Horti Hesperidum Studi di storia del collezionismo e della storiografia artistica Rivista telematica semestrale
MATERIALI PER LA STORIA DELLA CULTURA ARTISTICA ANTICA E MODERNA a cura di FRANCESCO GRISOLIA
Roma 2013, fascicolo II
UniversItalia Horti Hesperidum, III, 2013, 2
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I presenti due tomi riproducono i fascicoli I e II dell’anno 2013 della rivista telematica Horti Hesperidum. Studi di storia del collezionismo e della storiografia artistica.
Cura redazionale: Giorgia Altieri, Jessica Bernardini, Rossana Lorenza Besi, Ornella Caccavelli, Martina Fiore, Claudia Proserpio, Filippo Spatafora
Direttore responsabile: CARMELO OCCHIPINTI Comitato scientifico: Barbara Agosti, Maria Beltramini, Claudio Castelletti, Valeria E. Genovese, Ingo Herklotz, Patrick Michel, Marco Mozzo, Simonetta Prosperi Valenti Rodinò, Ilaria Sforza Autorizzazione del tribunale di Roma n. 315/2010 del 14 luglio 2010 Sito internet: www.horti-hesperidum.com
La rivista è pubblicata sotto il patrocinio e con il contributo di
Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” Dipartimento di Scienze storiche, filosofico-sociali, dei beni culturali e del territorio Serie monografica: ISSN 2239-4133 Rivista Telematica: ISSN 2239-4141 Prima della pubblicazione gli articoli presentati a Horti Hesperidum sono sottoposti in forma anonima alla valutazione dei membri del comitato scientifico e di referee selezionati in base alla competenza sui temi trattati. Gli autori restano a disposizione degli aventi diritto per le fonti iconografiche non individuate.
PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA © Copyright 2013 - UniversItalia – Roma ISBN 978-88-6507-552-4 A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile è vietata la riproduzione di questo libro o parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, microfilm, registrazioni o altro.
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INDICE
SIMONETTA PROSPERI VALENTI RODINÒ, Presentazione
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FRANCESCO GRISOLIA, Editoriale
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FASCICOLO I
SIMONE CAPOCASA, Diffusione culturale fenicio-punica sulle coste dell’Africa atlantica. Ipotesi di confronto
13
MARCELLA PISANI, Sofistica e gioco sull’astragalo di Sotades. Socrate, le Charites e le Nuvole
55
ALESSIO DE CRISTOFARO, Baldassarre Peruzzi, Carlo V e la ninfa Egeria: il riuso rinascimentale del Ninfeo di Egeria nella valle della Caffarella
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3
ISABELLA ROSSI, L’ospedale e la chiesa di Santa Maria dei Raccomandati a Cittaducale: una ricostruzione storica tra fonti, visite pastorali e decorazioni ad affresco
139
MARCELLA MARONGIU, Tommaso de’ Cavalieri nella Roma di Clemente VII e Paolo III
257
LUCA PEZZUTO, La moglie di Cola dell’Amatrice. Appunti sulle fonti letterarie e sulla concezione della figura femminile in Vasari
321
FEDERICA BERTINI, Gli appartamenti di Paolo IV in Vaticano: documenti su Pirro Ligorio e Sallustio Peruzzi
343
FASCICOLO II
STEFANO SANTANGELO, L’ ‘affare’ del busto di Richelieu e la Madonna di St. Joseph des Carmes: Bernini nel carteggio del cardinale Antonio Barberini Junior
7
FEDERICO FISCHETTI, Francesco Ravenna e gli affreschi di Mola al Gesù
37
GIULIA BONARDI, Una perizia dimenticata di Sebastiano Resta sulla tavola della Madonna della Clemenza
63
MARTINA CASADIO, Bottari, Filippo Morghen e la ‘Raccolta di bassorilievi’ da Bandinelli
89
FRANCESCO GRISOLIA, «Nuovo Apelle, e nuovo Apollo». Domenico Maria Manni, Michelangelo e la filologia dell’arte
117
FRANCESCA DE TOMASI, Diplomazia e archeologia nella Roma di fine Ottocento
151
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CARLOTTA SYLOS CALĂ’, Giulio Carlo Argan e la critica d'arte degli Anni Sessanta tra rivoluzione e contestazione
199
MARINA DEL DOTTORE, Percorsi della resilienza: omologazione, confutazione dei generi e legittimazione professionale femminile nell’autoritratto fotografico tra XIX secolo e Seconda Guerra Mondiale
229
DANIELE MINUTOLI, Giovanni Previtali: didattica militante a Messina
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GIULIO CARLO ARGAN E LA CRITICA D’ARTE DEGLI ANNI SESSANTA TRA RIVOLUZIONE E CONTESTAZIONE
CARLOTTA SYLOS CALÒ
Gli anni Sessanta in Italia sono caratterizzati da grandi rivolgimenti sul piano storico e, naturalmente, culturale e sociale. Il Paese, ancora segnato dal periodo bellico, si trova in bilico tra industria e artigianato, tradizione e innovazione, e avverte urgente la necessità di modernizzarsi. Nell’ambito delle arti visive la definizione e la sostanza dell’opera d’arte evolvono dall’Informale al Post-Informale, dalle poetiche dell’oggetto al rilievo dato ai materiali delle correnti poveriste e concettuali. In generale si assiste all’ampliamento dell’idea e della sostanza dell’opera d’arte e all’instaurarsi di un suo rapporto con la realtà che si configura non solo come testimonianza, ma proprio come adesione e intervento. La necessità di un ripensamento dell’opera e dei ruoli dell’artista e del critico che si adatti a una realtà in trasformazione è al centro del dibattito nell’ambiente intellettuale italiano fin dall’inizio del decennio. Questione nodale è quella di definire un’arte che,
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per così dire, si trova al di là della dimensione dell’artisticità – in cui erano ancora irreggimentate le esperienze della pittura Informale – nella prospettiva di una nuova apertura nei confronti della realtà tale da dialogare con la strada, con l’attualità, con l’industria, col design, con l’architettura e le altre arti; un’arte corteggiata dal mercato, che crea un suo mercato ed è implicata nel presente. All’aprirsi del decennio più voci si intrecciano nel tentativo di ridefinire gli strumenti e i confini della propria azione, costruendo così quell’incrocio di sguardi che ancora oggi costituisce la ricchezza maggiore, e forse non più raggiunta, della cultura degli anni Sessanta. Se gli artisti vivono il cambiamento nella sostanza del proprio lavoro, e quindi nella scelta di materiali e linguaggi, le figure del critico e dello storico dell’arte si trovano coinvolte in questa vicenda in maniera assai più personale. Emblematico è il caso di Giulio Carlo Argan, che conferma in questo decennio il suo ruolo di primo piano nel dibattito sullo sviluppo delle correnti moderne, fino all’ipotesi della «morte dell’arte», anche attraverso quei critici che si confrontano con il modello di intellettuale al servizio della società che egli incarna, per proporre il ripensamento di un ruolo giudicato eccessivamente paternalistico oppure laterale, attraverso una prosa che non chiarifica, non comunica, ma semmai intende dialogare con l’artista alla pari – non a caso questo è il decennio dell’intervista – e, alla pari con l’opera, stimolare attraverso la scrittura, anche espositiva, quella che Achille Bonito Oliva ha definito «la rivoluzione permanente dell’arte»1. Quella che si propone in questo contributo è una lettura, necessariamente parziale, di questo percorso, operata attraverso gli esempi di alcuni scritti di Argan e della loro relazione con altre voci della critica degli anni Sessanta, nonché con alcuni momenti fondamentali del periodo esaminato: una lettura che intende mostrare l’evolversi dell’atteggiamento della critica italiana rispetto al proprio ruolo sociale e, soprattutto, la distanza tra 1
Cfr. BONITO OLIVA 1975.
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l’idea di un’arte rivoluzionaria e una invece contestataria, alla base dell’atteggiamento della critica arganiana di quegli anni. Argan, formatosi, come tutti gli intellettuali della sua generazione, su Croce, è uno dei primi attori del dibattito sul rapporto cultura-società che anima gli anni Sessanta. Più di Lionello Venturi egli è convinto del legame imprescindibile tra arte e società e per questo sceglie da subito di occuparsi prevalentemente di storia dell’architettura2. Negli anni Sessanta, legato al presente, Argan è ancora portavoce di una concezione dell’arte interprete della storia e dell’identità culturale: voce della grande tradizione critica italiana e attento ai movimenti di una generazione nuova, vede la portata del cambiamento dei linguaggi dell’arte, eppure non riesce mai completamente a dialogarvi. Il suo punto di vista storico-pedagogico riconosce la possibilità della continuazione dell’attività artistica (e soprattutto critica), ma a patto che esse siano ancora capaci di parlare di e alla società, testimoni sì, ma soprattutto protagoniste della sua evoluzione. Questo dialogo tra arte e società per Argan è necessario ma non è scontato, e può essere condotto solo con alcune precise e imprescindibili premesse: deve esservi progetto, anche educativo, nonché una razionalità di fondo nell’estetica e nella struttura stessa dell’opera d'arte. La sua è una visione legata alla necessità di impegno politico-sociale dell’arte che risale all’anteguerra e che trova il suo modello nel Bauhaus3. È in questa esperienza che Argan individua l’esempio di un’arte capace di confrontarsi con la società e la cultura attuale. Per lo studioso Walter Gropius riesce a conciliare creatività e mondo della produzione dando vita non a un movimento, ma a una scuola, con un metodo progettuale che include svariate possibilità formali e una teoria artistica strettamente connessa con gli studi sulla psicologia della visione. Tale valutazione è alla base del suo atteggiamento nei «In tal modo non potevo sfuggire al problema del rapporto col contesto storico, la situazione sociale». TRINI 1980, p. 35. 3 Cfr. ARGAN 1949, pp. 60-62; ARGAN 1953, pp. 2-7; ARGAN 1954, pp. 4042. 2
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confronti dell’arte e della critica italiane di questi anni: atteggiamento che ha origine, quindi, già nel decennio precedente, quando Argan afferma la necessità per l’arte di assolvere a una funzione sociale, pena la sua morte4, ponendo quelle coordinate concettuali dell’attività critica cui rimarrà fedele per tutti gli anni successivi. Chiamato nel 1961 a scrivere sull’Informale, nel numero speciale de «Il Verri» dedicato al movimento5, Argan sviluppa il suo pensiero sul fine ultimo del sapere (e dell’arte) dimostrando non solo la consueta acutezza di ragionamento, ma soprattutto la totale adesione, in termini anche personali-esistenziali, a quella crisi che egli attribuisce «all’impresa collettiva dell’umanità» che inaugura il decennio: un momento in cui, per lo studioso, «il sapere ha raggiunto un livello sul quale ogni atto […] si ripercuote immediatamente sull’esistenza di tutto il genere umano»6. Per Argan «l’individuo non avrà salvezza se non integrandosi totalmente nella società e identificando il ritmo della propria esistenza col ritmo del fare sociale»7; così lo studioso riformula la domanda sull’Informale come crisi dell'arte o arte della crisi, per focalizzare l’attenzione sulla questione basilare della partecipazione dell’arte all’impresa collettiva della civiltà. Egli nega che l’Informale si proponga di raffigurare il disordine esistenziale, individuale o collettivo; piuttosto pone l'accento sugli aspetti della tecnica e della materia – «poiché la tecnica è fare ed è nel fare che si riconosce l’eticità di un comportamento» – quale nucleo del fine estetico di queste ricerche, che mancano completamente, per il critico, di un programma e non riconoscono la storia come principio direttivo della loro esperienza. Pertanto, conclude Argan, l’Informale è un’arte di retroguardia; è prova della condizione dell’uomo-massa, «la risposta dell’arte al modo ARGAN 1957, pp. 3-15; ripubblicato in ARGAN 1964, pp. 28-38. ARGAN 1961, pp. 3-42; ripubblicato in ARGAN 1964, pp. 28-38 (nelle citazioni seguenti si farà riferimento al contributo su «Il Verri»). 6 ARGAN 1961, p. 4. 7 ARGAN 1961, p. 5. 4 5
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inautentico di vita che è stato imposto agli uomini»8. La questione del metodo, dell’aspetto progettuale dell’intervento dell’intellettuale o dell’artista nella società, che vedremo tornare anche successivamente nelle parole dello studioso, è per Argan la condizione sine qua non dell’esercizio del ruolo dell’arte e del proprio in quanto critico, ruolo che, così configurato, chiarisce subito la vicinanza dello studioso all’ideale razionalistico del decennio appena trascorso, nonché, nell’analisi delle ricerche artistiche che affronta in questo suo contributo, la sostanziale difficoltà a leggere, oltre i propri principi, le poetiche contemporanee e la loro aderenza alla realtà e alla storia. La funzione sociale dell’arte si ritrova per Argan nell’urbanistica, nel design, nell’astrattismo geometrico e costruttivo, come si ritroverà, da qui a poco, nell’arte gestaltica e programmata, mentre è assente nell’arte Informale, con poche eccezioni, come nel caso di Emilio Vedova9. Egli riconosce all’artista veneto la capacità di far riflettere il pubblico e di toccarne la coscienza; già nel saggio de «Il Verri» la sua arte è un esempio di ribellione, è la prova dello schianto di un sistema «che, come schema razionale o ideologico, è ormai riconosciuto inservibile ma che, andando in frantumi, […] libera una scarica di energia storica»10. Eppure, quella di Vedova resta in parte, per Argan, un’arte in cui l’uomo più che esprimersi è espresso11; per quanto, da qui a pochi mesi, il critico ammorbidirà il suo giudizio dichiarando che la pittura di Vedova «resiste alla tentazione surrealista della discesa nell’inconscio […] non richiede di ARGAN 1961, p. 42. Anche se appare innegabile il legame delle correnti informali con la realtà e quindi con la società, Argan ne disconosce il principio, fondato appunto, secondo il critico, solo sull’estetica e non sulla tecnica, e non inserito nell’ottica di una funzione sociale dell’arte. Il rifiuto di Argan nei confronti delle ricerche informali è tale che il critico non giunge mai a interrogarsi sulla definizione stessa di Informel e prende per buona quella formulata da Michel Tapié. Cfr. ZAMBIANCHI 2012, pp. 352-356. 10 ARGAN 1961, p. 39. 11 ARGAN 1961, p. 40. 8 9
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estraniarsi ma di concentrarsi [vuole] che lo sguardo sul mondo, la coscienza che giudica, sia vigile e all’erta»12. Già il confronto su «Il Verri» testimonia che l’atteggiamento di Argan è, nel panorama della critica d’arte di questi anni, il più orientato a una valutazione morale della realtà e dell’integrità della relazione individuo-collettività. Gli altri critici danno prova subito di una maggiore apertura verso le nuove tendenze, di cui riconoscono la relazione con il presente, non in chiave negativa, per quanto ne rilevino la sostanziale rappresentatività. Essi paiono già persuasi che l’integrazione della realtà nell’opera (per mezzo del gesto e della materia, come tra poco dell’oggetto) sia di per sé un’azione nel presente, e positiva. Renato Barilli vede nell’Informale un ritorno al reale, una negazione dell’autosufficienza del quadro a favore di una riconquista sublime del mondo13. Enrico Crispolti definisce l’Informale un «atto di realismo» e ne esalta, con lungimiranza, la «responsabilità del reale» quale maggiore lascito della corrente per gli sviluppi futuri dell’arte14. Umbro Apollonio richiama in parte il legame tra Informale e società individuato da Argan e riconduce la corrente a uno stato di crisi: crisi che secondo il critico «non riguarda l’intenzionalità di sostituire un’immagine ad un’altra, un modo ad un altro, bensì un orizzonte dove ha posto la «desolata solitudine dell'individuo nella società» (Argan) e dove «non aspettiamo alcuna festa e non ci sarà alcuna società perfetta» (Consagra); indica un orientamento che si associa a prospettive destinate a venire in luce soltanto se messe in relazione con quei fondamenti che condizionano la contemporaneità»15. Umberto Eco dedica il suo intervento alla definizione della categoria più vasta in cui l'esperienza informale si inscrive: quella dell'opera aperta16.
ARGAN 1963, s.n.p. BARILLI 1961, pp. 42-62. 14 CRISPOLTI 1961, pp. 63-97. 15 APOLLONIO 1961, p. 141. 16 ECO 1961, pp. 98-127. 12 13
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In questo contributo, ripreso l’anno successivo per la prima stesura del saggio dedicato al tema17, egli si sofferma sulla musica e sull’arte del passato prossimo, esempi di apertura delle forme e delle possibili interpretazioni dell’opera, non riferendosi alle espressioni più attuali – sebbene le sue considerazioni sembrino portare il lettore a riflettere sull’arte più recente – intrinsecamente legate, come sono, agli anni Sessanta. La somma delle voci pubblicate su «Il Verri» offre un ritratto abbastanza particolareggiato della complessa situazione storico-critica di questi anni. Tutti i contributi raccolti dalla rivista chiariscono aspetti della definizione di questo ‘non movimento’, di questo naturalismo moderno – per citare Arcangeli – «vita più immediatamente vissuta che possibile»18, niente affatto correlato all’informe, ma piuttosto alla libertà da ogni forma prestabilita, responsabile del ripensamento della definizione classica attribuita alla forma, ora intesa come campo di possibilità, e della conseguente necessità di riflettere sugli orientamenti e i metodi della critica d’arte. L’aprirsi del decennio ci mostra quindi una metodologia critica in trasformazione che riconosce l’opera d’arte come tranche de vie19 e si appressa a valutarla anche come deposito di relazioni sociali: unica eccezione Argan, che fin da questo momento manifesta una certa difficoltà a relazionarsi con le poetiche attuali20. Nel 1963 confermano questo stato di cose la pubblicazione
ECO 1962. ARCANGELI 1961, p. 142. 19 Cfr. CALVESI 1966, pp. 205–207. 20 Questa diffidenza del critico nei confronti delle correnti artistiche degli anni Sessanta, dall’Informale al reportage e la Pop art, dall’arte povera al Concettuale, è alla base del suo graduale abbandono della critica militante. «Mi sento impreparato – scrive – ad affrontare il problema dell’arte di oggi, che non può impostarsi in termini di valore giacché proprio i valori e l’idea di valore sono contestati; e manca una unità di misura che non abbia il privilegio del valore. Di qui, la mia paura, la mia riluttanza a pronunciare giudizi»; G. C. Argan in TRINI 1980, p. 49. 17 18
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di un nuovo numero speciale de «Il Verri»21 e l’organizzazione della Biennale di San Marino22. In primavera la rivista diretta da Luciano Anceschi dedica un fascicolo al Post-informale, dove l’arte dell’oggetto e le cosiddette correnti neoconcrete e programmate sono individuate quali eredi delle correnti informali: l’una per il chiaro sconfinamento dell’arte nella vita, l’altra per l’accento posto sull’aspetto esperienziale e spaziale che accresce la percezione dello spettatore. Per entrambe risulta evidente la disponibilità al colloquio con la realtà: una realtà che, nelle parole delle personalità coinvolte, appare già mutata, «borghesemente neocapitalistica»23, rivelando che il rapporto dell’arte con l’istituzione e il mercato presenta fin da ora delle complessità. Argan non è questa volta tra gli autori coinvolti e ad aprire la rivista è l’intervento di Gillo Dorfles. Egli, rinunciando a soffermarsi su quegli aspetti che ritiene ormai più che assodati e divenuti slogan – come “rapidità del consumo, entropia, obsolescenza dell’opera d'arte”24 – e dopo aver offerto un breve quadro della situazione artistica, tra tardo informale, neo concretismo e poetiche dell’oggetto, richiama alla necessità per l’arte di dire, di essere nella realtà e quindi di agire su di essa25. L’arte dunque, secondo Dorfles, è un modo autentico di parlare per immagini e di creare esperienza, ma è anche una disciplina coinvolta in una situazione pericolosa per il pubblico: quella della feticizzazione, spesso interna allo stesso processo creativo che, talvolta, «crea il feticcio prima dell'opera; crea il simulacro
IL VERRI 1963. Cfr. ARGAN 1963. 23 Cfr. DORFLES 1963, p. 6. 24 DORFLES 1963, p. 3. 25 «Saranno, tutti codesti, modi autentici di “dire qualcosa” di più di quanto non si possa dire con le parole […] dire, cioè attraverso un linguaggio eidetico altamente simbolico e metaforico quello che forse potrà anche non essere inteso […] ma che – come è sempre il caso per le arti visuali – sarà “visto”: sarà cioè visualmente vissuto, erlebt, e si trasformerà, nella nostra mente, nella mente del fruitore, in embrione immaginifico»; DORFLES 1963, p. 5. 21 22
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prima dell'immagine»26. L’intervento di Dorfles chiarisce che la nuova situazione, a livello economico, politico e sociale, ha evidentemente toccato la cultura e l’arte; arte che appunto ora partecipa, dice, prende posizione, agisce, ma è vittima delle trappole del sistema: prima di tutte il mercato, dannoso per il libero respiro delle idee, delle opere e delle persone27. Segue l’intervento di Filiberto Menna che rappresenta, in assenza di Argan, la posizione dell’intellettuale razionalista, per quanto priva del rigore progettuale professato del maestro. «L’artista» – dichiara Menna – «tende oggi a sottrarsi alla suggestione del ‘messaggio’, sia esso ottimistico o pessimistico, ed a tentare, invece, la via del colloquio, della comunicazione con gli altri sul piano oggettivo di una situazione circoscritta […]. Ne deriva un’arte che rifiuta ogni assolutezza, quella della forma come quella del gesto, per cercare più articolati e fruibili mezzi di comunicazione, per aprirsi ad una più concreta socialità»28. Il critico, di una generazione più giovane di Argan, si pone come interprete di una possibile mediazione tra le due posizioni, dimostrandosi vicino alle istanze delle avanguardie, ma anche a un presente animato da sentimenti nuovi che coinvolgono e trascinano l'azione intellettuale nella realtà e nella vita. Così anch’egli appoggia le correnti gestaltiche e neo-concrete, coerenti con una linea analitica apprezzata fin dagli esordi, ma contemporaneamente non manca di ammirare una socialità concreta priva DORFLES 1963, p. 6. «L’oggetto diventa pari al cimelio, all’ex-voto, alla reliquia […] una firma, una sigla, una cornice a cassetta […] lo trasforma da semplice tela (o da rozza lastra di masonite, da manifesto strappato […] da manubrio di bicicletta) a opera magica, dotata del massimo potere catartico […] e anche del potere d’acquisto, della convertibilità in oro, in prestigio, in potenza. […]. Questo avrebbe poco a che vedere con la situazione artistica e molto di più con la condizione socio-antropologica in cui siamo immersi se, per riflesso, non accadesse che una cosiffatta mentalità feticizzatrice non finisse per coinvolgere anche gli individui più lucidi e coscienti, gli stessi critici, gli stessi artisti, riflettendosi pertanto sullo stesso processo creativo che talvolta, crea il feticcio prima dell’opera; crea il simulacro prima dell’immagine». DORFLES 1963, p. 6. 28 MENNA 1963, p. 73. 26 27
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di progetto, ma pregnante, che riscontra in molte ricerche contemporanee e che lo avvicina al reportage e alle ricerche che seguiranno. Nell’ottica del paragone tra Informale e Post si situa poi Renato Barilli, che intende le due correnti come parti di un percorso unico29. Egli sottolinea l’esistenza di una continuità del rapporto dell’arte con l’esistenziale: quello più alto della materia informale trasformata nel gesto, e quello più concreto, terreno, delle forme della quotidianità, che appartengono appunto all’esistenziale e non del tutto al reale. Gli esempi di Dorfles, Menna e Barilli chiariscono l’atteggiamento della critica: lasciata sospesa la questione del progetto utile per la società (che nei termini detti riguarda essenzialmente Argan), ci si sofferma sull’analisi della situazione attuale, se ne individuano le caratteristiche salienti, si prende confidenza con le insidie del mercato e con quelle di un sistema che inizia a strutturarsi. Soprattutto si comprende il sostanziale cambiamento del rapporto tra arte e realtà, tutt'altro che improvviso ma ormai indiscutibile. Tutte le nuove ricerche evidenziano un fattore comunicativo nuovo rispetto alle esperienze precedenti e la critica d’arte, da parte sua, mostra anch’essa una tendenza all’azione. Questa si trova infatti a dover aggiornare definizioni e metodi, lasciando gradualmente il suo ruolo di guida e preferendogli una militanza che dialoghi con il presente e la ricerca estetica, proponendo per la contemporaneità e relazionandocisi senza condannarne i principi. La stessa definizione di arte e del fare arte diviene ora problematica per il critico. Una volta registrata la trasformazione dei linguaggi, nonché l’assenza del programma sociale in molte ricerche artistiche, la critica viene chiamata a cambiare il proprio linguaggio, con lo sguardo e lo scopo della sua missione. Se l’opera è legata alla società e alla storia che l’ha generata, se diviene più immediata e si concentra sulle sue stesse peculia«Entrambi i climi si situano sotto la bandiera dell’esistenziale: può entrare nei loro interessi solo ciò che ‘esiste’, che ha vita precaria, effimera, in quanto emanazione […] di questo nostro mondo»; BARILLI 1963, p. 86. 29
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rità e attraverso queste, come da una finestra privilegiata, osserva la realtà, cosa accade se quella realtà in cui l’arte è immersa sempre più impone una posizione, un intervento? Qual è il compito della critica? È a queste domande che la critica militante tenta di rispondere portando avanti il proprio percorso esistenziale e di ricerca, militando appunto con gli artisti, ora come interprete, ora come portavoce, ora come mediatrice o testimone. In occasione della IV edizione della Biennale di San Marino (luglio 1963) Argan, Presidente della Commissione giudicatrice, propone di riservare la partecipazione solo a quegli artisti, pittori e scultori che agiscono oltre l'Informale e nel cui lavoro il critico vede realizzarsi (quella che egli ritiene essere) la missione sociale dell’arte (e quindi della critica che quest’arte accompagna). Argan conferma così il suo orientamento alla ricerca di un legame effettivo tra arte e collettività, in cui una sia portavoce e interprete dei bisogni dell’altra, e individua tale legame nel rispecchiamento tra i modi operativi della produzione industriale e quelli dell’arte, preferendo a ogni altra corrente, anche significativa nel quadro di una relazione tra arte e realtà, le ricerche di gruppo dell’arte gestaltica e programmata. L’orientamento critico di Argan decide l’esito della kermesse e i premi vanno a Gruppo N e a Gruppo Uno, che vantano una metodologia collettiva e producono opere innescate da dati elementari della percezione, incentrati sulla luce e sul movimento (reale o virtuale), talvolta associati al suono. Queste correnti si caratterizzano per il rilievo dato al progetto, all’uso di materie fredde e di meccanismi ottici e percettivi che allontanano ogni emotività o sentimentalismo fine a se stesso; sono espressive di un’arte sviluppata con il sostegno della critica e attenta alla psicologia della forma. L’opera non nasce dall’emozione ma è invece programmaticamente portatrice di valori; non un oggetto
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in qualche modo fine a se stesso, ma un soggetto con cui instaurare una relazione30. Questi fattori sono determinanti per il giudizio positivo di Argan, che mostra di essere più attento al programma sociale e alla poetica di gruppo che alle opere stesse, giungendo anche a trascurare la singolarità delle ricerche. Il gruppo, più che il singolo, consente infatti al critico un collegamento agile al discorso sulla funzione sociale dell’opera e alla riduzione al minimo dell’espressività squisitamente emotiva, nonché l’esercizio del proprio ruolo di guida, in linea con quelle che egli ritiene essere le funzioni della critica. Questa deontologia etico-normativa, animata da una verve pubblica, che si esprimerà pienamente nel corso della sua carriera politica, applicata all’arte, e nel contesto sanmarinese, assume inevitabilmente un tono prescrittivo che porta polemiche e dispiace agli artisti. L’assegnazione dei premi e il ruolo svolto nella manifestazione da Argan alimentano così il dibattito sulle funzioni e i metodi della critica d’arte. Ciò che si considera non è solo la legittimità di una scelta che intende portare avanti le ricerche di gruppo a discapito di altre: l’intervento di Argan crea l’occasione perché la critica rifletta sui propri compiti e scelga le modalità per parÈ nella mostra tenuta alla Galleria Quadrante (Firenze, 1963) che per la prima volta si presentano insieme i sei pittori romani che poco più tardi formano il Gruppo Uno: Gastone Biggi, Nicola Carrino, Nato Frascà, Achille Pace, Pasquale Santoro, Giuseppe Uncini. Palma Bucarelli, nel suo contributo in catalogo sottolineando il loro impegno etico nel superare l'impasse dell’Informale (tale giudizio è evidentemente mediato dalla posizione di Argan), sottolinea come questi artisti lavorino in un'unica direzione di ricerca, riscontrabile essenzialmente nella moralità e nella coscienza storica che è alla base delle opere (cfr. BUCARELLI 1963, s.n.p.). La dichiarazione di poetica del gruppo segue la stessa linea e viene presentata nel 1963 alla Galleria La Medusa di Roma. Qui si conferma l’intenzione di superare l’Informale con un’arte legata alla teoria della percezione, ma, soprattutto, si suggerisce una funzione sociale dell'artista nella società che nasca dall’ascolto delle sollecitazioni dell’attualità. Nelle parole del gruppo compaiono quindi termini chiave come «organicità» e «circolarità sociale». Si vuole stare insieme e superare la presunta tabula rasa dell'Informale e il suo supposto disimpegno. Cfr. GRUPPO UNO 1963. 30
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tecipare e raccontare. Gli artisti, da parte loro, prendono le distanze da un atteggiamento critico ritenuto autoritario e fuorviante e seguitano il proprio percorso. Ormai completamente superata la querelle astratto–figurativo, l’artista si concentra sull’opera e così facendo, lavorando sulla propria realtà, si riallaccia naturalmente a quella collettiva, cominciando un percorso definitivo verso il reale, inteso come oggetto, ma anche come sguardo sul presente, che sarà ricchissimo di implicazioni per gli anni a venire. Le questioni riguardanti i compiti della critica trovano una nuova occasione per emergere a Verucchio con il XII Convegno internazionale artisti, critici e studiosi d’arte. In questa circostanza, all’apertura dei lavori, Argan ribadisce quella che ritiene essere la funzione sociale dell’arte e della critica31. La sua posizione netta viene giudicata autoritaria e prevaricatrice da molti critici e artisti. Questi ultimi, firmatari della Lettera degli artisti romani, rifiutano di intervenire al convegno disconoscendone le premesse. La vicenda dà luogo a una discussione che si trasferisce sulle pagine del quotidiano Avanti! che, tra novembre e dicembre del 1963, ospita diversi interventi che evidenziano per tutti, artisti e critici, la necessità di ridefinire compiti e posizioni. Il più equilibrato è Emilio Vedova che, ricordando l’inasprimento delle polemiche arte-critica seguito alla premiazione dei gruppi a San Marino, ribadisce garbatamente il diritto di esprimere ogni teoria estetica, specie in un momento in cui «la registrazione è aperta a tutti. La percezione è disturbatissima per tutti»32; si dissocia da ogni attacco diretto alla persona di Argan, per un dialogo aperto tra le parti. Ancora, una giovanissima critica e storica d’arte, Carla Lonzi, allieva di Roberto Longhi, sempre dalle pagine dell’Avanti! si rivolge ad Argan con parole dure: «Se il critico abituato ai pri«Portare avanti l’arte, di conservarle una funzione sociale, che non può essere se non quella di inserire i modi operativi dell’arte (e dei valori connessi) nei modi di operazione della società […]. Il primo obiettivo di arte e critica è dunque ancora critico»; ARGAN 1963B, p. 318. 32 VEDOVA 1963. 31
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vilegi istituzionali, si illude di una veggenza e di una facoltà particolare di coordinamento dei dati della realtà, compie un gesto angosciato e angosciante»33. Di fatto Argan viene accusato di tagliare i ponti con la realtà che tanto gli preme, di arroccarsi in definizioni a priori e di lasciarsi sfuggire la vera natura di ricerche e correnti che egli definirebbe di retroguardia, ma che si propongono invece come interlocutori privilegiati della realtà più attuale. Il gesto è, per la Lonzi, «angosciato» perché sintomo di un disagio oggettivo che non permette di far respirare le opere, di lasciare che parlino, che evidenzia come Argan non si interroga veramente sui significati di certe ricerche, poiché comunque irrispettose del suo concetto di impegno, e che, così facendo, affligge e tradisce il rapporto con l’arte. Quello che si manifesta in seguito a San Marino e Verucchio è quindi l’esordio di un nuovo senso del fare critica che non ha ancora assunto contorni definiti, ma che certo non si riconosce nella inflessibilità dell’esempio arganiano34, almeno per ciò che riguarda le responsabilità morali dell’intellettuale e il modo di intendere la funzione sociale dell’arte da lui dettata. Enrico Castellani e altri protagonisti di Autoritratto di Carla Lonzi35 ricordano con diffidenza l'atteggiamento dello studioso, specie relativamente al 1963 e alla Biennale di San Marino, quando il critico, sempre più persuaso della validità del modello centralistico ed efficientista dell'intellettuale guida della società, favorisce deliberatamente l'arte programmata e apparentemente si disinteressa del resto. Ricorda Castellani che nel caso di Argan la critica si fa «enunciazione ex cattedra» senza una verifica36. Effettivamente lo sforzo di Argan pare teso alla costruzione, per l'arte LONZI 1963. «Allora dei critici mi avevano accusato, con la mia posizione, di screditare l'arte moderna in Italia colpendo uno dei suoi difensori ufficiali e rafforzare il potere di Guttuso […]. Questo ragionamento, proprio in coscienza, non riuscivo ad accettarlo. Infatti, il problema era […] togliersi dal ricatto dell'aut-aut Argan o Guttuso»; LONZI 1969, p. 154. 35 Cfr. LONZI 1969. 36 E. Castellani in LONZI 1969, p. 150. 33 34
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e la cultura, di uno spazio nelle grandi trasformazioni dell'Italia del tempo. Il critico incoraggia la collaborazione tra arte, industria, scienza; è impegnato nella difesa della cultura italiana, quasi che il contatto con quella statunitense possa turbarne i compiti e l'identità, e diffida dell’aderenza al reale di cui le correnti post-informali costituiscono un esempio. Un esempio che, quando il critico ne riconosce il valore, è piegato alle ricerche di gruppo, come dimostra il caso di Giuseppe Uncini37. La lettura della ricerca di questo artista può essere adattata a quei criteri dell’Arte Programmata che esaltano la dinamica spaziale e pongono lo spettatore al centro dell’opera e della sua esperienza, ma con uno sforzo interpretativo che scavalca le opere. Se infatti il movimento prodotto nell’opera d’Arte Programmata, reale o virtuale che sia, coincide con la messa in atto di meccanismi realizzati con strutture che obbediscono a procedure di funzionamento determinate dal calcolo e da una rigorosa programmazione (anche della percezione), questi aspetti in Uncini sono assenti. Egli incarna sì il superamento del gesto informale attraverso un raffreddamento della materia che diventa cosa, sfruttando un procedimento di costruzione dell’opera che non è basato sull’intuizione, ma certamente non vi è una programmazione della percezione e il significato dei suoi lavori non si esaurisce nel processo operativo, ma si nutre della matericità del cemento, della sostanza delle superfici, della qualità dei volumi, dei contrasti tra luce e ombra. Più probabilmente in questo artista Argan ritrova un’esemplare forma di realismo, come forme di realismo possono essere da lui intese le ricerche di Vedova e di Lucio Fontana. Scrive il critico: I lavori di questo artista, fatti rientrare da Argan nella categoria dell’arte gestaltica, oggi sembrano essere considerati in tal senso più per una finalità sociale della critica di allora che per una reale anima della ricerca. Si tratta infatti di una delle più lucide interpretazioni del passaggio tra informale e oggetto, che poco ha a che fare con arte e scienza, con un progetto dichiarato di legame alla condizione politica e sociale del dopoguerra, e che molto invece dice sul delicato passaggio al post informale che si va compiendo, già nella prospettiva di un futuro fatto di oggetti. 37
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Il solo realismo che si possa predicare all’arte è un realismo morale, che investa a fondo il problema del fare artistico in quanto effettivo intervento nella situazione. Se della situazione storica non si ha una percezione viva, o realistica, non si potrà evidentemente intervenire con un’azione valida […]. Ciò che l’artista cerca di preservare o riscattare è la sopravvivenza di certi valori e, con esse, la sopravvivenza etica del proprio agire. Non credo alla crisi dei valori, ma credo alla loro continua trasformazione e constato che tale trasformazione si compie oggi secondo un processo più rapido: essere nella realtà significa trasformare rapidamente e radicalmente i processi tradizionali dell’arte38.
Eppure il contatto con la realtà delle poetiche contemporanee, come si è visto non lo convincono in quanto prive di un progetto sociale per lui definito, tanto che il critico condanna, dopo l’Informale, le poetiche dell’oggetto. Quando nel settembre del 1964 Arte Oggi39 pubblica un’inchiesta dedicata alla Pop Art e ai recentissimi fatti veneziani, egli partecipa con un intervento che già nel titolo – Il carattere delle Pop Art è la svalutazione o la negazione del procedimento operativo40 – chiarisce la sua presa di distanza rispetto alle nuove correnti. A introdurre il fascicolo è Guido Montana, che subito definisce nell’incipit i termini fondamentali, non tanto e non solo della questione Biennale, ma del particolare momento storico che l’Italia sta attraversando sul piano artistico e culturale41 e conclude con quella che è la critica più frequente dell’ambiente italiano al fenomeno statunitense: il non intervento, la cronaca della realtà in cui non si istituisce una riflessione propositiva sulARGAN 1964B p. 106. ARTE OGGI 1964. 40 ARGAN 1964C, p. 15. 41 «Il problema che l’arte del nostro tempo è chiamata ad affrontare, consiste nello stabilire fino a che punto l’operazione estetica riaffermi qualificandola, una condizione obiettiva e storica; o se invece non abbia esaurita la sua funzione mediata, circoscrivendosi di fatto nell’ambito della fruizione di valori puri»; MONTANA 1964, p. 7. 38 39
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la condizione umana. L’opera pop è «il momento in cui l’operazione artistica viene a descriversi come mera riproduttività dei miti e dei simboli dell’esistenza»42. La somma degli interventi rimarca le differenze tra l’arte pop e le correnti italiane43: se la Pop è il primato americano che ha monopolizzato l’attenzione dei mass media, in Europa accadono fatti di pari o maggiore importanza e non nati sulla scia dell’esperienza statunitense, come semplicisticamente si cerca di far intendere al grande pubblico, ma in totale autonomia e fondati sul bagaglio di una cultura che possiede molte cose da aggiungere alla dialettica con il reale, l’esigenza comune che ora investe l’Occidente. Boatto dà rilievo alle reciproche differenze e invita l’arte europea a compromettersi «una buona volta veramente nell’esperienza»44. L’arte americana, secondo il critico, è riuscita ad ottenere risultati più forti nel contatto con il reale anche facendo forza sulla anonimia del reportage: aspetti che gli hanno permesso di individuare, elaborare e relazionarsi con una realtà che diventa così sintomatica. Mossi dalle stesse premesse, ma con una forma meno semplicistica dell’attualità, della società e della comunicazione, gli europei affrontano problemi tutto sommato analoghi ma non rinunciano alla problematicità di una realtà più fluida e complessa di quella americana. La sua traccia si intuisce chiaramente anche nella scelta dei materiali dell’arte, materiali che in Italia possiedono una qualità sensoria e che MONTANA 1964, p. 11. I quesiti stessi dell’inchiesta si riferiscono essenzialmente a questo paragone: «1- A proposito della partecipazione statunitense alla XXXIII Biennale di Venezia, si è parlato di primato della nuove tendenze artistiche americane (Pop Art e Nuova Astrazione) nei confronti dell’Europa. In qual misura può ritenersi giustificata questa affermazione? 2- Poiché come è noto, elementi di ‘nouveau realisme’, sono compresenti e in qualche modo antecedenti alla Pop Art americana, sotto quale aspetto gli artisti statunitensi sono tributari di tale precedente esperienza europea? 3- Può ritenersi tipica e ‘obbligante’ una tendenza come la Pop Art, nel momento in cui una certa sua stessa letteratura critica accetta la convivenza con una supposta ‘nuova astrazione’? In quale misura la Nuova Astrazione americana è nuova e la stessa Pop Art originale?»; cfr. ARTE OGGI 1964, p. 5. 44 BOATTO 1964, p. 17. 42 43
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suggeriscono un’attenzione per l’individuo, il corpo, lo spazio, per quella poeticità e artigianalità che sono parte dell’identità italiana. «Qui in Europa», dichiara il critico, è ancora fortunatamente viva fino all’acuità – penso a Wols ora – la coscienza dell’io, di una presenza interna, che si trova adesso davanti al compito di inventare nuovi strumenti per ripossedere le prospettive larghissime di un universo dilatato. Quale parte attiva spetta oggi al soggettivismo europeo […] alla fenomenologia col suo richiamo alla prima persona, allo stesso marxismo che non si vieti più la prova della concretezza e della vita?45.
Compromettersi con la realtà e con l’esperienza, non negarle chiudendosi in definizioni sterili e vischiose, ma partecipare, questa è una prima risposta che emerge dalle parole di Boatto al quesito sulla parte spettante all’arte nell’attualità; questo il modo con cui l’arte europea e italiana (e la critica)46 possono agire nel dialogo tra uomo e mondo che alla cultura da sempre compete47. Sono protagonisti di questo dialogo auspicato e già instaurato gli artisti della cosiddetta nuova figurazione, che al di fuori di ogni etichetta48, non tentano di rifondare linguaggi passati ma, invece, rischiano e naturalmente si spingono, verso un discorso nuovo. Questo accade per Menna con gli artisti americaBOATTO 1964, p. 19. « […] l’accorgimento, dopo aver accolto con spirito equanime tutte le tendenze, di allargare nella chiusura del discorso critico un sospetto di ampiezza totale , di mettere sull’avviso l’ingenuo fruitore che un errore o un maleficio potrebbe anche pesare sull’intero destino dell’arte presente. […] Si pensi, per contro, al contributo stimolante che al di là del consenso personale o del dissenso, ha rappresentato la scelta effettiva compiuta di recente da un altro ben noto esponente della critica, il consapevole coraggio di correre , dando un’indicazione autentica, un rischio veritiero»; BOATTO 1964, p. 22. 47 «In conclusione tutto questo settore deve impegnarsi per elaborare una effettiva proposta di realtà ed un efficace rapporto con essa. Occorre insomma che chiarifichi, in mancanza ancora della opere, proprio quella poetica sulla quale fino ad oggi ha vanamente appuntato ogni sua attenzione, se non si vuole accontentare di una ricerca puramente formalistica, sintattica, per altro legittima nel suo ambito ristretto»; BOATTO 1964, p. 20. 48 GARRONI 1964, pp. 29–34. 45 46
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ni, meritevoli di aver accettato a viso aperto il confronto con l’ambiente di appartenenza. L’artista americano ha, secondo Menna, sottoposto a un processo di demistificazione e di reificazione i prodotti terminali del procedimento tecnologico […]. [Egli] opera a livello del consumo di massa ma cercando […] di prendere per mano il consumatore di beni e indicargli la via per demistificare il prodotto e se stesso. Si tratta di una posizione ideologicamente individualista, se non anarchica addirittura, in quanto pone la possibilità del riscatto a livello atomistico del consumo e non a livello pianificante della produzione49.
Da questa analisi sembra emergere un contenuto politicoideologico dell’arte statunitense e un invito per quella italiana ad agire sulla società e al di fuori delle maglie del sistema. Invito raccolto, secondo Menna, dall’Arte Programmata, che opera sui metodi per riconoscere una percezione trasferibile nel comportamento individuale. Argan più che rimarcare le differenze tra Europa e Stati Uniti sottolinea l’importanza di una dialettica tra le due realtà che vinca qualsiasi barriera nazionale e che riguardi l’«emergere di problemi della vita storica dell’uomo nel mondo, del suo destino in una società che, mettendo in crisi tutti i valori, a cominciare da quello della storia, minaccia di revocare la funzione che l’arte ha avuto da sempre nella storia degli uomini»50. Affrontando poi la questione Pop Art, il critico ne nega la relazione con la storia, annullata dal processo operativo di ricalco che, secondo i suoi canoni, sconfessa l’esperienza. Egli afferma quindi implicitamente che il prelievo dal reale delle correnti Pop, e naturalmente anche del reportage, abolisce la funzione sociale dell’arte, determinandone quindi la ‘caduta’, e rimane l’unica voce a non riconoscere nelle nuove correnti l’impegno nel presente. Così Argan pare il solo a non fare un percorso di verifica dei propri pa49 50
MENNA 1964, p. 36. ARGAN 1964C, p. 15.
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rametri di giudizio e a non considerare l’opera d’arte secondo l’ottica in cui l’immagine e la comunicazione sono suoi fattori di progresso. L’opera d’arte è, nel pieno degli anni Sessanta, esposta all’urto della vita pratica e si relaziona alle questioni centrali della tecnica e della comunicazione: spunti per riflettere, o più direttamente per vivere, come si è visto in ambito critico, al di là del caso di Argan, una condizione esistenziale nuova e un rapporto con un'industria culturale dall'identità ambivalente. Sembrano prendere corpo le teorie di John Dewey, uno dei riferimenti della nuova critica, per cui l’arte non può essere fine a sé stessa ma deve innescare una trasformazione reciproca con il mondo51. Si palesa un cambiamento delle posizioni dell’intellettuale e dell’artista: da guide essi divengono attori del reale, immersi in un’attualità con cui dialogano appropriandosi dei suoi linguaggi, consapevoli che il prodotto artistico è anche un prodotto di mercato, un simbolo di promozione sociale, prima ancora che intellettuale, e pertanto è coinvolto nelle leggi del mercato: è la domanda a determinare l’offerta ed è il sistema a provocare la domanda. Ciò in ambito critico determina il formarsi di differenti atteggiamenti: chi rimane legato all’ideale dell’intellettuale guida della società in senso arganiano deve ricredersi, osservando la creQuesta tendenza è quella dominante come dimostrano ad esempio gli atti del quattordicesimo convegno di Verrucchio. Ad esempio Lara Vinca Masini dichiara in questa occasione: «In un certo senso, oggi è come se tutto ricominciasse da capo. Lo sconvolgimento ed il rovesciamento dei valori tradizionali è stato così radicale che occorre rifare tutto […]. Tornando alle parole di Einstein è con l’impegnarsi “nella critica dei concetti fondamentali in modo da non esserne dominati inconsciamente” che è possibile ritrovare una pregnanza semantica, in un linguaggio ripreso in esame e verificato ogni volta all’origine […]. A mezzo di questa elaborazione di una tipologia linguistica, sarà possibile ovviare all’equivoco dell’ipotesi delle “due culture” Questo può essere un mezzo, tutto da verificare e da dimostrare. Ma potrebbe diventare uno strumento non di facile divulgazione, ma di educazione anche a livello di massa. Non si dovrebbe trattare di épater le bourgeois, ma di stabilire una base di partenza. Come un riprendere alle origini un cammino disperso». VINCA MASINI 1965, pp. 72-73. 51
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scente quantità di condizionamenti e di rapporti sociali che determinano, non la fine, ma l’evoluzione di tale ruolo. Si cercano più adeguati strumenti di partecipazione alla nuova realtà sociale, cambiano letture e riferimenti, anche rispetto alla generazione di Argan che già aveva aggiornato i propri nel dopoguerra 52; si leggono, tra gli altri, Gramsci, Marx, Laing, O’Brown, Marcuse, McLuhan e Merleau-Ponty, soprattutto, si fa autocritica. Se l’arte rivendica l’esperienza diretta e quindi la sua motivazione educativa, poiché percepire (e qui Arnheim53 è l’altro riferimento) è già un atto della coscienza, i termini del dibattito critico si infittiscono. Ci si domanda se la critica può continuare a giudicare e orientare quando spesso l’arte rifiuta di produrre valori e di rientrare in quello che ritiene essere il sistema della cultura istituzionale; si riflette sull’interpretazione, sulla possibilità che questa neutralizzi l’impatto delle opere sulla coscienza e sulla sensibilità del pubblico. A cavallo tra il 1966 e il 1967, avviene il passaggio cruciale in cui l’uso dei materiali non convenzionali e l’esperienza dell’oggetto traghettano l’arte italiana verso i territori incerti dell’incontro con il teatro, la vita e l’azione. Lo documentano alcune mostre tra le quali vale la pena citare, nell’ottica del nostro discorso, Nuove tecniche dell’immagine, l’ultima biennale di San Marino54. Argan, che dirige la rassegna e sceglie il tema, firma il primo intervento pubblicato nel catalogo dell’esposizione, e al quesito sulla liceità ad occuparsi di arte in un momento di crisi, risponde dichiarando che farlo è un modo per difendere le condizioni di libertà dell’uomo, poiché «senza immaginazione non c’è storia, ideologia, morale, politica»55. Nondimeno il ritratto che lo «C’era un ritardo […] noi abbiamo letto Gramsci dopo la guerra. E se per voi Gramsci è stato un elemento di formazione, per noi è stato motivo di autocritica, di critica di un passato che avevamo alle spalle»; G. C. Argan in TRINI 1980, p. 45. 53 Nel corso degli anni Sessanta vengono tradotti e pubblicati in Italia dall’editore Feltrinelli le maggiori opere di Rudolf Arnheim. 54 VI BIENNALE D’ARTE 1967 55 ARGAN 1967, p. 13. 52
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studioso fa delle correnti contemporanee rispetto all’essere un modello per la società e il percorso della storia è tutt’altro che incoraggiante: il sistema non distrugge l’immaginazione ma la condizione, la assoggetta, screditando la sua funzione primaria e utilizzandola per i propri scopi. «La rimpinza (in gabbia) di informazioni a getto continuo; la costringe a produrre quantità enormi di immagini destinate al consumo immediato; la separa dal fare etico per inserirle nel meccanicismo del fare tecnologico»56. La tecnologia e il sistema dei consumi corrompono dunque la cultura, specie nel momento in cui questa è finalizzata anzitutto a un profitto economico che si traduce in potere politico57; allora, la sola arte che può opporsi a questo stato di cose è, per Argan, quella che agisce politicamente e che si impegna nel recupero dell’immagine in quanto processo, l’arte che possiede una struttura autonoma dalla tecnologia e dalla comunicazione del bene di consumo, un’arte quindi distante dal capitalismo58. Gli esempi di quest’arte ‘positiva’ sono Dorazio, Lichtenstein, Vasarely e in generale l’arte cinetica, ricerche opposte all’arte pop e op – «e conviene chiamarle con queste sigle che sembrano marchi di fabbrica»59 – specifica Argan. Egli è dunque per il recupero dell’immagine «come fatto di pensiero che si addentra nella realtà, acquista estensione, durata, forma un contesto spazio temporale»60. Fagiolo Dell’Arco e Calvesi mostrano invece di stimare le correnti op e pop e di valutare positivamente il loARGAN 1967, p. 13. ARGAN 1967, p. 13. 58 «Rottura a tutti i costi, anche a colpo di testa e puntate avventate, degli argini entro cui la tecnologia industriale, come strumento di potere, mira a contenere […]. Il trasporto, [che alcuni] hanno appena intrapreso dalle tecniche di immagine dal livello delle tecniche industriali a quello delle grandi tecniche culturali è un un'impresa difficile e pericolosa; ma se dovesse riuscire, sarebbe anche il primo passo verso il riscatto alla cultura di quella tecnologia industriale che oggi è lo strumento di pressione e di espansione della volontà di potere del capitalismo». ARGAN 1967, p. 17. 59 ARGAN 1967, p. 14. 60 ARGAN 1967, p. 16. 56 57
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ro legame con l’esperienza61. Il primo rileva che l’artista è ora anche artigiano, ricostruisce l'immagine e si fa tappezziere, falegname, cartellonista; porta la sua arte nel campo dell'instabilità e chiede la collaborazione dello spettatore. Maurizio Calvesi ritiene la Pop Art responsabile di una relazione più vivace tra arte, realtà e linguaggi; capace di contribuire all’eliminazione di alcuni tabù nei confronti della civiltà di massa62, e soprattutto, al formarsi di un’idea dell’immagine come presenza più che rappresentazione, come forma di interpretazione e conoscenza che ha a che fare con il tattile e il visivo, determinando «un nuovo principio di socialità dell’arte»63. Tutti e tre i critici italiani chiamati a presentare la rassegna a San Marino chiariscono quindi che la strada intrapresa dall’arte è quella dell’esperienza e della relazione con la realtà in una chiave che è comunque giudicata da tutti e tre orientata a favore dell’individuo. Essi rappresentano un modello di critica d’arte edificato sul presente e aperto alla registrazione tempestiva di ciò che sta accadendo64, per quanto Argan si mantenga saldo agli ideali di Salvezza e caduta e non riconosca nella Pop e nel reportage alcun impegno. Se l’arte del passato, dunque, costituiva per Argan un modello del lavoro sociale, il presente vede l’arresto di questa spinta ideologica, la fine della funzione di guida dell’arte che ora si accoda al progresso tecnologico e al circuito del consumo. Nel febbraio del 1968 il critico afferma: «sottraendosi all’impegno ideologico che aveva assunto dopo l’ultima guerra mondiale l’arte non ha affermato la propria autonomia od il proprio carattere metastorico; si è semplicemente inserita in una situazione storica diversa e non più rivoluzionaria»65. L’arte ha dunque ri«Una serie di ipotesi […]. E la tesi? Non certo quella ottimistica del progresso […] ma quella più responsabile dell'esperienza. Provare e riprovare: questo è il problema»; FAGIOLO DELL’ARCO 1967, p. 22. 62 CALVESI 1967, p. 18. 63 CALVESI 1967, p. 20. 64 CALVESI 1967, p. 23. 65 ARGAN 1968, p. 6. 61
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nunciato, per Argan, alla propria missione orientativa, dando per stabilita una situazione nella quale è lei a essere oggetto di trasformazione, costretta ad agire ai margini del sistema. «Dal programma massimo si è passati al minimo,» – specifica Argan – «dall’iniziativa rivoluzionaria, alla rivolta, alla protesta, all’ostruzionismo, alla mera obiezione di coscienza»66. Egli nega l’impegno dell’arte per la società anche per quelle ricerche che operano dei prelievi dalla realtà, come l’arte pop e quella di reportage, dal momento che, per il critico, non ha valore se le opere esibiscano elementi del reale con approvazione o con biasimo67, quando mancano di un programma e di una missione sociale, e alimentano l’illusione che la cultura non sia una questione di classe. Dichiara Argan: Poiché un processo rivoluzionario è in atto, comportarsi come se non ci fosse è già una scelta politica. Quanto meno, è ancora un indizio di quella unilateralità di vedute degli intellettuali borghesi, per i quali [...] il processo storico della società sono questioni di competenza esclusiva della classe dirigente: col finire della quale dovrebbero, fatalmente, cessare di esistere68.
Chiamato ad aprire il primo (e unico) numero della rivista Senzamargine, Argan chiarisce ulteriormente la propria posizione sul rapporto tra arte e contestazione (non più appunto iniziativa rivoluzionaria), identificando quest’ultima come «rivoluzione non programmata, non più concepita come accelerazione del processo storico, anticipazione del futuro»69, ma come reazione, come critica, che, nel campo dell’opera d’arte si esprime nella ARGAN 1968, p. 7. «Che le immagini vengano esibite con una sfumatura di approvazione, di biasimo o d’ironia non ha molta importanza: il sistema non vuole essere contraddetto, ma non pretende di essere amato o lodato. […] si interrompe un processo; ma l’interruzione di un processo squalificante non determina automaticamente la riqualificazione, il recupero del valore»; ARGAN 1968, p. 11. 68 ARGAN 1968, p. 14. 69 ARGAN 1969, p. 8. 66 67
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distanza con il mercato70. All’indomani del Sessantotto, ecco dunque individuate da Argan le fattezze di una nuova lotta di classe, quella delle ricerche artistiche dei Sessanta, lontana dall’impegno che costituirebbe la salvezza dell’arte moderna, e derivata sostanzialmente, più che dai cambiamenti nella società, dall’inerzia della classe dirigente, dal quel «processo storico necessario»71 che vede la graduale sostituzione della classe borghese con quella proletaria. Una contestazione adatta a un’arte che aderisce alla contingenza e all’evento chiamando anche la critica alla stessa adesione, e negando di fatto il rapporto tra arte e storia. «Non è per ragioni di nomenclatura che esitiamo a qualificare arte un happening o un oggetto a consumo ribaltato di Oldenburg» – afferma Argan – «di codesti fenomeni non si nega affatto l’esteticità, soltanto si constata che la loro esteticità non costituisce un valore» – e prosegue – «la possibilità di vivere esperienze senza che queste costituiscano valori non sarà da scartare a priori, ma per ammetterla bisogna accettare l’idea (o, purtroppo, la realtà) di una società la cui struttura fondamentale non sia più la storia»72. Le correnti Pop, op, o l’arte di reportage sono nell’ottica di Argan contingenza, come lo è il concettuale che incorpora teoria e prassi, dunque nella loro analisi non c’è spazio per una prospettiva storica della critica, né il critico la prevede per il futuro 73, così, in occasione di Critica in atto, organizzata da Achille Bonito Oliva per gli Incontri Internazionali d’arte, Argan parla di una critica che è atto e non giudizio, atto di un altro atto che è «Ogni attività estetica che non si risolva in produzione di merce artistica ha carattere contestativo»; ARGAN 1969, p. 10. 71 ARGAN 1969, p. 11. 72 ARGAN 1970, p.VI. 73 Coinvolto da Marisa Volpi nell’inchiesta sul futuro dell’arte, alla domanda «Quali opere e quali movimenti artistici del nostro tempo saranno considerati significativi tra dieci, venti o trent’anni, e quali le correnti e le personalità che si imporranno ai futuri storici dell’arte?» Argan risponde: «Sarà delirio apocalittico, ma penso che non vi saranno più artisti né storici dell’arte. Gli ultimi superstiti studieranno Picasso e Pollock come relitti di civiltà scomparse»; ARGAN 1972, pp. 78-79. 70
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l’opera. Arte e critica divengono parti di un medesimo discorso con una comune finalità politica, ma prive di prospettiva storica. In più l’opera d’arte contemporanea, sottraendosi all’interpretazione, fa perdere di senso al giudizio di valore, «il momento politico della storia», che la critica dovrebbe esprimere74. La conclusione di Argan sulle scelte da operare per la critica in una situazione siffatta è netta: o posso fare storia, perché il fenomeno si dà come fatto che esige di essere interpretato, perché pone un problema di valore; o non posso, allora non ho che due vie: o quella del profeta che fantastica del futuro, o quella dell’archeologo che indaga il passato. Messo al bivio, scelgo – e lo dichiaro – la via dell'archeologo75.
74 75
ARGAN 1973, p. 10. ARGAN 1973, p. 15.
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GIULIO CARLO ARGAN E LA CRITICA D’ARTE
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