Me, you, us in a paraphilic continuum

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Me, you, us in a paraphilic continuum parafilia dal greco para = presso, accanto, oltre e filia = amore, affinità

Il DSM, Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, adotta il termine ‘parafilia’ per indicare attitudini e comportamenti sessuali anomali e inusuali, vissuti con angoscia o recanti disagio psicofisico a terzi non consenzienti. Se un cambiamento radicale, o noto traguardo, è stato raggiunto nel 1987 con l’eliminazione dell’omosessualità come parafilia nel DSM, i recenti avvenimenti nel mondo ci spingono a porre nuovamente riflessione sulla sessualità, nello specifico sui concetti di diversità, fluidità e ibridità. Da qui emerge l’esigenza d’individuare e vivere l’esperienza eroticosessuale in un nuovo continuum, in cui la condizione parafiliaca è in costante spostamento, da trasgressione a ossessione, proprio come la percezione collettiva vive un ciclo iterativo di rifiuto, normalizzazione e, in alcuni casi, feticizzazione. In che modo le categorie parafiliache vengono costantemente ridefinite e come alcuni comportamenti sessuali e sociali cambiano nel tempo con l’evolvere delle conoscenze in campo specifico sono tra le domande al centro di me, you, us in a paraphilic continuum. Utilizzando le categorie parafiliache come parametri instabili per ridisegnare il confine tra normalità e anormalità, me, you, us in a paraphilic continum offre un’analisi dell’universo parafiliaco da molteplici prospettive: l’analisi clinico-scientifica, la visione artistica e interpretativa, la dimensione soggettiva dell’esperienza.


Artisti: Chiara Bruni Giovanni Verardi Giuseppe Morello Alessandro Ponti Luca Mata Giulia Bersani Anna Adamo e Marco P. Valli Fausto Serafini e Alessandra Pace Kein Platz


Anna Adamo Marco P. Valli

Cosa vi ha portato al progetto Bakeca? Durante questi due anni di ricerca, quali sono state le vostre osservazioni principali legate all’esibizionismo virtuale? Bakeca è stato il frutto di una ricerca sulla sessualità che Marco intraprese nel 2013. Inizialmente voleva seguire il dietro le quinte del cinema porno, poi si accorse che non c’era nulla di più lontano dalla sessualità se non la pornografia, e cercò quindi una via attraverso la quale venisse fuori una sessualità vera, autentica: attraverso gli annunci online, persone comuni con un’identità nascosta dietro alla tastiera, hanno creato una rete di corrispondenza tra scambisti, esibizionisti, feticisti di ogni tipo, ecc… che interagiscono sia via web che successivamente dal vivo. Una volta trovata la piattaforma più adatta per iniziare il lavoro è entrata in gioco Anna e abbiamo messo un annuncio in cui ci proponevamo come coppia di fotografi professionisti. E qual era la categoria di persone più adatta ad essere osservata e fotografata se non gli esibizionisti? Bakeca è iniziato così. Sicuramente quando parliamo di esibizionismo parliamo di qualcosa di reale, tangibile e non di virtuale. La virtualità è legata all’anonimia, che poi si trasforma in persona in carne ed ossa al momento dell’incontro e infine in esibizionismo sotto forma di performance. Fotografie nei luoghi più disparati, nelle situazioni più peculiari. Come vi siete relazionati con i soggetti? Il modo in cui ci relazionavamo ai soggetti cambiava innanzitutto da quando c’era una corrispondenza anonima via mail rispetto all’incontro con la persona fisica, infatti spesso la nostra idea di come sarebbe stato il soggetto era opposta a quello che poi ci trovavamo davanti (vedi leone da tastiera). Dal punto di vista dell’intera durata del progetto il nostro rapporto con i soggetti è stato sicuramente più freddo, distaccato e professionale in una prima fase; poi ci abbiamo preso un po’ la mano, e la curiosità nel guardare, conoscere e fare nostro qualcosa di completamente nuovo, ci spingeva a continuare la nostra ricerca. Ammetto che per un periodo ho pensato (Marco) che non avrei mai smesso di fotografare esibizionisti.

Autori, ma anche voyeur. Qual è stata l’interazione tra anonimità, identità ed espressione? Appunto, siamo diventati un po’ voyeur nel corso dei due anni di lavoro. Possiamo dire che la cosa ci è un po’ sfuggita di mano. L’interazione di cui parli si può spiegare con dei paragoni: L’anonimità è internet, gli annunci e la corrispondenza via mail. L’identità è la persona fisica, il momento dell’incontro. L’espressione è l’esibizione stessa, l’esibizionismo come atto sia sessuale che performativo letto dai nostri occhi (indiscreti). Puoi descrivere cosa significava e significa per te la parola parafilia prima e dopo aver esplorato questo concetto attraverso le tue fotografie? Abbiamo sempre letto questo sostantivo al plurale: le parafilie come una lista di anormalità che ci incuriosisce, da conoscere. Dopo Bakeca abbiamo capito che di sicuro l’esibizionismo non è un’anormalità psichica nel modo in cui lo potrebbe essere una qualsiasi parafilia, ma è piuttosto un lato della sessualità che prende sotto la sua ala vari tipi di pulsioni o fantasie, normali o anormali che siano, parafilie comprese.



Alessandro Ponti

Ho sempre pensato che il desiderio avesse un impatto mentale ben più forte della trasgressione in sé. La mente è la parte che ci permette di fare voli pindarici, sognare, vedere oltre a tutto ciò che è tangibile con i nostri sensi. Nella vita reale, il semplice desiderio potrebbe però non essere sufficiente, ed è naturale che a volte si evolva in trasgressione. Nella fotografia invece è interessante giocare con le visioni che il desiderio suggerisce alla mente. Provare a intrappolarle in un fotogramma, chiudere gli occhi e farle proprie. Mi piace la bellezza che la fotografia sa donare a un corpo, un dettaglio può comunicare un’infinità di suggestioni. Quello che cerco di cogliere di un soggetto sono quelle sfumature che si perdono in mezzo a migliaia di gesti ripetuti ogni giorno, che forse tutti noi cerchiamo di catturare inconsciamente quando comunichiamo con qualcuno, andando oltre alla semplice percezione del reale. Queste sfumature, mi piace esasperarle nella fotografia. Mi piace giocare mettendo il soggetto in pose plastiche, mi permettono di vedere dettagli del corpo che a prima vista non penserei mai di cogliere. Il voler catturare quasi morbosamente questi dettagli, penso sia la vera trasgressione. Quando scatto, l’occhio impazzisce, ed è come compiere uno sforzo fisico intenso, mi stanco in fretta, vado di istinto, mi interrogo sempre se possa bastare ciò che ho fatto dopo una sessione di scatti, un bombardamento di punti interrogativi, di immagini che scorrono. Mi chiedo sempre se negli shooting che farò in futuro, scoprirò involontariamente un’altra parte di me attraverso l’energia che saprà concedermi chi poserà. Puoi descrivere cosa significava e significa per te la parola parafilia prima e dopo aver esplorato questo concetto attraverso le tue fotografie? Penso che tutto ciò che è ossessivo e compulsivo offuschi la realtà e la percezione delle cose, anche dell’atto sessuale in sé. Per quanto ognuno di noi provi piacere nel vivere certe cose, nel vederle e nel farle, credo che dovremmo concentrarci di più sulla dimensione mentale e meno sull’atto di perversione puramente fisica.



Chiara Bruni

Cosa ti ha portato alla ricerca artistica sui manichini in cui l’inanimato prende vita? Mio nonno raccontava sempre che li aveva portati lì dopo l’alluvione del 1979 che sconvolse Isola Liri. Salvare dei manichini da un nubifragio, ancora oggi mi chiedo perché (troppo tardi, le domande non fatte non hanno risposte). Insieme alla pioggia arrivarono, mutilati, sgangherati, sporchi, inutili. Tra giornaletti porno anni ’70, un ingranditore DURST 609 (mio attuale amore), cataste di quadri, regali di nozze per i miei genitori (set di posate che non conoscono cibo, bicchieri di cristallo che non hanno mai fatto ubriacare nessuno), una cassa piena di biancheria, statue, un proiettore di diapositive, quaderni di scuola, riconoscimenti incorniciati, una credenza rossa, cavalletti, acidi per sviluppo fotografico scaduti, si fecero spazio gli Inquilini del secondo piano. Chiamavo così il luogo della mia paura, secondo piano: scheletro polveroso, appartamento abortito mai diventato casa, ma ugualmente abitato. L’automatonofobia è la paura di tutto ciò che riproduce falsamente un essere vivente: statue, spaventapasseri, pupazzi da ventriloquo, manichini. Gli Inquilini del secondo piano mi hanno terrorizzata per anni, oggi sono tornata a guardarli con l’occhio fotografico. Volevo disarmarli, me ne sono innamorata. MANNEQUINS_Second Study About Fear è un’indagine in evoluzione. Dopo una fase preliminare, in cui ho creato immagini con supporti digitali, sono passata all’analogico. Un salto all’indietro per recuperare l’intimità della camera oscura, spazio magico, in cui l’immagine invece di esistere si rivela. La rivelazione è esattamente quello che mi ha investita. Rivelazione del fascino nello spavento e dell’ attrazione dove c’era fuga.

In che modo il tuo lavoro si pone tra oggettivazione e personificazione? MANNEQUINS è un approccio alternativo a quel sentimento che costringe a distogliere lo sguardo: la paura. Rappresenta un punto di vista del tutto personale. Bisogna trovare un modo per liberarsi dei propri demoni, questo è il mio. Ricercare la sensazione della pelle attraverso crepe, lacerazioni, colature di colore. si coglie una sensazione dell’innocenza violata che apre alla dimensione del dolore. quali sentimenti hai voluto trasmettere? Il mio processo mira all’inverso: le crepe sono crepe, le lacerazioni sono spazi di luce tra i pezzi. Non c’è pelle. C’è plastica, polvere, smalto. Niente di umano. A rendere vivi i manichini era la mia percezione di bimba che ha lasciato posto ad uno sguardo più lucido, consapevole. Non è il dolore che bisogna ricercare, ma la sua fine. È in mostra una vittoria, un’esaltazione! Puoi descrivere cosa significava e significa per te la parola parafilia prima e dopo aver esplorato questo concetto attraverso le tue fotografie? Il termine parafilia contiene la parola amore, sono partita da questo. Se nella patologia il sentimento è spinto all’estremo e sfocia in disturbo, in MANNEQUINS l’amore rappresenta il momento ultimo, in cui la degenerazione non è (ancora) segnata dal dolore. Il punto d’incontro con la parafilia è il senso di paura misto a eccitazione verso l’inesplorato e l’insolito. Non c’è vergogna, non c’è giudizio. Si sperimenta. Nel mio progetto uso la metafora della parafilia per indicare un’attrazione fortissima verso l’inusitato. La mia idea sul concetto di parafilia resta indefinita così come MANNEQUINS è un lavoro aperto a nuove esplorazioni e rivisitazioni, e anche per questo mi sento in linea con il continuum che lo investe.



Fausto Serafini Alessandra Pace

Abbiamo intrapreso il nostro percorso fotografico quando eravamo già insieme da 8 anni e l’impatto che la fotografia ha avuto nella nostra relazione è stato molto positivo e stimolante. Ci ha cambiato come persone, ci ha aiutato a crescere come singoli e come coppia, ci ha aiutato a conoscere meglio noi stessi, ci ha fatto tastare con mano l’intensità del nostro sentimento e ha accresciuto la nostra complicità e la stima reciproca. Con i nostri soggetti abbiamo un rapporto molto speciale, perché quando fotografiamo, non ci accontentiamo di due orette di scatti, ci piace stare insieme, raccontarci esperienze reciproche, ci piace entrare in confidenza e instaurare un rapporto di fiducia. Una volta che abbiamo fotografato qualcuno, questo entra a far parte delle nostre vite, il legame che si crea è troppo speciale ed è difficile da spiegare a parole, ma è la cosa più bella che ci regala la fotografia, assorbire le esperienze degli altri e farle tue, e capire qualcosa in più sulla vita e su te stesso. Finora abbiamo sempre fotografato soggetti femminili, non escludiamo di allargare il campo, ma per ora è così. Sarà perché il corpo femminile è poesia già di per sé, sarà perché la nostra sensibilità è più affine alla loro sensibilità che a quella maschile. Non c’è qualcosa in particolare che vogliamo rivelare, vogliamo ascoltare e far uscire fuori la sessualità e il rapporto con il proprio corpo di ognuna delle ragazze che ritraiamo, perché ognuna di loro ha una storia personale che ha influito sui suoi gusti sessuali e a noi piace scoprire come e perché, ci interessa l’unicità di ogni storia e l’insegnamento che se ne può trarre da essa.

Puoi descrivere cosa significava e significa per te la parola parafilia prima e dopo aver esplorato questo concetto attraverso le tue fotografie? La parola parafilia per noi è solamente un’etichetta che viene data a attitudini sessuali che molti di noi hanno dentro di sé. Abbiamo sempre esplorato questi argomenti senza dare una classificazione di tipo scientifico, semplicemente osservando le nostre inclinazioni e quelle dei soggetti ritratti ed è quello che vogliamo continuare a fare. Il mondo della sessualità è talmente vasto e affascinante che c’è sempre qualcosa di nuovo da scoprire e non si smette mai di restarne coinvolti. Non crediamo ci sarà mai né un prima né tantomeno un dopo, semplicemente un durante ed è questo il lato più interessante, vivere le situazioni che si presentano lungo il cammino, perché ci sono così tante sfaccettature in ogni storia personale, che rende ognuno unico e speciale sia come essere umano sia nel modo di vivere la propria sessualità, e noi abbiamo ancora tantissima voglia di esplorare e andare a fondo in questo campo.



Giovanni Verardi

All’interno della mia indagine fotografica ho voluto dare un valore preponderante alla mia persona, cercando in questa maniera di trovare un linguaggio nel linguaggio. Ovvero il linguaggio del corpo all’interno del linguaggio fotografico. La mia è stata una totale immersione nella sessualità, tanto da non limitarmi solo a fotografare, ma in alcuni casi anche a partecipare in prima persona. Spesso mi è capitato di fotografare soggetti durante un atto sessuale e per quanto ne fossi affascinato non c’era mai una totale soddisfazione, ed è cosi che ho deciso di esprimermi utilizzando anche il mio corpo. Non sarei più stato solo dietro ad una macchina fotografica ma anche di fronte. La mia volontà è quella di entrare nella fotografia che sia con un piede, una mano o tutto il corpo. Probabilmente sono spinto dal mio egocentrismo, ma c’è anche una reale necessità di raccontare me stesso e in questo caso la mia vita sessuale. Esponendomi e mostrandomi ho potuto conoscere lati della mia personalità che ancora non conoscevo. La fotografia quindi, ha così acquisito un nuovo valore. Un valore conoscitivo e psicologico che l’ha resa davvero coincidente con la mia vita. Infine queste esperienze mi han fatto capire che non c’è differenza tra fotografia ed esistenza, è uno scambio costante e necessario. Puoi descrivere cosa significava e significa per te la parola parafilia prima e dopo aver esplorato questo concetto attraverso le tue fotografie? Sia prima che dopo ho sempre creduto che la parafilia non sia un’anormalità psichica bensì un atto lecitamente egoistico volto a soddisfare e a ricercare il nostro più intimo piacere. La parafilia è il coraggio di accettare se stessi, e in questo c’è dell’amore.



Giuseppe Morello

I tuoi scatti giocano molto sull’indefinito, quasi a voler preservare una certa anonimità. Appaiono come un invito ad allontanarsi dall’opera per coglierle meglio in lontananza. Quale fascino trovi nel liquefatto? Il discorso dell’indefinito è una scelta stilistica fatta per rendere e restituire determinate scene, o situazioni estreme portate a un livello che non tutti comprendono. Cerco di rappresentarle in maniera confusionale per far sì che una sessualità estrema diventi delle pure macchie di colore, formando un’immagine solo a distanza. L’idea del liquido è una ripresa di quell’aspetto sessuale che ho cercato di analizzare in questi scatti, ovvero il fluido corporeo attraverso il pissing, il facial, ecc. Il sesso è liquido, non vedo perché l’immagine non debba esserlo. Quali esperienze personali si riversano nella tua fotografia? E in che modo essa offre un quadro sulla dimensione sessuale maschile? Non indago strettamente la sessualità maschile. Quello che cerco di fare è prendere un dettaglio in mezzo a tanta sporcizia, spesso di un’orgia, e decontestualizzarlo. L’intento è di far percepire la situazione a chi osserva da una semplice smorfia, sintetizzare in uno sguardo una situazione. Le mie esperienze personali caratterizzano sicuramente la mia fotografia, in cui si riversano situazioni che ho vissuto e continuo a vivere da quando ho 16 anni. Questo progetto riprende un lavoro fatto 4 anni fa, ispirato a molti scatti di artisti come Thomas Ruff e Araki. Non credo che la mia fotografia sia un’indagine sulla sessualità, ne sapevo tanto prima quanto adesso sul sesso.

Secondo te, cosa porta all’unione tra la passione e la perversione? Credo che la condivisione sia il filone che unisce tutti i miei scatti. Un’emozione, un uccello, una pratica sessuale - il condividere la propria intimità, soprattutto tra sconosciuti, rappresenta per me qualcosa di estremamente umano. E’ qualcosa che difficilmente faresti con il tuo migliore amico. Si tratta di una condivisione umana e animale fine a se stessa. Credo che siamo tutti attratti dalla cosa sbagliata - fare la cosa sbagliata è sempre stato eccitante. Non percepisco il concetto di perversione. Mettersi addosso animali morti, oppure mangiare del pesce crudo - sono perversioni quanto il pissing o un menage a trois. Essere umani è la prima perversione che ci sia. Puoi descrivere cosa significava e significa per te la parola parafilia prima e dopo aver esplorato questo concetto attraverso le tue fotografie? Per me non esistono queste categorie, o stranezze come stranezze. La fotografia mi ha reso cosciente dell’esistenza delle parafilie e aiutato a trovare una definizione alle cose che per me erano del tutto normali.



Giulia Bersani

I tuoi scatti appaiono come una testimonianza sulla sessualità nella gioventù… In che misura sono una documentazione, e in che altra una narrativa? Credo che questi due aspetti si fondano nelle mie foto. Quando fotografo me stessa sento la necessità di essere sincera. E’ importante per me documentare quello che sono per avere in futuro una testimonianza delle mie radici. Allo stesso tempo il mio sguardo non può non essere soggettivo, così della mia vita racconto solo le cose che mi affascinano particolarmente, e le racconto da un punto di vista completamente personale. Allo stesso modo, anche quando fotografo persone che non fanno parte della mia vita personale, cerco di prendermi il tempo per parlarci, osservare i loro gesti e costruire delle immagini verosimili. A volte si tratta di ragazze appena conosciute ma che molto spesso si sentono rappresentate da quelle foto. Mi piace molto il fatto che in tanti casi non si riescano a distinguere le situazioni costruite da quelle reali. La tua presenza è sempre percepibile in ogni tuo scatto. Come hai vissuto la tua sessualità fino a ora e in che modo si sta evolvendo? In che modo ti confronti con gli altri soggetti? L’ho sempre vissuta con naturalezza e curiosità. Trovo sempre più persone aperte al dialogo e che apprezzino la mia sincerità; questo mi fa molto piacere. Io sto bene nel momento in cui mi sento libera; per me la nudità è tanto legata alla sessualità quanto alla libertà. Quando fotografo altre ragazze mi vedo riflessa in loro. Mi piace fotografare la loro libertà e naturalezza; è un modo per osservare e studiare qualcosa che sento mio, un modo alternativo per studiare me stessa. E’ bello rendersi conto che non si è soli, guardare la persona che si ha di fronte e capire che prova le stesse tue sensazioni ed emozioni.

Un senso di malinconia e leggerezza dell’essere pervadono i tuoi scatti. Pagine di riflessioni scritte a mano che mettono a nudo le emozioni e l’anima. In cosa trovi la liricità, la poesia? Principalmente nei dettagli, nelle cose semplici. Mi piace osservare ciò che ci rende umani; l’incapacità di controllare le emozioni e di essere perfetti. L’imperfezione mi commuove. Il modo in cui cerchiamo di consolarci e di volerci bene, nonostante sappiamo che tutto finirà nel nulla, mi commuove. Puoi descrivere cosa significava e significa per te la parola parafilia prima e dopo aver esplorato questo concetto attraverso le tue fotografie? Personalmente non amo le definizioni. Credo che visto da vicino nessuno sia normale e che la mente umana sia troppo complicata per essere rinchiusa dentro a schemi. Io osservo e nient’altro.



Kein Platz

Masturbazione, giochi sessuali, travestimenti… Quali similitudini e differenze nelle attitudini parafiliache e sessuali hai constato da Est a Ovest attraverso Chatroulette? Quando parliamo di Est e Ovest, così come di Nord e Sud, operiamo una generalizzazione che quasi mai può essere applicata a tutti i contesti culturali. In linea di massima, ho notato che nei paesi dell’Est vi è un’attitudine maggiore all’anonimato e l’utilizzo di oggetti sessuali, quasi del tutto assenti in Oriente e abbondanti invece in Occidente. In Oriente inoltre, soprattutto in Medio Oriente, la fruizione di questi siti è quasi sempre clandestina e/o di nascosto da conoscenti, le videochat infatti si interrompevano di frequente al sopraggiungere di qualcun altr* nello spazio di ripresa o nell’abitazione. Caso a parte merita il mondo arabo, mediorientale o maghrebino che sia, dove l’approccio all’omosessualità, per lo più proibito per religione o per legge, viene vissuto a volte come una sorta di declinazione dell’eterosessualità: nelle videochat in cui mi sono trovato, non era il mio membro ad interessare bensì il mio fondoschiena, quasi, penso io, a voler illudere e auto illudersi che dall’altra parte dello schermo ci fosse una donna e non un uomo. Come si collocano i soggetti nello spazio virtuale? E in che modo la virtualità evidenzia prossimità e distanza? Diverse volte la sensazione che avevo era quella di osservare qualcuno che aveva trascorso del tempo a prepararsi a questi incontri quasi fossero appuntamenti sessuali o sentimentali veri e propri, e questo alterava di molto la percezione stessa della distanza per ciascuna delle parti in causa a suo modo. Personalmente, più che vicinanza, quello che sentivo era spesso stordimento, dato dall’aver saltellato con estrema velocità da un paese all’altro e in poco tempo. Entra dunque in gioco una dinamica schizofrenica di avvicinamento e allontanamento che penso sia comunque in qualche modo il fine di chi preferisce gli incontri virtuali a quelli reali: farsi avvicinare e avvicinarsi ma senza compromettere troppo la propria dimensione isolata, abbandonarsi fisicamente ma anche verbalmente, ma allo stesso tempo avendo sotto controllo la distanza, che se troppo prossima spesso e volentieri viene percepita come un’invasione quindi eliminata, sconnettendosi dalla chat o passando a qualcun altro per iniziare daccapo questo gioco fugace.

In uno scatto si vede una sedia che, occupata fino a poco prima e sulla quale è ancora impressa la forma delle natiche, esprime l’assenza, rappresenta l’offline. Quale necessità porta a dover uscire dalla finestra virtuale per entrare in quella reale? In queste chat si incontrano persone che lasciano la webcam accesa anche mentre cucinano o mentre dormono o ancora mentre si preparano per uscire con gli amici. Ho sentito molta tristezza ma anche tenerezza guardandoli. Ovviamente tale stato d’animo non è quello vigente nella totalità degli user, molti di loro infatti vivono goliardicamente la dimensione virtuale e riescono, chi più chi meno, a scinderla dalla vita reale, alcuni utilizzando queste chat come delle valvole di sfogo al fine di vivere senza censura e giudizi le loro perversioni o semplicemente la loro sessualità in libertà. Dopo mesi di frequentazione sentivo io stesso la necessità di uscire dalla finestra virtuale che iniziava anche per me a diventare un’ossessione, e così facendo simbolicamente avrei voluto trascinare con me tutte le persone, centinaia, che avevo incontrato. Il video che accompagna gli scatti è proprio la messa in atto di questo tentativo di fuori uscita, come fosse una seconda nascita verso il sole (il cui suono che si sente in sottofondo è quello registrato dalla NASA), fuori uscita che fosse allo stesso tempo via di fuga anche per gli spettatori stessi della mostra, dopo il tempo trascorso al buio ad osservare queste piccole finestre aperte sulla vita spesso dolente degli altri.



Luca Mata

Scatti unici e istantanei che non lasciano spazio all’errore – o forse è proprio l’errore inteso come l’imprevisto, l’inaspettato – che rende la tua fotografia così accattivante… cosa rende un attimo interessante per te? Nei miei scatti il cosiddetto “errore” è previsto. Il mio lavoro racconta di persone, dei miei e dei loro gusti, gli artifici fotografici toglierebbero spazio. Scelgo la sottrazione per lasciare la scena completamente in mano alle persone fotografate. L’imperfezione che accetto nel mio lavoro è quella del luogo e del soggetto, anche se il supporto fotografico e la tecnica si spogliano della loro professionalità per lasciare spazio alla narrazione. Oggetti quotidiani, sticker, giocattoli. Il sesso viene spesso rappresentato come un gioco nei tuoi scatti con un effetto demistificante… In che modo fai sentire i tuoi soggetti a proprio agio, e in che modo si sentono ad agio loro? Il sesso è un gioco di ruoli, in cui ognuno interpreta una maschera. Ogni persona ha una fantasia, un feticcio. Amo indagare le persone e farmi raccontare i loro gusti. Gli scatti sono sempre frutto di lunghe chiacchiere su tutto, arrivo dal mondo del giornalismo, ho sempre adottato questo metodo per entrare in empatia con le persone e fare sentire le persone libere di abbassare i muri ed essere se stesse o chi vogliono interpretare.

Nella fotografia c’è sempre uno sguardo reciproco tra chi scatta e chi si fa fotografare. Qual è l’immagine che i tuoi soggetti vogliono dare di sé? E quale immagine vuoi restituire tu? C’è chi lo fa per curiosità, chi perché lo trova eccitante (l’esibizionismo è una componente quasi sempre presente) chi per provare qualcosa di diverso. Alcuni vogliono semplicemente urlare un lato di sé che hanno sempre tenuto nascosto, altri lo fanno per accettarsi di più. Io spero sempre che i soggetti si riconoscano nelle foto e si piacciano, ma non che si vedano belli e perfetti perché voglio che guardandosi si riconoscano. L’idea delle mie foto è di restituire un’immagine reale che sia eccitante e divertente, a volte persino fastidiosa, perché l’obiettivo è anche spingere qualcuno a vedere gli altri e se stessi in maniera leggermente differente. Cerco soggetti di ogni tipo appunto per dare spazio a chi spesso non ha voce in questo capitolo fotografico. Puoi descrivere cosa significava e significa per te la parola parafilia prima e dopo aver esplorato questo concetto attraverso le tue fotografie? Spesso le parafilie vengono viste come devianze, percepite come “sbagliate” o immorali. Il concetto di “ normalità” viene invece solitamente associato all’insieme di quelle consuetudini, di quelle concezioni e di quei comportamenti ampiamente praticati e socialmente legittimati. La fotografia mi ha permesso di esplorare un mondo di persone comuni che con spontaneità mi hanno aperto le porte dei loro desideri e della loro sessualità. Soggetti ‘insospettabili’, con gusti a volte ben definiti, a volte più fluidi. Sono stati loro a mostrarmi che per vivere onestamente e interamente la propria intimità è necessario lasciarsi andare ai propri desideri, senza limiti. Con il mio lavoro voglio mostrare persone comuni e che cercano la felicità liberandosi di tabù che ancora ci tengono ancorati. Questo mi porta a credere che la non normalità è un atto rivoluzionario, vivere il sesso non normale è sicuramente un gesto rivoluzionario.



Home Made Gallery è un progetto indipendente nato nel 2016 per ospitare la creatività di artisti emergenti attraverso mostre in spazi itineranti volte alla libera scoperta e il confronto. Credendo che il ‘benvenuto’ in casa possa tracciare un percorso intimo e coinvolgente, Homemade gallery offre un’alternativa all’esperienza nelle gallerie più convenzionali per abitare e vivere l’arte in un contesto privo di confini. Gentili ospiti, Home Made Gallery vi dà il benvenuto in casa.

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