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Horti Hesperidum Studi di storia del collezionismo e della storiografia artistica Rivista telematica semestrale

MATERIALI PER LA STORIA DELLA CULTURA ARTISTICA ANTICA E MODERNA a cura di FRANCESCO GRISOLIA

Roma 2013, fascicolo II

UniversItalia Horti Hesperidum, III, 2013, 2

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I presenti due tomi riproducono i fascicoli I e II dell’anno 2013 della rivista telematica Horti Hesperidum. Studi di storia del collezionismo e della storiografia artistica.

Cura redazionale: Giorgia Altieri, Jessica Bernardini, Rossana Lorenza Besi, Ornella Caccavelli, Martina Fiore, Claudia Proserpio, Filippo Spatafora

Direttore responsabile: CARMELO OCCHIPINTI Comitato scientifico: Barbara Agosti, Maria Beltramini, Claudio Castelletti, Valeria E. Genovese, Ingo Herklotz, Patrick Michel, Marco Mozzo, Simonetta Prosperi Valenti Rodinò, Ilaria Sforza Autorizzazione del tribunale di Roma n. 315/2010 del 14 luglio 2010 Sito internet: www.horti-hesperidum.com

La rivista è pubblicata sotto il patrocinio e con il contributo di

Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” Dipartimento di Scienze storiche, filosofico-sociali, dei beni culturali e del territorio Serie monografica: ISSN 2239-4133 Rivista Telematica: ISSN 2239-4141 Prima della pubblicazione gli articoli presentati a Horti Hesperidum sono sottoposti in forma anonima alla valutazione dei membri del comitato scientifico e di referee selezionati in base alla competenza sui temi trattati. Gli autori restano a disposizione degli aventi diritto per le fonti iconografiche non individuate.

PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA © Copyright 2013 - UniversItalia – Roma ISBN 978-88-6507-552-4 A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile è vietata la riproduzione di questo libro o parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, microfilm, registrazioni o altro.

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INDICE

SIMONETTA PROSPERI VALENTI RODINÒ, Presentazione

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FRANCESCO GRISOLIA, Editoriale

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FASCICOLO I

SIMONE CAPOCASA, Diffusione culturale fenicio-punica sulle coste dell’Africa atlantica. Ipotesi di confronto

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MARCELLA PISANI, Sofistica e gioco sull’astragalo di Sotades. Socrate, le Charites e le Nuvole

55

ALESSIO DE CRISTOFARO, Baldassarre Peruzzi, Carlo V e la ninfa Egeria: il riuso rinascimentale del Ninfeo di Egeria nella valle della Caffarella

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ISABELLA ROSSI, L’ospedale e la chiesa di Santa Maria dei Raccomandati a Cittaducale: una ricostruzione storica tra fonti, visite pastorali e decorazioni ad affresco

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MARCELLA MARONGIU, Tommaso de’ Cavalieri nella Roma di Clemente VII e Paolo III

257

LUCA PEZZUTO, La moglie di Cola dell’Amatrice. Appunti sulle fonti letterarie e sulla concezione della figura femminile in Vasari

321

FEDERICA BERTINI, Gli appartamenti di Paolo IV in Vaticano: documenti su Pirro Ligorio e Sallustio Peruzzi

343

FASCICOLO II

STEFANO SANTANGELO, L’ ‘affare’ del busto di Richelieu e la Madonna di St. Joseph des Carmes: Bernini nel carteggio del cardinale Antonio Barberini Junior

7

FEDERICO FISCHETTI, Francesco Ravenna e gli affreschi di Mola al Gesù

37

GIULIA BONARDI, Una perizia dimenticata di Sebastiano Resta sulla tavola della Madonna della Clemenza

63

MARTINA CASADIO, Bottari, Filippo Morghen e la ‘Raccolta di bassorilievi’ da Bandinelli

89

FRANCESCO GRISOLIA, «Nuovo Apelle, e nuovo Apollo». Domenico Maria Manni, Michelangelo e la filologia dell’arte

117

FRANCESCA DE TOMASI, Diplomazia e archeologia nella Roma di fine Ottocento

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CARLOTTA SYLOS CALĂ’, Giulio Carlo Argan e la critica d'arte degli Anni Sessanta tra rivoluzione e contestazione

199

MARINA DEL DOTTORE, Percorsi della resilienza: omologazione, confutazione dei generi e legittimazione professionale femminile nell’autoritratto fotografico tra XIX secolo e Seconda Guerra Mondiale

229

DANIELE MINUTOLI, Giovanni Previtali: didattica militante a Messina

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Gli affreschi raffiguranti San Pietro in carcere che battezza i santi Processo e Martiniano e La conversione di san Paolo occupano le pareti laterali della prima cappella sinistra, già consacrata agli Apostoli ed oggi a san Francesco Borgia, nella chiesa del Gesù a Roma (figg. 1-2)1. Assegnati dalle fonti coeve a Pier Francesco Mola (1612-1666), i due grandi murali hanno lasciato interdetta la critica fin dal giudizio ambivalente espresso da Giovan Battista Passeri2, per la loro disorientante commistione di energico cromatismo, foga retorica e adesione scolastica ai classici testi vaticani di Raffaello e Michelangelo. Non a caso gli studi hanno Per una bibliografia esauriente si veda almeno TANTILLO MIGNOSI 1989, cat. II.7, e PETRUCCI 2012, cat. D26. Ulteriori testi saranno richiamati nelle note seguenti. 2 «Queste due istorie nella parte del colorito sono assai grate e contengono un non so che di buono quanto alla forza e alla naturalezza, ma in quella del disegno non vi è quello che sa rendere perfettamente di studio una pittura compita, perché non hanno in sé quel tanto che si richiede ad uno scienziato pittore» (PASSERI 1934, p. 370). 1


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visto slittarne la cronologia attraverso quasi tutte le fasi dell’attività dell’artista, proponendoli ora come acerba prova giovanile, ora come traguardo finale nella maturazione verso una ‘maniera grande’3. In proposito non è stato di nessun aiuto conoscere da sempre il nome dei loro committenti, quei Ravenna le cui insegne araldiche – un torrione merlato sormontato da tre gigli – campeggiano sul basamento dell’altare della cappella (fig. 3). Inoltre, la perdita di molta parte dei documenti relativi alla chiesa del Gesù, a conseguenza delle traversie subite dalla Compagnia tra XVIII e XIX secolo, ha contribuito senz’altro a lasciare la questione in sospeso. Ciò nonostante le poche carte superstiti si rivelano preziose per mettere meglio a fuoco tutta la vicenda e consentono di fissare come termine ante quem per l’esecuzione degli affreschi il 20 marzo del 1654, inducendo a ritenerli solo di pochissimo anteriori. Al tempo di Mola, Francesco Ravenna era un esponente di spicco di una famiglia originaria di Chiavari che nel tardo Cin-

La proposta di Wart ARSLAN (1928-1929, p. 58) di collocare gli affreschi nell’ambito della produzione giovanile di Mola, negli anni Trenta, è stata definitivamente superata quando Ann SUTHERLAND HARRIS (1964, p. 367) ha fatto notare come essi non compaiano nel dipinto di Andrea Sacchi, Filippo Gagliardi e Jan Miel ritraente l’interno del Gesù alla data 1641-42, dove invece si scorge distintamente uno degli affreschi preesistenti del Pomarancio: fissato il termine post quem, la stessa studiosa ha proposto il 1649-51 per ragioni stilistiche, confutando quanto asserito da Giovan Battista Passeri che li ricorda eseguiti immediatamente dopo l’affresco nella galleria di Alessandro VII al Quirinale, del 1657. John ROWLANDS (1964, p. 273) invece ne ha abbassato ulteriormente la datazione ipotizzando che la loro commissione possa avere a che fare con Gian Paolo Oliva, vicario generale della Compagnia di Gesù dal 1661 e generale dal 1664, e dunque che possano essere addirittura pertinenti al settimo decennio del secolo. Fra i contributi più recenti, Almamaria TANTILLO MIGNOSI (1989, p. 216) e Francesco PETRUCCI (2012, pp. 468-471) seguono quanto riportato dal Passeri e li legano ad un momento immediatamente successivo all’affresco del Quirinale, come peraltro sostenuto già da Richard COCKE (1972, pp. 28 sgg.) nella prima monografia sull’artista. 3

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quecento era entrata a far parte della nobiltà di Genova (fig. 4)4. Attivi in ambito creditizio-bancario, i Ravenna avevano da subito cercato fortuna anche nella capitale pontificia. Già in un bando della Camera Apostolica del 1587, un certo Filippo Ravenna, cittadino genovese, è menzionato come «prefetto e soprastante» ai banchieri di Roma5; e con il breve In eminenti Justitiae dell’anno successivo, papa Sisto V gli rinnovava per un novennio la carica di prefetto dell’Università dei Banchieri6. Egli inoltre si era distinto in città per aver offerto una nuova campana, «grande, sonora e di buona qualità», da collocare nella torre di palazzo Senatorio in Campidoglio7. Cinquant’anni più tardi l’ambizioso Filippo Ravenna ha un degno successore nel suo discendente Francesco, futuro committente di Mola. La sua identità può essere ricostruita a partire dal 1639, quando il cardinale camerlengo Antonio Barberini gli assegna in appalto la gestione di gran parte delle dogane per i quindici anni a venire attribuendogli le ampie funzioni e prerogative descritte nei Capitoli delle dogane di Roma8. Un bando coevo AMAYDEN 1910, II, p. 161, che riporta la data del 1577. Ma il Libro d’Oro della nobiltà genovese indica il 1582, cfr. SCORZA 1920, tav. XXX; SCORZA 1924, p. 202. 5 Bando del cardinale Enrico Caetani Sopra l’esercitio delli banchieri di Roma del 24 dicembre 1587, in Archivio di Stato di Roma (=ASR), Bandi, busta 366, foglio non numerato. 6 Breve In eminenti Justitiae del 15 giugno 1588 (cfr. MORONI 1840-1861, LXXXIV, p. 72). 7 Delibera dei Conservatori del Campidoglio del 20 novembre 1581 (cfr. PECCHIAI 1950, pp. 109-110). Lo stesso Filippo Ravenna - al tempo qualificato come «mercante» - il 5 marzo 1577 era stato pagato per aver fatto venire da Genova una tavola di marmo da collocare sopra l’altare della cappella di palazzo dei Conservatori (PECCHIAI 1950, p. 179). 8 Capitoli delle dogane di Roma, Roma 1640, volumetto conservato in ASR, Bandi, busta 17. «La Reverenda Camera Apostolica dà e concede in appalto al signor Francesco Ravenna, per sé e li compagni che li piacerà nominare, loro eredi e successori, le dogane di Roma, cioè di Terra, Ripa, Ripetta e Grascia, con tutti li loro membri e pertinenze, eccettuata però la dogana del Vino […], la dogana di Pescaria […], la gabella delli doi per cento, la gabella 4

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dello stesso cardinale Barberini ne ribadisce il ruolo9, e forte della sua posizione il Ravenna nel 1643 riesce ad aggiudicarsi un ulteriore cospicuo appalto10. Contemporaneamente ricopre anche la carica di Conservatore in Campidoglio, come risulta da un editto emesso a sua firma nel 1639 (fig. 5)11, e ottiene una nuova elezione dieci anni più tardi12. La carriera di Francesco Ravenna si conclude il 3 febbraio 1663, quando muore, forse improvvisamente, senza aver lasciato un testamento. Ciò risulta in un documento dell’anno successivo relativo ad una parziale spartizione dell’eredità, cui procedono consensualmente i suoi quattro figli maschi13. L’atto è rogato dal notaio Francesco Tullio nel palazzo degli stessi Ravenna, che scopriamo così abitare nel rione Pigna presso la chiesa delle Sacre Stimmate di San Francesco. A un anno dalla morte del padre, Marcantonio Ravenna ottiene la sua quota di eredità scorchiamata di Fiumicino […], e Mercantie Ripali, e l’ultimo augumento della gabella della carne spettante ad essa Camera, per anni quindeci prossimi, che doveranno cominciare il primo di settembre del corrente anno 1639, e da finire come segue per tutto il mese d’agosto 1654, per annuo affitto e risposta in tutto di scudi duecentoventicinquemilaquattrocento di moneta, da pagarsi nel modo e forma che si conterà nella tabella da consegnarsi, e con li patti e capitoli infrascritti […]» (p. 7). Francesco Ravenna poteva liberamente decidere in materia di personale («ministri, guardiani, offitiali e facchini», p. 11), di misure contro frodi e abusi (p. 13), con responsabilità che lo autorizzavano a «portare tanto di giorno, quanto di notte ogni sorte d’arme, offensive e defensive, etiam con la lanterna proibita in Roma e in ogn’altro luogo dello Stato Ecclesiastico» (p. 25). 9 Bando del camerlengo Antonio Barberini sopra l’osservanza delli capitali della gabella di libre doi per cento del 6 ottobre 1639 (ASR, Bandi, busta 366, c. 32). 10 Appalto del dicembre 1643, per i successivi nove anni, relativo alla gabella sulla macina del grano. Cfr. GIGLI 1994, I, p. 401. 11 ASR, Bandi, busta 17, c. 4. Cfr. anche FORCELLA 1869-1879, I, p. 56, n. 135. 12 Cfr. FORCELLA 1869-1879, I, pp. 2 e 59, n. 149. Cfr. anche AMAYDEN 1910, II, p. 161, che scrive però di una sua elezione alla carica di Governatore. 13 ASR, Trenta Notai Capitolini, Ufficio 4, 1664, marzo, cc. 196r-197v, 222r223r. 40


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porandola «di commun concordia e volontà» da quelle dei fratelli Filippo, Alessandro e Urbano. Dall’accordo economico viene escluso l’ingente credito di diecimila scudi che i Ravenna vantavano nei confronti dei Gesuiti del Collegio Romano14, nonché l’investimento di duemila scudi necessario al mantenimento delle due sorelle Maria Cecilia e Olimpia, che rimane a carico di soli tre dei fratelli rimasti nella casa di famiglia. I beni ereditari oggetto di divisione si risolvono quindi in «mobili, gioie, ori, argenti e robbe di casa», purtroppo non meglio descritti, oltre che in «luoghi di monte, cavalierati e offitii» di cui Marcantonio riceve la quarta parte. Il prosieguo della vicenda dei Ravenna a Roma può dedursi da ulteriori testimonianze dei loro ruoli in Campidoglio: proprio uno dei figli di Francesco, Filippo, nel 1652 è nominato Priore dei Caporioni15 e nel 1672 Conservatore16, continuando una tradizione ormai di famiglia che perdurerà fino ai primi anni del Settecento17. Quindi la loro stirpe aristocratica verrà ufficialmente riconosciuta nella bolla Urbem Romam del 4 gennaio 1746 con cui papa Benedetto XIV farà censire le centottanta famiglie nobili esistenti in città18. L’11 maggio 1657 era stato erogato ai Gesuiti un prestito di pari entità dal Banco di Santo Spirito per far fronte a necessità impreviste (ASR, Notai del Tribunale dell’Auditor Camerae, Ufficio 9, 1657, maggio, cc. 159r-165r, notaio Muzio Guidotti). 15 Cfr. GIGLI 1994, I, p. 401; FORCELLA 1869-1879, I, p. 2. 16 FORCELLA 1869-1879, I, p. 5. 17 Fra le epigrafi del Campidoglio compare nuovamente un Francesco Ravenna, priore dei Caporioni nel 1690 e Conservatore nel 1693 (cfr. FORCELLA 1869-1879, I, p. 7; p. 49, n. 108; p. 71, n. 194). Successivamente Ludovico Ravenna sarà priore dei Caporioni nel 1705 (FORCELLA 1869-1879, I, p. 9; AMAYDEN 1910, II, p. 161), e Luigi Ravenna ricoprirà la stessa carica nel 1708 (cfr. FORCELLA 1869-1879, I, p. 10). 18 Cfr. PIETRAMELLARA 1893-1897, II, p. 105. Da registrare inoltre una lapide sepolcrale che esisteva in Santa Maria in Vallicella: «D.O.M. / SEPVLCRVM PHILIPPI RAVENNAE / NOBILE IANVENSIS / SIBI ET POSTERITATI SVAE CONDITVM / ANNO MDCXXX / ALOYSIVS RAVENNA RESTITVIT / AN. MDCCXXXVII» (in FORCELLA 1869-1879, XIII, p. 462, n. 1126). 14

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Per quel che qui interessa, questa breve panoramica consente di abbozzare per la prima volta un profilo coerente di questa famiglia e della sua ostinata ascesa sociale, che tuttavia non sembra aver lasciato tracce di rilievo nelle vicende artistiche del tempo. La commissione degli affreschi a Mola nasce quindi come un’eccezione a cui possiamo però già restituire una fisionomia più precisa: Francesco Ravenna era legato ai Gesuiti da solidi interessi economici e la sua cappella gentilizia si trovava proprio nella chiesa madre dell’Ordine, a pochi passi dalla sua abitazione, peraltro in stretto triangolo con l’abitazione-studio di Mola nell’attuale piazza Paganica. Cercare una risposta al problema da cui siamo partiti, significa ricostruire anzitutto l’aspetto della cappella degli Apostoli al tempo in cui Francesco Ravenna ne acquisisce il patronato. Ciò avviene in un momento immediatamente anteriore al settembre 1647. Da allora in poi, infatti, nei registri contabili della sacrestia si trova puntualmente annotato il suo nome, per i sedici anni successivi e dunque fino alla sua morte – quando il suo posto verrà preso dal figlio Filippo –, in occasione di elemosine elargite e somme versate per le spese correnti e straordinarie: dalla lampada da tenere accesa dinanzi l’altare, alle messe cantate, dai paramenti di arredo agli oggetti liturgici, alle ricorrenze da festeggiare19. La cappella si presentava sostanzialmente invariata rispetto alle forme conferitele nel secolo precedente per volontà dei Morelli, suoi primi titolari, e culminate nell’estesa decorazione pittorica del Pomarancio20. Il nuovo patrono provvede ad aggiungervi, Archivum Romanum Societatis Iesu (=ARSI), Chiesa del Gesù, voll. 2009, 2009a, 2010, passim. 20 Tenendo ferma la classica ma datata monografia di Pio Pecchiai sulla chiesa del Gesù (PECCHIAI 1952), punto di riferimento per la nostra indagine è la convincente ricostruzione elaborata da Howard Hibbard del primo programma decorativo complessivo di cappelle e altari della chiesa fissato dai Gesuiti al tempo della sua consacrazione, nel 1584 (cfr. HIBBARD 1972). La decorazione della cappella degli Apostoli inizia nel 1585 con i lavori di alle19

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oltre gli affreschi di Mola, i due già citati stemmi marmorei con le proprie insegne21. Non conosciamo invece quale opera si trovasse a quel tempo sopra l’altare, giacché la tela di Andrea Pozzo oggi in loco fu originariamente dipinta per la cappella della Passione (la seconda a destra) e lì rimase almeno fino alla metà

stimento dell’altare e tabernacolo marmoreo, di cui resta traccia nei pagamenti allo scalpellino Giulio di Bartolomeo Albertini per due capitelli corinzi. I committenti erano i signori Pietro e Paolo Morelli, primi titolari della cappella, che contestualmente ne affidavano anche la decorazione pittorica a Niccolò Circignani (cfr. ZUCCARI 1984, p. 31, per i pagamenti all’artista in otto rate fra il settembre 1585 e il maggio 1587). Tali affreschi sopravvivono nei registri superiori (Martirio di san Pietro e Martirio di san Paolo nei lunettoni; Allegorie delle Virtù Cardinali nei tondi dei pennacchi; Storie degli apostoli Pietro e Paolo a monocromo; Pentecoste nella volta), mentre l’unica memoria delle grandi scene ambientate sulle pareti laterali, che con ogni probabilità presentavano lo stesso soggetto poi ripreso nei successivi murali di Mola, è affidata al già citato dipinto di Andrea Sacchi (cfr. nota 3), nel quale si scorge parte dell’affresco della parete di destra. 21 Dunque non va interpretato estensivamente un documento, forse del 1680, secondo il quale la cappella «fu ornata da signori Pietro e Paolo Morelli, da questi poi con licenza del Preposito Generale ceduta al signor Francesco Ravenna, il quale l’ha ornata con marmi e pitture di Francesco Mola» (ARSI, Chiesa del Gesù, vol. 2008, c. 66). Un confronto con le altre cinque cappelle della navata non consente infatti di ravvisare elementi tali da far pensare ad un ammodernamento seicentesco dei rivestimenti marmorei di quella degli Apostoli, e induce piuttosto a credere che il documento alluda ai meri stemmi araldici applicati ad un altare già esistente e rimasto immutato. L’unica incognita potrebbe riguardare il rivestimento pavimentale: un’ulteriore versione del documento, infatti, non rintracciata dallo scrivente ma pubblicata in GALASSI PALUZZI 1929, p. 385, cita esplicitamente il «pavimento di marmo» commissionato da Francesco Ravenna. Sembra strano, tuttavia, che a pochi decenni dalla consacrazione dell’edificio si rendesse necessario metter mano al pavimento. Bisogna poi tenere conto che quello attuale appare frutto anche degli interventi ottocenteschi dei marchesi Ferrari, ultimi proprietari della cappella. Le iscrizioni che vi si leggono non accennano ai Ravenna, mentre ricordano le antiche sepolture dei membri della famiglia Morelli e quelle degli stessi Ferrari, che tra 1870 e 1877 commissionarono anche i quattro monumenti funebri ubicati sulle pareti laterali sotto gli affreschi di Mola.

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del XIX secolo22. Hibbard ha ragionevolmente postulato che vi fosse un’opera di soggetto coerente con il tema della restante decorazione, ovvero la magnificazione dell’attività missionaria dei Gesuiti evocata tramite i grandi esempi di san Pietro e san Paolo (perfetto contrappunto all’antistante cappella dei Martiri, la cui pala d’altare, eseguita da Agostino Ciampelli e tuttora in sede, raffigura il Martirio di sant’Andrea). Dunque lo studioso suggeriva una Predicazione di Paolo ad Atene, oppure un Pasce oves meas o una Consegna delle chiavi a Pietro, o anche una Vocazione di Pietro e Andrea23. In cosa consistesse quest’opera, su cui le fonti storiche hanno sempre taciuto24, ci viene suggerito proprio dai registri contabili della sacrestia. Fin dalle prime testimonianze della presenza di Francesco Ravenna, la cappella è chiamata indifferentemente «dei santi Pietro e Paolo», come già sappiamo, ma anche «del santissimo Crocifisso», con una netta prevalenza anzi di

Il dipinto raffigura San Francesco Borgia e i Martiri del Giappone, questi ultimi aggiunti nel XIX secolo da Pietro Gagliardi. Fu eseguito per sostituire la Pietà di Scipione Pulzone, a lungo dispersa e oggi a New York, ed è documentato nella cappella della Passione in tutte le edizioni del TITI (1674-1763, p. 100) fino a VISCONTI 1847 (II, Monumenti moderni di Roma, p. 123), e solo dopo la metà dell’Ottocento quindi sarà trasferito nella cappella degli Apostoli. Qui viene ampiamente descritto in GALASSI PALUZZI 1929 (pp. 385-387), un testo tuttavia viziato da alcuni errori nell’esame delle fonti e che dunque propone ricostruzioni non sempre attendibili. 23 Cfr. HIBBARD 1972, p. 31. Inverificabile, ma decisamente incongruente coi dati sicuri, è l’ipotesi di GALASSI PALUZZI (1929, p. 387) che vi fosse stata trasferita la tela di Antiveduto Grammatica di cui si dirà alla nota 28: raffigurando il Beato Francesco Borgia in adorazione del Santissimo Sacramento, infatti, essa non avrebbe giustificato il riferimento al Crocifisso che invece accompagnava la cappella. 24 Male interpretando un passo di Gaspare Celio, Pio Pecchiai sosteneva che tale presunta ancona fosse un Presepio eseguito da un anonimo fiammingo: oggi pacificamente individuato nell’opera perduta di Hans Van Aachen che ornava l’altare dell’adiacente cappella della Natività, e che conosciamo grazie all’incisione trattane da Aegidius Sadelaer nel 1588 (HIBBARD 1972, pp. 3435). 22

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quest’ultimo appellativo25. Si tratta di un dato nuovo e anomalo, che scombina l’originario schema decorativo dell’intera chiesa e pone l’interrogativo della propria origine: escludendo infatti le decorazioni murali del Pomarancio e di Mola, strettamente legate all’iconografia degli Apostoli, esso non poteva derivare altro che dall’altare, fulcro dell’intero spazio sacro, dove dobbiamo credere che il tema rappresentato fosse proprio un Cristo crocifisso. Muovendo da questo dato, è possibile spingersi ad una circostanziata ipotesi su quale opera nel Seicento conferisse tale nome alternativo alla cappella, ma per farlo è indispensabile una digressione su un altro spazio dell’edificio: perché in origine esisteva già un altare dedicato, appunto, al Crocifisso. Ci riferiamo a quello a sinistra nella crociera, che solo in un secondo momento sarà intitolato a sant’Ignazio di Loyola, canonizzato nel 1622, e dove a partire dal 1695 sorgerà la colossale macchina progettata da Andrea Pozzo26. Al tempo della consacrazione della chiesa il patrono dell’altare era il cardinale Giacomo Savelli, che ne aveva commissionata la realizzazione a Giacomo della Porta: un tabernacolo impostato su due colonne di breccia antica orientale poggianti su un basamento recante l’arme dei Savelli e sorreggenti un coronamento ad architrave e timpano27. Così inquadrato, lo spazio sopra la mensa avrebbe dovuto ospitare un crocifisso a grandezza naturale in bronzo, commissionato al bresciano Prospero Amici ed applicato contro una tavola di marmo grigio africano. Nell’attesa che lo scultore eseguisse l’opera, venne provvisoriamente collocato al suo posto un crocifisso ligneo, un esemplare coevo di ignoto autore spagnolo. Il cardinale però morì nel dicembre 1587, seguito a breve giro dallo stesso Prospero Bresciano, e i lavori rimasero Per la precisione, su tredici volte che nei documenti esaminati e pertinenti agli anni di Francesco Ravenna viene citato esplicitamente l’appellativo della cappella, in nove casi essa è indicata come «del Crocifisso», solo in tre casi come «dei santi Pietro e Paolo», e in un caso compaiono in sequenza entrambe le denominazioni. 26 Cfr. REDIG DE CAMPOS 1936, p. 152 sgg. 27 Cfr. ACKERMAN 1965. 25

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incompiuti con il modello in cera pronto per la gettata del bronzo. Solo alcuni anni più tardi gli eredi del porporato ne finanziarono il completamento, e il nuovo crocifisso, fuso da Ludovico del Duca, andò verosimilmente a prendere il posto della provvisoria scultura lignea28. È in questa congiuntura che potrebbe entrare la cappella dei santi Pietro e Paolo. Fino ad oggi infatti non è mai stato chiarito del tutto il destino del crocifisso Savelli, né di quello spagnolo. Si suppone che il primo non fosse di particolare pregio estetico, poiché ne vennero registrate debolezze sul piano qualitativo già ancor prima della fusione, quando a Ludovico del Duca fu chiesto da Giovanni Savelli, erede del cardinale, di rilavorare il modello in cera di Prospero Bresciano perché non all’altezza delle aspettative29. È plausibile che l’opera sia andata dispersa, fusa o venduta insieme a miriadi di suppellettili liturgiche al tempo della soppressione dell’Ordine (peraltro nel 1767 una «croce grande» è registrata fra gli oggetti che vengono mandati alla fornace per ricavare nuovo metallo da vendere)30.

La storia successiva dell’altare sinistro della crociera vuole che il Cavalier d’Arpino realizzasse uno o due dipinti, perduti, raffiguranti i Martiri del Giappone ed i Martiri dell’India (ma è possibile che fossero la stessa opera identificata in modi diversi, cfr. RÖTTGEN 2002, cat. 219, p. 446), cui si aggiunse più tardi una tela di Antiveduto Grammatica ritraente il Beato Francesco Borgia in adorazione del santissimo Sacramento, anch’essa perduta (cfr. RIEDL 1998, cat. 33, p. 183). A tale configurazione non meglio precisabile, con cui era stato ormai sostituito il crocifisso Savelli non più coerente con la nuova dedicazione dell’altare, si aggiunsero due dipinti di Van Dyck e bottega, ritraenti Sant’Ignazio di Loyola e San Francesco Saverio, segnalati dal Titi e recuperati in epoca moderna (cfr. REDIG DE CAMPOS 1936; LARSEN 1980, I, catt. 394395, pp. 112-113); sino a quando, a fine Seicento, Andrea Pozzo non stravolgerà totalmente lo spazio e si perderanno le tracce di gran parte delle opere fin qui menzionate. 29 Cfr. PECCHIAI 1952, pp. 97-98. 30 Cfr. PECCHIAI 1952, p. 205. Cfr. anche DIONISI 1982, p. 60, nota 14. 28

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Il crocifisso ligneo invece esiste ancora. Nella prima metà del secolo scorso risultava collocato nell’atrio della sacrestia31. Quindi, dopo che nel 1950 si è ricavata una nuova cappella, la quarta sul lato sinistro, murando la porta del vestibolo che costituiva l’accesso settentrionale all’edificio dall’odierna via del Plebiscito, la scultura è stata sistemata lì, dove si conserva tutt’oggi (fig. 6)32. L’insieme di questi dati consente di ipotizzare che proprio il crocifisso spagnolo venisse collocato nella cappella degli Apostoli, forse già al tempo dell’inaugurazione del nuovo esemplare in bronzo sull’altare Savelli. È assai improbabile che nel tardo Cinquecento i Morelli non avessero commissionato un’opera per l’altare: ma sia che essa venisse presto sostituita, sia che invece inspiegabilmente non fosse mai esistita, è un dato di fatto che nel pieno Seicento sia intervenuto un nuovo tema iconografico a sovrapporsi a quello originario degli Apostoli, conferendo all’intera cappella il titolo alternativo con cui essa viene ricordata nei documenti. Ad ulteriore sostegno dell’ipotesi, sappiamo che quando Francesco Ravenna ne acquisisce il patronato, fra le condizioni rammenta quella che ogni anno siano festeggiate a sue spese quattro precise ricorrenze: l’Incarnazione (25 marzo), i Santi Pietro e Paolo (29 giugno), l’Esaltazione della Santa Croce (14 settembre) e la Commemorazione dei defunti (2 novembre)33. Cfr. PECCHIAI 1952, p. 96, dove si accenna al «grande Cristo in croce scolpito in legno, di quello stil realistico, talvolta fino all’esagerazione, che trovò la sua massima fortuna nella Spagna, e che è sempre stato il più adatto ad impressionare il popolo. Infatti i Romani avevano subito concepita una particolare venerazione per la nuova immagine divina, e lo dimostrò il generale rammarico quando venne tolta di chiesa e ritirata nello spazioso atrio della sagrestia, dove anche oggi i fedeli si recano a venerarla». 32 Cfr. BUCHOWIECKI, KUHN-FORTE 1967-1997, III, pp. 455-456. 33 ARSI, Chiesa del Gesù, busta I, fasc. 138, c. 1r, documento non datato: «Signori provisori del Sacro Monte della Pietà saranno contenti di pagare scudi mille e trecento moneta a chi con frutti del […] averà liberamente rasegnato luoghi tredici del monte di San Bonaventura a favore della cappellania, overo opera pia, istituita da me, Francesco Ravenna, con […] tanto della 31

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Se la seconda e la quarta appaiono ovvie, il tema cristologico della prima e della terza si sposa perfettamente con la nuova intitolazione aggiuntasi in parallelo e scaturita dal soggetto dell’opera posta sull’altare. Scorrendo i registri di sacrestia troviamo ogni anno, come detto, le annotazioni di pagamenti ed elemosine. Ad esempio, nel settembre del 1652 il Ravenna paga per quattro candelieri ed una croce34; mesi dopo, nel giugno del 1653, paga un frontale di velluto rosso con passamanerie dorate a cascate e bandinelle da

sorte principale quanto de frutti al padre procuratore generale presente e protempore della Compagnia di Giesù, […] di detta cappellania, overo opera pia, ed esecutore di quella, il quale in caso di […] o estinzione dei detti monti abbia facoltà de rinvestirli in altri luoghi de monti non vacabili, con […] perpetui, o in altro rinvestimento a suo beneplacito dei frutti di delli tredici luoghi, o di altro rinvestimento che occurresse fare come sopra / da adesso instituisco procuratore / darne scudi quaranta di moneta l’anno ad un cappellano che sia insieme buon cantore e bona voce, per limosina di quattro messe la settimana, che doverà celebrare nella venerabil chiesa del Giesù di Roma per l’anima mia, e del resto di tutti frutti doverà parimente a suo conto erogarli in quaranta libre di candela di cera, per le quattro feste da farsi ogni anno nella mia capella del santissimo Crocifisso che è in detta chiesa del Giesù: cioè le feste dell’Incarnazione, l’Esaltazione della santa Croce, respettivamente […] e delli santi apostoli Pietro e Paolo, e due torcie di quattro libre l’una per il giorno de morti; il detto capellano dovrà esser obligato di cantare in detta chiesa del Giesù, oltre al celebrare le quattro messe la settimana nelle feste che è solito tenersi in detta chiesa, il qual capellano intendo che sia amovibile ad meum, e l’elezione di esso sia riservata a me durante la mia vita, doppo la mia morte al mio erede, e doppo la morte del mio erede al reverendissimo padre generale della Compagnia di Giesù pro tempore, che con fede del secretario saranno ben pagati». 34 ARSI, Chiesa del Gesù, vol. 2010, cc. non numerate: «Introito di settembre 1652 […]. Adì 27 si sono fatti fare quattro candelieri e il piede della croce di ottone, di peso di libbre ottanta, e la croce; si sono pagati a […] di 8.40 la libbra, e la croce scudi trentacinque, a spese del signor Francesco Ravenna per la sua cappella». Visti i costi ed il peso esigui (ottanta libbre romane corrispondono a poco più di ventisette chili), è da escludere qualsiasi attinenza con il crocifisso monumentale e si deve pensare a comuni suppellettili. 48


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mettere sull’altare35. Successivamente vengono donate alla chiesa, non è noto da parte di chi, quattro statue lignee di angeli che vengono collocate a due a due nella cappella Ravenna e in quella, antistante, dei Martiri36. Infine Francesco si offre di pagare una nuova corona di argento dorato per una statua della Madonna presente in chiesa, alla quale era stata rubata quella originale d’oro37. Ma ovviamente l’impresa di rilievo sta nella scelta di rimpiazzare i murali laterali del Pomarancio con quelli di Pier Francesco Mola. Le avare annotazioni dei registri di sacrestia non sono esplicite in tal senso. Una di esse però lascia sfuggire un riflesso, quasi impercettibile ma per noi fondamentale, della novità dovuta all’iniziativa del patrono, che affiora in queste parole: Cento [scudi] dal signor Francesco Ravenna, quali diede con obbligo di mantenere per sempre, per il giorno, la lampada accesa nella cappella da lui restorata del santissimo Crocifisso e santi Pietro e Paolo, e si sono spesi in servizio della chiesa a questo patto di mantenere detta lampada accesa il giorno38.

Siamo al 20 marzo 1654, e non possono esserci dubbi che il ‘restauro’ a cui si riferisce il documento consista proprio nei nuovi affreschi eseguiti da Mola e non certo nelle piccole aggiunte di arredi che abbiamo visto poc’anzi. Il fatto che all’autore della nota in questione sia venuto spontaneo alludere del tutto gratuitamente e fuori contesto all’intervento promosso dal Ravenna, ARSI, Chiesa del Gesù, vol. 2009, cc. non numerate, «Introito di giugno 1653»; ARSI, Chiesa del Gesù, busta I, fasc. 136a, c. 2r. 36 ARSI, Chiesa del Gesù, vol. 2009a, cc. non numerate: «Introito aprile 1656 […]. In questo mese sono stati donati quattro angeli di legno, bianchi e rabescati di oro, sono stati posti due al Crocifisso e due a sant’Andrea». 37 ARSI, Chiesa del Gesù, vol. 2010, cc. non numerate: «Introito novembre 1656 […]. In questo mese è stata rifatta la corona alla Madonna che era stata rubata, quella d’oro; ora il signor Francesco Ravenna l’ha fatta fare di argento indorata». 38 ARSI, Chiesa del Gesù, vol. 2010, cc. non numerate, «Introito di marzo 1654». 35

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induce a sospettare che questo si fosse concluso di recente e risaltasse ancora come novità immediatamente associabile all’iniziativa del suo committente. Dunque Mola era stato incaricato di sostituire le due scene delle pareti laterali con nuove raffigurazioni del medesimo soggetto, quale segno di tangibile affermazione della proprietà Ravenna. La stessa cosa d’altronde avveniva fin dagli anni Quaranta nell’adiacente cappella della Natività, dove il nuovo proprietario, monsignor Antonio Cerri, aveva promosso un ammodernamento generale che sarebbe culminato nella scelta di far ridipingere i murali laterali – anche lì del Pomarancio – a Giovan Francesco Romanelli39. Tuttavia i fragili olii su muro realizzati da quest’ultimo si sarebbero rivelati un fallimento dal punto di vista tecnico, deteriorandosi al punto da andare perduti e consentire il recupero degli affreschi del Circignani sotto lo scialbo. Mola invece adottò un approccio più tradizionale lavorando a fresco con abbondanti rifiniture a secco, e nulla fa sospettare che abbia in qualche modo preservato gli affreschi cinquecenteschi sotto il nuovo strato di intonaco40. A questo punto, prima di verificare la nuova cronologia sul piano stilistico, è il caso di domandarsi la ragione per cui la scelta della committenza sia ricaduta sull’artista ticinese. Malgrado non fossero certo privi di mezzi economici né di ambizioni, infatti, i Ravenna non dovevano essere particolarmente interessati al ruolo di mecenati o collezionisti, e ad oggi gli affreschi di Mola vanno registrati come l’unico aggancio della famiglia con il mondo artistico romano del pieno Seicento. Sarà bene dunque ritenere che l’impresa sia stata assegnata con un movente diverso dalla preferenza per le qualità peculiari del pittore, che forse i Ravenna non erano troppo predisposti ad apprezzare. Uno spunto in proposito ci viene da un altro documento notarile, una compravendita immobiliare stipulata nel 1665 tra, ancora Cfr. HIBBARD 1972, p. 39. Per le notizie sul più recente restauro delle pitture di Mola (2005), sono grato alla restauratrice Paola Tollo ed al personale dell’Archivio restauri della Soprintendenza SPSAE e per il Polo Museale della Città di Roma. 39 40

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una volta, i quattro figli ed eredi di Francesco Ravenna ed il marchese Giovan Battista Costaguti41. L’oggetto, il passaggio di proprietà di un vigneto e frutteto ai Colli Albani, permette di ipotizzare che le due famiglie di banchieri, entrambe nobili di origine ligure e residenti a Roma a pochi passi l’una dall’altra, fossero in qualche rapporto già da prima di operare tale transazione. I Costaguti erano stati importanti mecenati di Mola fin dagli anni Quaranta, quando il cardinale Vincenzo gli aveva commissionato l’affresco di Bacco e Arianna per il proprio palazzo42, e nel tempo avevano acquisito molte altre sue opere (basti pensare all’inventario settecentesco del cardinale Giovan Battista)43. Dunque potrebbero anche aver giocato un ruolo nel suggerire ai Ravenna di ammodernare la cappella di famiglia al Gesù, segnalando loro uno dei propri pittori favoriti. In mancanza di alternative migliori, questo al momento rimane il nesso più plausibile per spiegare come Pier Francesco Mola sia giunto ai suoi primi grandi affreschi ‘pubblici’ a Roma. Il nuovo e determinante appiglio cronologico rappresenta uno spartiacque nell’annosa querelle cui si accennava all’inizio, escludendo innanzitutto una datazione troppo avanzata per gli affreschi del Gesù. L’esame stilistico conferma pienamente quest’indicazione e spinge a non retrocederli di molto rispetto al documento del marzo 1654, poiché riteniamo decisive le affinità con quanto resta del ciclo pittorico del palazzo Pamphilj di Nettuno (peraltro solo di recente fissato alla giusta cronologia per

L’11 aprile 1665, presso il palazzo Costaguti in piazza Mattei, il notaio Leonardo Bonanno stipula un atto in base a cui un fondo piantato ad alberi da frutto e vigne, sito nel territorio di Castel Gandolfo in località detta «il Laghetto», di proprietà di Filippo, Alessandro, Marcantonio e Urbano Ravenna, viene venduto al marchese Giovan Battista Costaguti, già proprietario del fondo adiacente (cfr. ASR, Trenta Notai Capitolini, Ufficio 2, 1665, aprile, cc. 29r-30v, 41r). 42 Cfr. PETRUCCI 2012, cat. D6. 43 Cfr. SPEZZAFERRO 1989, pp. 53-55. 41

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via documentaria)44. Si confrontino la figura del San Pietro Ravenna con quella del Giuseppe di Nettuno (figg. 7-8), per un eloquente esempio di come certe ricorrenti fisionomie tendano alla medesima forma ampia e robusta, mantenendo però una definizione talora insistita e affilata di volti, barbe, rughe, capelli, che solo in anni successivi si evolverà in una piena coerenza di forme sode e semplificate. In altri termini, siamo nel pieno di un percorso di nuova romanizzazione che conduce Mola a superare gli schemi di memoria bolognese e albaniana, visti in palazzo Costaguti (c. 1647) o alla Quercia (1650-51), e a maggior ragione i tratti corsivi e vernacolari degli affreschi di Coldrerio (164142). Naturalmente a Roma, assai più che a Nettuno, si imponeva uno sforzo supplementare di parlare un linguaggio alto e monumentale, ed in tal senso la scena ambientata nel carcere Mamertino è esemplare: ogni sforzo è profuso nella costruzione delle linee di fuga della scatola prospettica e nello studio di ogni singolo concio delle murature - saggio della formazione di Pier Francesco anche come architetto?45 - che racchiudono la folla di figure umane. Ma solo l’impetuoso cromatismo riesce a compensare gli effetti scolastici e talora involontariamente parodistici che non rendono pienamente credibile tale messa in scena. C’è qualcosa, nel modo impostato e insincero di posizionare tali attori recitanti nei ruoli inventati da Raffaello in altri tempi e in altro contesto, che richiama direttamente ad esempio il Sant’Eustachio di Nettuno, clamorosamente desunto dal San LonPer un resoconto aggiornato cfr. PETRUCCI 2012, pp. 438-439. Mola dovette lavorare a Nettuno in due fasi, fra l’aprile e maggio del 1654, quando decorò le volte delle stanze; e tra il febbraio e l’aprile del 1655, quando si occupò della galleria. 45 È recentissima e tutta da approfondire la notizia che Mola, ancora ventenne, abbia effettivamente seguito il padre Giovan Battista nel cantiere del Forte Urbano di Castelfranco Emilia e qui sia stato eletto soprastante della fabbrica e come tale pagato dal marzo 1632 al novembre 1633 (cfr. RUSSO 2012, p. 99). I notissimi fogli in cui Pier Francesco disegna con approccio e tecnica da architetto (si pensi ai molteplici studi per l’affresco del Quirinale), sono stati oggetto di una prima discussione in tal senso nel corso del recente convegno internazionale di studi IL CONTRIBUTO DI UNA FAMIGLIA 2013. 44

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gino di Bernini46: stesso citazionismo tra il divertissement e l’affannosa ricerca di riferimenti per non smarrirsi lungo un percorso ancora non bene messo a fuoco. Siamo in presenza di un dipingere pienamente godibile nei dettagli e nella fattura, ma che difetta nel disegno d’insieme e tradisce un intimo distacco rispetto alla storia rappresentata, come già aveva sottolineato acutamente Passeri. Questa cronologia implica che Francesco Ravenna, malgrado avesse acquisito il patronato della cappella già nel 1647, attese alcuni anni prima di decidersi a finanziarne la ridecorazione47. Se tutto ciò è giusto, è allora opportuno scalare ulteriormente in avanti l’affresco con il Martirio dei santi Abdon e Sennen in San Marco, che per la maggior scioltezza ed efficacia può datarsi al pieno 165548. In questi densi anni di lavoro Mola metabolizza progressivamente l’organico vigore della forma cortonesca e gli affreschi del Gesù, il cui esito più alto è senz’altro nella Conversione di san Paolo, si collocano nel pieno svolgersi di questo ennesimo tirocinio della sua carriera. Solo qualche anno più tardi riuscirà ad esprimersi anche nella grande pittura murale con autentica espressività, facendo rimpiangere la perdita del capolavoro di Valmontone, nella cui superstite Allegoria dell’America si scorge, pienamente rinnovata nella forma, la stessa ispirata compenetrazione di figura umana e paesaggio propria della sua migliore produzione su tela. Cfr. PETRUCCI 2012, p. 75, fig. 48. Questa datazione collimerebbe anche con quella di un disegno del Louvre raffigurante uno dei personaggi dell’affresco Ravenna, eseguito sul verso di uno schizzo per il Figliol prodigo (cfr. ROWLANDS 1964, p. 274, fig. 23a; COCKE 1972, p. 59, cat. 53). Concordemente ritenuto pertinente alla produzione pittorica della prima metà degli anni Cinquanta (cfr. ad esempio LAUREATI 1989, cat. I.16), il disegno è un complemento utile anche se non certo determinante, dato che Mola talvolta riutilizzò gli stessi fogli anche a distanza di anni, come ricorda il caso esemplare dei disegni per gli affreschi della Quercia (cfr. SCHLEIER 1977, p. 17 e figg. 8-9). 48 I documenti relativi hanno permesso finora di datare l’opera fra gli anni 1653 e 1655. Cfr. da ultimo PETRUCCI 2012, pp. 459-461. 46 47

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Didascalie Fig. 1. Pier Francesco Mola, San Pietro in carcere battezza i Santi Processo e Martiniano, 1653-54. Roma, SS. Nome di Gesù. Fig. 2. Pier Francesco Mola, Conversione di San Paolo, 1653-54. Roma, SS. Nome di Gesù. Fig. 3. Stemma della famiglia Ravenna. Roma, SS. Nome di Gesù. Fig. 4. Stemma della famiglia Ravenna (AMAYDEN 1910). Fig. 5. Editto dei Conservatori Francesco Ravenna, Marzio Nari e Fabio Celsi, 12 marzo 1639, Archivio di Stato di Roma. Fig. 6. Ignoto scultore spagnolo, Cristo crocifisso, sec. XVI. Roma, SS. Nome di Gesù. Fig. 7. Pier Francesco Mola, San Pietro in carcere battezza i Santi Processo e Martiniano (particolare), 1653-54. Roma, SS. Nome di Gesù. Fig. 8. Pier Francesco Mola, Il sogno di Giuseppe, particolare, 1654. Nettuno, Palazzo Pamphilj.

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