati all’insegna di yoga, mindfulness e meditazione. MAGGIO-GIUGNO 2019 / 1 4 7
MOTORS T E ST / 1
PARADIGMA IN EVOLUZIONE La nuova Porsche Carrera, sportiva a tutto comfort Testo di A L E S S A N D R O VA I
Negli Stati Uniti, chi ha un’emergenza chiama il 911. Lo stesso numero a cui ci si affida in caso di dubbi su come dovrebbe essere un’auto sportiva: dal 1963 a oggi, la coupé di Zuffenhausen rappresenta infatti il paradigma della sportività su quattro ruote. Un’icona con cui qualsiasi concorrente deve misurarsi, portando grande rispetto. L’ottava generazione – nome in codice 992 – è stata presentata alla fine dello scorso anno, seguita a inizio 2019 dalla versione scoperta. Ora finalmente l’abbiamo guidata, nelle declinazioni “S” e “4S”, visto che le 911 “base” – coupé e cabrio – arriveranno solo tra qualche mese. La 911 Carrera Cabriolet odierna è l’ultima discendente del modello che è nato nel 1982 ed è subito diventato un must have nelle località costiere più prestigiose del mondo. Ma se all’epoca la capote in tela aveva qualche limite in termini di comfort, oggi la musica è cambiata e non solo grazie all’impianto audio Burmester che “teletrasporta” in una sala da concerto. Il livello di insonorizzazione all’interno della 911 Cabriolet è praticamente lo stesso garantito dalla Carrera con il tetto in lamiera, tanto che viene spontaneo domandarsi che senso abbia acquistare la variante chiusa rinunciando alla guida a cielo aperto. Una riflessione concettuale che viene interrotta dal risveglio del sei cilindri boxer, che non ha più il suono limpido dell’aspirato, ma mantiene comunque un bel timbro rauco e aggressivo. Il flat six, infatti, già da qualche anno ha ceduto alle lusinghe della sovralimentazione. Il che, se da un lato toglie un po’ di purezza alla guida, dall’altro regala cavalli e coppia a profusione, aumentando anche la sfruttabilità nella guida quotidiana. Così i due piccoli 1 4 8 / MAGGIO-GIUGNO 2019
La Cabriolet è una delle tre espressioni della 911, insieme alla coupé e alla “Targa”, col tetto rigido a scomparsa. La 911 Carrera S costa 123.999 € (versione Cabriolet 138.639 €)
G Q I TA L I A . I T
Al centro della plancia (a destra) c’è il grande display da 10,9 pollici del sistema di infotainment
turbocompressori regalano al 3 litri 450 Cv e 530 Nm costanti tra 2.300 e 5.000 giri. Numeri che si traducono in accelerazioni da 0 a 100 km/h comprese tra i 3,5 e i 3,9 secondi, a seconda della trazione e del pacchetto Sport Chrono. E velocità massime di 304 e 306 km/h. Scegliere tra due e quattro ruote motrici è un’altra questione filosofica, visto che le differenze dinamiche emergono solo ad andature più consone alla pista che alla strada. Diciamo che con la trazione integrale si può passare dal mare alla montagna senza problemi, e che una 911 Cabrio sulla neve è sempre un bel vedere. Se invece interessano le prestazioni, sappiate che questa Porsche è una supercar travestita da gran turismo. Il motore spinge forte già a 2.000 giri e non si ferma fino ai 7.500 del limitatore, dove interviene il cambio automatico doppia frizione a 8 rapporti. Le ruote posteriori sterzanti, poi, aumentano la stabilità ad alta velocità e la reattività nel misto stretto, mentre l’inedita modalità wet dà tranquillità sulle superfici scivolose. Insomma, se avete ancora dei dubbi, la risposta è sempre Porsche 911.
che ha permesso di eliminare molti pulsanti
LE SOSPENSIONI Il sistema di controllo elettronico dello smorzamento PSM è di serie nelle versioni S
I C E RC H I RU OTA Hanno il diametro differenziato: 20 pollici all’anteriore e 21 pollici al posteriore
L A C A P OT E Si apre e si chiude in soli 12 secondi anche in marcia, fino a 50 km/h di velocità
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M OTO RS
Il listino prezzi della Mazda 3 va da 23.200 a 27.150 € per la versione benzina e da 25.400 a 29.350 € per la diesel
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SENTIRSI AL CENTRO DELLA SCENA Ergonomie originali, esperienza di guida connessa. Così rinasce la Mazda 3 Testo di A L E S S A N D R O VA I
Minimalismo, proporzioni e cura dei dettagli. Ecco i tre capisaldi stilistici della nuova Mazda 3, a cui si aggiunge quell’attenzione per il rapporto uomo-macchina che per la casa giapponese è quasi un’ossessione. Il guidatore è al centro della scena. Si capisce dall’ergonomia della posizione di guida, dall’orientamento della strumentazione e del cruscotto, entrambi inclinati verso chi sta al volante. Una filosofia che si completa con la qualità, sia dei materiali plastici che
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dei rivestimenti, e con il design orizzontale disegnato con pochi tratti che allarga visivamente il cruscotto, aumentando la sensazione di spazio. La Mazda 3 ti avvolge, ma senza opprimere, e dopo pochi chilometri la senti connessa con le tue intenzioni. Non è una questione di potenza, ma di equilibrio. Le prestazioni del 1.8 diesel da 116 Cv e del 2.0 benzina mild hybrid da 122 Cv non sono sportive, ma brillantemente misurate. La vera forza di quest’auto è il collegamento con il guidatore, senza filtri ma semplice. Il volante è preciso e diretto, esattamente come lo vorresti, mentre il cambio manuale ha gli innesti secchi e la corsa corta. Così si riscopre una guida genuina, fatta di sensazione e fedeltà ai comandi. Anche la tecnologia non delude, sia per quanto riguarda l’infotainment che per la sicurezza. Il primo rinuncia al display tattile in favore della classica interfaccia con la manopola dietro al cambio. Non ha particolari effetti speciali, ma il software è veloce e intuitivo. I sistemi di assistenza alla guida sono tra i più evoluti disponibili e quasi tutti di serie.
DIMENSIONI Lunga 4,46 m, alta solo 1,44 m. Il bagagliaio ha una capacità minima di 364 litri
NAVIGATORE È di serie su tutte le versioni, come i doppi cristalli anteriori che aumentano il comfort
OPTIONAL Tra i più interessanti ci sono i fari Led a matrice e l’impianto audio Bose con 12 diffusori
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L ’ I N N O VA Z I O N E
LA SPORTIVA DAL CUORE WAGON Kia Proceed: un po’ familiare, un po’ coupé. Per chi non ama i Suv, ma nemmeno la noia Testo di VA L E R I O B O N I
Il termine esatto per definirla è shooting brake: all’epoca delle carrozze trainate dai cavalli, indicava il carrello con cui si appesantiva la corsa di quelli più esuberanti. Oggi, nel gergo automobilistico, identifica invece un mix di stili solo all’apparenza inconciliabili, quello di un’auto familiare e di una coupé. La nuova Kia Proceed è proprio questo, l’ideale per chi ha bisogno di uno spazio di carico superiore alla media, ma allo stesso tempo non ama le linee troppo classiche. Si tratta della terza variante in ordine di tempo della gamma Ceed, che già comprende una
classica berlina e un’altrettanto convenzionale station wagon a misura di famiglia. La Proceed invece è un’auto fuori dal coro: sul mercato ha una sola, reale alternativa – la Mercedes CLA SW – di cui segue le indicazioni di stile interpretandole però in chiave personalissima. Giocando cioè la carta delle linee sportive, dei tre diversi motori e della garanzia di sette anni che è ormai il biglietto da visita della casa coreana. La Proceed riassume tutte le tecnologie per la sicurezza sviluppate in Oriente. Non manca quindi una lunga lista di dispositivi d’ultima generazione, compreso il cruise control adattivo combinato con il sistema che mantiene l’auto tra le corsie: un primo assaggio di guida assistita, in attesa di quella autonoma. Le innovazioni non si limitano allo stile e alle dotazioni della vettura (di cui dal 2020 arriveranno anche le versioni mild hybrid e plug-in), ma si estendono anche alla campagna promozionale: iscrivendosi on line alla community The Bold Society (theboldsociety.it) si può accedere infatti a una serie di iniziative legate alla Kia Proceed, che comprendono anche la possibilità di acquistarla a rate, iniziando i versamenti dopo sei mesi. A meno che non si decida, a quel punto, di restituirla pagando solo le imposte ed eventuali danni.
MOTORI Due turbo a benzina, T-GDi 1.4 e 1.6 da 140 e 204 Cv. E il diesel 1.6 CRDi da 136 Cv
CAMBIO A quello manuale a 6 marce si aggiunge l’automatico a doppia frizione con 7 rapporti
DISPLAY Da 8 pollici, con Connected Services gratuiti per info su tutor, meteo e parcheggi
Il tetto che scende rapido verso la coda è una costante delle shooting brake come la Kia Proceed. Prezzi: da 29.000 €
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PAS SI O NI
M OTO RS
LA CONNESSIONE
IL LUSSO SI VIVE, NON SI OSTENTA La presentazione dell’Audi e-tron al Technogym Village riscrive la filosofia dei consumi Testo di F E R D I N A N D O C O T U G N O
Audi e-tron, il primo modello di serie a propulsione completamente elettrica dell’azienda, è il capostipite di un mondo che verrà. L’investimento del marchio dei quattro anelli è di 40 miliardi di euro, l’orizzonte è arrivare a dodici modelli elettrici entro il 2025, una rivoluzione di cui vedremo gli effetti pieni tra un decennio, quando saranno pronte l’infrastruttura (che è già a un punto migliore di quanto si pensi, 90mila colonnine in Europa) e la mentalità (e qui sta la 1 5 2 / MAGGIO-GIUGNO 2019
complessità della transizione). Le dinastie devono iniziare da un punto preciso nello spazio e nel tempo e per Audi e-tron questo punto è la sagoma da astronave del Technogym Village di Cesena, la cosa più vicina ad Apple che abbiamo in Italia. L’analogia regge non solo per la cosmogonia del garage incubatore di idee e di consumi globali, ma anche per la perfetta integrazione di prodotto e visione del futuro: vale per la wellness valley immaginata da Nerio Alessandri, fondatore di Technogym, e per l’investimento radicale e di prospettiva in mobilità elettrica di Audi. È per questo motivo che Audi arriva al Village «dopo un lungo corteggiamento a Nerio Alessandri», come spiega Fabrizio Longo, direttore di Audi Italia, «perché se c’è qualcosa che vale la pena vedere in Italia è il Technogym Village». La conversazione tra Alessandri e Longo rappresenta il debutto in società di e-tron, disponibile sul mercato già da gennaio, e funge da prologo per un test drive verso l’Appennino toscano, con sosta ricarica alle colonnine super veloci (Ccs), venti minuti e si riparte, teoria e poi pratica
L’Audi e-tron al Technogym Village di Cesena. In alto, da sinistra, Nerio Alessandri, fondatore di Technogym, e Fabrizio Longo, direttore di Audi Italia
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dell’elettrico. Il legame tra i due brand va oltre il co-marketing, è più una questione di vicinanza tra mondi affini. «La condivisione di valori è già di per sé strategia», spiega Alessandri al ristretto pubblico accomodato sulle Technogym wellness ball, perché visione del mondo è anche postura, a quanto pare, nulla sfugge al verbo del benessere. A 36 anni dalla fondazione, l’orizzonte di Technogym può permettersi di essere ben oltre la sola vendita di attrezzature per palestre: «Quello che ci interessa oggi è essere rilevanti per l’umanità, ispirare persone, territori e Paesi». E qui c’è l’innesto con l’Audi elettrica: «L’industria dell’auto sta cambiando pelle, il prodotto oggi è relazione, stile di vita e coerenza», spiega Longo. I macchinari non servono più solo per allenarsi, le macchine non solo per andare da A a B, e l’idea stessa di status symbol è cambiata. Unica, la panca multifunzione esposta anche alla Triennale di Milano, è stata a lungo simbolo di potere e benessere nelle case delle grandi famiglie imprenditoriali, proprio come le macchine in garage. Oggi però siamo in una fase di-
versa, che il direttore Audi Italia definisce «give back», l’idea di restituire, a se stessi e al mondo, quel benessere prima ostentato. E qui c’è la scommessa e-tron, una vettura saldamente in fascia premium, con un prezzo di 83.930 euro e la promessa di «prestazioni sportive in una bolla di salubrità e silenzio». Il Suv elettrico a zero emissioni, costruito in una fabbrica carbon neutral, è realizzato a immagine di un consumatore che si fa domande radicali e nuove: in che modo voglio stare nel mondo, di cosa posso fare a meno, a cosa non voglio rinunciare. Sul tema dare e avere, e-tron ha ottimi argomenti, come spetta al primo di una dinastia: due motori elettrici da 408 Cv di potenza, da 0 a 100 km/h in 5,7 secondi, una velocità massima di 200 km/h. La batteria ha un’autonomia di 400 km, grazie a innovazioni aerodinamiche (lo specchietto video dentro l’abitacolo) e di recupero dell’energia in frenata. «Tutto converge verso la persona, il suo piacere, la sua sicurezza e il suo benessere», è la sintesi dell’incontro. Il resto è il vecchio, caro piacere della guida che non cambia mai. MAGGIO-GIUGNO 2019 / 1 5 3
LAB L’ I N V E N Z I O N E
IL SOGNO DELL’UOMO C’è una tuta (con 1.050 cavalli) che fa la storia Testo di M A R C O T R A B U C C H I
Librarsi nell’aria, assecondando i movimenti del corpo per impostare la traiettoria e guardare il mondo dall’alto. Il più antico desiderio dell’uomo è realtà: e non parliamo di aerei, paracaduti o altri marchingegni che la civiltà ha immaginato dai tempi di Leonardo da Vinci, ma di una tuta in grado di far volare chi la indossa. Si chiama Jet Suit, costa 381mila euro e l’uomo dietro il prodigio è Richard Browning, un ex marine con il fisico del caso, studi in ingegneria e pallino da inventore. Le analogie con il personaggio di Tony Stark del film Iron Man sono molte. «L’idea era di portare il volo a un livello superiore», racconta Browning dal laboratorio-officina di Gravity Industries, l’azienda che ha fondato nei pressi di Londra. «Qualcosa di diverso da tutto il resto, in cui il corpo umano fosse la chiave di volta dell’invenzione». La tuta, già immaginata nei fumetti, è uno dei tanti progetti che l’esercito americano avrebbe voluto trasformare in realtà: peccato che la Rocket Bell, così chiamata e sviluppata negli Anni 50, si rivelò troppo instabile e il prototipo venne abbandonato. «Tutte suggestioni che mi hanno comunque influenzato e che i miei studi in aeronautica e design hanno contribuito ad alimentare», continua Browning. Nel 2016 l’intuizione si tramuta in realtà con la Jet Suit, che permette di volare grazie alla propulsione di turbine simili a quelle di un aereo. «Gli inizi sono stati disastrosi. Nei primi tentativi sembravo un pupazzo in balia della gravità. Caduta dopo caduta e fallimento dopo fallimento, la sfida di controllare il volo attraverso il corpo sembrava una chimera», ricorda. Ma era solo questione di tempo (e di resilienza): un anno dopo Browning riuscirà a sorvolare le acque del 1 5 4 / MAGGIO-GIUGNO 2019
lago di Lagoona, a Reading, con un’andatura stabile di 52 chilometri orari. Un’impresa da record del mondo. Da quel momento, tutto ha funzionato secondo copione. «Abbiamo realizzato 65 dimostrazioni in 21 nazioni e volato di fronte a spettatori illustri come Richard Branson e Al Gore. Ogni volta che indosso la tuta mi ricordo della prima volta che sono rimasto in volo per 6 secondi ed è come tornare bambino», racconta emozionato mostrandomi i video su YouTube. Si tratta di un gioiello di ingegneria aero-
La Jet Suit, la tuta con turbine a kerosene inventata da Richard Browning nei laboratori di Gravity Industries, a nord di Londra
G Q I TA L I A . I T
Motore da 1.050 Cv, capacità di volo fino 3,7 km da terra, velocità media 52 km all’ora: la tuta volante costa 381mila €. Per un test: Gravity Experience, 3.500 €, gravity.co/experience
nautica, dotato di un motore da 1.050 cavalli che muove cinque microturbine alimentate a kerosene da un serbatoio posto dietro la schiena. I jet collocati dietro le spalle e le braccia assicurano un’autonomia di volo tra i 5 e i 10 minuti, a seconda della capacità del pilota. La Jet Suit può salire fino a 3,7 chilometri da terra; almeno in teoria, perché Browning non si è mai avventurato tanto in alto, rimanendo sotto la soglia di sicurezza dei 50 metri. Governare la tuta in azione non sembra una cosa da tutti: «Con il tempo
ho imparato ad adattare il mio corpo alle necessità del volo: innanzitutto mi alleno fisicamente, dato che ogni performance richiede in pochi minuti un notevole dispendio di energie. Oltre a me, sanno come farlo altri cinque miei collaboratori. E le due persone che l’hanno comprata». Per portarsi a casa la Jet Suit bisogna seguire un corso per imparare a pilotarla (17.500 euro). Nel futuro della tuta c’è la propulsione elettrica. «Siamo in fase di sperimentazione. Il problema maggiore è l’allocazione delle
batterie», dice mostrando i disegni del progetto. «Vogliamo dotare la Jet Suit di ali: così si potrebbe volare con meno fatica e in modo più fluido. E magari riuscire a fare delle gare, per sviluppare l’aspetto ludico e competitivo». Davanti ai bozzetti della tuta alare gli si illuminano gli occhi e per un momento Browning, che ha 40 anni, sembra essere altrove. Forse sta immaginando il momento in cui sorvolerà New York facendo slalom tra i grattacieli, come farebbe un bambino sognando di essere un supereroe. MAGGIO-GIUGNO 2019 / 1 5 5
SPORT
Il presidente Trump, 73 anni il 14 giugno, è proprietario e gestore di numerosi campi da golf: durante la campagna elettorale è emerso che la sua rendita legata a queste attività corrispondeva a 382 milioni
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DONALD TRUMP BARA A GOLF Un libro di Rick Reilly lo sbugiarda con le prove Testo di R A F F A E L E P A N I Z Z A
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«Donald Trump ha il naso così lungo che potrebbe usarlo come ferro e metterci a segno uno swing». Lo sostiene Rick Reilly, 61 anni, giornalista sportivo americano e firma di Sports Illustrated, che ha deciso di pubblicare un libro-denuncia per smascherare le bugie del presidente Usa. Secondo il Washington Post ne avrebbe pronunciate novemila solo nei primi settecento giorni di incarico, ma Commander in Cheat (Hachette Books, 16,80 $ su Amazon) si concentra sul golf. Che, oltre a essere una delle più grandi passioni del presidente, è l’ambito in cui mente e bara, sostiene Reilly, con frequenza mai vista nella storia dello sport. «Non sono offeso come elettore, ma come golfista», spiega. «In questo gioco non ci sono arbitri, ognuno è giudice di se stesso: se bari sul campo, lo fai in tutti gli ambiti della vita». Perché tutti i presidenti giocano a golf? Non ci sono incroci né grattacieli, non passano
auto e la visibilità è ottima. Per gli agenti di sicurezza sono luoghi facili da monitorare. Dove ha imparato, Trump? Nel campo di Cobbs Creak, a Filadelfia, una struttura pubblica frequentata da papponi, traffichini, malviventi di mezza tacca. È stato Trump stesso a raccontare d’aver imparato lì tutto ciò che sa riguardo agli affari, al gioco d’azzardo, e ovviamente al golf. Bara perché crede che sarai tu il primo a farlo. Ed è convinto che una truffa, se non scoperta, truffa non è. Ha mai giocato con lui? Sì, e per tutto il tempo non solo ha barato, ma ha anche detto bugie perfino su di me: «Questo è Rick, il presidente di Sports Illustrated», ripeteva a chiunque incontrassimo. Gli ha chiesto spiegazioni? Certo. «Suona meglio», mi ha risposto. Pensi che per anni ha costretto sua moglie Melania a dirsi austriaca e non slovena, solo perché a G Q I TA L I A . I T
F OTO D I G E T T Y I M AG E S
di dollari (nel 2015)
suo avviso, appunto, “suonava meglio”. Donald Trump sostiene di essere un vincente nato e di avere ben diciotto campionati in palmarès. Le risulta? Sedici vittorie sono inventate, le altre due incomplete, su campi non ancora inaugurati. Il trucco è questo: acquista una struttura, organizza un’inaugurazione con partitella amichevole, e poi dichiara che si trattava della Club Championship ufficiale. Certe volte si spinge oltre: al Trump International di West Palm Beach, in Florida, c’è il suo nome sulla vittoria del 1999: peccato che in quell’anno non fosse neppure aperto. Una volta ha organizzato una gara per giocatori over cinquanta in California, finché s’è accorto che un avversario fortissimo, membro del club, avrebbe partecipato. Allora invece di presentarsi se ne è andato a giocare a Filadelfia con un amico: alla fine ha telefonato ai gestori, suoi dipendenti, per far apporre il suo nome in cima al tabellone. Secondo Tiger Woods, che l’ha sfidato, Trump non sarebbe così male per l’età. Vero, ma non si accontenta d’essere un discreto giocatore di settant’anni, lui deve vincere. E ha ingannato anche Woods: per due volte ha lanciato la palla in un laghetto, facendosene passare poi un paio sostitutive dal caddy, che ne tiene sempre tre o quattro nascoste in tasca. Al terzo tentativo, ha centrato il prato. L’hanno mai cacciato da un circolo? No. L’unico di cui è socio ma non proprietario è Winged Foot, nello Stato di New York: laggiù sono così abituati a vederlo dare calcetti alle palline per riposizionarle sul green, che l’hanno soprannominato Pelé.
CODICI DI ELEGANZA
STILE SUL GREEN
Alcuni capi tecnici della nuova collezione golf di Colmar. Colori di stagione: rosso, arancio, blu cina, giallo lime e verde acqua su basic bianco o grigio
Tra le regole non scritte del
triche (manica raglan a destra,
golf, quelle legate all’abbiglia-
a giro a sinistra), ma il modello
mento impongono un decoro
in jersey è addirittura realiz-
giornalista
che si articola in regole pre-
zato con gli ultrasuoni e privo
e autore di
cise. No, anzitutto, a pantalon-
di cuciture. Niente cuciture
Commander in
cini, jeans, canottiere, tute da
anche per le felpe, leggere e
Cheat (Hachette
ginnastica, magliette girocollo.
con finissaggio water repel-
Books)
Lo stile del golfista prevede
lent. In caso di pioggia tuttavia
invece le polo, i pantaloni dal
la giacca ideale è tecnica, con
taglio classico (anche al ginoc-
un’unica tasca sulla schiena
chio), i giubbini tecnici. Sono
che la trasforma in packable .
proprio questi i capi proposti
Oppure ibrida: in tessuto dou-
dalla collezione golf SS 19 di
ble elasticizzato e idrorepel-
Colmar, studiati per favorire il
lente, che mantiene caldi i
gesto atletico senza rinunciare
punti nevralgici. Quella doppia,
allo stile. Le polo, anzitutto,
invece, ha il gilet in ovatta
hanno tagli e cuciture asimme-
removibile. (O.N.W.)
Rick Reilly,
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PAS SI O NI
SP O RT
P ROV E E ST R E M E
KAMCHATKA MON AMOUR L’ultima impresa di Gregoretti: 500 chilometri di cammino in 19 giorni a 30 gradi sotto zero Testo di S A R A C A N A L I
«Oltre che nel Risiko, avete mai sentito parlare della Kamchatka? Visto qualche fotografia? Io non ne sapevo niente, era una zona bianca su una cartina. Non esistevano dati di esplorazioni precedenti, libri e nemmeno racconti. Il colpo di fulmine è accaduto così, pensando al silenzio che avrei potuto ascoltare». Stefano Gregoretti, 45 anni, atleta endurance, ex triatleta, ironman e ultrarunner, vive ogni esplorazione come una storia d’amore. Prima la fase di studio e corteggiamento, poi 1 5 8 / MAG I O2- 0 G1I 8 UGNO 2019 RG ZO
il graduale innamoramento e l’idealizzazione che cresce con il desiderio. Un anno di preparazione attraverso le immagini rubate a Google Earth, lo studio del percorso, la creazione del progetto e poi, finalmente, l’esplorazione. Così è stato per l’Artico, la Patagonia, la Namibia e lo scorso febbraio per la Kamchatka. Situata nella Russia orientale, tra il Mare di Okhotsk a ovest e l’Oceano Pacifico e il Mare di Bering a est, è un luogo impervio che insieme a Ray Zahab – canadese ultrarunner detentore di diversi record di traversata in giro per il mondo – Stefano ha deciso di esplorare in autosufficienza, a temperature tra i 20° e i 40° sotto zero. «Nella slitta che trainavamo c’erano riserve di cibo per affrontare 500 km di traversata, una stufa d’alluminio che funzionava a legna, qualche ricambio, la tenda e alcuni strumenti di navigazione. E in testa un progetto». Come in ogni storia d’amore, però, quando l’idealizzazione raggiunge il piano del quotidiano bisogna fare conti differenti. Così è stato con questa terra lontana che fin da subito ha mostrato di giocare mosse imprevedibili. «Già al secondo giorno avevo capito che
qualcosa non andava e che aveva a che fare con i corsi d’acqua», racconta Stefano. «Nonostante le temperature rigide, non si erano completamente ghiacciati. Probabilmente il freddo intenso ha ghiacciato le superfici dei fiumi, poi la temperatura è aumentata e ha nevicato, formando una coltre di neve che ha fatto da isolante con l’acqua. Che, sotto, ha continuato a scorrere senza ghiacciarsi completamente. Durante il nostro viaggio, sono caduto in acqua quattro volte. E quando sei a -30°, non è semplice far asciugare i vestiti». In questi casi bisogna reinventarsi tutto da capo, lasciar perdere il progetto sulla carta e andare in esplorazione vera, muoversi per sette chilometri nelle diverse direzioni alla ricerca della via migliore, per avanzarne di uno soltanto. «Abbiamo imparato a osservare tutto. La mia laurea in scienze agrarie mi ha aiutato a studiare il territorio: se c’erano pioppi, eravamo troppo vicini a corsi d’acqua. Meglio cercare le betulle, che crescono più lontane. Giorno dopo giorno, speri sempre che la situazione migliori e ogni tanto ti avvilisci vivendo un alternarsi continuo di alti
Stefano Gregoretti e il compagno di spedizione canadese Ray Zahab durante l’esplorazione. La slitta che hanno dovuto trainare pesava 80 chili
L’atleta endurance Stefano Gregoretti, 45 anni. Per la traversata della penisola russa è stato supportato dagli abiti tecnici e performanti Jaked
G Q I TA L I A . I T
e bassi». Poi la barriera: a 100 km dall’arrivo prefissato, dopo 19 giorni di marcia, il fiume Zhupanova non ha concesso il suo benestare per andare oltre. La pellicola di ghiaccio era troppo sottile per consentire l’attraversamento. Qualche tentativo alla ricerca di un percorso alternativo, l’incontro con alcuni cacciatori che si dirigevano a ovest, perché a est non si riusciva ad andare, e poi la conferma da parte del team di supporto: impossibile procedere. «A un certo punto bisogna accettare quello che ci accade, è inutile che mi arrabbi se i fiumi non sono ghiacciati. Quella è la situazione, sono le carte in tavola in un gioco dove hai a che fare con la natura, il miglior baro del mondo». L’accento romagnolo di Stefano non nasconde la fierezza e insieme la reale accettazione di riconoscersi fallibili di fronte a ciò che non si può prevedere. «Se sfidi la natura, sai benissimo di poter perdere. Ma non si tratta mai di sconfitta, perché si impara sempre. Per me, anzi, è stata una vittoria: per la prima volta non mi sono sentito un atleta e ho dovuto riparametrarmi. Non si è trattato di una performance, ma di un’esplorazione che
mi ha catapultato nell’Ottocento quando si avanzava usando solo i sensi, il sole, le tracce». Diciannove giorni di marcia in mezzo alla neve e pochi segni umani, a colazione un caffè e olio di cocco, la sera zuppa di miso e frutta secca. «Sa cosa abbiamo fatto quando abbiamo deciso di fermare la spedizione? Abbiamo mangiato tutto quello che avanzava. È stato un momento di festa, almeno per i nostri stomaci. Ci siamo davvero abbuffati perché la sensazione di fame non ci aveva mai abbandonati». E così, dopo averla vissuta, la storia d’amore giunge al suo epilogo, lasciando ricordi e passione, qualche traccia di nostalgia e la voglia di innamorarsi ancora una volta, di un nuovo progetto. A suo tempo, ovviamente. «Tutti mi chiedono cosa mi spinga a intraprendere questi viaggi. Penso invece che bisognerebbe pensare a cos’è che attrae gli esploratori, da Bonatti a Messner, fino a Manolo. Penso sia un po’ come quello che accadde a Ulisse, il desiderio di scoprire ciò che non si conosce, valicare le proprie personali Colonne d’Ercole e alzare l’asticella per potersi sentire vivi». MAGGIO-GIUGNO 2019 / 1 5 9
BEAUTY Cactus Garden di Louis Vuitton ha un sillage freschissimo.
IL PROFUMO
Prezzo: 210 €,
VERDE CALIFORNIA
100 ml
Louis Vuitton rende omaggio alla West Coast Testo di A L I C E A B B I A D AT I
La disinvoltura californiana in boccetta. Anzi tre: il nuovo trittico di profumi di colonia Louis Vuitton, creato dal naso Jacques Cavallier Belletrud, promette avventura. Il maître parfumeur si è infatti ispirato alla West Coast, con le sue lunghe distese di spiaggia, le luci frenetiche della città, lo stile di vita healthy e i terrazzi verdeggianti. «Sognavo di creare una fragranza ariosa, delicata come un’acqua estiva, ma fugace come un eau de parfum», racconta. «Sun Song, Cactus Garden e Afternoon Swim sono profumi di luce, con i colori dell’estate. Ho usato materie prime rare che rivelano tutta la loro naturalezza. La loro piramide olfattiva è essenziale». Il più green è Cactus Garden, che trasporta in un patio esotico grazie all’ingrediente star, l’yerba matè. Il tè del Sud America, antiossidante e tonificante, è una nota piuttosto insolita nella profumeria, luminosa ma dal retrogusto leggermente affumicato: Belletrud lo accompagna al bergamotto di Calabria e alla citronella per conferire al sillage un’estrema freschezza.
CITRONELLA Stimolante ed energica, illumina con i suoi aromi vivaci
MATÈ Richiama l’atmosfera di una foresta tropicale grazie ai suoi sentori leggermente fumé
BERGAMOTTO DI CALABRIA Il frutto amaro che nasce dall’incontro tra il limone e l’arancia conferisce note voluttuose
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L ’ I N N O VA Z I O N E
Eau de Minthé
UNA NINFA PER L’ESTATE
di Diptyque, con menta, geranio, patchouli
Il modello Seven con suola in gomma riciclata, Clarks Originals, 155 €.
e ossido di rosa Prezzo: 130 €,
clarks.com
La nuova fragranza di Diptyque è piena di menta e si ispira alla mitologia
75 ml
La novità olfattiva di Diptyque racconta una metamorfosi. Nella mitologia greca Ade, re degli inferi, per volere di sua moglie Persefone, trasforma la sua amante, la ninfa Minta, in una pianta balsamica che inebria con il suo profumo l’intero mondo sotterraneo. Come nel mito, anche nella profumeria avviene una trasformazione. Eau de Minthé è infatti il primo accordo fougère con protagonista, nel cuore, la menta. La sua freschezza aromatica esalta le note floreali del geranio e della rosa ed è a sua volta addolcita, nel fondo, dal patchouli.
LA LINEA
IN BARBA ALLO TSUBAKI L A S V O LTA
PERDONATE L’IMPUDENZA Mandarino, petitgrain, patchouli: ecco l’eau de parfum di un cuginetto sofisticato Il suo nome non deve trarre in inganno. Ben educato, informale e sicuro, The Impudent Cousin Matthew è – insieme al suo alter ego femminile The Ingénue Cousin Flora – il nuovo componente della famiglia Penhaligon’s Portraits. La sua fragranza ha una costruzione inaspettata, moderna e raffinata. Si apre infatti con la freschezza del mandarino e si chiude con la corposità del patchouli. Nel cuore, a stemperare, c’è la luminosità vibrante del petitgrain, l’olio essenziale che si ricava dagli agrumi acerbi. Matthew, il germano reale riportato anche sul tappo della confezione, emana disinvoltura più che impudenza. G Q I TA L I A . I T
La linea Beard di Barber Mind per la cura della barba. Da sinistra a destra: olio, shampoo, balsamo. barbermind.it
The Impudent Cousin Matthew, della linea Penhaligon’s Portraits. Prezzo: 225 €, 75 ml
Il barbiere Hiroshi Vitanza riporta in auge lo stile rétro delle barberie Anni 40. La sua linea Barber Mind parla a tutti e ogni prodotto racconta una storia. Le hair pomade si ispirano all’old school, la cura della barba alla musica bebop, gli shampoo alla natura. Comune denominatore: l’olio di Tsubaki, estratto dalla camelia japonica, nutriente e antiage. MAGGIO-GIUGNO 2019 / 1 6 1
WARDROBE
Da sinistra, camicia e pantaloni GIORGIO ARMANI;
giacca e pantaloni GIORGIO
F O T O D I M A R C O I M P E R AT O R E
ARMANI
ALESSANDRO FELLA, LORENZO ZURZOLO E LO STILE DI GQ. P I C C O L O G U A R D A R O B A D ’ E S TAT E . E L E B O AT S H O E S
Da sinistra: giacca, gilet, maglia, pantaloni e mocassini G I O R G I O ARMANI;
giacca,
maglia, pantaloni e mocassini G I O R G I O ARMANI
NEW FACES Foto di Marco Imperatore Servizio di Nicolò Andreoni
MAGGIO-GIUGNO 2019 / 1 6 5
WARD RO BE
«Il teatro mi ha insegnato a rialzarmi»
«Fare l’attore mi ha aiutato a sfidare la timidezza»
Camicia, pantaloni e mocassini G I O R G I O ARMANI.
Nella pagina a fianco: giacca, maglia e pantaloni GIORGIO ARMANI
WARD RO BE
QUEI BRAVI RAGAZZI Gli attori ALESSANDRO FELLA e LORENZO ZURZOLO interpretano la moda P/E 2019 di Giorgio Armani Te s to d i E S S I A S A H L I
È un nebuloso pomeriggio di aprile quando, nella cornice di Palazzo Orsini a Milano, gli attori Alessandro Fella e Lorenzo Zurzolo, visti, recentemente, il primo nella fiction Il paradiso delle signore 3 - Daily sulla Rai e il secondo nella fortunata serie di Netflix Baby, posano con estrema naturalezza davanti all’obiettivo del fotografo. Il meteo è variabile, e appena il tempo mostra un po’ di clemenza, si decide di scattare ancora qualche foto nell’elegante giardino di quella che oggi è la sede di Giorgio Armani. Come vecchi amici intenti a discutere del più e del meno, i ragazzi danno vita a quel contrasto tanto attraente tra austerità formale e atteggiamento scanzonato, un po’ come nel film Quei bravi ragazzi di Martin Scorsese. E non c’è alcun dubbio che i due, rispettivamente 30 e 19 anni, abbiano dimostrato la loro bravura in un contesto difficile e competitivo come quello del cinema, della televisione e del teatro in Italia. Eppure Alessandro e Lorenzo si sono fatti vedere e valere, anche grazie al loro aspetto fisico, obiettivamente non trascurabile. Tra uno scatto e l’altro raccontano cosa li ha portati a fare questa scelta e cosa ne pensano di moda e social network.
Cosa vi ha spinto a lanciarvi in questa carriera, e in che cosa vi ha cambiati? (Alessandro): È stata di certo la paura di ritrovarmi tra qualche anno insoddisfatto della mia vita. Dopo il liceo ho seguito un po’ l’onda generale, ma poi è arrivato il
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teatro ed è nata in me una curiosità insaziabile: questo mi ha portato a lottare per ciò che ogni giorno mi dà lo stimolo a crescere e studiare, insegnandomi a rialzarmi ogni volta. Durante la mia formazione è stato in particolare il metodo francese di Lecoq ad avermi cambiato: quest’esperienza mi ha distrutto e ricostruito, aprendo tante finestre emotive che nemmeno pensavo di avere. (Lorenzo): Senza dubbio il teatro è qualcosa che mi ha aiutato ad aprirmi. Da piccolo ero molto timido, ma rapportarmi con persone più adulte sul palcoscenico mi ha permesso di ampliare il mio sguardo sulle cose. Inoltre, facendo questo mestiere da quando avevo 7 anni, mi ha portato a sviluppare un atteggiamento naturale in qualsiasi contesto. Di fronte all’obiettivo fotografico interpretate un personaggio o piuttosto fate uscire delle parti nascoste di voi? (A): Nonostante pensi che il richiamo a un personaggio arrivi in automatico, visto che siamo tutti condizionati da immagini – a partire dal cinema, sin dai tempi di James Dean e Marlon Brando – non sento di impersonificare qualcuno di diverso da me. Ma sicuramente credo che il vestito dia un certo portamento, anche nella vita in generale. (L): Ritengo che il teatro e la moda siano due mondi molto simili, e trovo quest’ultima un’occasione divertente in cui mettere
alla prova diversi lati di me. Attraverso le foto si comunica un’emozione, e mi piace molto interpretare diverse sfumature di me stesso a seconda dell’abito.
Come definireste il vostro stile personale e a cosa non rinunciate mai nel vostro look? (A): Ciò che indosso mi deve far sentire a mio agio, quindi do sempre priorità alla comodità. Non so se il colore rispecchi la personalità, ma non riesco a “sganciarmi” dal nero, in maniera quasi patologica! (L): La moda mi appassiona e mi diverte sperimentare, ma in generale mi trovo bene con abiti casual e sportivi e prediligo i colori scuri, in particolare il blu e il nero. Inoltre, non rinuncio mai a un bell’orologio.
Come vivete il vostro rapporto con i social network? (A): Ho difficoltà nel pubblicare dei post perché non voglio che ciò che appare diventi un modo per etichettarmi. Però sono consapevole che è una finestra sul mondo fondamentale, e cerco di trovare una via di mezzo tra ciò che a me piace e ciò che gli altri vorrebbero scoprire di me. (L): Sono consapevole che è una vetrina molto importante ma per me rimane tale, separata dalla vita privata. Uso i social principalmente per far vedere un po’ del mio lavoro e tenere aggiornato chi mi segue. Rimane tuttavia il mezzo di comunicazione più immediato che abbiamo oggi, ed è importante usarlo al meglio.
G Q I TA L I A . I T
Da sinistra: maglia, pantaloni e mocassini GIORGIO ARMANI;
cardigan, gilet, pantaloni e mocassini GIORGIO ARMANI
Make-up Artist: Donatella Ferrari, National Make-Up Artist Giorgio Armani Beauty using Giorgio Armani Beauty Face Fabric. Hair by Barberia Elite using Tecni.Art
ÂŤLa moda e il teatro sono simili: mettono alla provaÂť
LA GIACCA
UNA VENTATA D’ARIA FRESCA Indossare la giacca senza provare la sgradevole sensazione di sentirsi ingessati. È la promessa di Aria, il nuovo blazer di Boggi Milano che nasce per ibridazione con la camicia e di questo capo acquisisce leggerezza e versatilità. Ragionando per sottrazione diventa completamente sfoderato e decostruito ad arte: le spalline vengono eliminate, così come toppe e altri orpelli, portando il peso complessivo di questo modello a soli 350 grammi. Una sfrondatura strutturale quella dell’azienda meneghina celebre per i suoi completi tecno-sartoriali, ma che non comporta certo una limitazione estetica: la collezione estiva prevede cinque diverse fantasie con pattern quadrettati che spaziano dal vichy più minuto al madras dai finestrati più ampi, mentre la palette cromatica, oltre ai tradizionali colori d’appannaggio tipicamente maschile come grigio, beige e blu, si arricchisce di tinte inedite e sature come l’azzurro cielo, il borgogna 1 7 0 / MAGGIO-GIUGNO 2019
vibrante e il rosa polveroso. Come tessuto d’elezione è stata scelta la tela di lana dello storico lanificio Reda, eccellenza del distretto biellese, fresco, traspirante e ingualcibile, che previene le stazzonature anche dopo molte ore di utilizzo e assicura una vestibilità agile e morbida grazie anche alle piccole aperture laterali. Un passe-partout dall’eleganza informale, da indossare fuori e dentro l’ufficio e ideale anche da infilare in valigia come pezzo nobile del guardaroba da vacanza. Da portare rigorosamente spezzato, regala il meglio di sé infilato sopra a pantaloni dallo stile altrettanto rilassato come jeans, chino e jogger, e volutamente sbottonato, con i revers a dente aperti su sottili maglie girocollo, bluse di lino grezzo e polo dal sapore preppy. _ (Simona Airoldi)
Blazer modello Aria in tela di lana con costruzione sfoderata, Boggi Milano, 399 €. boggi.com
WARD RO BE
I GIOIELLI
ESTROSI CON PERSONALITÀ
LO Z A I N O
ALLA GRIGLIA DI PARTENZA
Il gioiello da uomo piace sempre di
più. Croci, ciondoli, simboli marini e segni zodiacali vanno ancora per la
Dopo cinque mesi dall’assunzione della qualifica di Official Partner di AC Milan, Piquadro conferma il suo legame con il mondo dello sport ed entra in F1. A partire dalla nuova stagione, appena cominciata, il marchio italiano di accessori di pelletteria tech-design per business traveller fornisce la scuderia Aston Martin Red Bull Racing del trolley PiQ3 in policarbonato e dello zaino Urban interamente in pelle. Quest’ultimo è dotato della tecnologia Bagmotic che consente l’interazione tramite cellulare. E della connessione via Bluetooth che funziona come allarme in caso di furto o smarrimento. _ (La.P.)
maggiore ma cambiano le forme. Per
l’estate le proposte diventano anche più giocose, colorate, componibili e in materiali alternativi, come l’acciaio e le p i e t re d u re . B ro sway co n l a co l l e z i o n e TJ M a n p e r m e t t e d i personalizzare il proprio gioiello a
seconda dell’occasione e dell’umore offrendo la possibilità di scegliere le perline per forma e colore. (La.P.)
Sopra, lo zaino Urban fast-check porta PC e iPad con antifurto, Piquadro, 498 €. piquadro.com Bracciale componibile in acciaio 316L con pvd nero, sodalite e agata indiana, 49 €
LA SNEAKER
SULL’ONDA DELLA COMODITÀ La fusione dello stile sportivo con il mondo urban ottenuta dall’abbinamento di pellami naturali con i tessuti lavorati al laser, le rende utili per la città e comode per le passeggiate primaverili. Le nuove Daddy sneakers della collezione Mare di Callaghan si distinguono per l’innovativo design della suola che ricrea le onde del mare. E per la tecnologia brevettata Adaptaction capace di assorbire l’impatto della camminata riproducendo i movimenti del piede. In questo modo la suola si adatta alla sua dilatazione in larghezza offrendo grande comfort e maggiore stabilità. _ (La.P.)
Daddy sneakers in pelle lavorata al laser, suola Adaptaction, 145 €. it.callaghan.es
Anello Stonage in acciaio lucido e pvd nero satinato, 29 €
Collana componibile in acciaio 316L con il segno zodiacale dell’Acquario e pvd nero, 25,80 €
G Q I TA L I A . I T
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WARD RO BE
Fiaschetta in cuoio della linea Specialty e portapassaporto della linea Travel in vacchetta, Il Bisonte, 135 e 75 €. ilbisonte.com
PELLETTERIA
CONCIÀTI A REGOLA D’ARTE Se si gira per le strade di Firenze, specie durante le giornate di Pitti Uomo, si incontrano persone dal look davvero curioso, come quello di Wanny Di Filippo. Lunga barba bianca, occhiali a specchio, cappello a tesa larga, un foulard annodato al collo, e un insieme di capi e accessori colorati. Determinato, eclettico e fuori da qualsiasi schema, Wanny, sebbene sia stra fotografato, non è il più longevo degli influencer, ma il fondatore de Il Bisonte, un marchio di pelletteria con sede a Pontassieve, un comune a 13 km dal capoluogo fiorentino. In fabbrica oggi ci lavorano oltre un centinaio di artigiani, molti dei quali hanno mosso i primi passi proprio qui, imparando tutta una serie di competenze e maestrie artigianali che si ritrovano poi nei pezzi delle collezioni del marchio. La particolarità di queste borse e 1 7 2 / MAGGIO-GIUGNO 2019
accessori è l’utilizzo di pellami di alta qualità, tutti Made in Italy, così come l’impiego di laboratori di concia, tamponatura, taglio, spaccatura, scarnitura e cucitura a mano situati nel raggio di 30 km dallo stabilimento principale. La vacchetta è un po’ il marchio di fabbrica, un pellame pregiato la cui tecnica naturale di lavorazione, la cosiddetta “concia al vegetale”, rende il prodotto finale resistente, morbido, con un delicato profumo di bosco. Inoltre il tannino, utilizzato come principio attivo della concia, combinato all’uso personalissimo che ciascuno fa di borse e accessori, giorno dopo giorno riveste le creazioni de Il Bisonte di una piacevole patina del tempo. Ogni prodotto diviene così un vero e proprio pezzo unico. _ (P.M.)
A sinistra, zaino Sprint in pelle di vacchetta invecchiata e cappello in paglia con trim in vacchetta, 795 € e 95 €, Il Bisonte
G Q I TA L I A . I T
FITNESS
ALLENAMENTO MULTITASKING In una giornata in cui si accavallano gli impegni capita di trovare il tempo di andare ad allenarsi solo in pausa pranzo e dopo l’ufficio, senza nemmeno passare per casa a cambiarsi. Essenziale in questi casi poter contare su un borsone capiente, resistente e multitasking, e magari anche bello da vedere. Già perché l’estetica conta, non solo nel fisico, costruito a suon di crunch e affondi, ma anche per i complementi dedicati al training. Audace Palestre, network meneghino di fitness boutique creato da Ciro Santucci, ha creato la T-Bag, una maxiborsa in pvc telato antigoccia, con vano portascarpe e scomparti interni zippati comodi per separare gli indumenti. Doppi manici, duplice apertura scorrevole e combo di tracolle che si trasformano in spallacci per portarla in moto o in bici, è realizzata con un finissaggio gommato in rosso saturo e nero su cui spicca il lettering a caratteri cubitali del logo. _ (S.A.)
Borsone tubolare T-Bag da palestra in tessuto waterproof, Audace, 59 €. audacepalestre.it
UNDERWEAR
Sotto, parigamba in cotone
SOTTO SOTTO C’È RONALDO
della linea CR7 venduta in tripack da 3 pezzi (colori misti) e distribuita da Yamamay, 29,95 €.
F OTO D I G E T T Y I M AG E S
yamamay.com
Cinque volte pallone d’oro e giocatore dell’anno per la FIFA, 4 volte Scarpa d’oro, 10 Globe Soccer Awards, miglior marcatore di sempre con la nazionale portoghese. Se emulare le prodezze calcistiche di Cristiano Ronaldo non è cosa da tutti, replicare lo stile del fuoriclasse può risultare un’impresa più a portata di mano, visto che il ragazzo da qualche tempo, oltre a quello di attaccante in forza alla Juventus, ha assunto il ruolo di imprenditore nel settore della moda. Tra i pezzi cult: jeans e slip. Proprio la linea di intimo CR7 Underwear trova una distribuzione capillare grazie a Yamamay, marchio della Inticom SpA capitanata dalle famiglie Cimmino e Carlino e commercializzata in esclusiva con Brandsdistribution. I modelli del campione sono studiati per essere comodi e avvolgenti, declinati sia in monocromo che in stampe accattivanti. _ (S.A.) MAGGIO-GIUGNO 2019 / 1 7 3
WARD RO BE
IN BARCA/1
YACHTING TIME
La scarpa da barca ha una storia che risale agli Anni 30, quando il marinaio americano Paul Sperry comprese che per aumentare l’aderenza sul ponte di coperta, spesso bagnato o ghiacciato, sarebbe bastato aumentare il grip delle scarpe intagliando delle scanalature sul fondo della suola di gomma. Da allora la scarpa da barca si è guadagnata un posto fisso nel guardaroba maschile. Comode, antiscivolo e resistenti
a sale e acqua, possono essere portate in vacanza al mare per una serata allo Yachting Club o in città per andare in ufficio. Il marchio made in Italy Igi&Co la ripropone per quest’estate nella versione più classica, ma con piccoli dettagli che la rendono più urbana: disponibile in più varianti colore, ha le cuciture visibili, i lacci tono su tono che corrono lungo la tomaia e la suola in gomma rinforzata. _ (La.P.)
Mocassino in pelle color cuoio, Igi&Co, 84,90 €. igieco.it
IN BARCA/2
TRA PASSATO E FUTURO
Partendo dal modello classico della scarpa da barca, Lumberjack lancia la nuova linea Dynamic sviluppando i concetti di leggerezza, flessibilità e stabilità e aggiungendo tecnicità e una buona dose di design, a cominciare dalla suola. Injected Eva e gomma donano alla calzatura grip e solidità, lasciandola leggera; i tagli laterali della suola, che si integrano nel battistrada, garantiscono estrema flessibilità, necessaria
per muoversi con disinvoltura sul molo o su qualsiasi superficie scivolosa, anche in città; la scocca che supporta il piede ha gli inserti di gomma colorata con i lacci in cotone piatti, custoditi dai classici occhielli colorati. Comodo il sottopiede in pelle estraibile e la fodera in pelle e tessuto. Un modello sportivo che diventa più casual nella forma e nelle proposte di colore: sabbia, blu navy o bianco con dettagli di colore a contrasto. _ (La.P.)
Modello Dynamic con tagli laterali della suola Lumberjack, 109,90 €. lumberjack.it
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WARD RO BE
I N C I T TÀ / 1
INTRAMONTABILE DERBY
Si racconta che il duca di Windsor ne avesse una passione smodata. Le scarpe derby, accessorio dandy per eccellenza, erano le sue preferite e non c’era stagione in cui non le indossasse. Meno formali delle classiche francesine, da cui si differenziano per un dettaglio nella cucitura della mascherina, il loro grosso vantaggio è che si possono portare sotto un paio di jeans o sotto un paio di pantaloni chino senza perdere di eleganza, ma regalando
all’intero outfit un’aria decisamente casual. Con l’arrivo della stagione calda, il consiglio per chi non vuole rinunciarvi è quello di scegliere dei modelli leggeri in termini di materiali e lavorazioni come quello, per esempio, proposto da Tata Italia che gioca anche sulla suola a contrasto per un effetto giovane e fresco. L’effetto “martellato” poi le conferisce maggiore leggerezza aggiungendo un tocco di personalità. _ (P.M.)
Derby in ecopelle nera microforata, Tata Italia, 49,95 €. tataitalia.com
I N C I T TÀ / 2
EFFETTO (ECO)VINTAGE
Le sneakers? Uno dei mercati più vivaci delle ultime stagioni. Tra nuovi lanci settimanali, rivisitazioni dei modelli storici, collaborazioni cross, modelli sostenibili e supertecnici, modelli che giocano con le proporzioni, vedi alla voce “chunky sneakers”, e quelli infine più classici, fedeli a un’idea di contemporaneità dalle linee pulite e lineari, senza stravaganze ma capaci comunque di emozionare. Come le calzature di Voile
Blanche, il marchio che si è fatto conoscere sul mercato calzaturiero per l’utilizzo di dacron – il materiale usato per le vele – e che tra i suoi punti di forza annovera la qualità, l’innovazione e un’idea di stile dettata principalmente dai dettagli, dalle lavorazioni insolite, dai materiali mai banali. Prova ne è la sneaker Amalfi dedicata a questa primavera che utilizza la iuta per un tocco di carattere unico. _ (P.M.)
Sneaker Amalfi con tomaia in velour, lacci e passamaneria in iuta, Voile Blanche, 220 €. voileblanche.com
G Q I TA L I A . I T
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COVE COVER
G L I U O M I N I C H E Q U E S T O M E S E C I H A N N O FAT T O P E N S A R E
KANYE WEST KEANU REEVES DANIELE SILVESTRI
K A N Y E W E S T - Sunday Service © Vanessa Beecroft, 2019
COVER STO RY
KANYE È L’UOMO, POETA COME ORESTE DIALOGO SULLA NUOVA MASCOLINITÀ CON L’ARTISTA VANESSA BEECROFT
Testo di S O N I A C A M PA G N O L A Foto di VA N E S S A B E E C R O F T
G Q I TA L I A . I T
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COVER STO RY
Quando mi è stato chiesto di presentare la mia visione dell’uomo contemporaneo, dapprima ho rifiutato perché non volevo parlare del genere maschile, come per un nemico. Poi, ho pensato a Kanye come a una figura simbolica dell’uomo di oggi, per diverse ragioni. La mia idea di Kanye è quella di poeta, nel senso classico. Il poeta che Alberto Moravia piangeva dopo la morte di Pier Paolo Pasolini, nell’orazione del suo funerale: “Abbiamo perso prima di tutto un poeta. E poeti non ce ne sono tanti nel mondo ... Il poeta dovrebbe essere sacro”. La sacralità del poeta, un uomo che ha superpoteri nell’espressione verbale e musicale. Questo uomo può sbagliare, perché è vulnerabile. Per me questo è Kanye, a parte il suo grande successo pubblico. Questi sono i motivi che mi portano a sceglierlo come uomo simbolico di oggi. Penso alla figura di Re Ludwig come rappresentata da Michelangelo Antonioni: un re che non riesce a interessarsi alle guerre perché ama la musica e costruisce castelli. Un re che sogna. O anche il Principe di Homburg di Heinrich von Kleist, un principe che soffre di amnesia e che durante la battaglia si distrae pensando al suo amore. E perde la battaglia. È così che io interpreto il personaggio di Kanye, una figura complessa, controversa, che eccelle nella parola e nella musica. Io parlo dalla posizione di chi non ascolta la musica leggera, ma preferisce la filarmonica. Parlo perché vedo che quando Kanye compone scrive come un poeta, un poeta politico. Kanye ha una visione del mondo nuova a cui vorrebbe dare vita. Una visione che include cambiamenti sociali, culturali e di costume. Lui porta avanti questa missione rischiando di compromettere la sua vita. E confonde il pubblico ripetutamente. Vanessa, ha incontrato per la prima volta Kanye in occasione del lancio del suo album 808s & Heartbreak, durante il quale ha offerto al pubblico una sua performance: VB63, 2008. Sebbene dal punto di vista di testi e musica contenga differenze significative rispetto ai lavori precedenti, l’album è diventato uno dei più importanti della sua produzione. I temi sono l’alienazione, la perdita, la sofferenza…
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In quel momento stavo attraversando un periodo di perdita anche io e vivevo un senso di alienazione. Avevo trascorso gli ultimi due anni viaggiando avanti e indietro dall’Africa per visitare due gemelli neonati del Sud Sudan che avevo allattato dalla nascita in un orfanotrofio e da cui mi dovevo infine separare. Il congedo era stato rappresentato da un’immagine che mi ritraeva in vece di Madre bianca che nutriva i due gemelli neri (White Madonna with Twins, South Sudan, 2007). Seguivo mio marito da New York a Los Angeles, e lui lasciava il nucleo familiare. Avevo perduto nello stesso momento due amori. Per questo e per altri motivi, ho deciso di collaborare al listening party per l’album di Kanye. Era l’ottobre del 2008. Quando lavorate ai progetti di Kanye, si percepisce che avete una forte empatia. Anche se il nostro incontro è stato casuale, con il passare del tempo si è stabilito un rapporto telepatico che non ha bisogno di molte parole per essere spiegato. Io cerco di dare forma alla visione di Kanye, mentre lui pone domande e soggetti che sono diventati rilevanti e parte del mio lavoro. Parlando con il poeta/attivista e musicista Saul Williams delle collaborazioni tra lei e Kanye e del suo punto di vista sull’uomo contemporaneo, Saul ha detto: «Non penso che possiamo affrontare la questione maschile, e in ultima analisi del potere, senza affrontare quella della vulnerabilità». Quando ho realizzato la performance con gli US Navy SEALs (VB39, 1999, Museum of Contemporary Art, San Diego, California), l’intento principale era quello di rappresentare l’anacronismo e la vulnerabilità della loro posizione. Sono giovani uomini provenienti dalle periferie americane, che interpretano un ruolo obsoleto pur emanando ancora valori sociali ed estetici. Anche gli uomini del Sud Sudan hanno suscitato in me un sentimento simile forse a causa della loro storia, radicata da secoli nel colonialismo e nella brutalità. Quando mi è stato offerto di presentare una performance presso il Padiglione di
Arte Contemporanea a Milano, nel 2009, il soggetto era un gruppo di immigrati africani in smoking seduti a un tavolo come in un’ultima cena a mangiare carne con le mani. Li ho esposti in una performance (VB65, 2009) come oggetto d’arte attribuendo loro un potere contingente. Ho invertito la posizione del pubblico che, così come nelle performance con le ragazze, si è trovato a guardare il gruppo di uomini come un oggetto di valore assoluto: l’arte. Questa ambivalenza tra potere e vulnerabilità caratterizza tutto il tuo lavoro, anche quando mostra gli uomini anziché le ragazze. Perché l’album 808 & Heartbreak è importante in relazione a vulnerabilità e potere? 808s & Heartbreak esplora un aspetto spesso represso del genere maschile. Quello che espone uno stato di vulnerabilità emotiva. Il testo e la musica esprimono dolore, perdita, disperazione e malessere. Ci parli dei tuoi viaggi in Sud Sudan, del periodo della tua vita in Africa? Tra il 2005 e il 2007, ho trascorso lunghi periodi in Sudan. Il mio primo viaggio era nato dall’impulso di documentare la guerra e il genocidio in Darfur. La spedizione guidata da un gruppo di frati Comboniani non mi portò in Darfur ma a Rumbek nel Sud Sudan. Stavo cercando di seguire le orme di Appunti per un’Orestiade africana di Pasolini (1969). La mia idea era di andare a cercare un nuovo Oreste in Africa, che avesse creato un mondo nuovo sulle rovine del vecchio. Questo lavoro divenne parte di un progetto più ampio, una trilogia. La seconda parte è stata filmata in Sicilia sotto forma di documentario, e riguarda la migrazione degli africani verso l’Italia e l’Europa; ho girato al Cretto di Gibellina, a Lampedusa e in altre zone (2007). Nella terza parte volevo trovare un Oreste negli Stati Uniti, ma non è mai stata realizzata. È stato in quel periodo che Kanye ha chiesto di incontrarmi.
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- Sunday Service © Vanessa Beecroft, 2019
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- Vocalist Sunday Service © Vanessa Beecroft, 2019
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- Choir Director Sunday Service © Vanessa Beecroft, 2019
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- Music Producer & Director Sunday Service © Vanessa Beecroft, 2019
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1999 Square Garden ha contribuito alla musica? La presentazione della collezione Yeezy Season III è stata inaugurata durante la settimana della moda di New York contemporaneamente al listening party di The Life of Pablo. La messa in scena era una mia performance di più di mille afroamericani, uomini e donne. L’immagine si ispirava a un campo profughi in Rwanda. Come nelle mie performance tradizionali ho chiesto al gruppo di uomini e donne di non parlare, non muoversi, non ballare, non cantare... L’abbigliamento è stato recuperato presso dei thrift store e tinto in tre colori principali, per trattare l’immagine come fosse un quadro. L’effetto è stato politico e classico. L’evento è stato mandato in live streaming in 700 teatri di 23 Paesi e su Tidal, così che un pubblico molto vasto ha potuto assistere alla performance e ascoltare il concerto in diretta. Qual è stato l’aspetto più rilevante di questa performance? È stato importante che ci fossero così tanti afroamericani presenti nello stesso spazio. Evocavano un senso di inquietudine e di empatia. Uomini e donne con un passato comune. La loro presenza era monumentale.
VB39 Performance Museum of Contemporary Art, San Diego
2000 Alla fine Appunti per un’Orestiade africana conduce in America... L’Oreste di Pasolini è nero; il film termina con l’affermazione: “I nuovi re dell’Africa saranno i re della musica afroamericani”. Quando ho incontrato Kanye ho pensato che potesse essere lui. Questo è successo più di undici anni fa. Da allora, ho lavorato con Kanye su progetti di teatralizzazione della sua musica, della moda e altro. Non ho concluso la mia trilogia, ma l’esperienza di lavoro con lui è così complessa e rivelatrice da diventare di per sé un’Orestiade. Vanessa, tutta la sua carriera ruota attorno all’analisi della figura femminile. Quanto è importante il fatto che Kanye sia un uomo? Ci sono cose che ci si aspetta da un uomo e in particolare da un uomo afroamericano. Kanye sovverte queste aspettative. Non è ortodosso. È un uomo femminista. Nel suo entourage e nella sua vita, le donne sono figure di potere. È un artista in senso totale, non solo un musicista. Parliamo di The Life of Pablo. In che modo quella performance al Madison G Q I TA L I A . I T
VB42: Intrepid. The Silent Service New York City
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- Pianist Sunday Service Š Vanessa Beecroft, 2019
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- Vocalist Sunday Service © Vanessa Beecroft, 2019
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2009 Era come se una rivoluzione stesse per cominciare. Energia compressa che si è rilasciata alla fine quando il gruppo ha rotto le regole per seguire la musica di Kanye e ballare. ll gesto corale e spontaneo del pugno alzato ha chiuso l’evento. Saul Williams le ha chiesto se a distanza di tre annai da quell’evento pensa che il riferimento al campo profughi del Rwanda abbia acceso qualche interesse o consapevolezza sociale e politica. Lui stesso ha risposto: «Assolutamente no!». Ci sono state ripercussioni nel mondo della moda. Molte case hanno cambiato il modo di presentare le collezioni con gruppi di persone sull’attenti e ferme, i modelli sono diventati meno bianchi e meno stereotipati. Per ottenere un vero impatto politico, comunque, il cambiamento richiede tempo. Io non sono un’attivista politica e non posso essere un’artista che cerca di essere politica secondo il protocollo. Questo non lo posso fare. L’arte è diversa. L’arte non deve rendere conto sul momento ai media. Lo fa dopo. Ha una durata di vita più lunga. Io ho usato la piattaforma che avevo a disposizione, in un contesto non politico, per presentare ed evocare tematiche politiche, anche se non esplicitamente. Considero questo metodo dialettico. Come nel mio lavoro, quando presento formazioni di donne in istituzioni artistiche e musei, spesso nude, per provocare nel pubblico una reazione di vergogna e senso di colpa. C’è una relazione tra il tentativo di creare un gospel in The Life of Pablo al Madison Square Garden e l’attuale Sunday Service. Ci parli di cosa è il Sunday Service di Kanye West. Il Sunday Service è una performance ispirata al gospel che avviene ogni domenica sulle colline di Calabasas, California, per la famiglia e la comunità attorno a Kanye. È una performance dal vivo di un vasto coro di voci che sperimentano un repertorio proveniente dalla tradizione nera, ma che si 1 8 8 / MAGGIO-GIUGNO 2019
VB65 Performance Padiglione d’Arte Contemporanea, Milano
espande sotto la guida di avanguardia di Kanye. Qual è il valore del Sunday Service secondo lei? Il valore principale del Sunday Service risiede nel coro. Come nel coro classico è analogico, teatrale e tribale. Per tornare alla nostra domanda iniziale, come definisce la sua figura maschile contemporanea ideale? La mia idea di figura maschile contemporanea è quella di un uomo che non appartiene al sistema e che vive fuori dal credo capitalistico. Un uomo le cui azioni e sogni contengono il seme del cambiamento. E questo cambiamento deve essere radicale, nonviolento ma radicale.
— Sunday Service photo crew: Vanessa Beecroft, Josh White, Jonathan Drake. Un ringraziamento speciale a Saul Williams per le sue conversazioni con Vanessa. Grazie anche a Dwayne Johnson-Cochran per il copy-editing della versione inglese.
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Dean Durkin - VB82 Performance Certosa di Padula, Salerno
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- Guitarist Sunday Service © Vanessa Beecroft, 2019
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“ Bentornato uomo nero ”
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Keanu Reeves, 54 anni, al cinema con John Wick 3 Parabellum dal 16 maggio. Cappotto SAINT LAURENT BY ANTHONY VA C C A R E L L O ,
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SUL RED CARPET BALBETTA, MA NEL TERZO CAPITOLO DI JOHN WICK K E A N U R E E V E S È ANCORA PIÙ SPIETATO. EPPURE SORRIDE COME LA GIOCONDA Foto di D A N I E L J A C K S O N Styling G E O R G E C O R T I N A Testo A L E X PA P PA D E M A S *
Prima ancora di essere pronti a incontrarlo, eccolo: in cima al vialetto dello Chateau Marmont di Los Angeles, che fuma una sigaretta su un divano basso, come se stesse nel porticato di casa sua. Keanu Reeves viene qui dai primi Anni 90, quando lo Chateau era fatiscente. I rubinetti non sempre funzionavano. I tappeti erano sporchi. «Non avevi neanche voglia di toglierti le scarpe», racconta. In compenso accadeva di tutto. «Potevi fare conversazione, avere una tresca, farti di brutto o semplicemente spassartela. Ecco, io sento ancora quella vibrazione». In passato, Reeves si è trasferito qui per un po’, a sguazzare in piscina con Sharon Stone e «giocare a scacchi sul computer, fumando compulsivamente per combattere lo stress», come hanno raccontato i tabloid. Poi ha preso casa, non lontano da qui, sulle colline, ma allo Chateau Marmont torna sempre volentieri. In America è in classifica la canzone rap Keanu Reeves di Logic, che quando uscì il film Point Break di Kathryn Bigelow, nel 1991, aveva un anno appena. 1 9 2 / MAGGIO-GIUGNO 2019
Ogni generazione ha il Keanu Reeves che si merita, ma il Keanu Reeves di tutte le generazioni è solo uno. E oggi ha la stessa barba irregolare, la stessa tenda di capelli che gli cade sugli occhi e gli stessi, grossi scarponi da trekking Merrell che indossava praticamente sempre, senza badare al contesto, molto prima che il normcore fosse consacrato dal New York Times. Bisogna guardare da vicino il grigio scompiglio delle sue sopracciglia per ricordare che ha 54 anni e, al momento, un brutto raffreddore. Ordina patatine fritte senza insalata, una Coca e un sandwich bacon, lettuce and tomato. Che arriva però fatto col pane morbido, mentre lui ama la croccantezza di quello tostato. Keanu Reeves non è sicuro che un BLT vada fatto così. Il pane morbido è per i panini morbidi. «Burro di arachidi e marmellata», dice Keanu. Poi, più sognante, come un Homer Simpson che fantastica: «Burro di arachidi e miele». Nel suo nuovo film, nelle sale dal 16 maggio, Reeves interpreta per la terza volta John Wick, vedovo, maestro, assassino e guerriero dal cuore spezzato. Il primo
John Wick è stato girato nel 2014 per 20 milioni di dollari dalla vecchia controfigura di Reeves in Matrix (Chad Stahelski), insieme al co-regista David Leitch, che era stato per molto tempo stunt coordinator e regista di second unit. In pratica, non aveva mai diretto un lungometraggio in vita sua. Nonostante Reeves fosse nel cast, insomma, non sembrava un progetto destinato al successo. «C’è questo assassino, la cui moglie muore per cause naturali lasciandogli un cagnolino. Un malvivente russo uccide il suo cucciolo, e con lui 84 persone», racconta Chad Stahelski. «Quante case di produzione dissero no al film? La risposta è: tutte». Il regista però sapeva esattamente di cosa fosse capace Keanu Reeves. «Non conosco nessuno che si impegni più a fondo di lui, in modo collaborativo, fisico, intellettuale. Non ho mai incontrato nessuno che avrebbe potuto sopravvivere a Matrix, costantemente bagnato, dolorante, stanco e picchiato per anni. Ora, dopo 20 anni, si è ritrovato col suo vecchio stunt, che l’aveva G Q I TA L I A . I T
Il successo planetario di Keanu Reeves è arrivato con Matrix dei fratelli Wachowski nel 1999, quando nasceva GQ. Giubbotto in pelle SAINT LAURENT BY ANTHONY VA C C A R E L L O ,
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già diretto ben due volte. Quindi sapeva di cosa sono capace. E che le mie aspettative erano ancora più psicotiche rispetto ai registi con cui ha lavorato negli ultimi 15 anni. Keanu ha retto. Non solo fisicamente: ha dimostrato un particolarissimo tipo di forza mentale». Gli amanti dei film da combattimento hanno acclamato il primo John Wick per l’uso di riprese lunghe e ravvicinate nelle scene di arti marziali, come un audace ritorno al passato in opposizione a Jason Bourne di Paul Greengrass (2016) e un po’ anche a Matrix. Ed era proprio questa l’idea di partenza: affinché il pubblico potesse fidarsi di quello che vedeva, è stato sempre Keanu Reeves a realizzare le scene. Quanto al modo di girare: «Non avevamo scelta», riprende Stahelski. «Eravamo senza soldi. Le lunghe riprese, il colpo di pistola a distanza ravvicinata: sì, erano idee che avevamo. Ma non avremmo potuto fare diversamente, perché avevamo una sola macchina da presa. In una scena di combattimento, il primo ragazzo che muore è lo stesso che interpreta l’ultimo: si è rialzato, ed è corso dietro la macchina da presa per tornare subito in scena e farsi colpire di nuovo da Keanu». La saga di John Wick ha fruttato fin a ora 140 milioni di dollari. Un successo a cui tutti, comprese le persone coinvolte, ancora stentano a credere. Il canale televisivo Starz sta realizzando addirittura una serie sull’universo di John Wick, sfruttando ulteriormente l’elaborata e dettagliatissima elaborazione del mondo sotterraneo del film. Ed eccoci a John Wick 3 - Parabellum, in cui il protagonista è “scomunicato” – cioè bandito, nel linguaggio della congrega degli assassini – e in fuga con una taglia di 14 milioni di dollari sulla testa, dopo aver ucciso un ragazzo. Ma la vera posta in gioco è quella di sempre: la battaglia psichica. Ed è questo l’aspetto che Keanu Reeves ama davvero nei film sanguinari. «Il mio personaggio vive un bellissimo, tragico enigma, praticamente convive con due sé», racconta l’attore. «C’è il John che una volta era sposato, e John Wick l’assassino. John vuole essere libero, ma l’unico modo che conosce per farlo passa attraverso John Wick. E quest’ultimo continua a uccidere e a infrangere regole. In realtà, si tratta di una persona alla disperata ricerca della sua vita e della sua anima». In più, stavolta il protagonista va in giro per le strade di New York a cavallo. Le immagini rubate il giorno in cui è staG Q I TA L I A . I T
ta girata questa scena hanno trionfato su Internet: era dai tempi in cui Eadweard Muybridge ne girò uno, nel 1878, che un film che mostrava un ragazzo a cavallo non creava così tanto scompiglio. «Qualcuno ha scattato una foto mentre stavamo girando a Brooklyn e l’ha messa in rete», aggiunge Chad Stahelski. «Ho pensato che fosse figo. Keanu ha pensato che fosse figo. Ma non credo che lo pensasse anche la produzione. Io sono un grande fan di Sergio Leone, quindi, in ogni caso, ho messo Keanu Reeves su cavallo. Se hai un attore che ne è capace, perché no? Ho fatto una lista di tutte le sue abilità, ci siamo seduti e ho detto: «Dammi tutto quello che puoi fare davvero bene. E abbiamo messo tutto questo nei film. Ma il cavallo non lo voleva nessuno, ho dovuto lottare: tutti pensavano che fosse un’idea strana». Tant’è: Keanu a cavallo (Horseback Keanu) è diventato un meme, uno dei tanti ispirati dalle sue immagini, come Sad Keanu o Conspiracy Keanu. Mentre i suoi avatar fanno il botto sui social media, lui se ne sta comodamente seduto a casa con un libro. E guarda alla propria “memificazione” con una certa, disinteressata distanza. In realtà, partecipare a questo tipo di processo mediatico non fa per lui. «Sembra che alcune persone si divertano a fare delle belle stronzate», commenta Keanu. Il fatto è che non ritiene questa storia dei meme particolarmente creativa. Il che, ovviamente, lo rende un soggetto perfetto per i meme. A fine marzo, un piccolo aereo che trasportava Keanu Reeves e una decina di altri passeggeri da San Francisco a Burbank ha dovuto fare un atterraggio d’emergenza a Bakersfield, e lui ha deliziato nuovamente Internet unendosi ai suoi scomodi compagni di viaggio su un autobus (ovviamente insieme alle loro feed Instagram). Reeves resta determinato a comportarsi come una persona normale, nonostante la sua semplice presenza crei ovunque un’atmosfera di irrealtà, ed è proprio questo che l’ha aiutato a portare a termine l’impresa quasi impossibile di rimanere un enigmatico personaggio di culto, nonostante sia stato un attore di serie A per decenni. Basta pensare a Matrix, ovviamente, con cui ha cambiato la storia dei film d’azione e addirittura la cultura. Tutti quelli che lo hanno conosciuto sul lavoro dicono che li ha orientati al cinema, spingendoli a mettere in discussione le strutture di potere che modellano le loro percezioni della realtà. Invitandoli a frequentare un master.
Dall’esterno, si sarebbe spinti a credere che durante la sua lunga carriera abbia ricevuto continue offerte d’ingaggio. Ma il mondo del cinema può trasformarsi anche in una gabbia, e lui ci è finito dentro nel 1995, quando è stato scomunicato dalla Fox per una decade, dopo aver rifiutato Speed 2 per andare a recitare Shakespeare a teatro, in Canada: «Non ho lavorato più con la Fox fino a Ultimatum alla Terra». Che uscì nel 2008. Attualmente non è più in quarantena, per quanto ne sappia, anche se non fa un film con gli studios da 47 Ronin di Carl Rinsch, del 2013, un’altra bomba costosa. A volte i suoi fan, così riconoscenti per la sua longeva presenza, non si rendono conto di sostenerlo a suon di dollari: il nome di Keanu Reeves riesce ancora garantire il finanziamento di film d’azione di una certa dimensione, e a volte alcuni fra questi si trasformano in successi come John Wick. Interpretare questi ruoli non gli dispiace, e infatti non intende rinunciare: «Finché le mie gambe mi sosterranno», dice. «Fino a quando il pubblico mi verrà a vedere». A 22 anni non si sarebbe mai immaginato che, a 54, avrebbe potuto reggere ancora parti così fisicamente impegnative. Correre, cavalcare, sparare. Non lo poteva immaginare anche perché non aveva la benché minima idea di come si sarebbe sviluppata la sua carriera di attore. «Non ho mai davvero pensato al mio futuro professionale, o a quello che mi sarebbe successo in generale nella vita, fino a poco tempo fa. Probabilmente ho cominciato a farlo intorno ai 45 anni». Che cosa l’ha spinto a riflettere sul futuro? «La morte». Keanu Reeves non rivela chi abbia perso, in particolare. Si sa che diverse persone a lui care sono mancate, soprattutto prima che lui compisse 40 anni. Ma è a questo punto del discorso che si concede una digressione su una mattina lontana, in un vigneto, con Anthony Quinn. Stavano girando Il profumo del mosto selvatico di Alfonso Arau (1995). Reeves interpretava un veterano traumatizzato dopo la Seconda guerra mondiale che si innamora di una donna incinta. Quinn era il patriarca della sua ricca famiglia messicano-americana. Il giorno prima erano a pranzo insieme. Anthony Quinn avrebbe festeggiato gli 80 a breve, per vivere soltanto altri sei anni. Ma nel 1995, ciò che colpì Keanu Reeves di lui era che stava sempre al telefono. Tenendo costantemente sotto controllo il proprio team. Controllando se avevano prenoMAGGIO-GIUGNO 2019 / 1 9 5
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tato questo e quello. «Ancora a darci dentro», ricorda. E ancora si meraviglia: «Ero, tipo, Whoa» (sì, Keanu Reeves ha detto, Whoa. E, sì, è strano). Poi continua: «Era mattina presto, c’era nebbia, e camminavamo nel vigneto». Quindi il dialogo si è sviluppato in questo modo: Keanu Reeves: «Anthony?». Anthony Quinn: «Sì, Keanu?» Keanu Reeves: «Sarà sempre così?». Anthony Quinn: «Sì». E Keanu Reeves oggi ride: «C’è questa idea che a un certo punto ti sentirai arrivato. E poi forse non ci sarà molto da fare per riuscire a lavorare ancora. Mi ha colpito che questo signore, questa leggenda, a 80 anni...». Fosse ancora in giro a vendere cara la pelle. Cercando di ottenere delle parti. «Sì», aggiunge. «Anthony Quinn». Si ha quasi l’impressione che, per anni, la fortuna e la casualità abbiano contribuito a proteggere Reeves da realtà pesanti, quando una carriera di attore, per la maggior parte dei mortali, richiede vigilanza, lungimiranza e seccature al telefono. Ecco, per esempio, come racconta di quando lui e River Phoenix hanno deciso di fare Belli e dannati di Gus Van Sant, nel 1991, e di quanto fossero preoccupati del potenziale impatto del film sulla loro carriera: «Era come stare a un centinaio di metri in aria, con sotto questa bella piscina d’acqua, e ti guardi l’un l’altro come a dire: “Vuoi saltare? Saltiamo!”». Questo è sempre stato il suo dono: una bussola interna che lo porta a rischiare, con la convinzione che da qualche parte, sotto, c’è sempre un’invitante piscina blu. Lo stesso istinto che lo ha portato a lavorare con registi del calibro di Kathryn Bigelow, Gus Van Sant e i fratelli Wachowski, all’inizio della sua carriera. E, più di recente, con Nicolas Winding Refn e Ana Lily Amirpour, spesso in ruoli progettati per mettere a soqquadro preconcetti di vecchia data su come debba essere un personaggio di Keanu Reeves. Così, alla fine, sembra proprio avesse un senso, tutto questo riflettere sul lavoro. La recitazione è un business di vicissitudini. Bisogna aggrapparsi alle parti più complete dell’esperienza e dimenticare il resto. Come sa bene l’attore di origini svedesi Peter Stormare: una volta è andato in Cina per realizzare un film sulla salvaguardia delle tartarughe marine. Prima che la pellicola fosse distribuita, il governo cinese ha deciso che c’era qualche problema con il visto di lavoro di Stormare e ha confiscato il film. Da allora, non è più uscito. Ma Stor1 9 8 / MAGGIO-GIUGNO 2019
mare ricorderà sempre di aver portato una tartaruga marina da cento libbre lungo la spiaggia, mettendola in acqua, guardandola nuotare via. «Ricorderò quel momento per tutta la vita», mi ha confidato un giorno. «Quella bella creatura che si avventura nell’oceano grazie all’aiuto di due umani». In realtà avremmo dovuto parlare di Swedish Dicks, la serie comica di Stormare su due investigatori privati, in cui Keanu Reeves interpreta, a volte, uno stuntman che è diventato un killer di nome Tex. Il fatto che lui sia una guest star abituale in un programma televisivo non smette mai di suonare strano. È come quando si vedeva Bob Dylan nella sitcom Dharma & Greg. O come un unicorno che ha un ruolo ricorrente nella serie Bosch. Allora: è successo perché sono amici, Peter Stormare e Keanu Reeves. Hanno lavorato insieme in Constantine di Francis Lawrence, del 2005, e hanno legato. Frequentano anche la stessa palestra. «Abbiamo una personalità simile, nel senso che siamo entrambi eremiti», dice Stormare. «Lui è un solitario, come me. Non mi piace il red carpet. Di Keanu pensano che stia mettendo su una maschera, quando balbetta rilasciando interviste sul tappeto rosso, e magari guarda altrove e sembra a disagio. Ma in realtà si sente a disagio sul serio». Swedish Dicks è una produzione statunitense-scandinava con un budget minuscolo. Reeves prende lo stipendio di una normale guest star, va in bicicletta e non ha un van. Hanno già girato due stagioni. Quando incontra Stormare in palestra, gli chiede quando inizierà la terza. «È un tipo piuttosto divertente, anche se spesso non lo sono i ruoli che ottiene nei film. È davvero un grande comico. Mi ricorda Timothy Hutton, a volte, e Dylan McDermott», continua Stormare. «Ho solo cose buone da dire su di lui. Una volta all’anno ci beviamo una birra insieme e parliamo della vita. È molto riservato. Conduce la sua esistenza nella direzione che desidera. E credo che a volte possa sentirsi solo. Proprio come me. C’è un conforto nell’essere soli a volte, specialmente quando si lavora su qualcosa». Quando sono insieme, capita che i due amici affrontino temi come il paranormale. Gli universi paralleli. Che cosa c’è là fuori. Frammenti di solitudine. «Entrambi abbiamo avuto un’infanzia piuttosto caotica», commenta Alex Winter, che ha recitato con lui in Bill & Ted’s Excellent Adventure e nel suo sequel del
1991, e che lo farà di nuovo nel 2020 in Bill & Ted Face the Music di Dean Parisot. Keanu Reeves in realtà non ha mai parlato della sua infanzia. Si sa che il padre si è dileguato presto e che ora non si parlano. Che la madre lo ha cresciuto in vari Paesi, con compagni diversi. Che è diventato canadese. Lo scrittore Dennis Cooper, in un’intervista, una volta ha dichiarato, rispetto alla propria giovinezza: «Voglio dire, abbiamo fiondato castagne sulla testa degli insegnanti, e intorno alla terza media l’hashish ha iniziato a girare, e poi roba tipo Lsd. Ma Toronto ora è diventata come un centro commerciale». Keanu Reeves ha lasciato presto il Canada per andare a Hollywood: ha recitato in film per la tv, poi in ruoli secondari al cinema, iniziando a sfondare nel 1986 con I ragazzi del fiume di Tim Hunter. Il film racconta la presa di coscienza di una banda di adolescenti alienati degli Anni 80: stanno dando la caccia agli ultimi fumi della controcultura in una piccola città senza pietà. Dovrebbe essere la California, ma sembra un’anteprima dell’anomia del Pacifico nordoccidentale, del grunge e di Twin Peaks. Reeves mette in mostra solo un accenno di baffi, come un giovane Chris Cornell. E spiega a Ione Skye, anche lei così giovane da spezzare il cuore, perché non avrebbe voluto essere morto: «Uno non potrebbe più sballarsi poi». Molto spesso ci si volta indietro a guardare gli altri attori di quel cast, come Crispin Glover e Dennis Hopper, una sorta di action-paint dalle sfumature di folli. Hopper era appena tornato da Velluto blu di David Lynch. E Keanu Reeves ricorda come il regista lo abbia lasciato libero nelle scene pirotecniche: «Amico, mi ha appena lasciato andare! Stai per urlare! ». A volte, ne I ragazzi del fiume, la telecamera si sofferma sul volto di Reeves sferzato dal vento, o mentre sta fumando uno spinello. Trasmettendo molto più della propria personale, enfatica disperazione. «Questo stupore è una delle cose che amo davvero di quello che fai», ha dichiarato Dennis Cooper riferendosi a Reeves, nella stessa intervista. «Parli sempre di quello che vuoi dire. La maggior parte degli attori produce solo emozioni e si aspetta che il pubblico le corrisponda. Con i tuoi personaggi, la chiave è invece la loro incapacità di produrre. Sono spesso, se non sempre, angosciati, spaventati, stravolti dal mondo. Sono sempre a contatto con il loro contesto». Alex Winter ha incontrato Reeves prima G Q I TA L I A . I T
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dell’uscita dei Ragazzi del fiume. Erano in una sala d’attesa alla Interscope Pictures. Tutti i ragazzi di Hollywood erano venuti all’audizione per il film Bill & Ted, in cui due fessacchiotti di San Dimas (California) partecipano a un test di storia viaggiando nel tempo, alla ricerca di autentici personalità del passato. «Abbiamo legato su moto, chitarra, basso e Harold Pinter», racconta Winter. «Keanu aveva un’ottima collezione di libri». La loro chimica intellettuale li ha aiutati a ottenere il lavoro e giocare a fare gli idioti. Uscito in sala nel 1989, Bill & Ted di Stephen Herek si è trasformato in un successo a sorpresa. È la dolcezza di Bill e di Ted, la loro ingenuità bonaria, che lo fa funzionare. Il film ha anche rischiato di essere un boomerang per Reeves, creando l’impressione errata che fosse scemo come il suo personaggio più scemo, per via di “quel non so cosa” della sua recitazione che secondo Dennis Cooper genera stupore, riflettendo quasi una mancanza di attività cerebrale. Molte delle prime interviste-video di Keanu Reeves, in effetti, alimentavano il pregiudizio. Si aveva quasi l’impressione che i giornalisti stessero intervistando un cane parlante. Ma essere sottovalutato era probabilmente la cosa migliore che gli poteva accadere. È passato infatti da Ted a parti decisamente più interessanti, come quelle delle antitetiche storie d’amore maschili − stranamente simmetriche − di Point Break e Belli e dannati nel 1991. Per non parlare dei ruoli firmati Bertolucci, Nancy Meyers, Shakespeare. Fino a un progetto strano, ambizioso e borderline, una sceneggiatura incomprensibile di due registi sconosciuti di Chicago, i cui personaggi sono entrati e usciti da una malevola simulazione al computer, cambiando genere via via. Forse quel primo malinteso lo ha reso iperattivo nelle interviste, incline a combattere l’impressione che si aveva di lui. O forse odia semplicemente il suono della sua stessa voce quando dice cose che ritiene stupide. Questa almeno è stata la sua spiegazione, nel 1991, quando si è brevemente scusato per una seduta al Four Seasons con il Los Angeles Times conclusa con un’autoflagellazione pubblica che fu descritta così: «Ora è fuori sul minuscolo balcone della sua suite al decimo piano, agitando le braccia animatamente e pronunciando ad alta voce malriuscite profanità sulle presumibilmente stupite teste di qualsiasi abitante di Beverly Hills che si stia trattenendo da quelle parti». Se Keanu Reeves è migliorato sotto G Q I TA L I A . I T
questo aspetto, è anche grazie al fatto che in seguito si sia sottratto il più possibile a confronti pubblici come quello. Sul tema, in effetti, è diventato percettibilmente molto sveglio: quando gli si pone una domanda, sta già pensando a come verrà letta la sua risposta. Riesce a capire il taglio con cui viene intervistato, come se gli passasse davanti allo sguardo un codice. Conosce il segreto di queste situazioni: sei già affondato se cerchi di impressionare, ma ti è sempre consentito scappare se sei disposto a non dire nulla di definitivo. Gli è sembrato strano vedere come la stampa americana sia tornata a parlare del personaggio di Ted? «No», afferma. «Penso che si usino ancora i modi di dire di quel film come “amico” o “è ancora in giro”». Ha fatto pace con quel ruolo? «Sì», risponde. E gli è mai stato di conforto vedere la sua intelligenza sottovalutata in quel modo, riservandosi il piacere di poter sorprendere le persone? I sorrisi di Reeves sono timidi come quello della Gioconda. «Non so davvero quanta intelligenza possieda». L’artista Robert Longo lo ha diretto in Johnny Mnemonic del 1995. Con William Gibson, che ha adattato la sceneggiatura dal suo racconto, se l’era immaginato come una versione cyberpunk di Alphaville di Jean-Luc Godard. Ma fin dall’inizio la produzione è stata caratterizzata dalla sfortuna. Finché la casa di produzione − capendo di lavorare al nuovo film di un attore che era appena diventato la super star di Speed (di Jan de Bont, 1994) − ha tagliuzzato il girato nella fase di montaggio per tirarne fuori un film da blockbuster. Quest’opera di fantascienza degli Anni 90, influenzata dagli anime, con Reeves che interpreta un eroe in costume nero dotato di una porta-dati nel suo cervello, ha avuto vita breve al botteghino. Longo tornò all’arte e non lavorò più per Hollywood. Naturalmente, il film non ne ha beccata una giusta sul futuro a eccezione delle corporazioni malvagie e del rubinetto touchless. Ma è molto più divertente di quanto sia stato considerato, un B-movie in cui, come in un cocktail party, inspiegabili ma graditi ospiti continuano ad arrivare: Ice-T, Henry Rollins, “Beat” Takeshi, Udo Kier, un delfino. Alla fine ha trovato il suo pubblico, anni dopo lungo la strada, a Berlino: alcuni hacker criminali (black hat) si sono avvicinati a Longo, hanno iniziato a recitare dialoghi a memoria. Gli hanno anche detto: «Se mai aveste bisogno di noi per hackerare qualcosa, fatecelo sapere», ricorda Longo. «Così, ora ho amici nella
darknet, il che è davvero fantastico, per gentile concessione di Johnny Mnemonic». Ha anche un amico in Keanu Reeves, ancora oggi. A volte, quando è a New York, Reeves va nel suo studio con una confezione da sei di birre, solo per stare con lui a guardare il suo lavoro, e la gente nel palazzo chiede in seguito all’artista perché stava salendo in ascensore con un barbone che assomigliava un po’ a Keanu Reeves. In più di un’occasione, l’attore è andato perfino a Bay Ridge per vedere il figlio di Longo giocare a pallacanestro, obbligandosi al conseguente sciame di autografi, per poi suggerire gentilmente a tutti di sedersi in modo che i bambini potessero giocare. «Keanu è venuto a trovarmi per mostrarmi Matrix prima che uscisse», continua Longo. «Aveva un nastro Vhs, e non erano conclusi tutti gli effetti speciali. Si potevano ancora vedere le corde e cose del genere. Ho pensato che fosse molto dolce, che fosse venuto per farmelo vedere. Perché Matrix, in un modo strano, era anche un modo di cercare che Johnny Mnemonic avesse successo». Bisogna parlare con persone diverse da Keanu per conoscere questi aspetti della sua personalità. Perché quando affronta un’intervista, mantiene sempre un forte riserbo sugli aspetti più personali. Ha negoziato i termini del suo rapporto con la cultura della celebrità molto tempo fa, e non è interessato a riaprire la conversazione. Così si va allo Chateau, oppure a vedere il suo negozio di motociclette Arch Motorcycle Company, a Hawthorne, California. Ha iniziato nel 2011 con un designer di moto di nome Gard Hollinger. Il modello Arch originale è la Krgt1, che costa 85.000 dollari, ma c’è anche un modello più fantasioso che viene via per 120.000. Ora ne stanno progettando uno nuovo chiamato Method, che «sarà ridicolosamente costoso». Keanu Reeves parla delle sue moto con gergo tecnico. Sono bellissime, tagliate da blocchi di alluminio massiccio, tutte a specchio e in negativo. Camminiamo lungo il piano della fabbrica, visitando le fresatrici. A un certo punto inizia a spazzolare qualcosa, e per il resto del pomeriggio, piccoli trucioli di metallo gli si aggrappano alla gamba del pantalone come fiocchi di neve brillante. La parte migliore del tour arriva alla fine, quando Reeves gira la chiave di una motocicletta Arch: «E suonano così». Il rombo del motore quasi solleva il soffitto della stanza. Eccellente. Keanu Reeves esce a fumare, posiziona il MAGGIO-GIUGNO 2019 / 2 0 1
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corpo in modo che ostacoli il sole negli occhi del suo visitatore. Parliamo del momento, a metà degli Anni 90, quando la sua fama era all’apice pre-Matrix e decise di mettersi a suonare il basso in una grunge band chiamata Dogstar, con un batterista che aveva conosciuto al supermercato. Era stato bollato come un dilettante, naturalmente. Dice che si sentiva in colpa per gli altri ragazzi della band, musicisti abituali che dovevano affrontare le riserve di scetticismo che la società riserva agli attori che si danno a un secondo lavoro in nero, ma aggiunge: «Credo che sarebbe stato di maggiore aiuto se la nostra band fosse stata migliore». In verità non erano malvagi, ma solo funzionali a una sorta di spot alternativo della Kroq (Los Angeles alternative music radio). Sarebbero stati un po’ più rumorosi nel live, se il bassista avesse avuto lo stesso stile di Peter Hook nel guidare la melodia dei Joy Division. E se ci fosse stato anche Keanu Reeves. «Abbiamo suonato al Milwaukee Metal Fest. Ci hanno ammazzati. Il fatto è che abbiamo suonato accanto ai Murphy’s Law (belligerante leggenda hardcore-punk di New York). Immaginate. Così abbiamo suonato una cover dei Grateful Dead, al Milwaukee Metal Fest». In realtà è stato più strano di così. Hanno suonato dopo i Murphy’s Law, gli Agnostic Front e i Mentors − hardcore, thrash-punk, punk-metal − e prima dei Cannibal Corpse, Obituary, Deicide e di una band che si chiamava Cancer. Oggi Reeves non ricorda con precisione quale canzone dei Dead abbiano suonato, anche se le ricerche della set-list dei Dogstar suggeriscono che probabilmente si trattasse di New Minglewood Blues. «Noi pensavamo più o meno così: “Ci odiano. Cosa ci facciamo qui? Cosa possiamo fare? Facciamo la cover di Grateful Dead”», ricorda Reeves, ridendo. «E loro: “Vaffanculo, fate schifo”. Indossavo il sorriso più grande che avessi mai avuto sulla mia faccia». È il ragazzo indie-rock che sta invecchiando più famoso al mondo. È probabilmente l’unico attore da un miliardo di dollari ad aver elencato una volta il provocatorio gruppo noise-terror Anni 80 di Steve Albini, Big Black, tra i suoi recenti ascolti preferiti. Quando gli viene ricordato questo episodio, fa uscire un tranquillo grido da dinosauro – «raaaaaaaaaahhhhhhh» − e si mette a fare air guitar come un Ted Logan qualsiasi. Solo un po’, però. 2 0 2 / MAGGIO-GIUGNO 2019
Non ascolta più tanta musica nuova come una volta. Non si è appassionato a una nuova band da quando ha scoperto i Metz, un gruppo punk abrasivo di Toronto le cui canzoni hanno titoli come Escalator Teeth e Mess of Wires. E questo suo allontanamento un po’ lo preoccupa. «Ma una volta ogni tanto, ho quei momenti in cui bevo del whisky e tiro fuori i dischi e inizio a fare il DJ fino alle quattro del mattino». Si trova meglio in questa zona del campo. È coinvolto, e fa domande. Quando parlo di Valis di Philip K. Dick, del 1981, uno degli ultimi, più strani romanzi dell’autore di Un oscuro scrutare, ammette di non averlo letto. Poi mi fa raccontare tutta la storia del libro, presumibilmente il tentativo di Dick di elaborare attraverso la finzione una serie di esperienze quasi religiose in cui un’intelligenza extraterrestre gli ha fatto saltare il cervello con un raggio laser rosa composto di informazioni pure. È di questo che tratta la canzone dei Sonic Youth Schizophrenia. Reeves la conosce e inizia a cantarla. Poi si appunta i titoli dei libri di Dick rilevanti, da controllare più tardi. Prima di girare Belli e dannati, Gus Van Sant ha dichiarato: «Ho dato come riferimento sia a River che a Keanu il libro di John Rechy Città di notte. River Phoenix ha smesso dopo alcune pagine. Keanu Reeves lo ha letto tutto e si è procurato ogni titolo dell’autore che è riuscito a trovare. È sempre molto scrupoloso». Questo è quello che si pensa di lui quando lo si conosce davvero. «Ci sono stati momenti in cui magari parlavo di un libro, e lui all’improvviso iniziava a prendere appunti», riprende Robert Longo. «E puoi starne certo, il figlio di puttana sarà andato a leggerselo!». È impossibile non provare la tentazione di far prevalere le proprie teorie intorno a Keanu Reeves sul vero Keanu Reeves. Impossibile e infruttuoso. Ovviamente. Nel 2012 il regista Christopher Kenneally ha realizzato un documentario obiettivo e onesto su ciò che il cinema potrebbe guadagnare e perdere con la tecnologia di produzione cinematografica digitale che eclissa la pellicola. Reeves interpreta il ruolo di narratore («La pellicola è coperta da un’emulsione... I cristalli si trasformano in metallo argentato quando sono sviluppati») e di interlocutore (David Lynch, a cui Reeves chiede se ha definitivamente chiuso con la celluloide: «Non ci contare Keeann-oh»). Non è esattamente un film da
Keanu Reeves, è piuttosto un’esplorazione di come l’innovazione tecnologica plasmi l’estetica, a cui Reeves conferisce il proprio prestigio. Eppure, sembra inevitabilmente un gesto autobiografico da parte del narratore, un tentativo di Reeves di comprendere il meccanismo con cui la sua immagine è stata costruita. Per dire: c’è una clip di un bambino che gli chiede: «come sei entrato nel computer?». Poi Kenneally taglia su Reeves nei panni di Neo (Matrix), con dati liquidi che gli gocciolano giù dal braccio. In molti suoi lavori recenti tende a interpretare ruoli di cattivi, in particolare di cattivi che spingono i giovani e i vulnerabili in quella che un altro grande canadese una volta chiamava «macchina da star-maker». In The Bad Batch di Ana Lily Amirpour (2017) è un leader di culto post-apocalittico che mette al tappeto i suoi accoliti. In The Neon Demon di Nicolas Winding Refn (2016) si presenta negli incubi di Elle Fanning per violarla con un coltello. Nello scatenato blockbuster di arti marziali Man of Tai Chi, al suo debutto alla regia nel 2013, è il proprietario del cinema underground che vuole trasformare l’onorevole eroe Tiger Chen in un killer, in modo che diventi un’attrazione ancora più grande. Verso la fine del pomeriggio allo Chateau Marmont, Reeves trova un’altra zona appartata, protetta dal resto del patio da una tenda antipioggia, dove può fumare. Gli è stato chiesto se stesse cercando, in alcuni di questi progetti, di esaminare il modo in cui i media e l’industria cinematografica hanno contribuito a costruire un’idea di Keanu Reeves. Un falso sé, rispetto alla sua autentica vita. È qualcosa che sta consapevolmente cercando di fare? «Penso che si potrebbe fare in un corso di cinema», afferma. Poi ride. «Credo che non dovrei far sembrare questa affermazione così dispregiativa». Mentre lo dice è seduto su una sedia dello Chateau. La sedia è posizionata proprio sul bordo del patio, dove la pietra cede il passo allo sterrato. Una delle gambe della sedia pende nell’aria, lasciando il suo piede poggiare sul nulla. Qualcun altro in questa posizione, fumando, si sarebbe inclinato troppo all’indietro, ribaltandosi. Keanu Reeves di contro fluttua semplicemente, perfettamente bilanciato, in qualche modo seduto sulla sedia senza esserci affatto.
*L’autore di questo articolo, Alex Pappademas, è uno scrittore che vive a Los Angeles. G Q I TA L I A . I T
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Non resto da solo per senso del dovere
Il cantautore romano Daniele Silvestri, 51 anni il 18 agosto, ha pubblicato l’album La terra sotto i piedi il 3 maggio. Smoking e camicia TA G L I AT O R E
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CON LA TERRA SOTTO I PIEDI, IL DESIDERIO DI CANTARE IL PROPRIO TEMPO È TORNATO A BUSSARE ALLA PORTA DI D A N I E L E S I LV E S T R I
Foto di A N D Y M A S S A C C E S I Servizio di N I K P I R A S Testo di F E R D I N A N D O C O T U G N O
Questa intervista a Daniele Silvestri durerà esattamente il tempo della sua sigaretta rollata a mano, quella che il cantautore accende e lascia spegnere diverse volte per quasi un’ora, un gioco che lo aiuta a concentrarsi (o a distrarsi): «Anche la sigaretta ha i suoi tempi, è il bello di farsele a mano». Il tempo è un’idea che torna, nelle sue risposte: quello che gli concede l’età anagrafica, i pensieri su come sia più o meno giusto comportarsi dopo aver passato la curva dei cinquant’anni, oppure il tempo presente, che lo attira anche a dispetto dei tentativi di starne alla larga. Il tre maggio è uscito La terra sotto i piedi, nono album in carriera, anticipato da tre 45 giri tematici e da Argentovivo, la canzone sulle adolescenze guaste che aveva portato con il rapper Rancore all’ultimo Festival di Sanremo (aggiudicandosi il premio della critica e della sala stampa radio-tv). Daniele Silvestri ha i modi dell’uomo timido a cui piace parlare, alle sue condizioni e con i suoi tempi, appunto. 2 0 6 / MAGGIO-GIUGNO 2019
Dunque, se la terra è sotto i piedi, prima dove stava? Acrobati, il mio disco precedente, partiva dal fatto che mi sembrava sempre meno giustificato, a causa dell’età, quel mio costante tentativo di interpretare l’attualità, la politica, il sociale. Mi era venuto il pensiero che ci fossero altri, più giovani, che avevano più diritto di farlo rispetto a me. E poi? Mi è venuto il bisogno di tornare a occuparmene. In particolare le nuove tecnologie, e il fatto che nessuno ha un manuale di istruzioni per tutta la libertà che ci viene offerta, mi sono sembrati temi interessanti. E la decisione di anticipare l’album con tre “anacronistici” 45 giri? Dal punto di vista discografico sono nato col cd, ma non ne sono fiero, è una cosa di cui non sentirò la mancanza. Nell’era dello streaming, il vinile ti dà la gioia del possesso assoluto, che tu lo faccia suonare oppure no. Mi faceva piacere celebrarlo. Com’è la sua collezione di vinili?
Daniele Silvestri si esibisce il 25 maggio a Milano, in occasione del Wired Next Fest 2019. Il tour del nuovo album partirà da Roma il 25 ottobre. Abito e camicia E T R O , scarpe C H U R C H ’ S
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Daniele Silvestri ha partecipato al 69° Festival di Sanremo vincendo con Argentovivo il Premio della Critica Mia Martini, il Premio della Sala Stampa Lucio Dalla e il Premio Sergio Bardotti per il miglior testo. Abito T A G L I A T O R E , camicia X A C U S
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«Non credo di essere il massimo, come A M I C O . Non sono uno che tira fuori i problemi, che chiede attenzione. Quindi non sono il primo che ti viene in mente, se hai da condividere qualcosa che ti angustia»
Grandicella, ma le collezioni grosse sono un’altra cosa. La vecchia casa di Renzo Arbore è strepitosa, un museo della musica. I miei vinili stanno in una libreria in muratura nella sala giochi nel seminterrato. E com’è, la sua sala dei suoi giochi? Era un vecchio garage, al centro c’è una batteria, intorno un divano, comodo. Ogni tanto rimane qualcuno a dormire. Risalendo ci sono zona vinili e pianoforte, la grande scrivania di mia madre e un armadio pieno di altri dischi. Fabi, Gazzè, Caparezza, solo per citarne alcuni: la sua carriera è la storia di tante amicizie. Sono cresciuto con una dote o un difetto, non ho ancora deciso: sono sempre stato bene da solo, non ho mai avuto bisogno di nessuno. Sono andato verso gli altri per senso del dovere, perché non si può fare sempre da soli, e imponendomelo ne ho scoperto il piacere. Che amico è lei? Secondo me non sono il massimo. Di carattere non sono uno che tira fuori i problemi, che chiede attenzione dal punto di vista morale, psicologico, sentimentale, forse per questo nemmeno gli altri me lo chiedono. Non sono il primo che ti viene in mente, se hai da condividere qualcosa che ti angustia. Il suo ultimo compagno di strada è Manuel Agnelli. Cosa vi unisce? Manuel è uno che sa, che ha vissuto parec-
chio, con intensità, mai a caso. Ha avuto un approccio diverso al mio rispetto alla musica, ma quando ci troviamo di fronte un pianoforte diventa facilissimo capirsi. Più di quanto pensassimo entrambi. Capiterà ancora. Farebbe un tour con lui? Potrebbe essere. Ogni volta che ci incrociamo sul palco è notevole. Con Argentovivo ha cantato le adolescenze virtuali, recluse. Poi capita un quindicenne antirazzista come il Simone a Torre Maura, ben dentro il mondo. Che effetto le fa? Un moto di speranza. Come Greta, la ragazza svedese che si batte per il pianeta. Mi danno gioia questi ragazzi tosti e consapevoli che si occupano del futuro. Lo ha trasmesso ai suoi figli? Meno di quanto vorrei, ma ogni adolescente deve fare il suo percorso. Argentovivo era un modo di parlare a loro, nel dialogo tra padre e figlio sei condannato a perdere, io almeno ho le canzoni. L’ho scritta in un momento buio, ora come papà sono in una fase più luminosa. Un anno fa lei fu travolto da una bufera per le critiche via tweet a Mattarella. Cosa ne ha ricavato? Me la sono un po’ andata a cercare, perché stavo scrivendo una canzone sugli insulti social, Complimenti ignoranti. Per fortuna che in altre epoche non usavo Twitter, altrimenMAGGIO-GIUGNO 2019 / 2 1 1
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«Mi sembra sempre meno giusto cantare parole che appartengono alla veemenza tipica della G I O V E N T Ù . Ma la verità è che la cosa mi diverte ancora. Quindi continuo, finché funziona»
ti sarebbero state epopee di insulti. Comunque me ne sono pentito, non per le reazioni, ma per aver dovuto sintetizzare, a causa del mezzo, ed essermi per questo spiegato male. Si arrabbia ancora per la politica? Raramente. Le occasioni non mancano, ma rischi di farci l’abitudine. Poi qualche volta è troppo, sui porti chiusi è difficile non provare un po’ di vergogna a essere italiani. Ma vogliamo davvero parlare di politica? Faccia lei. Era facile prevedere come sarebbe andato a finire il governo, con uno dei due colori che mangia l’altro. Ho seguito la storia dei 5 stelle con tante aspettative, e anche ora vi riconosco qualcosa di unico e affascinante. Il colore giallo portava con sé belle
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speranze poi deteriorate. Lo dichiaro, io sono un veterocomunista, quindi vengo da un mondo che di arroganza in campo ne ha messa tanta, ma l’arroganza è poco giustificabile quando hai fatto della tua incompetenza in politica una bandiera. All’epoca del tweet aveva detto di aver votato Potere al Popolo... Sì, così almeno ho tolto di mezzo ogni altra ipotesi. Torniamo alla musica. In autunno parte il tour nei palasport: che rapporto ha col suo repertorio? Da tempo immemore chiudo i concerti con Cohiba, ogni volta che arrivo a quel punto penso: ma si potrà mai cambiare questa cosa? Mi sembra sempre meno giusto cantare parole che appartengono alla veemenza della gioventù. Ma il fatto è che la cosa mi diverte ancora, quindi finché funziona continuo. Per il resto, ogni volta in scaletta provo a tenermi un po’ di spazio per l’ignoto. Applica lo stesso principio anche nella vita? Sono un uomo preciso, mi piace la ripetitività. Ma in generale, specie nei viaggi, mi piace programmare le cose. Compresi gli spazi vuoti, per mettermi nella condizione di non dover sempre sapere in anticipo cosa succederà. MAGGIO-GIUGNO 2019 / 2 1 3
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