Homemade gallery #2 exhibition in Milan

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Cari ospiti, in questa nuova iniziativa di Homemade gallery, l’arte si trasferisce in un contesto più moderno e spoglio, in un loft che si trasforma in occasione di questo evento in un’alternativa al White Cube, per ospitare la produzione di sette artisti dallo sguar do volto al futuro. Siamo lieti di presentarvi This is not an error, la mostra collettiva sui nuovi terreni della glitch art. Ma prima di parlarvi della mostra, vorremmo porvi delle domande. Qual è il vostro rapporto con la tecnologia? Cosa ne pensate dell’arte digitale? Vi siete mai imbattuti nella glitch art prima d’ora? Se sì, con che forme e linguaggi vi siete scontrati? In caso negativo, quali sono le vostre aspettative? This is not an error prende queste domande come punto di partenza, col presupposto di indagare sulle molteplici possibilità e modalità in cui la glitch art si manifesta, portando alla luce le sperim entazioni avvenute e in corso di questo linguaggio dirompente e altrett anto mutevole dell’era digitale. Per chi non fosse famigliare col termine “glitch”, fu usato per la prima volta nel 1962 per indicare i cambiamenti di tensio ne in una corrente elettrica e altri errori analoghi. Oggi, è proprio l’error e a essere il soggetto centrale di questa forma d’arte e della presente mostr a, manifestandosi in frastagliamenti, emittenze e distorsioni, di cui l’imperfezione non richiede correzione, ma si trasforma bensì in determ inata suggestione. Il rumore, sia nel suono che nelle immagini, non si presenta nella sua connotazione negativa, anzi assume la funzio ne di ridefinire il suo opposto: il senso, la norma, la bellezza e l’ordine. E si creano così, attraverso le manipolazioni di sistemi e proge ttazioni di errori, nuove opportunità acustiche e visive, nuova energ ia che disintegra il discorso tradizionale attorno ai media e alla tecno logia, dando vita a esplorazioni estetiche e concettuali che stanno ridefin endo un’intera realtà sensoriale. Riteniamo che ridurre il fenomeno della glitch art a un discorso puramente estetico, condivisibile o meno, sia limitante, inadeguato, e persino sbagliato. Il glitch si basa su un ciclo di distruzione e creazione, dalla frattura di un protoc ollo o sistema esistente, alla generazione di uno nuovo. Si tratta quindi di capire il codice dietro stante e distruggere le gerarchie dei sistemi di assemblaggio, che spesso hanno radici ideologiche, per poi creare un nuovo ordine con nuove regole del gioco. Pertanto, la glitch art consis te in una sperimentazione linguistica con implicazioni sociali che mette in discussione la cognizione di sé in rappo rto al virtuale. Ed è soltanto attraverso la considerazione estetica, processuale e concettuale, che giungerete alla piena comprensio ne della rilevanza di questo movimento artistico. La mostra intende mettere voi, cari ospiti, al centro di questo terreno sperimentale, in pieno contatto con le avanguardie dell’ignoto, dove non sarete semplici osservatori, ma esploratori virtua li, attivatori di processi creativi e generativi, e soprattutto, indagatori del proprio rapporto con l’arte e la tecnologia, un rapporto che ha il potenziale di diveni re persino intimo tramite la trasparenza dei meccanismi intrinseci e fallaci del computer. Ha inizio un nuovo viaggio, radicalmente diverso dal precedente, ma non per questo meno straordinario. Cari ospiti, siete benvenuti in casa.


Artisti: Domenico Barra Calembour Marco Cadioli Cimeviola Flavio Scutti Salvatore Delle Femmine e Pink Elephant

A cura di: Anny Wu Direzione creativa: Giacomo Piloni


D O M Virology 2016


B A R R A www.dombarra.tumblr.com


Dom Barra Domenico Barra

Sette anni fa avevi cominciato ad avvicinarti alle arti visive in Inghilterra, arrivando oggi al mondo della glitch art. Quali sono state le esperienze più significative del tuo studio e soggiorno all’estero? Quali invece le spinte e le motivazioni che ti hanno portato qui? L’esperienza del College è stata molto importante. Non avendo avuto un’educazione artistica prima di allora (ho un diploma di Tecnico Commerciale), la mia educazione al Leeds College of Art mi ha permesso di sperimentare e osare al di là delle regole e classiche tecniche di produzione artistica. Ci spingevano con “break the rules”, e per me è stato fondamentale avendo una cultura e filosofia molto DIY. Di grandissima ispirazione sono stati i lavori e le tecniche di Stan Brakhage, che mi ha portato ad esplorare quel tipo di approccio che passa dalla pellicola fotografica e video ai file format per immagini e video digitali, e di conseguenza alla glitch art. A questo si aggiunge il fatto di esser stato molto fortunato a condividere la casa con altri artisti, in particolare musicisti, e la common area di casa nostra è stata un crocevia quotidiano di molti altri creativi. La glitch art, nonostante sia un fenomeno artistico che ha preso avvio già da tempo, sembra non trovare spazio sufficiente qui in Italia, sia a livello mediatico che espositivo. Quali sono le differenze, se presenti, nell’attitudine delle istituzioni, gallerie e pubblico che hai avuto modo di riscontrare all’estero e in Italia? In Italia non credo sia un problema che riguarda esclusivamente la Glitch Art, noto che anche altre correnti artistiche non convenzionali sembrano avere qualche problema, non solo nella scena della visual art ma anche della musica. Forse dovremmo osare e sperimentare di più, ma soprattutto lasciare più spazio agli artisti italiani e a quelli che producono sul nostro territorio, il che dovrebbe essere un compito delle istituzioni culturali pubbliche, se ancora di pubblico possiamo parlare. Attualmente sono a Chicago e noto con grande piacere che al Museo di arte contemporanea viene data precedenza alla scena artistica locale in tutte le sue forme. Questo perché rappresenta l’identità artistica del posto ed è quello che i visitatori stranieri, e non solo, vogliono vedere. Per questo credo dobbiamo capire meglio quali sono le reali e sostenibili opportunità e lavorare per quello, e forse rinunciare ai grandi eventi di vetrina e fascino. Mi spiego con questo esempio. Anni fa facevo parte del collettivo URTO, formato da artisti, critici, scrittori e creativi vari napoletani e non solo, che occupò in modo “formale” il Palazzo delle Arti Napoli, il PAN. Ricordo che mentre fumavo una sigaretta all’entrata del Palazzo arrivò un gruppo di turisti giapponesi. In quel periodo al PAN c’era il grande e attesissimo evento della mostra fotografica di Stanley Kubrick. Il gruppo di turisti entrò ed uscì in due secondi, non erano interessati alla mostra di Kubrick, e uno di loro mi chiese perché non ci fossero in esposizione opere di artisti napoletani. Loro volevano vedere quello, volevano vedere cosa si produce artisticamente nel contemporaneo a Napoli, qual è lo stato dell’arte locale. Quell’episodio mi fece riflettere tanto. Le tue opere si collocano tra il piacere e il disturbo, ovvero nell’erotico delle immagini e nel frastagliamento visivo. Sessualità, ma anche confusione, caos e anarchia, rendono il tuo stile “old school”, se così si può definire, fortemente provocatorio e altresì riconoscibile. Come si è evoluta la tua ricerca stilistica nel corso degli anni? Quali sono le motivazioni dietro alle tue scelte tematiche? Tutto ha avuto inizio ai tempi delle scuole medie dove per aiutare me stesso e i miei compagni a esplorare la sessualità iniziai, insieme ad un amico, a produrre copie di giornaletti per adulti grazie all’uso di una macchina fotocopiatrice. Alcune venivano dal giornale TeleTutto, le immagini non erano a colori e tantomeno perfette, ma le copie avevano l’odore di piaceri vietati e rubati. Ricordo che avevamo anche un fornitore che ci passava del materiale, e che poi fu beccato dalla guardia di finanza. C’era un vero e proprio circuito di dealers per il porno e noi


eravamo dei pirate porno material sellers. Durante quegli anni iniziai a conoscere il fenomeno della pirateria, distribuzione e copie illegali, e quindi anche del copyright. M’interessai particolarmente al DIY tecnologico e alla scena hackers, e successivamente anche alla viralità e la definizione di una nuova estetica attraverso la glitch art. Mi incuriosisce conoscere come è cambiata la scena, ai nuovi linguaggi e canali del porno online. Il lavoro di Lasse Braun mi ha ispirato molto e, associato alla ricerca artistica e sperimentale di Stan Brakhage, è stato una perfetta combinazione per la mia iniziazione al dirty new media art. Credo che la pornografia, anche se super diffusa ed accessibile, stia vivendo un momento buio con film di scarsa qualità e monotonia, ambienti professionali ostili, e una scena ancora troppo misogina. A questo si aggiunge il fatto che alla maggior parte delle persone crea più disturbo e rifiuto una scena di sesso anale in un film porno che una testa mozzata in un film di “azione”. Si è sempre cercato di reprimere il sesso mentre la violenza è sempre in azione. Uno degli obiettivi dei miei lavori sta anche nel tornare a parlare di sesso in modo creativo, affrontare il tema da un punto di vista culturale, storico e sociale, imparare a non vergognarsi delle proprie fantasie e riuscire anche a meglio comunicarle in modo più libero e cosciente. Step fondamentale per tutto quello che faccio è stato lavorare con jonCates e Shawné Michaelain Holloway al progetto http://dirtynewmedia.tumblr.com, sposare a pieno la dirty new media mentality mi ha portato a dedicarmi a pieno a questo settore e sviluppare progetti con un focus principale ma non esclusivo sul porno e la sessualità espressa online. Qui esposta alla mostra, c’è la tua opera inedita Virology, un databeding remix delle grafiche dei payloads di vari malwares. Infezioni virali come i computer virus, trojan horses e email worms creano interferenze e disturbi alternanti, che si susseguono tramite uno scroll della pagina web. La tua ricerca e le tue sperimentazioni sembrano portare alla luce le pestilenze digitali, affiancate da spiegazioni esaustive, soprattutto sugli effetti e i danni che tali malfunzionamenti hanno recato e ancora recano agli user. In che misura si potrebbe definirti un patologo, e in quale altra artista? Credo che oggigiorno un user medio di internet, come io negli anni 90, sia totalmente immerso nella rete ma non abbastanza informato per godere a pieno di questo mondo. I malware sono un grosso problema, specialmente perché sono cambiati i loro creatori. In passato, chi programmava computer virus voleva che la persona infetta sapesse che era stato colpito, erano, se vogliamo, più creativi e artistici. Invece adesso sono più silenziosi e l’entità dei danni e la loro diffusione sono cambiati. Oggi sono lì per spiarti o per estorcerti dei soldi, come i famosi, ed attualmente diffusissimi, Ransomware. L’idea di realizzare questo progetto, Virology, non è molto lontana dall’esperienza legata alla produzione di porn dirty new media. Ai tempi della produzione di materiale pirata alle scuole, durante il download di un film beccai un virus sul mio computer che lo rese inutilizzabile dopo aver aperto un infinito numero di finestre. Cercai di cliccare di tutto per aprire e chiudere queste fino a quando si è spento, senza più riaccendersi. Nonostante il danno e la rabbia, rimasi affascinato da quell’evento, c’era del genio, seppure malevole, dietro quel virus. Attraverso questo progetto, spero di fare dell’informazione, e d’incuriosire le persone ad essere più prudenti, e credo che in tutto ciò la veste di patologo e artista siano una cosa sola perché l’arte, attraverso la ricerca e la creatività, serve ad informare e quindi prevenire, a incantare e quindi possibilmente curare. Questa è #DNMVT >>> Dirty New Media Virology Therapy. Fate attenzione ai malware, siate navigatori più informati, coscienti e prudenti.


Le opere glitch si potrebbero forse suddividere in due macro categorie, quelle più estetiche e quelle più concettuali, tra quest’ultime sono presenti anche lavori da una forte impronta critica contemporanea. Qual è la fruizione che immagini per le tue opere? Quale, invece, la risonanza artistica e forse anche storica, del tuo lavoro sulla sfera sociale? L’obbiettivo principale è quello di far venire fuori, mettere a nudo, la vera natura di questi nuovi devices, nel mio caso i format digitali per immagini e video. Esplorare attraverso i software altre possibilità per la creazione di nuove immagini, accostamenti di colore e nuove forme e movimenti. Rifiutare, allo stesso tempo, il concetto di “passive user” e diventare più coscienti anche della natura politica e della struttura di queste macchine delle quali non riusciamo più a fare a meno, il che non è un male, però servirebbe capire anche come funzionano ed entrarne in possesso, non solo nel senso materialistico e passivo ma anche informativo e attivo. Spesso i software, computer e tablet, giusto per citare quelli più comuni, vengono programmati per raggiungere un predeterminato risultato, spesso uno standard, prevedibile e comandato, limitando la creatività e l’azione dell’utente. Il ruolo più importante del glitch artist è di rendere, attraverso il suo lavoro e ricerca, queste macchine chiuse ed imballate in un libro aperto. In questo senso, la glitch art non è solo un effetto e forma visiva, serve ad esprimere la vulnerabilità e l’imprevedibilità di queste macchine, sistemi e format ma anche a scoprirne le potenzialità, assecondare gli imprevisti e ispirare nuove opportunità e canali per andare aldilà di vecchie certezze, deboli convinzioni, limitate possibilità e rigidi strutture. Spero che le mie immagini, dopo aver colpito l’occhio, riescano anche a spingere il pubblico a chiedersi: c’è stato un cambiamento, com’è avvenuto? Come posso evitarlo o controllarlo e fino a che punto? E come lo possiamo sfruttare a nostro vantaggio? Spero che chi guarda l’immagine e il rumore, affascinato o disturbato, si domandi cosa abbia generato questo kaos e se piace, da cosa deriva il piacere nonostante la sua bellezza sia così diversa dai canoni stilistici dei mass media, di natura commerciale e di estetica della perfezione. Se non esploriamo, se non osiamo, se restiamo sempre operativi nelle funzionalità che ci vengono imposte non lo sapremo mai. Considerando la scena artistica attuale in Italia, cosa pensi andrebbe cambiato per poter accogliere maggiormente le avanguardie digitali? In che direzione si muoverà la tua arte nel prossimo futuro? Credo che questa generazione, e di sicuro anche le prossime, sia una generazione di creativi, soprattutto grazie alla diffusione delle nuove tecnologie che adesso sono accessibili a tutti, ma non abbiamo il supporto né la disponibilità di spazi per permettere a molti, non dico tutti, di esprimersi e creare una cultura contemporanea italiana. Spesso mi capita di sentire che gli italiani non sono pronti per un certo tipo di linguaggio, o che a noi non piace quel tipo d’arte. Non è per niente vero. Alcuni anni fa, presso lo spazio privato di SUDLAB in provincia di Napoli, organizzammo una mostra di glitch art, Tactical Glitches, curata da Rosa Menkman e Nick Briz con la mia collaborazione. Ottenne un gran successo. I visitatori ne furono entusiasti perché avevano visto un linguaggio diverso, nuovo, originale e tecnico, ma espresso attraverso dei new media che tutti utilizziamo nel quotidiano come iPad, Kindles o video games. Nelle settimane seguenti, un docente dell’Accademia di Belle Arti di Napoli portò gli studenti di pittura a vedere la mostra. Un confronto fondamentale per la loro formazione poiché la visita servì a contaminare la loro ricerca artistica. Molti mi chiesero se dopo gli studi fosse stato meglio trasferirsi a Londra o a Berlino. A parer mio è una follia creare una realtà che allontana i propri talenti. Dobbiamo totalmente cambiare il modo di fare le cose perché ci sono quelli che vogliono restare e credo che ne abbiano il diritto. Il sostegno di spazi indipendenti e anche privati potrebbe essere la chiave di accesso. A causa di questi limiti, ho avuto dei grossi problemi qualche anno fa. I lavori che produco hanno bisogno di schermi, proiettori e vari dispositivi digitali, e molte volte non riuscivo a partecipare ad alcuni eventi perché gli spazi ne erano totalmente sprovvisti. Adesso però è un problema minore perché produco dalla rete, nella rete


e per la rete e riesco a lavorare bene, anche molto fuori dall’Italia, quindi mi ritengo fortunato e soddisfatto. Tuttavia, vorrei che chi decide di stare qui possa creare la realtà e la scena artistica locale e nazionale sul territorio, rendere gli spazi più accessibili, per i glitch artists italiani e non, perché non tutti, come me, sono internet maniac :-D. Spazi e posizioni più accessibili a tutti con connessioni ad internet più veloci. Internet ci salverà! Ci vediamo online!


C A L E Calembour è un duo di artiste, Giorgia Petri e Laura Migliano, che lavora nel campo della new media art e delle arti visive, e ricerca il punto d’incontro tra natura, essere umano e tecnologia nell’ambito dell’installazione interattiva.

Waveform 2016


M B O U R

www.calembour.org


Calembour

Calembour, un termine francese che indica un gioco di parole, nasce come un duo di artiste, Giorgia e Laura, ognuno con background e competenze molto differenti ma altrettanto complementari. Vi collocate a metà strada tra due poli estremi, l’individualità e la collettività. Come ha avuto inizio la vostra collaborazione, e come si è evoluta nel tempo? Ci siamo incontrate in Accademia [Brera], venivamo da percorsi lontani dal mondo dell’arte tout court: io venivo da una formazione filosofica e Giorgia aveva studiato ingegneria aerospaziale. Ma l’arte è sempre stata presente e il passaggio all’Accademia in tal senso è stato naturale. Abbiamo iniziato a conoscerci in termini operativi a partire dagli esami, spesso studiati e progettati assieme, poi il grosso della collaborazione è arrivato per il progetto di tesi. Da lì nasce Calembour, un gioco appunto. Effettivamente sin da subito c’è stata una forte sintonia nei contenuti e nell’estetica, così come nell’ambito di interesse e di approfondimento. Eppure dici bene, credo che le cose funzionino soprattutto perché, più che individualità e collettività, dividiamo nettamente i momenti di approfondimento personale da quelli di azione in comune. Così è tutt’ora. Come molti altri movimenti artistici, la glitch art possiede delle caratteristiche e dei criteri molto specifici che la rendono un fenomeno altamente distintivo. Nonostante questo movimento abbia un’esistenza propria e ben definita, la dimensione sociale e di confronto che contraddistingueva le correnti passate sembra essersi dissolta nel tempo, lasciando spazio a un scenario più individuale e isolato. Quali sono i vostri pensieri a riguardo? Non abbiamo una lunga carriera quindi non parliamo certo per esperienza, anche se tutto evolve rapidamente come sappiamo. Ad ogni modo da un po’ di anni sembra esserci un cambio di verso a nostro avviso: la glitch art, o il glitch, ha vissuto il proprio apogeo tra gli anni novanta e i primi duemila. Il glitch che continua a vivere oggi come un fatto estetico interessante deriva la sua ragion d’essere dalla mistura tra elementi artistici differenti, o dall’incontro di percorsi differenti, o nella giunzione di linguaggi diversi. Intendiamo dire che ciò che oggi è interessante del glitch è strettamente connesso all’incontro, sia artistico-personale sia in termini di software cultures. Il glitch era lato hardware, ora è soprattutto una qualifica, una modalità dei software esistenti. È diventata un attributo estetico del software, questo passaggio la rende necessariamente legata, nella sua fattispecie, ad altro. In molte opere, più recenti e meno, sembra esserci un particolare fascino ed attenzione verso l’elemento dell’acqua, come in Urus, Shizen no koe e Waveform. Voi stesse avevate citato, in un precedente incontro, il capolavoro The Chemical Basis of Morphogenesis di Alan Turing, che fece uno studio scientifico su come pattern naturali possano emergere spontaneamente da uno stato uniforme ed omogeneo. Cosa vi spinge a riunire la scienza, la tecnologia e l’arte nelle vostre opere? E quali sono gli aspetti di questa fantastica unione che intendete portare alla luce? Il legame tra le tre discipline non è certo un terreno di nostra proprietà. Tuttavia il mondo e il tempo in cui viviamo ci scaraventano continuamente nella dimensione della simulazione e questo tendenzialmente rischia di scollegare l’essere umano dalla sua natura corporea e naturale, specie nei nativi digitali. Quello che a noi interessa è mettere in luce al contrario quanto la tecnologia e il digitale in particolare non siano un fatto a parte, ma siano un sistema molto simile per funzionamento e struttura a quello naturale: per questa ragione i lavori che facciamo sono tendenzialmente generativi e si confrontano con algoritmi naturali, con strutture e funzionamenti microscopici, con la correlazione tra il micro e il macro. Il problema vero della tecnologia riguarda i suoi componenti, lo smaltimento e il riutilizzo, materia che ancora non pare interessare alcun governo al mondo. Questa è la grossa crepa tra natura e tecnologia.


L’opera Waveform qui esposta presenta una serie di immagini manipolate e distorte di una stessa onda, dai cromatismi dal texture carnale che ricordano in particolare i tessuti muscolari, una colorazione appartenente alla New Aesthetic, artificiale ma sensuale, carica di suggestione e magnetismo. Come descrivereste in breve il processo creativo? Quali le aspettative iniziali, e quali i risultati finali? Questo è un lavoro in serie, che affonda le proprie radici formali nell’unione tra la glitch music e il glitch visivo, comunque legato al richiamo dell’acqua e della natura. Abbiamo unito l’immagine statica di un’onda, attraverso un software, all’interazione con suoni, man mano più distorti: la modulazione dell’immagine dell’onda provocata quindi da onde “musicali”. Così le due rappresentazioni di onda si sono fuse in modo sorprendente. Più distorcevamo il suono, più l’immagine dell’onda si smembrava e diventava irriconoscibile, a tal punto da essere solo linee. L’ultima distorsione sonora, dopo le linee, quando oramai pensavamo di vedere solo rumore visivo, ha invece creato una nuova onda, del tutto dissimile a quella originaria del mare, ma perfettamente e armonicamente “ondulata”. Anche qui l’interesse, oltre che concettuale, è fondato sulle particelle primitive: il pixel da un lato e l’onda sonora dall’altro. Nel corso degli anni, avete avuto modo di esporre in diversi contesti, dagli spazi più istituzionali a quelli più alternativi, mantenendo in ogni caso una coerenza e integrità della vostra identità. Quali sono gli aspetti, o meglio i valori, di una collaborazione che più vi interessano? Quali le sorprese più inaspettate, e quali le delusioni o rinunce che hanno lasciato un segno nel vostro percorso professionale e di crescita? Crediamo sinceramente che ci sia una profonda urgenza di condividere le proprie visioni, non solo tra di noi. Anzi noi siamo parte e, se vogliamo, anche il frutto di questa singolare lungimiranza collettiva. Siamo nate condividendo le nostre singolarità, la nostra prima uscita pubblica è stata un live nel quale Flavio Scutti e Tonylight ci hanno coinvolte, tutte le cose belle che ci sono successe sono nate dalla condivisione. La comunità lavorativa in generale (non in termini politici), e artistica nello specifico, vive un momento se non eccellente, ma molto buono proprio in virtù di questa apertura, finalmente. Il prefisso co- riguarda le migliori intuizioni in circolazione. Tornando alla domanda, gli aspetti più interessanti di una collaborazione riguardano essenzialmente il piano umano, la volontà di intercedere l’altro mantenendo un proprio linguaggio espressivo. Ma soprattutto l’idea che così facendo, si possa essere parte di un ingranaggio basato su questo meccanismo, che volente o nolente, sta cambiando anche il sistema economico dell’arte, quello classico, decisamente meno vivace delle esperienze autorganizzate e orizzontali. Alla seconda domanda è difficile rispondere, più che delusioni sono prese d’atto. Parliamo in termini lavorativi, non umani. Qui alla mostra, sono presenti artisti di diverse generazioni, ciascuno portando con sé esperienze ed eredità di una storia artistica ormai passata, ma pur sempre dotati di una capacità d’innovazione continuativa e non indifferente. Dal vostro punto di vista, che trasformazione hanno subito i movimenti predecessori della glitch art per arrivare ad oggi? Qual è il vostro ruolo in questa evoluzione senza fine? I movimenti predecessori della glitch art non sapremmo inquadrarli nettamente. Predecessore della glitch art può essere tutta l’evoluzione dell’arte, nella quale un bug di qualunque tipo ha portato a nuove forme espressive. In Glitch Studies Manifesto, Rosa Menkman cita alcuni lavori di Len Lye, di Nam June Paik e di Cory Arcangel come precursori del glitch. È chiaro che la differenza con le belle arti consiste nel lato macchina. Il glitch è strettamente legato alle tecnologie del Novecento, alle aspettative e alla sperimentazione legata ai primi pc, le tv, alla nascita degli hacker e dei cracker, alla contrapposizione al potere delle macchine ecc. In questa prospettiva, crediamo che la sua evoluzione sia, come dicevamo prima, essenzialmente e intrinsecamente legata al mutamento del rapporto con la tecnologia e di riflesso dell’estetica


e dell’incremento e diffusione dei software. Il glitch oggi è un linguaggio ben decodificato, addomesticato, difficilmente rimanda ad un atteggiamento punk nei confronti della macchina, anche se in molti ancora subiscono quel tipo di fascinazione. Noi dove ci collochiamo? Non sicuramente in un settore preciso dell’arte contemporanea. E non per differenziazione superba, è che è una questione di “specifiche tecniche”. Il merito della tecnologia e il bello dell’operare con essa sta proprio nell’apertura dei confini disciplinari o settoriali. Sarebbe sciocco limitarsi a una corrente o a un campo e non approfondire più ramificazioni possibili.



Marco Cadioli è un artista e professore che esplora da un punto di vista estetico le nuove frontiere del digital media e dei mondi virtuali attraverso viaggi online e rappresentazioni che stravolgono le mappe e le funzioni del globo.

Serie PROTO 2015

C


M A R C O A D I O L I

www.marcocadioli.com www.marcocadioli.tumblr.com


Marco Cadioli

La tua produzione artistica precedente appartiene alla Net Art, caratterizzata da esplorazioni su Google Earth o viaggi virtuali in videogame, in cui tramite l’avatar “Marco Manray” ti sei immedesimato in un net reporter di scenari in Second Life. Mentre in questi ultimi tempi, appare che tu abbia spostato la tua ricerca verso il mondo della glitch art. Si tratta di un abbandono di un campo per esplorare un altro, o forse più una continuazione della tua ricerca e sperimentazione artistica? Non si tratta di un abbandono, la serie degli Abstract Journeys all’interno di Google Earth è ancora aperta e in corso. Sto sviluppando alcuni lavori in parallelo, tra questi la serie dei videoloop di PROTO e alcune serie di gif nella quali utilizzo il segno del glitch. Il meccanismo di mandare in errore i sistemi per trasformarli in qualcos’altro era già presente nel mio lavoro, ad esempio in Google error, del 2012, in cui sfrutto un errore del rendering per trasformare Google Earth in un generatore di immagini optical. Questi nuovi lavori sono svincolati dai mondi virtuali dove spesso ho lavorato e si concentrano maggiormente sulla ricerca formale, sono diversi ma li vivo in continuità con il mio percorso. Hai esplorato il mondo dell’arte digitale a lungo, e ciò traspare dalla tua ampia produzione che spazia in diversi generi con diversi stili, quasi come un’impollinazione più che contaminazione, testando diversi terreni d’avanguardia. Come definiresti il tuo contributo all’arte: fertilizzante, indagatorio, sempre in transito? È vero, ci sono diversi generi e stili nel mio percorso, ho utilizzato piattaforme diverse con risultati estetici anche disomogenei. È stato abbastanza caratteristico nella Net Art il muoversi tra progetti diversi, affrontare tematiche in continua evoluzione, sperimentare soluzioni e stressare i sistemi che si sono sviluppati in questi anni. Si è sempre in transito, o meglio in transizione, mentre si vivono anni di velocissime trasformazioni come sono stati questi. Pensa alle infinite differenze tra i primi anni della rete e il periodo post social media, e questo porta anche a trasformazioni nell’arte che esplora i nuovi media. Quindi, per rispondere alla tua domanda, direi un atteggiamento indagatore, se intendi di sperimentazione, e in continuo movimento. Mi piacerebbe pensare che il ruolo degli artisti sia stato anche di fertilizzazione rispetto ai media nati in questi anni, ma non credo sia andata proprio così. Il denominatore comune in molte tue opere è probabilmente la rappresentazione paesaggistica, attraverso la lente d’ingrandimento che è la tecnologia porti in primo piano sfondi e trame che altrimenti risulterebbero invisibili, o almeno diversamente percettibili. Che ruolo gioca la prospettiva nei tuoi lavori? Immagino tu faccia riferimento alla serie degli Abstract Journeys dove fotografo la terra vista dal satellite di Google Earth. In quei lavori utilizzo una visione perfettamente azimutale che annulla la prospettiva e trasforma la visione del mondo in superfici piatte. Questo punto di vista inusuale e solitamente impossibile, ci fa percepire gli elementi sulla superfice della terra quasi come segni pittorici autonomi, svincolati dalla rappresentazione del mondo reale. Con questo spostamento del punto di vista, e attraverso i soggetti scelti, metto in evidenza elementi nuovi del paesaggio, forme geometriche rigorose, composizioni astratte, segni lasciati nei campi coltivati che mostrano come la natura venga rimodellata sulla logica del software attraverso processi produttivi automatizzati. La serie Proto qui esposta, riunisce quattro opere in 3D, evolutive e di natura architettonica. Sono presenti elementi glitch in varie forme e colori, si notano in particolare pattern stilistici e schematici che creano nell’insieme un’estetica concisa, coerente e d’impatto. Si presenta come un’esplorazione visiva, molto diversa dalle opere precedenti, ma non per questo meno rilevante. Cosa ti ha ispirato a creare tali strutture di cui gli interni e gli esterni si mescolano in un gioco dinamico mai banale? Quali sono gli aspetti linguistici e processuali che hai voluto sperimentare qui? La parola PROTO indica l’inizio di una nuova situazione, lo stadio iniziale di un’evoluzione. Dobbiamo cominciare a sentirci PROTO di un futuro che sta arrivando e in parte è già qui,


piuttosto che sentirci POST-qualcosa e rimanere legati al passato. Nei videoloop della serie PROTO ci sono forme non ancora definite, modelli 3D che si costruiscono e decostruiscono costantemente come alla ricerca di una possibile evoluzione in una forma stabile. Esistono come oggetti autonomi, non hanno un referente reale anche se contengono texture naturali e materiali, e le trasformazioni sono date dall’uso improprio di un semplice software di modellazione 3D sfruttando gli errori che produce. Ne escono composizioni ambigue in bilico tra la percezione di figure bidimensionli e solidi 3D, un gioco grafico complesso che controllo solo parzialmente, dove le texture collassano in un magma digitale instabile e irrequieto. In PROTO_MacPaint, in particolare, sono mappate le texture originali della prima versione di Paint del 1984. Sono semplici retini in b/n, PROTO texture rispetto alle sofisticate superfici degli ambienti iperrealistici generati oggi in 3D. Essendo uno dei primi esponenti delle avanguardie digitali a Milano e in Italia, quali sono stati i cambiamenti e le evoluzioni che hai potuto assistere e testimoniare? Secondo te, di che supporti, strutture e anche canali dovrebbero fare riferimento gli artisti di oggigiorno per affermare le proprie innovazioni artistiche che stanno tentando di aprire una nuova era visiva? Milano, e l’Italia in generale, non sono stati un terreno particolarmente ricettivo per l’arte digitale. Molti artisti italiani hanno lasciato l’Italia e lavorano oggi con istituti e gallerie estere. Un riflesso di questa situazione è evidente nella costante assenza di artisti italiani, con qualche rara eccezione, nelle mostre internazionali. Eppure ci sono state in questi anni esperienze forti, che hanno prodotto contributi rilevanti a livello internazionale sia tra gli artisti, sia sul piano curatoriale, sia come riflessioni teoriche ed esperienze editoriali. Sarebbe importante avere delle Istituzioni in grado di storicizzare queste esperienze, ma anche di farle conoscere ai giovani artisti per non ricominciare sempre da capo. In termini di offerta, sembra esserci un irrefrenabile pullulare di nuovi artisti coinvolti nel new media, ma dal lato della domanda, almeno in Italia, il pubblico sembra essere apatico dinanzi a tali proposte. Credi serva una maggiore sensibilizzazione dello spettatore? Se sì, come dovrebbe avvenire quest’operazione? Sì, in effetti è un paradosso. Siamo tutti coinvolti e immersi nella rivoluzione digitale in corso eppure non diamo spazio a quegli artisti che cercano di capire e interpretare questi fenomeni. In Tumblr c’è un flusso continuo di nuove immagini di artisti digitali, e in rete ci sono davvero nuove estetiche e artisti interessanti. Però li vediamo raramente nelle fiere e nelle gallerie e restano spesso esperienze per pochi, in questo senso una sensibilizzazione e maggior conoscenza sarebbe utile. Credo che iniziative indipendenti come la vostra possano funzionare, e anche le aggregazioni tra artisti per progetti indipendenti. Ma credo sia il momento di avere proposte anche su un piano Istituzionale. Nella mia esperienza come docente faccio vedere continuamente opere di artisti legati ai new media, e posso garantirti che c’è un crescente interesse tra gli studenti. Scoprono un’arte che parla di fenomeni su Youtube, di Instagram, del nostro rapporto con la tecnologia, della costruzione di un’immagine di sé attraverso i social, dei rischi connessi. Un’arte che si sviluppa nei videogame, in Street View, che esplora il deep web, che sovverte il sistema dei media, un’arte insomma che pone una riflessione su molte tematiche che i giovani vivono quotidianamente.


VGAAGD 2016


Cimeviola è un graphic designer e artista appassionato di programmazione e arte generativa e alla costante ricerca di nuove forme espressive.

www.cimeviola.com


Cimeviola

Ti discosti dall’essere un artista, definendoti invece un artigiano. È interessante poiché la tecnologia è inevitabilmente intrinseca a tutta le tue creazioni. Che definizione daresti alla manualità e all’artigianalità, e in quali aspetti del processo ne fai ricorso? Opterei per interpretare la parola “artigiano” in senso lato, ossia come una persona dotata di conoscenze e mezzi adatti, o meglio, sufficienti alla trasformazione di una materia prima. Le mie materie prime sono immagini, testo, materiali di recupero e nel caso della glitch art un flusso di dati grezzo. Non mi definisco un artista anche perché nella produzione seguo un metodo più vicino a quello sperimentale piuttosto che passionale o emotivo. Costruisco modelli e spesso mi impongo delle regole, come ad esempio l’utilizzo di due soli colori, l’assenza di linee orizzontali, un solo font ecc. Non nego che qualcuno possa leggere queste imposizioni come un esercizio di stile ma cerco di adottare scelte sempre coerenti al progetto e al messaggio da veicolare. La manualità entra in gioco soprattutto in fase di progettazione quando ad esempio vi sono delle strutture da ideare, siano queste libri, circuiti elettrici, stencil o altro. È difficile trovare un filo conduttore nella tua produzione, poiché le tue opere sono altamente sperimentali e si riversano in molti linguaggi e discipline. Come definiresti la continuità nella tua ricerca artistica? E come sei giunto alla glitch art? Mi piace apprendere nuove tecniche e sperimentarle senza conoscere a pieno le metodologie così da trovare strade inesplorate e magari improprie. Penso che un filo conduttore possa essere la serendipità, ovvero la scoperta di un qualcosa mentre si sta cercando altro e la glitch art è serendipità allo stato puro perché enfatizza l’errore che per definizione è inatteso. Ho scoperto la glitch art ai tempi dell’università, a dire il vero ai tempi non sapevo fosse già stata classificata, effettuando scansioni da utilizzare per dei manifesti con uno scanner malfunzionante. Stavo facendo nottata e la mattina seguente avrei dovuto consegnare il lavoro, non avevo tempo per procurarmi un altro scanner e utilizzai ugualmente le immagini “glitchate“. L’esame andò bene e molti mi chiesero quali effetti di Photoshop avessi usato. L’opera qui esposta, VGAAGD, è altamente interattiva poiché il risultato si genera solamente attraverso l’azione degli spettatori. Si tratta quindi anche di capire e studiare il comportamento umano, attivare dei meccanismi mentali attraverso il “gioco”. Com’è nata l’idea e quali le tue aspettative sul riscontro da parte del pubblico? L’idea è nata cercando soluzioni che non prevedessero l’utilizzo di un computer e videoproiettore per fare dei visual durante liveset musicali, la mia intenzione era quella di costruire una sorta di mixer video dalla quale controllare i colori e le interferenze di vecchi monitor a tubo catodico. La scelta è caduta sui vecchi monitor perché si prestano meglio a questo scopo: sono a buon mercato e il connettore VGA permette di avere ingressi e uscite separate per la gestione dei canali colore e sincronia orizzontale e verticale. Per il controllo dei vari parametri ho poi utilizzato semplici interruttori e potenziometri. Penso che quest’opera sia molto “punk”, non ho prestato intenzionalmente molta attenzione alla presentazione favorendo invece l’aspetto modulare, infatti ogni volta che la monto ottengo risultati diversi. Chi è affine ai synth modulari, i visual o i videogiochi, penso possa trovare l’opera molto interessante.


Sempre in riferimento alla domanda precedente, qual è il tuo rapporto come artista con la tecnologia? E quali i tuoi pensieri sul rapporto degli user, e soprattutto i ricettori dell’arte digitale di oggigiorno? L’arte ha da sempre avuto uno scopo didattico e il rapporto con la scienza e la tecnologia è pressoché inscindibile, basti pensare allo studio del corpo umano, alla prospettiva, alla cinematica o allo studio della luce, ma anche alla psicologia e altre scienze umanistiche. Potrei affermare in modo provocatorio che non trovo differenza tra un pennello e un algoritmo o tra uno scalpello e un programma di modellazione cad, ciò che dà valore aggiunto all’opera è l’approccio a questi nuovi strumenti di creazione. Una tecnologia all’avanguardia non crea più stupore, le informazioni corrono in tempo reale e non siamo più abituati a stupirci, ciò che può stupire sono le differenti connessioni che un artista può creare nella sua opera. Impiantarsi un terzo braccio bionico controllato mediante onde neuronali mi stupisce meno che utilizzare le stesse onde celebrali per controllare il meteo. L’arduo compito dei critici, curatori, galleristi e utenti è districarsi dall’enorme quantità di prodotti e selezionarli; in un mare di rindondanza è spesso difficile riconoscere un’idea valida e darle l’attenzione che merita. La difficoltà nell’appropriare l’arte digitale in generale, capirne la fruizione e la durata, sono stati i temi centrali di molte discussioni recenti. Secondo te, che ruolo gioca la documentazione del lavoro di ogni artista in questo proposito? Quando si parla di arte digitale, si entra nel mondo delle nuove tecnologie e dei new media, e temi quali la programmazione, l’elaborazione digitale, la condivisione, la velocità e l’intrattenimento diventano centrali. Ogni opera può essere sviluppata dando importanza ad un tema piuttosto che ad un altro, le fonti da cui attingere sono quindi vastissime e i risultati eterogenei. Inoltre, nell’arte digitale che il mezzo sia parte del contenuto è innegabile e ambedue gli attori soffrono delle peculiarità dello strumento digitale come la labilità e l’interdipendenza, a causa di questo la produzione di una buona documentazione fa da spartiacque tra ciò che durerà un clic e ciò che sarà punto di partenza per qualcos’altro. Un artista “digitale” non dovrebbe essere geloso delle proprie tecniche e dei propri metodi, dato che il punto chiave della produzione artistica in questo campo è frutto della conoscenza condivisa. Non penso che la fruizione sia un problema se non si è chiusi mentalmente e non si ha paura di interfacciarsi con qualcosa che non si apprende a pieno, ricordo sparate di mostri ritenuti sacri nell’arte digitale che la paragonavano a “cercare di mangiare la fotografia di un hamburger” perché non ci si può relazionare con un monitor… nulla di più sbagliato e anacronistico. Anche nel diciottesimo secolo c’era chi criticava la fotografia, poi il tempo ha fatto da giudice. Termini come post-internet sono già stati surclassati, e forse hanno perso anche il loro senso. Ci troviamo in un’era ambigua e di transizione verso terreni ancora da definire. Quali sono i limiti superabili che potrebbero schiudere delle potenzialità in questo momento, o nel prossimo futuro? Non è facile definire un limite superabile, nel momento stesso in cui lo trovassi teorizzerei un nuovo prodotto, un nuovo mezzo per poi andare su google e scoprire che qualcuno ci ha già pensato. È molto più interessante ragionare sui limiti invalicabili, non si sa mai dove si potrebbe arrivare.


1

F L A V I S

1. TRNAH 2015

2. g-2-a 2012

3. Low Light 1995

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Flavio Scutti è un producer di video e sound digital art. Dal 1995, porta avanti ricerche sperimentali su nuovi linguaggi audiovisivi tramite lo studio di sistemi elettronici.

O C U T T I 3

www.chincaglie.altervista.org


Flavio Scutti

Hai la possibilità di vantarti non solo di una vasta produzione artistica di audio, video e grafica, ma anche di un background espositivo davvero ammirevole. Dal soggiorno a Roma, dove hai conseguito gli studi ed esposto al MACRO, alla fondazione della band synth pop Le Rose. Sembrano essere giorni molto distanti da oggi, con che sguardo ti rivolgi al passato, e cosa ne conservi? Ho vissuto l’inizio dell’era digitale, gran parte del mio passato è conservato sui social network in un presente costante. Come rispose Maurizio Arcieri in un’intervista: “mi sembra di osservare tutto quello che ho fatto, tutto quello che è successo come guardare un telegiornale, come un vent’anni prima, un vent’anni dopo, una scheggia passata… e questo guardare indietro mi dà assolutamente una gioia di futuro più che di revival.” Porti avanti una ricerca trasversale che integra l’acustica al visivo, dove le onde sonore si mescolano alle forme fluttuanti, e così, la ritmicità dei rumori e delle immagini che vanno a pari passo creano infine un unico corpo difficilmente separabile. Qual è l’effetto o il risultato che intendi raggiungere attraverso la congiunzione di queste due sfere sensoriali? Come descriveresti questo “ménage a trois” fra te, la musica e l’arte visiva? I sensi vivono le sensazioni contemporaneamente, è difficile dissociare i colori di un albero dal rumore delle foglie. Quello che riesco a creare è il risultato di una sintesi, a volte molto astratta di un vissuto che torna nelle interconnessioni mentali. L’opera Atteim Steph, qui esposta, nasce da una collaborazione con TRNAH, di cui hai condotto la direzione video. Le immagini sono liquide e offuscate, quasi a voler suggerire la fusione dell’acqua e le nuvole, e attraverso l’accompagnamento dei movimenti vaghi e dispersivi del corpo femminile sembrano esprimere nell’insieme una perdizione dei sensi. A cosa ti sei ispirato e qual è stato il processo creativo dietro stante? Quali sono gli aspetti del virtuale e della tecnologia che hai voluto esplorare qui? Il video è un omaggio e rielaborazione del film Anna di Alberto Grifi e Massimo Sarchielli. Per realizzarlo ho usato una patch di Quartz Composer che negli anni è diventata sempre più labirintica per l’infinito lavoro che gli ho dedicato. La programmazione ti porta a realizzare un ambiente così ricco di variabili che ad un certo punto diventa esso stesso il luogo da esplorare. Per quanto riguarda le altre due opere più vicine per l’estetica e l’impronta musicale, ossia g-2-a e Low Light, la produzione è stata interamente realizzata da te. La prima opera è datata al 2012, mentre la seconda al 1995. Come si è evoluta la tua ricerca artistica e in particolare quella musicale in quest’arco di tempo? Come intendi portare avanti il dualismo tra il contenuto e l’estetica? Low Light è un video realizzato in analogico sfruttando i primi mezzi che avevo a disposizione, ovvero telecamere, videoregistratori e amplificatori audio circuitati. Indubbiamente c’era un rapporto diverso con l’immagine, magari più immediato, ma non credo differisca molto da quello che ho fatto anni dopo. Il punto di partenza è sempre un contenuto che si vuole esprimere, poi sono le tecnologie a cambiare e noi con loro. La nostra percezione della realtà è sempre più legata all’elaborazione digitale, l’importante per me è cercare di usare al meglio i mezzi che ho a disposizione.


Molti associano alla glitch art un’identificazione artistica molto specifica. Però vivendo in un’era altamente fluida e trasversale, è probabilmente difficile se non vano continuare ad assegnare designazioni a correnti, o persino cercare di identificarne. Si potrebbe dire che ci troviamo dinanzi a un fenomeno su larga scala di contaminazioni di diverse conoscenze che si riversano qua e là, annullando i confini interdisciplinari. Quali sono i tuoi pensieri a riguardo? Quali le tue osservazioni sul proprio lavoro in rapporto alla ricerca e produzione degli altri artisti contemporanei? Quando si parla di glitch art per me occorre fare una premessa che va al di fuori dell’identificazione di genere. L’elemento da osservare è che consapevolmente nell’espressione artistica è stato considerato l’errore come elemento estetico e non di disturbo, questo ha segnato un passo molto importante nella ricerca artistica dopo l’introduzione del rumore fatta nel ‘900. Lavorando nel digitale è più facile trasformare i dati da sorgente a sorgente e quindi anche grazie alle interfacce grafiche con cui vengono elaborati si è costretti ad approcciarsi anche al suono mediante una una graficità, questo secondo me più che l’annullamento dei confini interdisciplinari sancisce l’omogeneità dell’interfaccia con cui si creano le opere. Lavorando con un sistema informatico che permette anche di condividere i contenuti è inevitabile prescindere la contaminazione con il lavoro degli altri artisti, appunto perché il flusso al contempo trasporta e assimila ciò che produciamo con gli altri soggetti nel network. Distanziandoci dal mondo della glitch art ma pur rimanendo nell’universo dell’arte digitale, ci sono stati vari sviluppi e cambiamenti che hanno portato alla rinnovazione dello scenario artistico. È un fervore che richiede un costante aggiornamento, soprattutto di carattere tecnico e tecnologico, da parte dell’artista ma anche di chi ne è sottoposto all’osservazione e ricezione. Sembra esserci sempre meno tempo sia per una produzione più sostenibile e conscia, sia per una critica più rilevante e costruttiva. Come ti poni dinanzi a questi tempi accelerati? Dove stiamo andando? Stiamo andando nello spazio trasportati dal pianeta terra, nella stessa maniera in cui lo facevano i nostri antenati.


S A L V Mindsight Archive 2016

Salvatore delle Femmine è un visual designer e cofondatore del collettivo tv//out, lavora principalmente col visual design e motion graphics, e inoltre collabora a progetti sperimentali come sound designer. Pink Elephant è un team di ricerca e produzione musicale intento a esplorare il significato che la musica ha per le persone oggi, e opera anche in contesti più commerciali con live set e creazioni di colonne sonore per cinema e pubblicità.


A T O R E P I N K www.salvatoredellefemmine.com www.pink-elephant.it


Salvatore Delle Femmine + Pink Elephant

In occasione di questa mostra, avete stretto un’energica collaborazione che ha unito discipline diverse, ovvero il visual design e motion graphics alla ricerca e produzione musicale, il tutto da una prospettiva altamente sperimentale. Com’è partita la ricerca collettiva di un’idea dell’opera? E come avete cercato di far convergere le vostre due parti? L’audio e il video nascono simultaneamente, abbiamo avuto bisogno gli uni dell’altro per parlare di input digitali, accumulo e distorsioni nel modo che più ritenevamo opportuno. Lavorare insieme ci ha permesso di avere diversi punti di vista sul progetto e sviluppare un dialogo curioso e costruttivo, anche se questo processo non è per niente facile. In progetti destrutturati come questo, bisogna essere capaci di avvicinarsi ai problemi senza voler giungere immediatamente a risposte definite. L’interiorizzazione di quest’ottica da parte di tutto il gruppo di lavoro è stata fondamentale. L’opera qui esposta, Mindsight Archive, si struttura come un archivio, suddiviso in tre trittici, di cui ogni file ha una dicitura particolare e ambigua. Qual è stato il processo di raccolta materiali, e in che modo avete deciso di ricollegarvi al glitch? Quali i motivi di tale suddivisione? Il processo di raccolta dei materiale è alla base di questo progetto. Salvo ha iniziato a spulciare i video del suo archivio personale e un certo numero di pellicole in super8 di proprietà della sua famiglia, e quando l’ha condiviso all’interno del gruppo abbiamo iniziato a sviluppare idee sulla natura di questo progetto. Tutte queste immagini raccontano il nostro passato e il nostro presente, ma a volte la quantità di informazioni che le nostre macchine devono gestire porta ad errori non prevedibili che modificano la nostra percezione. Quest’opera può essere smembrata, scardinata, smontata e vivere in parti singole anche a prescindere dal loro rapporto originario con il tutto, oppure può essere letta come un trittico in cui da sinistra verso destra i nostri ricordi passati prendono forma e proiettano il nostro futuro che è imprevedibile come gli esiti degli errori e delle distorsioni che possiamo progettare. C’è un concetto molto forte dietro al lavoro qui esposto, ovvero l’accumulo compulsivo di input sensoriali e informativi nell’era digitale. In tal senso, la fallibilità del computer è resa molto simile e vicina alla fallibilità cerebrale, poiché gli input si distorcono come i ricordi col passare del tempo. Secondo voi, quali sono gli effetti di queste distorsioni sulla nostra identità, ma soprattutto, sul nostro rapporto con gli input? E quali le nuove possibilità di reinterpretazione e fruizione di questi accumuli multimediali? Come esseri umani stiamo cambiando molto per il fatto che oggi la nostra mente e il nostro corpo sono raggiunti da una quantità di input enorme rispetto al passato. Abbiamo contatto con molte realtà diverse e spesso distanti da noi e questo ci può portare, se lo vogliamo, a prendere molta più coscienza del cambiamento e della complessità del mondo di oggi. Catalogare come spaesamento l’effetto che questa diversa esposizione ha sulle nostre menti e sui nostri corpi non è secondo noi necessario, in quanto abbiamo la possibilità di evolvere insieme alle tecnologie che abbiamo creato e ci accompagnano. Le nuove generazioni stanno sviluppando attitudini e capacità completamente diverse dalle nostre, e questo ci affascina molto. Il loro senso dell’umorismo o la loro sensibilità estetica stanno prendendo direzioni imprevedibili e che tengono profondamente in conto l’accumulo di input e le distorsioni che ne derivano. In definitiva crediamo che queste distorsioni ci permettano di comprendere l’impossibilità di percepire il mondo in modo univoco, portandoci a vivere esperienze più eccitanti e avventurose.


Nella sperimentazione sonora, avete utilizzato i suoni preesistenti del materiale video. Qual è stato il processo di interpretazione e rielaborazione? A quali aspetti avete cercato di attenervi e da quali altri distanziarvi per incidere un vostro segno? Nel lavorare con campioni audio preesistenti si è sempre davanti a un bivio tra una resa fedele dei suoni di partenza e la creazione di qualcosa di completamente nuovo a partire dagli stessi suoni. In questo lavoro abbiamo voluto mescolare i due approcci, per creare stimoli in grado di agire sulla mente e sul corpo delle persone in modo sinergico. Sono così presenti campioni molto riconoscibili, come i suoni delle voci che abbiamo trovato in alcuni video, mentre altri suoni sono completamente adulterati. Il mondo dell’arte contemporanea si sta evolvendo su dinamiche sempre più inafferrabili, con un star system che include pochi escludendo molti. Sono apparse molte realtà che vivono ai margini di questo sistema, con una loro forza e indipendenza, alimentando un fermento parallelo e non per questo meno rilevante. Quali sono i vostri pensieri a riguardo, dove vi collochereste o dove vorreste collocarvi? Non crediamo di poterci collocare in realtà, anche perché lavoriamo in ambiti molto diversi e spesso estranei al mondo dell’arte contemporanea, quello che cerchiamo di fare è far parte di una conversazione che tenga conto della realtà multisfaccettata in cui viviamo. A seconda dell’ambito in cui ci troviamo, ci comportiamo in modo molto diverso proprio perché definirci attraverso categorie ha sempre costituito un limite per la nostra esperienza. Entrambe le parti, vi muovete su percorsi che si diversificano incessantemente, provocando esternalità ma anche partecipando attivamente alle contaminazioni artistiche. Poiché cercare di capire come e in che direzione vi muoverete risulterebbe difficilissimo, quali sono le forze interiori che vi spingono a portare avanti il vostro lavoro, e quali i risultati a cui ambite? Lavorare con video e audio oggi per noi significa non solo raccontare e contestualizzare attraverso immagini e suoni, ma anche creare oscillazioni tra presenza reale e virtuale, tra risposte fisiche e mentali da parte degl spettatori e ascoltatori. La cosa che più ci interessa è entrare in connessione con le persone selezionando, ritagliando e combinando l’immensa quantità di stimoli che il mondo di oggi ci offre.


Homemade Gallery ringrazia: Marco Cadioli, Flavio Scutti, Domenico Barra, Calembour, Cimeviola, Salvatore delle Femmine e Pink Elephant per la collaborazione, il dialogo e il confronto su questo terreno comune che è l’arte. Un ringraziamento va anche a Luca Grillo, Giacomo Carmagnola e Zoe de Luca, che hanno portato l’energia di realtà esterne in questa mostra. Un grazie immenso a tutti gli ospiti, a chi ci ha creduto dall’inizio, a chi ci ha sostenuto con un pensiero, una parola, un gesto.


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