A. Becchi, Il corpo dell’ inventio: Vitruvio interpretedi Archimede

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IL CORPO DELL’INVENTIO: VITRUVIO INTERPRETE DI ARCHIMEDE ANTONIO BECCHI

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1. Il piacere dell’Eureka! Architecti est scientia… oppure Architectura est scientia…? Sin dalle prime parole del De architectura la più antica tradizione testuale, manoscritta e a stampa, lascia ampio margine alla discussione. Il carattere divagante del testo vitruviano ha incrementato nel seguito le più fantasiose interpretazioni sul rapporto scienzaarchitettura e sulla definizione «architettura come scienza», spesso al centro di accese controversie. Le distinzioni accademiche affinatesi nel corso del XVIII secolo e ancora oggi imperanti non fanno altro che confermare le caratteristiche ambivalenti dell’ars aedificandi: l’architettura è «pluribus disciplinis et variis eruditionibus ornata»2 (De architectura, libro I) Max-Planck-Institut für Wissenschaftsgeschichte, Berlin. «Il sapere dell’architetto è ricco degli apporti di numerosi ambiti disciplinari e di conoscenze relative a vari campi». Qui e altrove le 1 2


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e la sua plurale costituzione non consente facili scorciatoie né in termini di definizione teorica, né sul versante dei risvolti legati alla prassi. Il De architectura offre numerosi spunti su questo tema e uno, in particolare, delinea al meglio quello che l’autore intende per attività dell’intelletto, contraddistinta dalla possibilità di esprimersi mediante la parola e di essere messa per iscritto. All’inizio del libro IX Vitruvio afferma che gli onori riservati agli atleti, impegnati a mettere in mostra le loro prodezze nei giochi olimpici, pitici, istmici e nemei, dovrebbero essere attribuiti a maggior ragione agli scriptores: «admiror quid ita non scriptoribus eidem honores etiamque maiores sint tributi, qui infinitas utilitates aevo perpetuo omnibus gentibus praestant. Id enim magis erat institui dignum, quod athletae sua corpora exercitationibus efficiunt fortiora, scriptores non solum suos sensus sed etiam omnium, cum libris ad discendum et animos exacuendos praeparant praecepta»3 (De architectura, libro IX). Tra gli scriptores, ossia tra coloro che si dedicano agli esercizi dell’intelletto, sono ricordati filosofi e matematici (nell’ordine qui indicato): Pitagora, Democrito, Platone, Aristotele, Archimede, Archita, Eratostene. Sono essi che hanno saputo assaporare i piaceri dell’inventio e che hanno trasmesso al resto dell’umanità la stessa gratificazione, coltivata attraverso la lettura delle loro opere o la descrizione delle loro scoperte. L’elogio degli scriptores costituisce un richiamo a quanto Vitruvio scrive nell’introduzione al libro II, dove spiega lo scopo della sua opera con un accento marcatamente autobiografico, velato traduzioni di alcuni brani del De architectura sono tratte da VITRUVIO 1997. 3 «Mi stupisco che questi stessi onori, e anche più grandi, non siano stati tributati agli scrittori, i quali offrono innumerevoli servigi per l’eternità all’umanità intera. Questa infatti sarebbe stata un’istituzione più degna, poiché gli atleti con i loro esercizi non fanno che rafforzare il proprio fisico, mentre gli scrittori rafforzano l’intelligenza, non solo propria ma di tutti, quando nei loro libri mettono insieme gli insegnamenti che mirano all’acquisizione di conoscenze e all’affinamento dello spirito». 40


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da un cenno di rammarico. In quel passo è ricordato l’architetto Dinocrate che un giorno, volendo attirare l’attenzione del re Alessandro, si era tolto le vesti, unto il corpo e, dopo aver coperto l’omero con un vello di leone che metteva in risalto la corporatura alta e vigorosa, si era presentato al cospetto del sovrano. La bellezza e la baldanza dell’architetto, armato di una clava per sottolineare il carattere virile dell’apparizione, colpiscono Alessandro: a lui Dinocrate sottopone subito il progetto di una città a forma di corpo umano, da costruire sulle pendici del monte Athos. Alessandro fa notare la fragilità del progetto, ma non può sottrarsi al fascino del giovane interlocutore che, da quel momento in poi, resterà al suo fianco. Il corpo, dunque, come chiave di lettura della realtà: non solo come entità di misura e di proporzione in relazione all’homo vitruvianus, ma anche come strumento retorico e persuasivo. Alla fine del racconto dedicato all’astuta messinscena di Dinocrate, Vitruvio spiega, rivolgendosi ad Augusto, di non potersi avvalere della stessa grazia fisica per attirare l’attenzione: il suo corpo è ormai vecchio e comunque non ha mai avuto una forma armoniosa, da ammirare («mihi autem, imperator, staturam non tribuit natura, faciem deformavit aetas, valetudo detraxit vires»4, De architectura, libro II). Per questa ragione ha deciso di presentare al suo imperatore un trattato: frutto dell’intelligenza, dell’eruditio, della solertia, destinato a durare nel tempo, di generazione in generazione (come il De architectura ha dimostrato in modo eccellente), al contrario della vita effimera della baldanza giovanile. Nel libro IX quest’idea è ulteriormente sviluppata e nel riassumere il suo pensiero Vitruvio afferma che «sapientium scriptorum sententiae corporibus absentibus vetustate florentes cum insunt inter consilia et disputationes, maiores habent quam praesentium sunt auctoritates omnes»5 (De architectura, libro IX). 4 «A me invece, o imperatore, la natura non assegnò un corpo alto, l’età ha deformato il viso, le malattie hanno indebolito le forze». 5 «I pensieri degli uomini di cultura, malgrado l’assenza fisica, fioriscono col passare del tempo e quando intervengono nei dibattiti e nelle

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Per questa ragione la prima parte del libro è dedicata ai talenti intellettuali, a coloro che non lasciano un ricordo per le corone d’alloro vinte nelle competizioni ginniche, ma per le loro inventiones. Tra i vari esempi ricordati quello riferito ad Archimede è certamente il più noto: in lui la sottile speculazione matematica si unisce alla capacità di trasformare la riflessione in immediato risvolto pratico, in particolare nel campo della meccanica (la machinatio è trattata da Vitruvio nel libro successivo del De architectura, il decimo e ultimo). Il racconto vitruviano è un’ode alle doti dell’ingenium: il re Ierone aveva affidato una certa quantità d’oro ad un orafo, perché gli preparasse una corona votiva. L’artigiano esegue il lavoro e consegna la corona, ma qualcuno fa sapere al sovrano di essere stato ingannato: nella realizzazione del manufatto era stato usato anche dell’argento, rimasto celato dentro la corona. Da qui la richiesta ad Archimede di verificare il misfatto: non era infatti sufficiente pesare la corona, perché questa, in caso di frode, avrebbe potuto avere lo stesso peso dell’oro consegnato all’orafo; d’altra parte non la si poteva distruggere per rivelarne il contenuto. Archimede riflette su una possibile soluzione e ad un certo punto esce dalla vasca da bagno nella quale si trovava gridando Eureka! Eureka! Aveva infatti compreso che se la vasca è piena sino all’orlo la quantità d’acqua che fuoriesce ha lo stesso volume del corpo che vi è entrato provocando la tracimazione. Per valutare se davvero la corona era tutta o solo parzialmente d’oro bastava determinarne il peso e il volume, per poi confrontare il volume con quello di un campione d’oro di ugual peso. Archimede risolve brillantemente una delle tanti frodi «de ponderibus», così comuni sin dall’Antichità in relazione all’uso delle bilance, spesso manomesse al fine di falsificare le pesate. La scoperta compiuta nella vasca permette di superare e smacherare l’astuzia dell’orafo, di svelare l’inganno senza compromettere la corona. L’attitudine alla scoperta dimostra di deliberazioni godono di una autorità maggiore di quella di tutti i presenti». 42


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non aver bisogno di oggetti particolari per manifestarsi, strumenti complicati e riservati a pochi: anche un bagno può servire a liberare il pensiero e a vedere quello che è lì, a disposizione di tutti, visibile come l’acqua che fuoriesce dalla vasca, che attende solo di essere «interpretata» per mutarsi in veicolo di scoperta. È difficile immaginare un esempio più elegante e convincente per descrivere l’ingenium, che Vitruvio pone in diretta connessione con l’attività dell’architetto. Questo episodio si lega - anche linguisticamente, attraverso l’uso del termine inventio, a sua volta derivato dal greco eurisko, da cui eureka - ad un altro celebre racconto vitruviano, narrato nel libro IV: in quel caso un semplice cesto posato sulla tomba di una fanciulla a Corinto, ricoperto nel tempo da foglie d’acanto, dà a Callimaco lo spunto per elaborare la forma del capitello corinzio. Anche in quel racconto si narra di un banale «incontro», che all’occhio dell’artista si trasfigura in scoperta, in invenzione. Dal punto di vista più prettamente tecnico a Callimaco e Archimede si dovrebbe associare Ctesibio, che Vitruvio descrive - ancora nel libro IX - come un giovane garzone nella bottega di barbiere del padre: lì riesce a costruire uno specchio mobile, che si può alzare e abbassare facilmente grazie all’uso sapiente di pulegge e contrappesi. Notando il suono prodotto dal movimento dei pesi nei tubicini usati come guide, Ctesibio è inoltre in grado di intuire le proprietà delle macchine pneumatiche. Si tratta di racconti vividi, tratti dalla quotidianità, descritti dal basso, si potrebbe dire, per farne risaltare l’eccezionale normalità. Archimede, Callimaco, Ctesibio si trovano di fronte a qualcosa che sollecita il pensiero solo se il pensiero è pronto a mettersi in moto, a provocare l’idea: essi vedono e riconoscono come illuminante quello che per altri è opaca ovvietà. A questo carattere peculiare dell’inventio fa riferimento Plutarco (Vita di Marcello, XVII), quando nota acutamente che leggendo gli scritti di Archimede e studiando le sue dimostrazioni matematiche si ha sempre l’impressione di trovare la soluzione da soli, con facilità. Il suo genio non ci conduce per mano in luoghi Horti Hesperidum, II, 2012, 2

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sconosciuti: ci guida, al contrario, in terre ben note che, all’improvviso, rivelano profili sorprendenti. L’osservazione di Plutarco può essere messa in relazione al racconto dell’uovo di Filippo Brunelleschi, narrato da Antonio Manetti e Giorgio Vasari, nel quale l’architetto, durante le dispute sulla costruzione della cupola di S. Maria del Fiore, sfida i colleghi a trovare una posizione stabile, eretta, per un uovo da posare su una superficie piana di marmo6. Dopo che tutti si rivelano incapaci di risolvere il problema Filippo schiaccia un’estremità dell’uovo e lo posa sul tavolo («datoli un colpo del culo in sul piano del marmo lo fece star ritto»). A quel punto i colleghi, adirati, sostengono che avrebbero potuto farlo anche loro: appunto, ma non l’avevano fatto. L’affinità tra il proemio del libro IX, dedicato agli atleti del corpo e dello spirito, e l’episodio della corona di Ierone è evidente. Archimede corre fuori dalla vasca ma noi non ammiriamo l’agilità della sua corsa: è la soddisfazione intellettuale, la gratificazione prodotta dall’improvvisa scoperta che muove le sue membra e la nostra approvazione. Il corpo diventa irrituale strumento di conoscenza, lo stesso corpo che, secondo la tradizione, Archimede era solito usare come base per disegnare (Plutarco, Vita di Marcello, XVII): dopo il bagno, cosparso di olio dai servi, tracciava con le dita figure geometriche sulla sua pelle, per non interrompere le speculazioni matematiche. La libido sciendi si era impossessata di 6 «Egli arebbono voluto che Filippo avesse detto l’animo suo minutamente e mostro il suo modello, come avevano mostri essi modelli e disegni loro; il che non volse fare, ma propose questo a’ maestri e forestieri e terrazzani, che chi fermasse in sur un marmo piano un uovo ritto, quello facesse la cupola, ché quivi si vedrebbe lo ingegno loro. Fu tolto uno uovo, e da tutti que’ maestri provato a farlo star ritto, nessuno sapeva il modo. Fu loro detto a Filippo ch’e’ lo fermasse, et egli con grazia lo prese, e datoli un colpo del culo in sul piano del marmo lo fece star ritto. Romoreggiando gl’artefici che similmente arebbono fatto, rispose loro Filippo ridendo che egli averebbono ancora saputo voltare la cupola, vedendo il modello o il disegno». Cfr. VASARI 1550, pp. 307-308; anche MANETTI 1976.

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lui e non gli dava tregua. Su quella linea si colloca l’opera di Vitruvio, per indagare e spiegare l’architettura, ma anche per indicare all’architetto uno stile di vita. 2. La sfera e il cilindro L’episodio della corona è da collegare al mito archimedeo fiorito in epoca romana, in particolare grazie agli scritti di Cicerone. Quest’ultimo dedica al genio Siracusano pagine celebri, certamente note a Vitruvio, che dagli scritti ciceroniani dipende in modo stretto. Cicerone descrive la sua ricerca della tomba di Archimede, ormai coperta da sterpaglia e del tutto dimenticata dai Siracusani (Cicerone, Tusculanae disputationes, V, 23): la riconosce per la presenza di una sfera e un cilindro scolpiti nella pietra, figure geometriche che lo scienziato aveva voluto sul sepolcro a ricordo di una delle sue principali scoperte. L’ammirazione di Cicerone si estende ad un altro capolavoro attribuito ad Archimede: nel dialogo De re publica (Cicerone, De re publica, I, 21) Furio Filo racconta che Sulpicio Gallo gli aveva mostrato una sfera armillare archimedea ed egli era dapprima rimasto deluso per l’apparente minor bellezza rispetto alla sfera «solida atque plena» vista nel tempio della Virtù (anch’essa attribuita ad Archimede). Aveva tuttavia cambiato parere quando Sulpicio gli aveva spiegato con cura il funzionamento dello strumento astronomico, più evoluto e sofisticato di quello esposto nel tempio. L’opera che non si mostrava bella all’occhio distratto era in realtà il capolavoro di un prodigioso ingenium, che richiedeva pazienza e attenzione per essere apprezzato. Un «inganno dell’occhio» molto vicino ai temi vitruviani, per le forti assonanze con il problema della bellezza del corpo e della mente. Vitruvio è il primo autore, per quanto possiamo dedurre dalle fonti a nostra disposizione, a trasformare l’episodio del bagno di Archimede in un vero e proprio manifesto dedicato alle proprietà dell’inventio. Nel Rinascimento esso diventa un’icona di grande successo, grazie alle numerose edizioni del De Horti Hesperidum, II, 2012, 2

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architectura. Le immagini ricorrenti che illustrano l’episodio dell’Eureka! appartengono a due mondi molto differenti, anche se geograficamente e cronologicamente vicini fra loro: si tratta dell’illustrazione che compare nell’edizione curata da Fra Giocondo, stampata a Venezia nel 1511, e quella che viene pubblicata, esattamente 10 anni dopo, a Como, a cura, seppur parziale a causa di tormentate vicende editoriali, di Cesare Cesariano. La prima immagine (fig. 1) si distanzia dal testo o, meglio, ne considera la componente sperimentale, mutando la stanza da bagno in un laboratorio. Archimede è vestito di tutto punto e porta un vistoso cappello a cilindro: la «prova della corona» viene eseguita con due sfere di diverse dimensioni, da immergere in un contenitore d’acqua sul quale Archimede tiene sospesa, mediante un filo, la sfera più grande. Intorno a lui alcuni libri posati sui mobili, mentre la corona è adagiata a terra, in primo piano. La scena allude a quanto Vitruvio racconta dopo aver illustrato il bagno di Archimede, ma rinvia anche al complesso dell’opera scientifica del Siracusano, più che al singolo episodio narrato nel libro IX: il cappello a cilindro e le sfere sembrano richiamare, in particolare, l’opera archimedea Sulla sfera e sul cilindro. La dimensione teatrale dell’evento e la concitazione dell’urlo seguito alla scoperta non trovano alcuna eco nell’immagine dell’edizione di Fra Giocondo. Al contrario, nella tavola dell’edizione del 1521 la stanza è chiaramente raffigurata come una sala da bagno, descritta nel dettaglio (fig. 2): le sfere sono tre, i contenitori due, di diverse dimensioni, uno inserito dentro l’altro, in modo da raccogliere l’acqua che fuoriesce da quello più interno. Anche le corone sono due, per mostrare come una corona d’oro e d’argento risulterebbe più grande di una d’oro puro. Non ci sono libri nella stanza e la tinozza nella quale Archimede è rappresentato in piedi, pronto per uscire, è posta al centro dell’attenzione e allude fedelmente a quanto descritto da Vitruvio. Nonostante le parole e le immagini del De architectura di Fra Giocondo siano nel corso del Cinquecento più volte copiate e ristampate, la tavola dell’edizione di Cesariano diventerà nel 46


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seguito la più nota e diffusa, grazie all’opera di Walter Hermann Ryff (Rivius). Una versione semplificata e ribaltata «a specchio», un po’ goffa ma fedele nell’impianto iconografico, si ritrova nel De architectura7 stampato a Strasburgo nel 1543 (fig. 3), mentre nel monumentale Bericht architettonico di Rivius del 1547 l’incisione è una versione «a specchio», riveduta e corretta, di quella proposta nell’edizione di Cesariano (ma non compaiono le lettere associate agli oggetti, che nell’edizione del 1521 rinviano alle spiegazioni offerte nel testo) ed è accoppiata alle invenzioni di Ctesibio8 (fig. 4). Nel celebre Vitruvius Teutsch9 (1548), sempre a cura di Rivius, viene riprodotta esattamente l’immagine pubblicata l’anno precedente (fig. 5), ma senza aggiungere il riferimento a Ctesibio. In questo modo il modello dell’edizione di Cesariano è tradotto in stile tedesco e prende la strada del Nord, diventando in breve tempo il più noto riferimento iconografico relativo al bagno di Archimede. Le celebri edizioni curate da Daniele Barbaro (1556 e due edizioni, latina e italiana, del 1567), che costituiscono il compimento della serie rinascimentale di commenti e traduzioni del De architectura, non presentano alcuna immagine a corredo del racconto dedicato alla corona di Ierone. La sfortunata edizione di Giovanni Antonio Rusconi10, pubblicata postuma nell’ultimo scorcio del Cinquecento (1590), non vi accenna né nel testo né nelle tavole.

VITRUVIO 1543. RYFF (RIVIUS) 1547. L’immagine si trova sul verso del primo foglio della sezione intitolata Von rechtem verstandt Wag und Gewicht etliche Büchlein zu sonderlichem verstandt künstlicher Mechanischer invention der Geometrischen messung angehenckt. In alcuni esemplari di quest’opera le tavole, compresa quella dedicata ad Archimede e Ctesibio, sono interamente colorate. Cfr., ad esempio, lo splendido esemplare conservato presso la Sächsische Landesbibliothek - Staats- und Universitätsbibliothek di Dresda (collocazione: Optica.31). 9 RYFF (RIVIUS) 1548. 10 RUSCONI 1590. 7 8

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3. Dal corpo alla bilancia La forza del racconto proposto da Vitruvio fa sentire la sua influenza ancora oggi e costituisce una parte non trascurabile di quel mito associato alla vita e alle opere di Archimede che nel Rinascimento riesplode dirompente, senza mai più arrestarsi (coinvolgendo filosofia, letteratura, cinema, fumetti). Motivo sufficiente per attribuire il nome Archimede ai più vari protagonisti del rinascimento tecnico-scientifico, come accade regolarmente tra XVI e XVII secolo. Fuori dai confini dei commenti vitruviani, tuttavia, l’episodio della corona è stato ripetutamente criticato: se da una parte su di esso si è costruito l’entusiasmo popolare intorno alla figura del Siracusano, per ragioni legate alla singolarità del racconto e alla grande diffusione del De architectura, dall’altra molti studiosi hanno puntato il dito contro il metodo proposto, accusando Vitruvio (o chi per lui) di essersi inventato l’episodio, non degno del genio di Archimede. Già il Carmen de ponderibus et mensuris, ritenuto per lungo tempo opera di Prisciano e ora più generalmente attribuito a Remmius Favinus11 (ca. 400 d.C.), indicava l’uso della bilancia idrostatica per risolvere il quesito posto dal re Ierone12: lo stesso strumento che nel seguito sarà descritto con cura anche da fonti arabe. Altri autori, invece, hanno fatto notare che l’uso della «pietra di paragone» avrebbe potuto aiutare a svelare l’inganno dell’orafo: a questa tradizione si riallaccia Claude Perrault nella sua bella edizione del trattato vitruviano (1673, poi più volte ristampata, anche in forma abbreviata e in traduzione), nella quale la scena del bagno non è raffigurata13. L’uso della bilancia idrostatica è sostenuto e argomentato da Galileo in un’opera giovanile lasciata manoscritta, intitolata La bilancetta (1586 ca.). Il tono della critica galileiana, che mette a Cfr. RAÏOS 1989, e GEUS 2007. Con la bilancia idrostatica è possibile determinare il peso specifico di un corpo basandosi sul principio di Archimede. 13 PERRAULT 1673, p. 256, nota 2. 11 12

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confronto l’esperimento descritto da Vitruvio (senza tuttavia citarlo) con quanto illustrato da Archimede nelle sue opere sui galleggianti e sugli equiponderanti, fa intuire il diverso registro della sua ricezione: «Sì come è assai noto a chi di leggere gli antichi scrittori cura si prende, avere Archimede trovato il furto dell’orefice nella corona d’oro di Ierone, così parmi esser stato sin ora ignoto il modo che sì grand’uomo usar dovesse in tale ritrovamento: atteso che il credere che procedesse, come da alcuni è scritto, co ’l mettere tal corona dentro a l’aqqua, avendovi prima posto altrettanto di oro purissimo e di argento separati, e che dalle differenze del far più o meno ricrescere o traboccare l’aqqua venisse in cognizione della mistione dell’oro con l’argento, di che tal corona era composta, par cosa, per così dirla, molto grossa e lontana dall’esquisitezza; e vie più parrà a quelli che le sottilissime invenzioni di sì divino uomo tra le memorie di lui aranno lette ed intese, dalle quali pur troppo chiaramente si comprende, quando tutti gli altri ingegni a quello di Archimede siano inferiori, e quanta poca speranza possa restare a qualsisia di mai poter ritrovare cose a quelle di esso simiglianti. Ben crederò io che, spargendosi la fama dell’aver Archimede ritrovato tal furto co ’l mezo dell’aqqua, fosse poi da qualche scrittore di quei tempi lasciata memoria di tal fatto; e che il medesimo, per aggiugner qualche cosa a quel poco che per fama avea inteso, dicesse Archimede essersi servito dell’aqqua nel modo che poi è stato dall’universal creduto. Ma il conoscer io che tal modo era in tutto fallace e privo di quella esattezza che si richiede nelle cose matematiche, mi ha più volte fatto pensare in qual maniera, co ’l mezo dell’aqqua, si potesse esquisitamente ritrovare la mistione di due metalli; e finalmente, dopo aver con diligenza riveduto quello che Archimede dimostra nei suoi libri Delle cose che stanno nell’aqqua ed in quelli Delle cose che pesano ugualmente, mi è venuto in mente un modo che esquisitissimamente risolve il nostro quesito: il qual modo crederò io esser l’istesso che usasse Archimede,

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atteso che, oltre all’esser esattissimo, depende ancora da dimostrazioni ritrovate dal medesimo Archimede14». Le opere del Siracusano, studiate con rinnovato impegno nella seconda metà del Cinquecento, davano agli studiosi un motivo in più per sminuire la portata di quel racconto. Nelle parole di Galileo si avverte il fastidio per la celebrità di quell’episodio, ai suoi occhi tutt’altro che illuminante: nella Bilancetta il racconto vitruviano perde tutto il suo fascino, diventa una nota di colore nella lunga storia del mito archimedeo. Galileo propone un’applicazione del principio di Archimede e toglie al bagno la funzione di medium della scoperta: l’inventio è ricondotta nei confini del laboratorio, dove acqua, corpi, materiali, pesi trovano una precisa collocazione epistemica, ben lontana dall’immediatezza quotidiana che la scena della vasca trasmette. Il testo della Bilancetta viene preparato molto probabilmente negli stessi mesi nei quali il tema del rapporto tra peso e volume era all’ordine del giorno in seguito alla trasportatione dell’obelisco vaticano, avvenuta a Roma, davanti alla basilica di S. Pietro, tra il 1585 e il 1586: nel 1590 essa avrà una consacrazione solenne con l’opera di Domenico Fontana Della Trasportatione dell’Obelisco Vaticano15, nella quale Fontana descrive l’impresa da lui stesso ideata e diretta. Anche in quel caso, come sempre in cantiere ma ancor in più in presenza di «sassi» di eccezionali dimensioni, il problema dell’accurata determinazione del peso era cruciale e da quella dipendevano le valutazioni sulle dimensioni di funi, argani, pulegge e di tutti quegli elementi strutturali che costituivano la «gran macchina» utilizzata per il trasporto. Probabilmente in quei mesi molti architetti avevano in mano la traduzione e i commenti di Barbaro al De architectura, dove non si trova alcuna immagine a corredo del bagno di Archimede, ma un’accurata descrizione del procedimento16.

GALILEI 1968, vol. 1, pp. 218-220. FONTANA 1590. 16 BARBARO 1567, p. 353. 14 15

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Nel 1588 la pubblicazione della parafrasi In duos Archimedis æqueponderantium libros17, a cura di Guidobaldo del Monte, traccia una linea di demarcazione ancora più netta tra letteratura «scientifica» e letteratura «popolare» dedicata al grande Siracusano. In precedenza, Guidobaldo si era occupato del problema della corona e della bilancia idrostatica in due parti del manoscritto Meditatiunculae de rebus mathematicis18, una delle quali chiaramente legata alla riflessione di Galileo sulla Bilancetta. La polemica che si crea con il De architectura quale fonte archimedea non impedisce tuttavia a Bernardino Baldi, contemporeaneo di Galileo e amico di Guidobaldo del Monte (a sua volta in stretto contatto con Galileo), di sottolineare le affinità tra Vitruvio e Archimede. Tra il 1575 e il 1596 Baldi lavora ad un’opera singolare dedicata alle Vite de’ matematici, nella quale sono annoverati, a pieno titolo, Vitruvio, Leon Battista Alberti e, naturalmente, Archimede19. Proprio a Vitruvio e, in particolare, al proemio del libro IX Baldi si richiama indirettamente quando nell’introduzione spiega le ragioni dell’impegno enciclopedico dedicato alle Vite de’ matematici (ovviamente le Vite del Vasari erano a lui ben note): «Si scrivono le vite de’ Grammatici, de gli Oratori, de’ Sofisti, de’ Pittori, e d’altre genti di minor conto, e non si scriveranno quelle de’ Matematici, da l’industria de’ quali il Mondo ha imparato di conoscere i movimenti, i numeri, e le grandezze de’ cieli, i giri de le stelle, le ragioni de l’eclissi (…) e tante altre cose degne in tutto di maraviglia e di lode?»20. GUIDOBALDO DEL MONTE 1588. GUIDOBALDO DEL MONTE, Meditatiunculae Guidi Ubaldi ex Marchionibus Montis Sanctae Mariae De Rebus Mathematicis, Bibliothèque Nationale de France, Paris, Ms Lat. 10246. Cfr. anche TASSORA 2001. 19 In essa Baldi cita l’episodio narrato da Vitruvio e il Carmen de ponderibus et mensuris. Cfr. BERNARDINO BALDI, Archimede, in IDEM, Le Vite de’ Matematici, manoscritto, Fondo antico del Centro Internazionale di Studi Rosminiani, Stresa. 20 Cfr. BERNARDINO BALDI, Le Vite de’ Matematici, manoscritto, 17 18

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L’inventio, l’ingenium, la ratiocinatio contraddistinguono tanto i migliori architetti, quanto i migliori matematici: essi possono dunque essere accomunati nelle Vite, anche se questa associazione può apparire, allora come oggi, bizzarra. Baldi è consapevole delle possibili obiezioni e in una delle due versioni della Vita di Vitruvio da lui preparate scrive: «Taccia dunque la turba de gli Architetti pratici, se io scriverò di Vitruvio e di Leon Battista, e non di loro, poichè eglino, ornati, come si dice, di tutte l’arme, hanno ragione di militia ne l’essercito de’ Matematici, de’ quali io vo scrivendo le vite. L’istesso dico a’ Mecanici semplicemente pratichi, ancorchè per semplice pratica habbiano fatto meraviglie»21. Un’esplicita citazione non soltanto del «pluribus disciplinis et variis eruditionibus ornata» vitruviano, ma anche di quel passo del libro I del De architectura dove si spiega che «at qui utrumque perdidicerunt, uti omnibus armis ornati citius cum auctoritate quod fuit propositum sunt adsecuti», così tradotto da Daniele Barbaro: «ma chi l’una, & l’altra di queste cose hanno bene appreso, come huomini di tutte armi coperti, & ornati, con credito, & riputatione, hanno il loro intento facilmente conseguito»22. L’Eureka! archimedeo evocato da Vitruvio resta come un monito per tutti gli architetti: senza la capacità di invenzione, senza la soddisfazione per l’esercizio quotidiano dell’ingenium, senza la solertia disciplinata che consente di dare una forma sobria e compiuta alla libido sciendi, la professione si riduce a pura imitatio. Vitruvio e Archimede indicano la via aurea per evitare questa ingloriosa riduzione e il loro incontro nel De architectura è una prova inoppugnabile di come il sapore inebriante dell’inventio possa diventare terreno d’intesa: al di là delle distinzioni disciplinari e in alternativa alle pur astute soluzioni «alla Dinocrate». Anche per questo, ma non solo per questo, il corpo di Archimede ha ancora molto da insegnare. 21 BERNARDINO BALDI, Vitruvio, in IDEM, Le Vite de’ Matematici, manoscritto, cit. Al De Architectura Baldi dedica un lessico: BALDI 1612. 22 BARBARO 1567, p. 10.

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Bibliografia B. BALDI, Archimede, in IDEM, Le Vite de’ Matematici, manoscritto, Fondo antico del Centro Internazionale di Studi Rosminiani, Stresa. BALDI 1612 = BERNARDINO BALDI, De verborum Vitruvianorum significatione, sive perpetuus in M. Vitruvium Pollionem commentarius, Augsburg 1612. BARBARO 1567 = DANIELE BARBARO, I dieci libri dell’architettura di M. Vitruvio. Tradotti & commentati da mons. Daniel Barbaro, Venezia 1567. CESARIANO 1521 = CESARE CESARIANO, Di Lucio Vitruvio Pollione De architectura libri dece traducti de latino in vulgare affigurati, Como 1521. FONTANA 1590 = DOMENICO FONTANA, Della Trasportatione dell’Obelisco Vaticano (…), Roma 1590. FRA GIOCONDO 1511 = FRA GIOCONDO, M. Vitruvius per Jocundum solito castigatior factus cum figuris et tabula ut jam legi et intelligi possit, Venezia 1511. GALILEI 1968 = GALILEO GALILEI, La bilancetta, in Le opere di Galileo Galilei. Nuova ristampa della Edizione Nazionale, Firenze 1968, vol. 1, pp. 218-220. GEUS 2007 = KLAUS GEUS (a cura di), [Remmius Favinus], Gedicht über Gewichts- und Maßeinheiten. Carmen de ponderibus et mensuris, Oberhaid 2007. GUIDOBALDO DEL MONTE 1588 = GUIDOBALDO DEL MONTE, In duos Archimedis æqueponderantium libros Paraphrasis Scholiis illustrata, Pesaro 1588. GUIDOBALDO DEL MONTE, Meditatiunculae Guidi Ubaldi ex Marchionibus Montis Sanctae Mariae De Rebus Mathematicis, Bibliothèque Nationale de France, Paris, Ms Lat. 10246. MANETTI 1976 = ANTONIO MANETTI, Vita di Filippo Brunelleschi, preceduta da La novella del grasso. Edizione critica di Domenico De Robertis con introduzione e note di Giuliano Tanturli, Milano 1976. PERRAULT 1673 = CLAUDE PERRAULT, Les dix livres d’architecture de Vitruve, Paris 1673. RAÏOS 1989 = DIMITRIS K. RAÏOS, Archimède, Ménélaos d’Alexandrie et le ‘Carmen de ponderibus et mensuris’. Contributions à l’histoire des sciences, Ioannina 1989. RUSCONI 1590 = GIOVANNI ANTONIO RUSCONI, Della architettura, Venezia 1590. RYFF 1547 = WALTHER HERMANN RYFF (RIVIUS), Der furnembsten, notwendigsten, der gantzen Architectur angehörigen Mathematischen vnd Horti Hesperidum, II, 2012, 2

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Mechanischen künst, eygentlicher bericht, vnd vast klare, verstendliche vnterrichtung, zu rechtem verstandt der lehr Vitruuij, Nürnberg 1547. RYFF 1548 = WALTHER HERMANN RYFF (RIVIUS), Vitruvius Teutsch. Nemlichen des aller namhafftigisten vn[d] hocherfarnesten, Römischen Architecti, und Kunstreichen Werck oder Bawmeisters, Marci Vitruuij Pollionis, Zehen Bücher von der Architectur vnd künstlichem Bawen (...), Nürnberg 1548. TASSORA 2001 = ROBERTA TASSORA, Le Meditatiunculae de rebus mathematicis di Guidobaldo del Monte, Tesi di Dottorato, Università di Bari, 2001. VASARI 1550 = GIORGIO VASARI, Vita di Filippo Brunelleschi, in G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani (...), Firenze 1550. VITRUVIO 1543 = VITRUVIO, De architectura libri decem, ad Augustum Caesarem accuratiß. conscripti: & nunc primum in Germania qua potuit diligentia excusi, atque hinc inde schematibus non iniucundis exornati, Strassburg 1543. VITRUVIO 1997 = VITRUVIO, De architectura, a cura di P. Gros, traduzione e commento di A. Corso e E. Romano, Torino 1997.

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Didascalie 1. Illustrazione da F RA G IOCONDO 1511, libro IX. 2. Illustrazione da C ESARIANO 1521, libro IX. 3. Illustrazione da V ITRUVIO 1543, libro IX. 4. Illustrazione da R YFF 1547, sezione Von rechtem verstandt Wag und Gewicht etliche B端chlein (...). 5. Illustrazione da R YFF 1548, libro IX.

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