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Questa città che non finisce mai. Giacomo Leopardi
Sin dal titolo il presente fascicolo di Horti Hesperidum ha l’intenzione di sottolineare ed esplorare un aspetto specifico e questioni ben note connesse allo studio delle arti sviluppatesi a Roma nel corso dei secoli: le difficoltà, i limiti e l’opportunità di definire entità e confini di una presunta ‘scuola’ romana e il ruolo che vi ebbe il disegno. Il concetto di scuola artistica è da tempo oggetto di revisione da parte della critica e che cosa renda ‘romana’ l’arte romana è quesito a cui si è spesso provato a rispondere. Ininterrottamente poliglotta e universale, l’Urbe in cui giunsero Michelangelo, Bramante e Raffaello, tutti forestieri e come moltissimi prima e dopo di loro ivi accolti e ‘nutriti’, era da decenni il luogo
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destinato a farsi centro di attrazione e propulsione per almeno tre secoli. Ciò e coloro che li avevano preceduti si distinguono da quanto verrà e per più ragioni, tra le quali una costante e inconsapevole mancanza di indirizzi comuni, elemento che non consente ancora di individuare e apprezzare, alla fine del XV secolo, una vera e propria scuola locale o ancor meglio una identità artistica specifica e autentica, che esuli dalle rispettive matrici culturali dei molti artisti coinvolti. Tuttavia è proprio nel corso del Quattrocento romano che tale identità in fieri sembra far propri alcuni elementi chiave delle diverse culture e personalità artistiche che vi operarono. Il caso del primo cantiere decorativo della cappella Sistina, premessa felice e significativa a quanto avverà dal secolo successivo, è emblematico del ruolo primario della cultura umbro-toscana a Roma e, non ultimo, di quello assunto dal disegno in questo processo di penetrazione. Ma è solo a partire dal Cinquecento che è possibile apprezzare un autentico e tangibile ‘stile romano’, pur nella continuità di artisti in gran parte non romani di nascita: i canoni della Maniera vengono assimilati e ripensati e si manifestano nelle opere e nelle mani di artisti che diventano essi stessi canoni, modelli ‘romani’ e moderni da affiancare all’antico che Roma rappresenta. Tutto questo prosegue, con reazioni, rivoluzioni e sviluppi ben noti, fino alla prima metà del XIX secolo, quando la città riveste ancora una posizione centrale per la formazione e per l’elaborazione artistica. È fuor di dubbio che i contributi di determinate culture, e di alcune figure in particolare, segnarono profondamente e a più riprese gli esiti delle arti a Roma in età moderna, ma è altrettanto vero che quanto Roma aveva da offrire, in momenti diversi e differenti epoche, sempre e inevitabilmente connesse, condizionò irrimediabilmente quelle stesse figure e culture. Se quindi non si può immaginare la cultura artistica romana tra Rinascimento, Manierismo, Barocco e Neoclassicismo senza l’apporto, in più tempi, modi e persone, di quella costellazione di scuole, anche d’oltralpe, che vi contribuirono, allo stesso tempo non è possibile scriverne la storia senza considerare la vasta produzione grafica di quegli anni e, attraverso di essa, il 6
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ruolo dei tanti attori coinvolti, i cui disegni, che siano schizzi, copie o studi finiti, sono spesso in grado di documentare genesi e percorsi, legami e filiazioni più e meglio delle opere solitamente considerate ‘compiute’. Questo complesso e persistente melting pot artistico-culturale, che diede origine e reiterata sostanza alla scuola di Roma, è verificabile attraverso i disegni di chi, stabile o di passaggio, vi fu a vario titolo attivo, comprimario o protagonista che fosse. In Roma, e sulla base di quanto accennato si può aggiungere ‘verso’ e ‘da’ Roma, il disegno ebbe sviluppi ed esiti quanto mai vari e intricati, sintomatici e decisivi, in una incessante e sempre rigenerata tradizione. È in questi termini e per tali ragioni che il disegno e i disegni a Roma sono anima e protagonisti degli studi qui raccolti. Il fascicolo si apre con gli anni Trenta del Cinquecento, quando, con gli svolgimenti della ricerca di Michelangelo, il Rinascimento ‘maturo’ ha già lasciato il passo alla propria estesa evoluzione manierista. Il primo contributo prende in esame i celebri disegni di Michelangelo per Tommaso de’ Cavalieri, chiarendo le ragioni, il ruolo e il contesto di nascita e di appartenenza di questi eccezionali presentation drawings. Allo stesso secolo, ma a momenti ed esperienze successive e differenti, appartengono i due saggi con aperture, proposte e aggiunte per Girolamo Siciolante da Sermoneta (1521 ca.-1575), pittore che tende a far dialogare il classicismo raffaellesco con un quieto e mediato michelangiolismo, e per lo zuccaresco Nicolò Martinelli da Pesaro detto il Trometta (1535 ca.-1611), figura emblematica del tardo Manierismo romano, di quella produzione grafica composita e ancora in parte oscura dei molti «artists working in Rome» tra fine Cinque e primo Seicento. La varietà e l’abbondanza dell’arte del disegno del XVII secolo a Roma (e via Roma) sono rappresentate da più contributi e personaggi che si intersecano all’interno di una cultura oscillante tra Barocco e Classicismo. Apre il periodo il pittore e incisore genovese Giovanni Andrea Podestà (1608-1673 ca.), attivo in prevalenza nell’Urbe dagli anni Trenta e nell’orbita dei Giustiniani e di Cassiano dal Pozzo, il cui corpus viene in questa Horti Hesperidum, IV, 2014, 1
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sede chiarito e ampliato con diverse proposte. Seguono i cortoneschi, nonché romani di nascita, Ciro Ferri (1634-1689) e Pietro Lucatelli (1637 ca.-1710) di cui viene esaminato il ruolo, attraverso disegni di nuova lettura e attribuzione, nell’ideazione dei cosiddetti Piatti di san Giovanni, esempi significativi del contributo offerto da disegnatori romani di alto livello alle arti applicate e della continuità delle relazioni intercorse sull’asse Roma-Firenze. È poi presa in esame l’attività grafica, con nuove attribuzioni e approfondimenti documentati, di tre personaggi che incarnano l’estensione in terra d’Abruzzo e nelle Marche delle principali istanze romane della seconda metà del secolo: gli aquilani Francesco Bedeschini (1626-1695 ca.), esponente di spicco del Barocco locale, il suo collaboratore Cesare Fantetti (doc. 1673-1689) e l’ascolano Ludovico Trasi (1634-1694), allievo di Andrea Sacchi. Il contributo successivo è dedicato all’eclettico Giacinto Brandi (1621-1691), pittore di altissimo livello dal corpus grafico tuttora scarno e incerto, al quale è riferito un grande progetto per soffitto conservato al Metropolitan Museum of Art. A cavallo tra Sei e Settecento si colloca il saggio che getta luce sull’opera del pittore Andrea Procaccini (1671-1734), attraverso lo studio del cospicuo fondo di disegni maratteschi conservati a Madrid nella Real Academia de Bellas Artes de San Fernando. Nella Roma piranesiana di pieno Settecento ci conduce poi l’indagine sui rapporti degli artisti spagnoli con la città, con le accademie locali e in particolare con quella francese, verificata sul caso dell’architetto spagnolo Domingo Antonio Lois Monteagudo (1723-1786) e del suo Libro de Barios adornos. L’Ottocento romano è aperto da Tommaso Minardi (17871871), talentuoso e versatile disegnatore oltre che grande didatta, del quale sono analizzati i fogli conservati all’Accademia di San Luca, provenienti in gran parte dal prezioso fondo rimasto nel suo studio. Nel segno o all’ombra del maestro faentino, dei suoi colleghi e della temperie neoclassica romana ormai in corso di trasformazione si collocano i due interventi successivi, incentrati, ancora e senza sorpresa, su altri due ‘forestieri’ attivi o formatisi a Roma: il bergamasco Francesco 8
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Coghetti (1802-1875), allievo di Camuccini e di cui si precisa, attraverso un disegno inedito e notizie archivistiche, il ruolo nell’invenzione e realizzazione del sipario del teatro di Rimini; il pittore dalmata Francesco Salghetti-Drioli (1811-1877), che si formò con Camuccini e Minardi, seguito qui nel suo poco noto soggiorno romano e del quale si prende in esame un disegno autografo. Dai citati contributi, dettagli di un panorama vastissimo, emergono e si confermano le potenti suggestioni e i modelli incarnati e irradiati dall’Urbe, persistente fucina di elaborazione artistica. Queste istanze si manifestano in tutta la loro verità attraverso la pratica del disegno nelle sue differenti forme e funzioni, che a partire dall’antico, passando per il cruciale Cinquecento, attraversando il Seicento fino al secolo dei lumi e all’età neoclassica e oltre, sono destinate a diffondersi e confondersi attraverso scambi e circolazioni di portata sempre più europea. Questa osmosi irrimediabile, feconda e sfuggente, è la sostanza, la natura, il carattere vero della ‘scuola romana’. È il suo carpire il mondo e al mondo far scuola, è la sua maniera di assimilare, ripensare e diffondere tutte le arti del disegno. Francesco Grisolia
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