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Horti Hesperidum Studi di storia del collezionismo e della storiografia artistica Rivista telematica semestrale

MATERIALI PER LA STORIA DELLA CULTURA ARTISTICA ANTICA E MODERNA a cura di FRANCESCO GRISOLIA

Roma 2013, fascicolo II

UniversItalia Horti Hesperidum, III, 2013, 2

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I presenti due tomi riproducono i fascicoli I e II dell’anno 2013 della rivista telematica Horti Hesperidum. Studi di storia del collezionismo e della storiografia artistica.

Cura redazionale: Giorgia Altieri, Jessica Bernardini, Rossana Lorenza Besi, Ornella Caccavelli, Martina Fiore, Claudia Proserpio, Filippo Spatafora

Direttore responsabile: CARMELO OCCHIPINTI Comitato scientifico: Barbara Agosti, Maria Beltramini, Claudio Castelletti, Valeria E. Genovese, Ingo Herklotz, Patrick Michel, Marco Mozzo, Simonetta Prosperi Valenti Rodinò, Ilaria Sforza Autorizzazione del tribunale di Roma n. 315/2010 del 14 luglio 2010 Sito internet: www.horti-hesperidum.com

La rivista è pubblicata sotto il patrocinio e con il contributo di

Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” Dipartimento di Scienze storiche, filosofico-sociali, dei beni culturali e del territorio Serie monografica: ISSN 2239-4133 Rivista Telematica: ISSN 2239-4141 Prima della pubblicazione gli articoli presentati a Horti Hesperidum sono sottoposti in forma anonima alla valutazione dei membri del comitato scientifico e di referee selezionati in base alla competenza sui temi trattati. Gli autori restano a disposizione degli aventi diritto per le fonti iconografiche non individuate.

PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA © Copyright 2013 - UniversItalia – Roma ISBN 978-88-6507-552-4 A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile è vietata la riproduzione di questo libro o parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, microfilm, registrazioni o altro.

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INDICE

SIMONETTA PROSPERI VALENTI RODINÒ, Presentazione

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FRANCESCO GRISOLIA, Editoriale

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FASCICOLO I

SIMONE CAPOCASA, Diffusione culturale fenicio-punica sulle coste dell’Africa atlantica. Ipotesi di confronto

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MARCELLA PISANI, Sofistica e gioco sull’astragalo di Sotades. Socrate, le Charites e le Nuvole

55

ALESSIO DE CRISTOFARO, Baldassarre Peruzzi, Carlo V e la ninfa Egeria: il riuso rinascimentale del Ninfeo di Egeria nella valle della Caffarella

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ISABELLA ROSSI, L’ospedale e la chiesa di Santa Maria dei Raccomandati a Cittaducale: una ricostruzione storica tra fonti, visite pastorali e decorazioni ad affresco

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MARCELLA MARONGIU, Tommaso de’ Cavalieri nella Roma di Clemente VII e Paolo III

257

LUCA PEZZUTO, La moglie di Cola dell’Amatrice. Appunti sulle fonti letterarie e sulla concezione della figura femminile in Vasari

321

FEDERICA BERTINI, Gli appartamenti di Paolo IV in Vaticano: documenti su Pirro Ligorio e Sallustio Peruzzi

343

FASCICOLO II

STEFANO SANTANGELO, L’ ‘affare’ del busto di Richelieu e la Madonna di St. Joseph des Carmes: Bernini nel carteggio del cardinale Antonio Barberini Junior

7

FEDERICO FISCHETTI, Francesco Ravenna e gli affreschi di Mola al Gesù

37

GIULIA BONARDI, Una perizia dimenticata di Sebastiano Resta sulla tavola della Madonna della Clemenza

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MARTINA CASADIO, Bottari, Filippo Morghen e la ‘Raccolta di bassorilievi’ da Bandinelli

89

FRANCESCO GRISOLIA, «Nuovo Apelle, e nuovo Apollo». Domenico Maria Manni, Michelangelo e la filologia dell’arte

117

FRANCESCA DE TOMASI, Diplomazia e archeologia nella Roma di fine Ottocento

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CARLOTTA SYLOS CALĂ’, Giulio Carlo Argan e la critica d'arte degli Anni Sessanta tra rivoluzione e contestazione

199

MARINA DEL DOTTORE, Percorsi della resilienza: omologazione, confutazione dei generi e legittimazione professionale femminile nell’autoritratto fotografico tra XIX secolo e Seconda Guerra Mondiale

229

DANIELE MINUTOLI, Giovanni Previtali: didattica militante a Messina

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UNA PERIZIA DIMENTICATA DI SEBASTIANO RESTA SULLA TAVOLA DELLA MADONNA DELLA CLEMENZA

GIULIA BONARDI

Risale ai primi giorni del 1709 una perizia inedita redatta dal conoscitore d’arte e mercante di disegni milanese Sebastiano Resta (1635-1714)1, dedicata allo stato di conservazione e alle qualità stilistiche dell’icona della Madonna della Clemenza2 (fig. 1). Desidero ringraziare la professoressa Simonetta Prosperi Valenti Rodinò, Francesco Grisolia e Laura Dotti per i consigli, le letture e la generosità dei confronti. Un ringraziamento particolare voglio rivolgerlo al professore Ingo Herklotz per l’analisi attenta del testo e per avermi incoraggiata a fare ulteriori approfondimenti. Infine un grazie a Ursula Verena Fischer Pace per le ultime indicazioni. 1 Sulla figura di Resta, mercante e conoscitore di disegni, si veda almeno: FUSCONI, PROSPERI VALENTI RODINÒ 1984; WARWICK 1996; WARWICK 2000; PROSPERI VALENTI RODINÒ 2001. 2 Archivio Storico del Vicariato, Roma (ASVR), Capitolo di Santa Maria in Trastevere, Cappelle e Giuspatronati, Armadio II, busta 8 (Cappella Altemps), duplicato a cc. 610r-611v, a cui segue l’esemplare originale i cui numeri di pagine risultano illeggibili. Nella storiografia novecentesca la perizia è


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L’opera, dipinta a encausto su tela applicata su tavola, è uno dei capolavori dell’arte altomedioevale presenti e conosciuti a Roma sin dall’antichità3. L’immagine acheropita, ubicata nella chiesa romana di Santa Maria in Trastevere ab antiquo4, è stata oggetto nei secoli di rimaneggiamenti e rifacimenti anche piuttosto invasivi che l’avevano molto alterata, almeno fino all’intervento di restauro ormai storico dell’Istituto Centrale del Restauro negli anni 1954-1955, che ha ricondotto gli strati pittorici ad uno stadio di leggibilità importante. La ricognizione del padre oratoriano sull’opera fu richiesta dall’allora cardinale titolare della basilica, il friulano Leandro Colloredo (1639-11 gennaio 1709)5, con lo scopo di trovare una soluzione definitiva per proteggere l’icona dai continui atti vandalici e dalle ruberie di cui era oggetto6. Le analisi di Resta risultano perciò l’atto preliminare e in un certo senso illuminato che ha preceduto la copertura del dipinto con lastre d’argento, «vagamente decorate», ricordato da Giovanni Marangoni nel 17477. Alla fine del Cinquecento, in pieno clima di Controriforma, la Madonna della Clemenza fu traslata dalla cappella Ruggeri in cui si trovava8, alla cappella di famiglia del cardinale Marco Sittico Alricordata per la prima volta in BERTELLI 1959, p. 55, ancora in BERTELLI 1964, pp. 55-56, poi in BOREA 1993, p. 40, n. 37 e in FISCHER PACE 1997, scheda n. 42, pp. 78-79, fig. 47. Tuttavia, a parte qualche brevissimo stralcio nel contributo del 1964, il documento non è mai stato pubblicato in alcuno studio. La trascrizione integrale è qui riportata in Appendice A. 3 Sulla controversa attribuzione dell’icona, si rimanda a BERTELLI 1959; BERTELLI 1961A; BERTELLI 1964; ANDALORO 1975; KINNEY 1975; WOLF 1990. 4 Per un puntuale excursus storico della fortuna di quest’opera nei secoli, si rimanda a BERTELLI 1964, soprattutto le pp. 49-55. 5 Il Colloredo fu titolare della basilica di Santa Maria in Trastevere dal 1705 fino alla morte. Su di lui si veda PETRUCCI 1982. 6 ASVR, Capitolo di Santa Maria in Trastevere, Cappelle e Giuspatronati, Armadio II, busta 8, n. 8 (Cappella Altemps), cc. 26r-29v. 7 MARANGONI 1747, p. 246. 8 Così si apprende dai documenti dell’ASVR, Capitolo di Santa Maria in Trastevere, Cappelle e Giuspatronati, Armadio II, busta 8 («Nota delle Cappelle 64


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temps (1533-1595), titolare della basilica di Santa Maria in Trastevere dal 1580 al 15959. Il 15 febbraio 1593 la Theotòkos fra gli angeli fu posta sull’altare della cappella Altemps, divenendo il fulcro intorno al quale si snoda l’architettura di Martino e Onorio Longhi e si articolano le decorazioni celebrative ad affresco di Pasquale Cati. Da quel momento l’opera ha costituito l’oggetto di un culto grandissimo ma anche di atti scellerati ai suoi danni, che ne hanno minato lo stato conservativo. Come si dichiara in alcuni documenti dell’Archivio Storico del Vicariato di Roma, il 2 luglio del 1707 l’icona subì l’ennesimo furto dei gioielli votivi posti direttamente a contatto con la superficie pittorica10. A tal riguardo il capitolo della basilica auspicò che si procedesse all’applicazione di una sovraccoperta in grado di proteggere la tavola, analoga a quella «avanti la venerabile immagine di Santa Maria della Pace di Roma». Il progetto di et Altari...»), cc. 722v-725r, riguardo alla «Cappella et altare di S. Maria della Clemenza»: «L’immagine antica della Beatissima Vergine, quale prima stava in chiesa nell’altare della Ruggiera (come si dirà parlando della cappella de Ruggieri, et si legge anche nell’antico lezionario della nostra chiesa), ma poi trasferita in questa cappella, è stata sempre aperta, e non mai serrata in modo che il capitolo, o li cappellani altempsiani hanno nell’occorrenze tirato il velo, o copertina, cioè aperta e serrata»; riguardo alla «Cappella di Santa Maria detta Ruggiera»: «Il Reverendissmo capitolo concesse il sito di questa cappella à Pompeo Ruggieri, ad effetto di fabbricarvi una cappella per collocarvi più decentemente la S. Immagine di S. Maria della Clemenza, che prima stava in questo luogo, e che fatta la cappella debba poi ornare, e dotare come al libro delle cong.ni capitolari sotto il 23 aprile 1584. Essendo stata trasferita la detta S. Immagine dalla felice memoria del cardinale Altemps titolare della nova cappella eretta dal detto signor cardinale sotto le 15 febraro 1593, cioè sotto il detto giorno fu spedito il breve di Clemente 8°, ma la traslazione fu fatta secondo il libro dei Santi della nostra chiesa alli 16 di marzo, secondo i diarij dei Mastri di cerimonie, particolarmente di Giovanni Paolo Mucanzio fu fatta sotto li 17 marzo 1593». Cfr. anche BERTELLI 1961A, p. 61 e JURKOWLANIEC 2009, pp. 69-98. 9 L’argomento trova un puntuale approfondimento in BERTELLI 1977, pp. 89-107, in FRIEDEL 1978, pp. 89-123 e in AGOSTI 1996, pp. 23 e 25-26. 10 ASVR, Capitolo di Santa Maria in Trastevere, Cappelle e Giuspatronati, Armadio II, busta 8, n. 4 («Cappella di Maria SS. Della Clemenza - Vertenze varie»), cc. 58r-59v.

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dotare l’opera di una protezione dovette concretizzarsi peraltro tardivamente rispetto all’urgenza della situazione, e, come apprendiamo dai documenti d’archivio, solo all’inizio del 1709, quindi entro i soli undici giorni che al Colloredo rimanevano da vivere. Possiamo determinare anche che il coinvolgimento di Resta, suo amicissimo fin dai tempi in cui condividevano la residenza presso l’Oratorio di San Filippo Neri alla Vallicella, prima che il Colloredo passasse da oratoriano bibliotecario della Congregazione a cardinale (1686)11, debba essere avvenuto in quei primi giorni di gennaio, come indica la data apposta alla fine della perizia. Nelle carte d’archivio si legge: L’anno 1709 seguirono vari furti sulle gioie che pendevano avanti la sagra immagine. Queste furono recuperate e poste al debito luogo; ma nel ciò fare si osservò che l’immagine per la sua antichità aveva patito. Fu pensato ad ovviare a maggiori danni. Ma il capitolo non volle ingerirsi in cosa alcuna, se prima non aveva il regolamento da sua Santità allora Clemente XI devotissimo di detta immagine. Fece dunque un memoriale per sentirne l’oracolo, e sua santità rimise l’affare all’eminentissimo titolare signor Colloredo12.

A questo punto il documento ci informa che il cardinale decise di impiegare dei denari per far realizzare una «lastra d’argento che avesse a coprire l’immagine alla riserva delle teste di ogni figura»:

Qualche tempo prima di lasciare il suo incarico di bibliotecario della Vallicella Colloredo conoscerà anche il padre maurino Jean Mabillon, in viaggio a Roma nel 1685. A questo proposito si veda VALERY 1847, I, pp. XXXII e sgg. 12 ASVR, Capitolo di Santa Maria in Trastevere, Cappelle e Giuspatronati, Armadio II, busta 8, n. 4 («Cappella di Maria SS. Della Clemenza - Vertenze varie»), cc. 10 e sgg. Il 29 aprile del 1709 il capitolo e i canonici di Santa Maria in Trastevere tornano a sollecitare una protezione maggiore per la tavola della Clemenza, tanto che nel corso dell’anno l’icona fu dotata di una «vetrina coperta con una tendina di seta» (Ivi, c. 614r). 11

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Fu levata dall’altare l’immagine, e [per] l’ordine del signor cardinale portata nella sagrestia della cappella et ivi coperta d’argento. Fu rimossa al suo luogo tal portata coll’accompagnamento de cappellani, e del capitolo con ceri in mano, e dagli operai del duca [Altemps] collocata al suo luogo13.

Dalla lettura della perizia si evince chiaramente che il ruolo di Resta fu proprio quello di valutare se la tavola fosse in grado di assorbire l’intervento invasivo della copertura e, da bravo intendente, di affiancare a una stima sullo stato di conservazione anche una lettura storico-artistica dell’opera, avanzando una possibile datazione. Resta, insomma, vide e valutò la tavola potendola osservare nella sua interezza e non, come afferma Marangoni, solo nelle parti delle teste14, elemento che trova puntale conferma in alcuni passaggi della relazione. Il cardinale Colloredo sapeva che il filippino milanese era la persona giusta per affrontare un compito così delicato. I due dovevano essersi conosciuti presto, forse poco dopo il 1663, anno in cui Leandro prendeva i voti come sacerdote di San Filippo Neri dopo aver passato un decennio come fratello laico della Congregazione15. Molte delle testimonianze del loro rap-

Ivi, c. 12. Il padre oratoriano Giovanni Marangoni (1673-1753) afferma che Sebastiano Resta «[…] altro non puotè osservare che le sole teste predette». Cfr. MARANGONI 1747, p. 247. 15 PETRUCCI 1982, p. 82. Sebastiano Resta, che arriva a Roma da Milano alla fine del 1660 ca., entrerà nell’ordine intorno al 1665. Le prime tracce d’archivio del rapporto di Resta con gli oratoriani di San Filippo Neri risalgono alla fine del 1664, e sono riportate nel VII Libro dei Decreti (5 gennaio 1652-5 dicembre 1682) della Congregazione dell’Oratorio di Roma. Nella Congregazione dei Deputati del 12 dicembre del 1664 è detto: «Il Padre [Mariano Sozzini Preposito] diede notizia del Signor Sebastiano Resta gentiluomo milanese, che fa istanza d’entrare in Congregazione, acciò che, informati, ne parliamo di nuovo». In quella del 6 febbraio 1665: «Facendo il Signor Sebastiano Resta nuovamente istanza per l’ingresso in Congregazione, fu creduto bene, già che sin ora non ha scritto, ch’egli notifichi al Signor suo padre il pensiero, perché, in tal maniera, più venghi provata la sua vocatione». Il 13 14

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porto di amicizia trapelano dalle lettere e dalle postille che padre Resta scrisse nel corso della propria vita, e sono informazioni nella quasi totalità legate a fatti di collezionismo d’arte 16. Infatti Leandro, oltre a essere un erudito di una certa fama, legato in amicizia al maurino Jean Mabillon, conosciuto a Roma nel 1685, e uomo strategico e potente quale Sommo Penitenziere del papa Innocenzo XI (1676-1689), fu anche appassionato di opere d’arte. Certamente attraverso il padre Resta Leandro conobbe anche il giovane pittore lombardo Giorgio Bonola (16571700), quando nel 1683 era a Roma a bottega presso Carlo Maratti. Il Colloredo non solo lo fece suo penitente, ma dovette suo ingresso sarà formalmente riconosciuto il 13 maggio del 1665. Le citazioni sono tratte da INCISA DELLA ROCCHETTA 1977. 16 Il rapporto tra i due fu denso e può essere sintetizzato dalla rievocazione degli episodi salienti di cui abbiamo attualmente notizia. Ad esempio Colloredo risulta il destinatario del disegno i 4, che Resta attribuiva al pittore duecentesco Giunta Pisano e che apriva, insieme ad altri, il Parnaso de’ Pittori, un volume di disegni che il padre Resta inizia ad allestire intorno al 1690 (British Museum, Lansdowne 802, i 4). Il nome di Colloredo è citato da Resta nelle lettere che spedisce al vescovo di Arezzo Giovanni Matteo Marchetti (16471704), conservate presso l’archivio di Pistoia e pubblicate da SACCHETTI LELLI 2005. Così in una lettera senza data, ma poco prima del Natale 1699, dove Sebastiano afferma che il Colloredo sta a casa sua «al solito degli altri giorni»; o ancora nella missiva del 13 marzo del 1700, dove il filippino ricorda di avergli donato un disegno del Figino «dove stanno quattro figurine prese da Raffaele» e un San Carlo che spera sia posto nella sua «cornicetta»; o ancora in quella del 7 maggio 1701, dove ricorda di essersi portato a casa di un tal Transi o Tansi a scegliere dei quadri per il Colloredo che quello gli aveva lasciato in eredità. Tutto questo in SACCHETTI LELLI 2005, rispettivamente p. 70 e n. 5, p. 96 e n. 3, p. 235. Un’altra notizia emerge dalle lettere custodite nel fondo Corsini della Biblioteca Corsiniana e dell’Accademia Nazionale dei Lincei di Roma, in parte pubblicate in BOTTARI, TICOZZI 18221825, III, CCIII, pp. 489-490. In una lettera senza data, ma da collocare entro il 1698, Resta ricorda che Colloredo, che conosceva il tedesco, gli fece il favore di leggere la firma posta sul verso di un disegno per lui da attribuire a Jean Burgmayer, allievo di Dürer. Questo foglio è certamente quello che oggi si trova nei fondi grafici del Gabinetto di Disegni e Stampe degli Uffizi di Firenze (n. inv. 1328 E), che mostra il Martirio di Santa Cecilia attribuito ad Albrecht Dürer. Per il disegno si veda almeno STRAUSS 1974, III, p. 1698; ANDREWS 1987, p. 21, tav. 11. 68


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stimarlo tanto da divenirne presto il patrono17, una benevolenza confermata nel 1695 quando il cardinale fu eletto protettore dell’Accademia di Corconio, fondata dal Bonola al suo ritorno da Roma nell’omonimo paese d’origine, affacciato sulla sponda orientale del lago d’Orta18. All’inizio del XVIII secolo Resta e Colloredo si erano poi trovati spalla a spalla sotto l’affresco absidale tardo quattrocentesco che Melozzo da Forlì (1438-1494) aveva realizzato per la chiesa dei Santi Apostoli a Roma, per trovare il modo di salvarlo dalla demolizione19. Il Colloredo, infatti, nel 1701 era stato nominato da Clemente XI (1700-1721) presidente di una commissione d’inchiesta predisposta per valutare le gravissime condizioni statiche in cui versava la basilica e stabilire se fosse possibile recuperare l’area presbiteriale, o, al contrario, buttarla giù per procedere alla ricostruzione. Con molta probabilità fu proprio questo il frangente in cui il cardinale coinvolse Resta, che subito si mobilitò in difesa dell’affresco procedendo a una campagna di documentazione grafica dell’intero apparato decorativo melozzesco, con l’intento poi di farne trarre un’incisione20. Le articolate vicende che in un breve giro d’anni portarono nel 1708 all’effettivo abbattimento del presbiterio e alla scelta di ricoverare, proprio sulla spinta del Resta, le parti salvate dell’opera di-

Biblioteca Comunale di Correggio, II, n. 78, lettera del 26 ottobre 1706. COTTA 1701, p. 296, n. 709 e MROZIŇSKA 1959, p. 22. Sui legami di Bonola con Roma si veda: PETRUCCI 2002, pp. 23-37. I rapporti tra Sebastiano Resta e i Bonola sono stati da ultimo passati al vaglio da PROSPERI VALENTI RODINÒ 2008. 19 Sull’affresco absidale dei Santi Apostoli, voluto secondo le nuove riflessioni offerte da Mario Epifani da Pietro Riario, alla cui morte nel 1474 sarebbe poi subentrato nella commissione Giuliano della Rovere, futuro Giulio II (1503-1513), si rimanda interamente a EPIFANI 2011. Ampie ricerche sulla commissione fatta all’inizio del Settecento dai Frati Minori, titolari della chiesa dei Santi Apostoli, all’architetto Francesco Fontana per i lavori di rifacimento dell’edificio pericolante, sono state condotte da FINOCCHI GHERSI 1991. 20 Su questo ancora EPIFANI 2011, p. 29. 17 18

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stribuendole tra la Pinacoteca Vaticana e il palazzo del Quirinale21, dovettero accrescere la reciproca stima. Forse fu anche per la passata consuetudine che Resta ebbe con l’icona medioevale di Santa Maria in Trastevere, che Colloredo lo scelse quale esperto per giudicarne lo stato e le qualità artistiche. Infatti l’interesse per la Madonna della Clemenza – come ha messo in evidenza Evelina Borea22 – vantava nel tardo Seicento un episodio di fortuna figurativa della tavola piuttosto importante. Alludo all’incisione del perugino Pietro Santi Bartoli (1635-1700) che riproduce l’icona in «lingua moderna», realizzata probabilmente verso la fine dell’ottavo decennio del Seicento (fig. 2)23, e che Resta rievoca all’inizio della sua perizia. Intorno al 1683 Resta si trovava a Napoli per ordinare le collezioni di disegni di Don Gaspar de Haro y Guzmán, VII marchese Del Carpio (1629-1687). Secondo un’ipotesi di Simonetta Prosperi Valenti, fu proprio il filippino a donare a Del Carpio il disegno finito della tavola della Clemenza realizzato da Bartoli, che è poi confluito nel fondo Santarelli del Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi (fig. 3)24. Così riferisce l’abate Agostino Taja quando parla dei frammenti superstiti del grande affresco melozzesco, nella sua DESCRIZIONE DEL PALAZZO APOSTOLICO 1750, pp. 360-361. L’importanza del loro congiunto intervento viene ricordata ancora da MELCHIORRI 1835, VI, pp. 128-129. 22 BOREA 1993, pp. 28-40 e BOREA 2009, I, pp. 322. 23 BOREA 2009, p. 37. 24 Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, inv. n. 9822 S. Pubblicato per la prima volta e discusso da FISCHER PACE 1997, scheda n. 42, pp. 7879, fig. 47. Proprio nel Fondo Santarelli degli Uffizi sarebbe confluito un volume di disegni del marchese Del Carpio allestito da Resta, all’interno del quale si trovava anche il disegno del Bartoli (cfr. PROSPERI VALENTI RODINÒ 2008, p. 14, n. 62). D’altra parte questo non era il primo disegno che Bartoli donava al padre Resta e, più precisamente, non era la prima volta che l’incisore si trovava a meditare insieme al Resta su opere dei cosiddetti ‘primitivi’. Un altro episodio è rappresentato dall’expertise effettuata dal Bartoli sul foglio g 2, inserito da Resta nel volume di disegni G venduto, insieme a molti altri, al succitato vescovo Marchetti (Londra, British Library, ms. Lansdowne 802, disegno g 2). Il disegno, al momento ignoto, era stato attribuito da Resta, su consiglio del Bartoli, a Stefano fiorentino. 21

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Stando all’idea di Borea la commissione dell’incisione documentaria a Bartoli potrebbe essere partita dal cardinale Camillo Massimo (1620-1677), in un momento, si aggiunge qui, in cui Roma assiste a una ulteriore maturazione del rapporto degli antiquari con la documentazione grafica delle opere dell’arte antica e medioevale, considerate e utilizzate come fonti per la ricerca storica25. Tale prospettiva metodologica aveva preso le mosse dagli studi dei più grandi esponenti della cultura antiquaria vissuti a cavallo tra Cinque e Seicento – Fulvio Orsini, Carlo Sigonio, Lelio Pasqualini, Antonio Augustín e poco più tardi il bolognese Giovanni Battista Agucchi26 –, una prospettiva che viene recuperata a Roma alla fine del Seicento. L’ipotesi che avanzo e che ho tentato di dimostrare nella mia tesi di dottorato, è che questo rinnovato e intenso uso dei disegni come documenti, sia legato inevitabilmente al precoce contatto degli antiquari romani con Sulla vicenda dei volumi Resta/Marchetti si veda almeno: WARWICK 2000. 25 Naturalmente sono notissimi i precedenti come quelli rappresentati da Cassiano Dal Pozzo e dal suo Museo Cartaceo - su cui si veda almeno HERKLOTZ 1992, OSBORNE, CLARIDGE 1996 e HERKLOTZ 1999 - o quello dello stesso Camillo Massimo e delle sue collezioni di disegni dall’antico, tuttavia il ruolo del materiale grafico quale documentazione da utilizzare per la ricerca storica evolverà in qualcosa di più complesso e maturo da un punto di vista metodologico un po’ più avanti, tra gli anni Sessanta e Settanta ca. del Seicento. Su questo argomento rimane ancora importante, sebbene datato, il contributo di MOMIGLIANO 1950, pp. 285-315; tuttavia per un quadro aggiornato e puntuale sulla questione si rimanda al recente studio di HERKLOTZ 2012. A tutto questo fronte dell’erudizione antiquaria a Roma ho in parte dedicato i miei studi di dottorato, condotti presso l’Università degli Studi di Roma ‘Tor Vergata’ in cotutela con l’Università di Losanna, sotto la supervisione di Simonetta Prosperi Valenti e Serena Romano. Ho discusso la mia tesi, dal titolo Disegni come documento e disegni come monumento. Giovanni Ciampini, Sebastiano Resta e la fortuna del Medioevo artistico nella Roma di Bellori, a Roma il 3 luglio 2012. 26 Per la figura di Agucchi si rimanda agli studi di GINZBURG 1996A e GINZBURG 1996B. Per una densa panoramica sugli interessi antiquari alla fine del XVI secolo, si veda HERKLOTZ 1985, ma soprattutto HERKLOTZ 1999.

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gli avamposti del più moderno metodo di indagine storica e filologica applicato alle fonti e ai documenti della storia ecclesiastica, inaugurato dai bollandisti e dai maurini. In concomitanza, si aggiunge, con l’emergere di nuove spinte neotridentine in seno alla chiesa cattolica, sollecitate dagli eventi storici che hanno investito i pontificati di Innocenzo XI (1676-1689) e Alessandro VIII (1689-1691)27. Tornando alla perizia del padre Resta sulla tavola della Clemenza, questa appare effettuata in tre diversi momenti. Apre con uno schizzo a penna dalle forme geometriche che ricalca la struttura della tavola con all’interno le teste dei personaggi, probabilmente una prefigurazione di come sarebbe apparsa l’icona una volta coperta (fig. 4). A ognuna delle teste è attribuita una lettera dell’alfabeto in modo da orientare il lettore nella descrizione. Una cosa interessante da notare è che con la lettera C il padre Resta segnala la testa del papa in proskynesis, che riconosce come San Callisto I, papa all'incirca dal 217 al 222 d. C., sepolto proprio nella chiesa di Santa Maria in Trstevere28. Al disegno segue un’accurata analisi del supporto e della tecnica dell’opera, definita da Sebastiano «di terretta a tempera in tela incollata sopra tre tavole, però la faccia delle figure è dipinta immediatamente sul gesso». È da notare senza dubbio che le Mi riferisco alla minaccia degli infedeli ottomani alle porte di Vienna sotto la guida di Kara Mustafa, sconfitto poi gloriosamente da Giovanni Sobieski il 12 settembre del 1683, e delle nuove inquietudini spirituali che originavano dalla dottrina giansenista e dalle correnti quietiste che serpeggiavano a Roma dopo la pubblicazione della Guida spirituale del Molinos (1675), avversate aspramente dai Gesuiti. 28 L’identificazione del papa con Callisto I è molto importante, perché Resta anticipa una tesi che verrà ripresa da Giuseppe Wilpert nel 1906 e sostenuta da Kinney più tardi (KINNEY 1975, p. 163). Contro questa ipotesi si è posto lo studio di Bertelli, che, proponendo una datazione della tavola all’VIII secolo, individua nell’icona del papa la figura di Giovanni VII (705-707). Cfr. BERTELLI 1961a, pp. 18-21. Tuttavia vi è un solo documento che associa il nome di Giovanni VII alla chiesa di Santa Maria in Trastevere (KINNEY 1975, p. 150). Sulla questione si sono espressi più recentemente KARIN VAN DIJK 1995, pp. 34-35 e 135-36, e THUNØ 2002, pp. 34 e 76-77. 27

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descrizioni tracciate da Resta durante la prima ispezione diretta, in particolare quelle sulla tecnica, sono molto pertinenti. Resta non parla direttamente di encausto, ma descrive puntualmente i supporti di tela e legno su cui è stesa la pellicola pittorica, individuandone la preparazione a gesso. Durante la seconda fase delle sue osservazioni Resta cerca di stabilire, come egli stesso esplicita, l’antichità della pittura che per tradizione e per positivi documenti, [si dice] essere dell’undecimo secolo. Al che acconsento volentieri per vederla pittura d’un terzo genere differente dall’usato al tempo dei mosaici della tribuna precedente a questa, come la medesima Tribuna è d’un genere posteriore allo stile della Madonna di San Luca che mostra i vestigi dell’arte perfetta.

Per lui l’immagine è da datare all’XI secolo, e per comprovare questa tesi prende come metro di paragone la Madonna di San Luca29, che «mostra i vestigi dell’arte perfetta», e il mosaico absidale della chiesa di Santa Maria in Trastevere con l’Incoronazione della Vergine e i santi. I confronti gli servono per provare che l’icona della Clemenza è più tarda rispetto agli esempi addotti, ma, come si legge poco più avanti, precedente per età e per stile l’epoca di Cimabue e Giotto. In primo luogo Resta sbaglia l’accostamento con il mosaico absidale di Santa Maria in Trastevere, poiché essendo stato quest’ultimo realizzato sotto Innocenzo II, intorno al 114330, è posteriore e non precedente all’icona della Clemenza. È evidente che sull’opera Resta non conosce nulla, sebbene poteva trovare ragguagli indicativi nei

È possibile che qui Resta faccia riferimento all’antichissima e venerata Haghiosoritissa del Monaterium Tempuli, detta anche ‘Madonna di San Luca’, ora presso il Monastero di Santa Maria del Rosario, a Roma, databile al VI-VII ca. Su questa si veda: BERTELLI 1961b, pp. 83-86. 30 Per la datazione e l’analisi stilistica e iconografica dei mosaici si rimanda a CORPUS, II, 2006, pp. 305-311. 29

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testi a stampa di Panvinio, Ugonio, Martinelli e Titi31, e nelle fonti manoscritte, come ad esempio nelle note descrizioni del Mellini32. Sulla scorta della «tradizione e per positivi documenti» per Resta la cronologia doveva cadere in quel momento in cui, richiamando il racconto vasariano, i «pittori italiani disponevano le figure, e mandavano in Grecia le misure a far le teste, o anco a Fiorenza dove lavoravano i greci» di cui furono allievi Cimabue e Andrea Taffi, di cui richiama alcuni crocifissi di Arezzo33. Non specifica quali crocifissi, l’unica cosa che si può ipotizzare è che li abbia visti durante una delle visite fatte al vescovo della città Giovanni Matteo Marchetti, uno dei suoi maggiori acquirenti di disegni34. Possiamo cautamente immaginare che egli conoscesse la grande croce di San Domenico di Cimabue o la croce di Margarito d’Arezzo già nella Pieve di Santa Maria. Resta fa poi un paragone con un crocifisso che un tempo stava nella chiesa dell’Aracoeli, di cui dice che fu trasportato nella chiesa di Santa Maria in Traspontina, dove poteva vederlo35. Secondo il padre Resta la testa del Cristo risultava reclinata al pari di quella del miracoloso Crocifisso di Salerno, descritto nella Vita e Miracoli del padre Glorioso S. Nicola da Tolentino dal frate Ludovico Zacconi (1624, pp. 130-131). I testi a cui ci si riferisce sono: PANVINIO 1570, pp. 66-67; UGONIO 1588, f. 137 v.; MARTINELLI 1653, p. 247; TITI 1686, p. 36. 32 Benedetto Mellini (ante 1667), BAV, Vat. Lat. 11905, f. 35r. 33 Così è riportato puntualmente da Vasari al principio della Vita di Cimabue e Andrea Taffi. Cfr. VASARI 1550-1568, II, rispettivamente pp. 35-44 e pp. 73-78. 34 Sulle vicende dei volumi Resta/Marchetti si rimanda in primo luogo al pionieristico ma ormai datato studio di POPHAM 1936, pp. 1-19; per un lavoro aggiornato si rimanda ancora a WARWICK 2000, e a PROSPERI VALENTI RODINÒ 2001, pp. 77-83. 35 Forse il Resta allude al crocifisso ligneo che campeggia sull’altare della cappella del Crocifisso, in Santa Maria in Traspontina, di cui si sa però che provenga dal più antico edificio della Traspontina, soppiantato dal nuovo nel 1587. Cfr. SANTA MARIA IN TRASPONTINA 1955. 31

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Tuttavia la ben diversa cronologia della tavola della Clemenza, il senso classico, monumentale, ellenizzante della sua composizione, suggeriva a Resta che l’opera fosse «di stile molto, e molto migliore delle accennate, meglio disegnata e più accurata et uniforme, di tinta più grata»36. Le teste degli angeli gli sembravano: Di colore più spiccante delle altre, e se son fatte da greci, è necessario dire che come il resto del quadro, è del maggior pittore che fusse di questa stagione in Roma, così anco quel pittore greco o grecanico (che facilmente sarà stato o in Fiorenza o in Roma) fusse il primo de’primi di quel secolo, ma sempre di quel secolo differente dal seguente, in cui nacque Cimabù e doppo lui Giotto discepolo di Cimabù.

Benché quindi la maniera greca di questo anonimo pittore non sorpassasse la grandezza dello stile di Cimabue e Giotto, in questo contesto per padre Resta l’attributo di ‘greco’ o ‘grecanico’ smette di avere una connotazione negativa, anticipando un giudizio che apparterrà definitivamente solo al Settecento maturo. Come traccia Previtali bisognerà aspettare l’erudizione di stampo neoclassico, con il Lami (1757), il Da Morrona (1787), il Lastri (1791) e il Fontani (1792), per assistere a una vera inversione di marcia e a un riconoscimento del valore della pittura bizantina e pre-giottesca nello sviluppo della storia dell’arte37. Ancorché lontanissimo dagli studi cruciali di Kitzinger, Weitzmann e Belting, che hanno illuminato le vicende dell’arte alto medioevale avviando gli studi successivi, Resta compie senza dubbio un passo importante verso la comprensione delle altissime qualità di uno stile così antico. Egli giudica la Madonna della Clemenza La cronologia della tavola della Madonna della Clemenza è da collocare tra il VI e VIII secolo d.C. Questi due termini cronologici sono i poli contrapposti di una discussione che vede Maria Andaloro attestata sul VI secolo d.C. e Carlo Bertelli sull’VIII. A questo proposito si rimanda a BERTELLI 1959; BERTELLI 1964; ANDALORO 1975. 37 Per questo si rimanda interamente a PREVITALI 1964, in particolare le pp. 84-135. 36

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per la bontà del disegno, per la peculiarità della stesura pittorica e per la proporzione delle forme, e dalle sue parole risulta, a dispetto delle ingenuità critiche e dei pasticci che fa con i confronti, una precocissima sensibilità nei riguardi di un’opera di ‘maniera greca’. La terza ed ultima ispezione riguardò «l’antichità della materia e la necessità e modo di mantenerla», che in buona sostanza significava saggiare la resistenza dei materiali di cui era composta la tavola e valutare come conservarla il più possibile integra durante le operazioni di sovrammissione della lastra d’argento. Proprio da quest’ultima parte emerge la condizione difficile dei supporti, della pellicola pittorica e la fragilità delle tavole, infradiciate sui bordi dall’umidità. Pertanto il Resta consigliava che l’opera venisse deposta – come ricorda, era già avvenuto venticinque anni prima38 – prestando la massima attenzione, senza battere chiodi o martello «come si lavorasse al tempio mistico di Salomone».

Ipotizzo che qui Resta faccia riferimento all’occasione in cui Pietro Santi Bartoli la disegnò per poi inciderla, circostanza che potrebbe avere avuto luogo nel frangente di un altro intervento di restauro sulla tavola e che forse impose la rimozione dall’altare. 38

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Appendice Roma, Archivio Storico del Vicariato. Capitolo di Santa Maria in Trastevere, Cappelle e Giuspatronati, Armadio II, busta 8 (Cappella Altemps), n. 8. [di altra grafia e altro inchiostro, sul margine in alto a sinistra] Carta originale fatta di pugno dalla buona memoria del padre Resta dell’oratorio della chiesa Nuova in Roma, e data al signor cardinale Colloredo l’anno 1709. L’autore fu intendente al sommo della pittura. L’immagine della Beata Vergine in Cappella Altemps nella chiesa di S[anta] Maria in Trastevere è di una simile, o poco più oblonga proporzione, compresa l’aggiunta di tavole grosse da’i lati per ridurla à simetria del compartimento di marmo quando con la cappella magnifica si fabbricò magnifico anche l’altare. Puol esser ancora, che il fine fusse per incassarla e reggerla. La pittura è di terretta a tempera in tela incollata sopra tre tavole, però la faccia delle figure sono dipinte immediatamente sul gesso come si dirà appresso. Sono le figure A.B.C.D.E. A. figura il viso della Beata Vergine B. il viso del suddetto Bambino C. la testa di San Callisto papa. D. et E. due angioli. Il tutto rappresentato in stampa da Pietro Santi. Seconda Ispezione Dell’antichità della pittura L’antichità della pittura dicesi per tradizione e per positivi documenti essere dell’undecimo secolo. Al che acconsento volentieri per vederla pittura d’un terzo genere differente dall’usato al tempo dei mosaici della tribuna precedente a questa, come la medesima Tribuna e d’un genere posteriore allo stile della madonna di S. Luca che mostra i vestigij dell’arte perfetta, da cui cominciava quel primo secolo a declinare, o fusse, che in essendo S. Luca di totale professione pittore non arrivasse alla perfettione de perfetti artefici del suo tempo; in ogni modo vi si vede grandezza della maniera di quell’età. Questa di Trastevere mostra precedenza d’età a quella di Cimabù quale nacque nel secolo duodecimo. Nel secolo decimo e undecimo si ha che pittori italiani disponevano le figure e mandavano in Grecia le misure, a far le teste o anco a Fiorenza dove Horti Hesperidum, III, 2013, 2

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lavoravano Greci e Cimabù di que discepoli de Greci ne fu uno, così il Taffi e altri, come se ne vedono diverse opere loro in Arezzo, principalmente crocifissi. A mia memoria in Araceli di quel genere ma più infelice di sapere, parmi essere stato quel pittore che fece un crocifisso che oggi sta in testa del corridore della Traspontina al secondo cortile, che ha la testa inclinata e staccata dalla croce, à forma di Crocifisso di Salerno che dicono calasse la testa a Pietro Bailart, di cui non sento che ne parli Baronio, allo che dalla pietà attribuito a miracolo, poté a curiosi parere costumanza di quelli artefici. La nostra pittura di cui trattiamo, è di stile molto, e molto migliore delle accennate, meglio disegnata, e più accurata e uniforme di tinta più grata. Accorda con le accennate in questo, che le teste dei due angioli D et E sono dipinte sul gesso, e trasportate al suo luogo, essendo il restante delle figure a tempera immediatamente sopra la tela, e queste due facce d’angioli sul gesso sono di colore più spiccante delle altre, e se son fatte da Greci, è necessario dire, che come il resto del quadro è del maggior pittore che fusse di quella staggione in Roma, così anco quel pittore Greco o Grecanico (che facilmente sarà stato o in Fiorenza o in Roma) fusse il primo de’ primi di quel secolo, ma sempre di quel secolo differente dal seguente, in cui nacque Cimabù e doppo lui Giotto discepolo di Cimabù. Tenne Cimabù lo stile de suoi Greci maestri di dipingere sul gesso disteso e ben grosso sopra la tela, e tela incollata su la tavola come è una che in cornice mi capitò anni sono. Concorda l’assertione dell’antichità della pittura della Beata Vergine della cappella Altemps Ho detto delle facce degli Angioli, resta dire di quelle della Beata Vergine, del Santo Bambino e de San Calisto papa. Queste sono di minor resalto e spicco degl’Angioli. Sono d’una tinta più bassa e più accordante con i panni, e non paiono che facciano quel corpo d’impasto che fanno le teste degl’angioli, onde non paiono dipinte in gesso, né del medesimo pennello. Però da un piccolo mancar di colore scrostato nella faccia della madonna apparisce un tantino di bianco che indica gesso. La testa poi del Santo papa è quasi tutta scrustata, ma si vede scrustata ab antiquo à legno che non si distingue se sia puro colore di terretta, o sodezza di gesso. Con più diligenza si osserverà, se si potrà vedere al basso con maggiore comodità.

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Altra ispezione per l’antichità della materia All’angolo D la tela ancora forte non fracida si è relassata, e fa uno sforo da potervi passare un braccio [tela come s’è detto pura e tinta dalla antichità, e con qualche squamma di colore staccato; colore arso, e non di gesso] in questa parte tentai con l’estremità dell’indice e pollice mio che sodezza fosse il tavolone, e me ne restò in mano un bel frammento, tentai la seconda volta avanzando la mano, e me ne restò in mano un pezzo maggiore, quale stringendolo in pugno anco leggermente, tutto mi si fece in minuta polvere. Tentai la terza volta, e sentij resistere la tavola; sicchè arguij infracidata solamente circa un palmo, e mezzo in quel angolo per qualche particolare caggione d’umido ò altro. Ma come non altra ispezione poté farsi per giudicare del resto, sarà necessario deporre tutto il substrato della tavola, e mararlo al chiaro. Terza ispezione della necessità, e modo di mantenerla. La necessità di rimedio per mantenerla è patente al senso, e si è considerato, che essendovi memoria in quel capitolo, che fu deposta 25 anni sono, potrasti deporre anche adesso coll’occasione che si adorna di lastra d’argento. Circa il modo di conservarla, deposto che sia tutto il quadro si accerterà meglio. Ma pure intanto si diceva potersi calcare in un forte cassone di legno di sponde alte quanto s’agguaglia alla superficie della pittura, e compire alle parti delle tavole corrose con gesso, e simile mistura tenace resistente alle tarme, senza batter chiodi, né far alcun strepito di martello, come si lavorasse al tempio mistico di Salomone. 1709.

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Didascalie Fig. 1. Madonna della Clemenza. Roma, Santa Maria in Trastevere. Fig. 2. Pietro Santi Bartoli, Madonna della Clemenza, 1675 ca. Roma, Istituto Nazionale per la Grafica. Fig. 3. Pietro Santi Bartoli, Madonna della Clemenza. Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi (inv. n. 9822 S). Fig. 4. Sebastiano Resta, Prima pagina della perizia sulla Madonna della Clemenza. Roma, Archivio Storico del Vicariato.

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