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Horti Hesperidum Studi di storia del collezionismo e della storiografia artistica Rivista telematica semestrale

MATERIALI PER LA STORIA DELLA CULTURA ARTISTICA ANTICA E MODERNA a cura di FRANCESCO GRISOLIA

Roma 2013, fascicolo II

UniversItalia Horti Hesperidum, III, 2013, 2

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I presenti due tomi riproducono i fascicoli I e II dell’anno 2013 della rivista telematica Horti Hesperidum. Studi di storia del collezionismo e della storiografia artistica.

Cura redazionale: Giorgia Altieri, Jessica Bernardini, Rossana Lorenza Besi, Ornella Caccavelli, Martina Fiore, Claudia Proserpio, Filippo Spatafora

Direttore responsabile: CARMELO OCCHIPINTI Comitato scientifico: Barbara Agosti, Maria Beltramini, Claudio Castelletti, Valeria E. Genovese, Ingo Herklotz, Patrick Michel, Marco Mozzo, Simonetta Prosperi Valenti Rodinò, Ilaria Sforza Autorizzazione del tribunale di Roma n. 315/2010 del 14 luglio 2010 Sito internet: www.horti-hesperidum.com

La rivista è pubblicata sotto il patrocinio e con il contributo di

Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” Dipartimento di Scienze storiche, filosofico-sociali, dei beni culturali e del territorio Serie monografica: ISSN 2239-4133 Rivista Telematica: ISSN 2239-4141 Prima della pubblicazione gli articoli presentati a Horti Hesperidum sono sottoposti in forma anonima alla valutazione dei membri del comitato scientifico e di referee selezionati in base alla competenza sui temi trattati. Gli autori restano a disposizione degli aventi diritto per le fonti iconografiche non individuate.

PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA © Copyright 2013 - UniversItalia – Roma ISBN 978-88-6507-552-4 A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile è vietata la riproduzione di questo libro o parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, microfilm, registrazioni o altro.

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INDICE

SIMONETTA PROSPERI VALENTI RODINÒ, Presentazione

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FRANCESCO GRISOLIA, Editoriale

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FASCICOLO I

SIMONE CAPOCASA, Diffusione culturale fenicio-punica sulle coste dell’Africa atlantica. Ipotesi di confronto

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MARCELLA PISANI, Sofistica e gioco sull’astragalo di Sotades. Socrate, le Charites e le Nuvole

55

ALESSIO DE CRISTOFARO, Baldassarre Peruzzi, Carlo V e la ninfa Egeria: il riuso rinascimentale del Ninfeo di Egeria nella valle della Caffarella

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ISABELLA ROSSI, L’ospedale e la chiesa di Santa Maria dei Raccomandati a Cittaducale: una ricostruzione storica tra fonti, visite pastorali e decorazioni ad affresco

139

MARCELLA MARONGIU, Tommaso de’ Cavalieri nella Roma di Clemente VII e Paolo III

257

LUCA PEZZUTO, La moglie di Cola dell’Amatrice. Appunti sulle fonti letterarie e sulla concezione della figura femminile in Vasari

321

FEDERICA BERTINI, Gli appartamenti di Paolo IV in Vaticano: documenti su Pirro Ligorio e Sallustio Peruzzi

343

FASCICOLO II

STEFANO SANTANGELO, L’ ‘affare’ del busto di Richelieu e la Madonna di St. Joseph des Carmes: Bernini nel carteggio del cardinale Antonio Barberini Junior

7

FEDERICO FISCHETTI, Francesco Ravenna e gli affreschi di Mola al Gesù

37

GIULIA BONARDI, Una perizia dimenticata di Sebastiano Resta sulla tavola della Madonna della Clemenza

63

MARTINA CASADIO, Bottari, Filippo Morghen e la ‘Raccolta di bassorilievi’ da Bandinelli

89

FRANCESCO GRISOLIA, «Nuovo Apelle, e nuovo Apollo». Domenico Maria Manni, Michelangelo e la filologia dell’arte

117

FRANCESCA DE TOMASI, Diplomazia e archeologia nella Roma di fine Ottocento

151

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CARLOTTA SYLOS CALĂ’, Giulio Carlo Argan e la critica d'arte degli Anni Sessanta tra rivoluzione e contestazione

199

MARINA DEL DOTTORE, Percorsi della resilienza: omologazione, confutazione dei generi e legittimazione professionale femminile nell’autoritratto fotografico tra XIX secolo e Seconda Guerra Mondiale

229

DANIELE MINUTOLI, Giovanni Previtali: didattica militante a Messina

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PERCORSI DELLA RESILIENZA: OMOLOGAZIONE, CONFUTAZIONE DEI GENERI E LEGITTIMAZIONE PROFESSIONALE FEMMINILE NELL’AUTORITRATTO FOTOGRAFICO TRA XIX SECOLO E SECONDA GUERRA MONDIALE

MARINA DEL DOTTORE

Good work is good work whether it be by man or woman, and poor is poor by the same rule. (Catharine Weed Barnes, 1889)

La secolare, feconda attività muliebre in campo artistico trova poco spazio, e ancor minore riconoscimento, nelle ricostruzioni storiche e nelle analisi critiche che, sole, investono di dignità autoriale l’opera ed il suo artefice sottraendoli alle dimensioni più dimesse dell’amatorialità e dell’artigianato. Offuscato e negato da codici sociali e connesse politiche culturali di genere, lo status di ‘artista’ è reclamato nel tempo dalle donne secondo forme e modalità compatibili con le situazioni di contesto in cui esse


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sono attive. Attraverso l’analisi dell’autoritratto (nella fattispecie in esame, dell’autoritratto in veste professionale), luogo per eccellenza della consapevole enunciazione dell’identità, si propone la lettura, necessariamente parziale, di alcune tra le strategie di legittimazione e di resilienza messe in campo dalle fotografe, individuando tratti di continuità tra l’esperienza di queste ultime e quella delle pittrici. Ad una ricognizione degli indici dei nomi nei più autorevoli e diffusi testi di storia dell’arte, di storia della fotografia, nonché della generalità delle monografie di approfondimento tematico nel campo delle discipline artistiche, così come dei cataloghi delle collezioni degli enti museali più dinamici ed aggiornati1, la flagranza di un dato si manifesta immediata anche ad un osservatore poco avvisato. Non è infatti necessario rivolgersi ad interpretazioni orientate per rilevare che le donne popolano in percentuali a dir poco esigue questi registri anagrafici dell’accreditamento professionale, i quali, nel mostrare tale deficit, da un lato offrono una rappresentazione parziale del panorama artistico, storico e corrente; dall’altro, con esattezza inversamente proporzionale, riflettono gli assunti dell’immaginario collettivo circa la pertinenza dell’attività femminile nella produzione di arte ‘alta’ ed il professionismo femminile in generale: preconcetti, tràditi nei secoli attraverso varianti e specificità diacroniche, che sopravvivono tutt’oggi informando di sé ugualmente la doxa e l’accademia. Che fine hanno fatto, dunque, le donne? Questo interrogativo ha trovato spazio, e risposte, a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, in particolare grazie alle ricerche animate da studioIl Metropolitan Museum di New York è un esempio magniloquente. Tra le diverse campagne del gruppo Guerrilla Girls, Do women have to be naked to get into the Met. Museum? utilizza l’evidenza (imbarazzante per l’istituzione) dei numeri per denunciare l’irrisorietà della quota di artiste rappresentate nelle collezioni del Museo (nel 2012, solo il 5% degli artisti delle sezioni di arte moderna è costituito da donne). La discriminazione delle donne nel quadro dell’attuale sistema della promozione dell’arte è confermata, e se possibile aggravata per contrasto, dall’esorbitante percentuale di nudi femminili esposti, che costituiscono l’85% sul totale delle raffigurazioni di nudo. http://www.guerrillagirls.com/posters/nakedthroughtheages.shtml. 1

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se di orientamento femminista che hanno affrontato il problema delle artiste ‘inesistenti’ dedicandosi sia alla riappropriazione alle discipline artistiche delle numerose, grandi autrici rimosse dalla memoria specialistica e da quella comune2; sia, indispensabilmente, ad indagine e smascheramento dell’impatto che la costruzione sociale dei generi e dei relativi ruoli ha sulla definizione della figura dell’artista; sia, alla luce di quanto sopra, alla sottomissione delle narrazioni della storia dell’arte a puntuale decostruzione e revisione critica3. Le donne sono costantemente attive nella storia della produzione (e in quella del patrocinio4) delle arti; tuttavia, seppure lavoratrici, non godono del riconoscimento del pieno statuto di pro2

TUFTS 1974; TUFTS 1987; HELLER 1987; DICTIONARY OF WOMEN ARTISTS 1997; CHI1985; CHADWICK 1990; BONNET 2003; HARRIS, SCOTT

ARAMONTE 1990; CHADWICK 1997; CHERRY 1993.

«The question, “why have there been no great women artists?” has led us to the conclusion, so far, that art is not a free, autonomous activity of a super-endowed individual, ‘influenced’ by previous artists, and, more vaguely and superficially, by ‘social forces’, but rather, that the total situation of art making, both in terms of the development of the art maker and in the nature and quality of the work of art itself, occur in a social situation, are integral elements of this social structure, and are mediated and determined by specific and definable social institutions, be they art academies, systems of patronage, mythologies of the divine creator, artist as he-man or social outcast» (NOCHLIN 1971, p. 38). Il celeberrimo saggio Why have there been no great women artists? è il capostipite di una estesa produzione critica: Nochlin smantella la nozione del genio artistico innato, e geneticamente assente nelle donne, mettendo in discussione il sistema delle teorie e delle storie dell’arte che su tale falsa premessa si fondano; e conclude che, essendo la produzione artistica di qualità frutto di lunga ed impegnativa preparazione presso istituzioni il cui accesso è stato secolarmente negato alle donne, le cause strutturali della obliterazione femminile nella memoria tramandata dell’arte devono essere localizzate anzitutto, ed in concreto, nelle precondizioni sociali vigenti in ogni contesto della produzione e promozione artistica. Si vedano anche RECLAIMING FEMALE AGENCY 2006; DOY 1995; DOY 2005; CHERRY 2000. 4 STROBEL 2006, MURPHY 2003, KING 1998, WOMEN AND ART IN EARLY MODERN EUROPE 1997, DE VRIES 2010, DUNN 1988, presentano alcuni esempi di diversi moventi e modalità del collezionismo e del mecenatismo femminile in età moderna: si va dal patronato autocelebrativo pubblicamente esibito, dove il controllo culturale e l’ingegnosa produzione di programmi iconografici sono ausiliari alla dilatazione dei limiti di genere nell’esercizio del potere; alle forme private; sino a quelle più o meno anonimamente diluite in seno ad una comunità religiosa. Lo studio di Cynthia Lawrence, particolarmente brillante, contrasta la tesi tradizionale – invece sostenuta da Catherine King – che presenta in chiave subordinata il mecenatismo femminile di età moderna. 3

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fessioniste sì che, ieri come oggi, chi dice artista, dice uomo: «the word “artist” means man unless qualified by the category “woman”»5. Così icasticamente compendiato, il fulcro della sistematica espunzione delle artiste dalla memoria trasmessa mostra di risiedere in alcuni comuni denominatori culturali persistenti che, con alterne vicende e variegate fenomenologie locali, percorrono tutta la storia del rapporto delle donne con il lavoro e con la pratica artistica in Occidente6. Dalla statuizione albertiana e vasariana dell’ideale dell’artista come individuo eccezionalmente dotato e dell’opera d’arte come prodotto dell’unicità del suo genio, fino al consolidamento nel XIX secolo della poCHADWICK 1990, p. 28 SIMONTON 1998; THE ROUTLEDGE HISTORY OF WOMEN IN EUROPE 2006; SMITH 1989. Il lavoro femminile occidentale ha conosciuto nei secoli ragguardevoli fluttuazioni della possibilità di accesso e delle mansioni svolte, queste ultime espresse in una varietà di incarichi che, nell’immaginario comune, sono spesso ben lontani dall’essere associati alla donna. Shelley Ross rileva, ad esempio, che i numerosi casi registrati dagli storici di donne al lavoro in cantieri edili europei tra XIII secolo e primo Rinascimento sono stati regolarmente derubricati come eccezioni abnormi, episodi inusitati che trovano la loro origine nelle crisi economiche, o nella penuria di manodopera maschile decimata da conflitti ed epidemie. La studiosa dimostra, invece, che la presenza di manovalanza femminile nell’edilizia era un fenomeno ordinario, legato all’espansione urbana più che alla necessità di sopperire a straordinari momenti di carenza di lavoratori appartenenti al sesso ‘appropriato’, al punto che, nonostante la maggior parte delle donne fosse impiegata in ruoli non qualificati, occasionalmente se ne incontrano alcune che svolgono lavori specializzati di carpenteria e muratura: «the expansion of urban centers starting in the thirteenth century set off a trend of increasing female employment for day laborers and in the crafts, which only began to contract on occasion for women working in the crafts in the sixteenth century with ensuing economic crises». Quale che fosse la mansione svolta, la manodopera femminile (accanto a quella infantile) era a basso costo. Cfr. ROSS 2010. E se l’impiego del lavoro femminile in ambito edile è ritenuto, nonostante ogni evidenza del contrario, una eccezione, la regola ha visto per secoli le donne impiegate estesamente ed intensamente all’interno di imprese artigiane a conduzione familiare strutturate secondo un modello autoritario e corporativo, all’interno delle quali non era loro riconosciuto uno statuto professionale, men che meno quello di artiste: anche se notevolmente dotate, esse non potevano esercitare sotto il proprio nome, come soggetti specificamente individuati, ed il riconoscimento autoriale era loro sistematicamente negato, per essere invece assegnato al parente maschio titolare dell’attività; una volta sposate, le donne rimanevano in bottega, oppure cessavano ogni attività. Il caso di Mary Beale (1632-1699), considerata la prima pittrice professionista inglese, è più unico che raro, risultando ella stessa come artista titolare della firma e dell’atelier, e ricoprendo il marito i ruoli di assistente e di curatore della parte commerciale dell’impresa. 5 6

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larizzazione tipizzata della creatività maschile e femminile, dette subordinazioni culturali sono regolarmente percolate nelle narrazioni della storia dell’arte i cui orientamenti critici – imperniati sul principio di autorialità – ignorano l’esistenza, e sminuiscono la qualità e l’importanza, del lavoro delle donne. La possibilità di accreditamento (o respingimento) di un manufatto come opera d’arte è largamente condizionata dagli status riconosciuti agli spazi sociali ed ai soggetti con cui esso sta in relazione. Il contesto dell’ostensione (galleria, istituzione accademica, ambito privato, accademico, amatoriale, tecnico ecc...), può pesare più delle circostanze della produzione7. La collocazione di autore e recensori dell’opera all’interno del sistema dei generi e dei correlati ruoli sociali influisce a sua volta8: poiché nell’immaginario collettivo il termine ‘artista’ è direttamente, e parrebbe indelebilmente, associato al genere maschile, nella legittimazione critica di lavori realizzati da donne vige una secolare consuetudine di deragliamenti della categoria del femminile – alla quale le autrici sono chiamate ad afferire ordinariamente –, e di compensazione in via parziale e temporanea con quella virile, considerata più appropriata ad accogliere riconoscimenti di genialità e superiore capacità creativa. Questo meccanismo di qualificazioni e svalorizzazioni è esemplato nella nota apologia di Elisabetta Sirani scritta da Carlo Cesare Malvasia che, nella Bologna del XVII secolo, decantava il talento della defunta artista equiparandone la maniera pittorica a quella di un uomo, registrando allo stesso momento un contrasto stridente tra lo stato di donna talentuosa e le caratteristiche negative che si immaginavano ontologicamente connaturate all’esser femmina. Secondo il biografo, Sirani «nel suo perfetto anche operare non lasciò mai una certa timidità e leccatura propria del debil sesso; Si pensi, ad esempio, ai casi di fotografie ottocentesche, riprese nelle più disparate occasioni e ragioni ed acquisite al discorso artistico, dunque arbitrariamente riconfigurate nel proprio significato, per mezzo della disinvolta presentazione in gallerie e musei, nel totale disinteresse per gli originari intenti di produzione e destinazione delle immagini. 8 SEXUAL MEANINGS 1981; HEES, BAKER 1971; NOCHLIN 1988; BARTOLENA 2003; CHERRY 2000. 7

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laddove questa ardita più tosto fe’ vedersi, ed animosa oprando in un modo che ebbe del virile e del grande»9. In un discorso a metà tra l’esaltazione del genio artistico nella sua straordinaria unicità, e la costernata contemplazione di un’anomalia che a stento sfugge la teratologia, Malvasia ritenne necessario fugare ogni dubbio intorno alla sospetta eccezionalità della condizione di una donna capace di eguagliare un uomo per bravura e, soprattutto, per temperamento artistico. Volle perciò precisare, avvalorando con la propria viva testimonianza quanto sostenuto, che Elisabetta Sirani non solo non oprò mai da donna, e più che da huomo, ma a confusione di quegl’invidi e maligni, che andavano disseminando, venir ella agiutata dal padre, che astutamente, diceano, le proprie cose a lei attribuiva, per renderle più rare, e ammirate come operazioni di femmina, e ad ogni modo sì francamente battute. Perché (come ha detto egli a me più volte, mentre stando il pover’huomo i mesi interi in letto, per le sue continue infermità, lo visito quasi ogni giorno) l’agiutava egli bensì con gli avvertimenti, col consiglio e col discorso, ma non già colle mani, rese malamente storpie, e diformi10.

Un secolo più tardi, la vicenda di Angelica Kaufmann e Mary Moser costituisce un’altra emblematica campionatura della conMALVASIA 1678, p. 453. MALVASIA 1678, p. 478. Le carriere femminili più smaglianti hanno potuto spesso fiorire in ragione di particolari necessità di bottega. Analogamente a quanto accaduto per Lavinia Fontana (MURPHY 2003) nel secolo precedente, la costruzione del successo di Elisabetta Sirani è fondamentalmente legata alle opportunità commerciali intraviste dalla famiglia; tanto Prospero Fontana, quanto Giovanni Andrea Sirani hanno solo figlie femmine, delle quali curano attentamente la formazione. I due pittori, inoltre, si ammalano di artrite e, compromessa con la loro carriera anche la sopravvivenza della bottega, hanno un forte interesse nella promozione professionale delle figliole, condotta attraverso oculate operazioni, diremmo, di marketing: così, sarà Federico Zuccaro ad accreditare la superiore qualità del lavoro di Lavinia; mentre la causa di Elisabetta Sirani, come visto, sarà sostenuta da Malvasia. La precoce morte di costei infligge un ulteriore, duro colpo alla impresa familiare e, di nuovo, Giovanni Andrea Sirani cavalca la notorietà meritata, ma artatamente amplificata, della figlia ormai circonfusa di un’aura mitica, per goderne di riflesso i benefici (Cfr. ELISABETTA SIRANI PITTRICE EROINA 2004). 9

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dizione della donna artista, valida non solo per le coordinate storiche dell’episodio, bensì estensibile nei suoi tratti principali a tutto l’Ancien Régime e ad una larga porzione dell’età contemporanea. Nel 1768 le due pittrici figurano, uniche esponenti del ‘gentil sesso’, tra i membri fondatori della Royal Academy. Il ritratto celebrativo che immortala il gruppo degli iniziatori della prestigiosa istituzione in erudita conversazione11 le mostra incluse nel novero degli eminenti membri dell’Accademia, e al contempo escluse, fisicamente e simbolicamente, dal consesso maschile; espulse dal luogo adibito alla formazione, selezione e soprattutto qualificazione dell’artista come tale, da un territorio che, evidentemente, non si riteneva confacente a due dame. Esse compaiono, infatti, in effige disincarnata, sotto forma di due ritratti affissi alle pareti della classe di disegno di nudo dal vero in cui la scena si svolge12. Il significato della rappresentazione sopravanza il problema dell’indecenza di mostrare due signore in presenza di modelli maschi nudi: appena sotto la superficie del primo livello di lettura si incontra la ben più ampia e consistente questione dell’incompatibilità dell’identità femminile con la sfera pubblica e con il professionismo di alto livello. La forza di una simile distinzione iconografica trova puntuale riscontro nelle effettive limitazioni operative e, più latamente, culturali, cui le donne erano soggette, persino, come si vede, nel caso di artiste riconosciute ed acclamate; e coincide esattamente con la costruzione maschile dell’identità femminile caratterizzata sostanzialmente dalla difettività (declinata nelle mille sfumature del sentimentalismo, della debolezza, della passività, e via enumerando) e sedimentatasi in secoli di dominio culturale e sociale. L’Ottocento è il secolo del consolidamento della costruzione dell’identità sociale dei generi, della irrevocabile definizione Johan Zoffany, The Portraits of the academicians of the Royal Academy, 1771-72 (Royal Academy, London). Il modello in primo piano è colto nell’atto di svestirsi, ma Zoffany sceglie di intercettarne i movimenti cogliendolo in una posa che evoca quella dello Spinario, suggerendo così che gli accademici stiano dibattendo le più dotte questioni d’arte. 12 CHADWICK 1990, p. 7. 11

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borghese dei ruoli, dei discorsi, e degli spazi di pertinenza maschile e femminile (determinazione che, in arte come nelle altre sfere della produzione culturale, si trasmette anche al Novecento modernista). [...] the most important feature of Victorian writing on women was that it attributed natural explanations the result of ideological attitudes. It prescriberd social roles and social behaviours while pretending to describe natural characteristics. [...] Victorian writers found a way of recognizing women’s art compatible with their bourgeois patriachal ideology. They contained women activities imposing their own limiting definitions and notions of a separate sphere. Yet it was actually these rigid prescritpions which insidiously prepared the ground for twentieth century dismissal and devaluation of all women artists. It was the Victorians’ insistence on essentially different spheres for men and women that precipitated women artists into historical oblivion once Victorian chivarlous sentimentality gave way to a more disguised but potent sexism13.

Il pensiero che, mentre la definisce, squalifica la categoria del femminile trova pratica applicazione nelle prescrizioni, e nei criteri di decoro ed opportunità che, di fatto, garantiscono la segregazione professionale delle donne (in perfetta consonanza con quella domestica) impedendo loro l’ottenimento di una formazione superiore14, il riconoscimento all’interno del sistema POLLOCK, PARKER 1981, pp. 10, 12. GREER 1979. La prima allieva entrò alla Royal Academy solo un secolo più tardi (CHERRY 1993, p. 54; HIGONNET 1993, p. 280 ss.), e si dovette attendere il primo dopoguerra perché fosse ammessa una donna fra i membri dell’Accademia. Analoga chiusura delle istituzioni artistiche pubbliche si registra in Francia: l’École des Beaux Arts apre effettivamente alle donne solo nel 1897 (quando, per inciso, le grandi istituzioni pubbliche iniziavano a lasciare il passo al commercio privato e si affacciava all’orizzonte il modernismo), ma il problema del riconoscimento ufficiale delle artiste è solo apparentemente superato, in quanto per esse sono istituiti dei corsi a parte, caratterizzati da particolari limitazioni, la più notevole delle quali è (di nuovo) l’esclusione dalle classi di studio del nudo dal vero. Tralasciando la spinosa questione della scultura – tecnica sommamente tabuata per le donne, nella cui pratica tuttavia si espressero figure di notevole talento – e limitando il ragionamento alla pittura, si vede che le ammesse ai percorsi canonici della formazione artistica devono confrontarsi con una cortina di ostacoli che le separa dalla possibilità di dedicarsi ad una pratica professionale tale da consentire, ad esempio, di ambire alla redditizia committenza 13 14

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monopolistico delle accademie e, conseguentemente, il perseguimento di una carriera ad alti livelli. Le donne finiscono così per essere ‘spontaneamente’ confinate nell’anonimato degli spazi privati dell’attività amatoriale – in opposizione a quelli pubblici dell’arte ufficiale – o in quelli impersonali dell’artigianato – di nuovo, agli antipodi con le ‘belle arti’. Tuttavia, una età tanto difficile si dimostra anche feconda: il numero delle donne che intraprendono la carriera artistica ed entrano nelle accademie conosce uno straordinario aumento nell’ultimo quarto del secolo. Questo fenomeno condiziona la critica e contribuisce alla nascita del modernismo15; il modello borghese, messo in crisi dai conseguenti scardinamenti delle convenzioni che demarcano i campi artistici maschile e femminile (per quanto temporanei e limitati), e dalle istanze di indipendenza ed autoaffermazione delle donne che tentano la via del professionismo e si organizzano in associazioni per la promozione e l’esposizione in nuovi salon del loro lavoro, reagirà difendendosi e serrando ancor più la presa sull’universo femminile, fallendo però il tentativo di sopprimere un processo di rinnovamento ormai avviato ed irreversibile.

pubblica (RIDEAL 2001); esse sono soggette a tali e tante limitazioni da rendere loro possibile dedicarsi solo alla pittura di natura morta, ed in particolare di fiori, al ritratto, alle scene d’interni ed ai ritratti di bambini. Il ragionamento che, secondo una perversa logica circolare, appariva suffragato dai fatti, confermava la ‘naturale’ confacenza di questi generi artistici e soggetti al presunto ‘spirito femminile’. Ancora, se le accademie pubbliche respingevano le donne, residuava l’insegnamento impartito da maestri e scuole private (che pure svantaggiavano ulteriormente le allieve, costrette a pagare rette più che doppie rispetto ai colleghi maschi, cfr. WEIN 1981) oppure quello delle scuole di arti decorative, queste ultime considerate approdo naturale e luogo del massimo conseguimento possibile per l’applicazione artistica femminile. Nel XIX secolo, dunque, l’organizzazione sociale della produzione artistica si è ormai cristallizzata in una forma che alimenta la – ed è sostenuta in misura consistente dalla – esclusione delle donne dagli itinerari di preparazione al professionismo di alto livello, ponendogli artisti maschi al riparo dalla qualificata concorrenza delle colleghe. 15 SWINTH 2001; NICOSIA 2000; PRIETO 2001; CASTERAS, PETERSON 1994; DEARINGER, DERVAUX 2003; FRAMING WOMEN 2003.

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Fotografia e fotografe Entro i limiti cui le costrizioni sociali consentono loro di operare, le donne si occupano di fotografia sin dalla nascita del medium16; le prime praticanti debbono certamente essere rintracciate tra le persone appartenenti alla cerchia familiare ed amicale più stretta di William Henry Fox Talbot, poiché costoro entrarono in contatto con il suo procedimento fotografico anche nelle fasi acerbe della invenzione. Le sperimentazioni di Talbot si estesero rapidamente a tutta la famiglia coinvolgendo, oltre a moglie, madre e sorelle a Lacock, anche i parenti residenti nel Galles. Sono noti precoci tentativi di ripresa fotografica presso la zia e le cugine che vivevano nell’area di Swansea. Un circolo particolarmente vivace di appassionati (tra i quali spicca il nome del reverendo Calvert Richard Jones) si era infatti aggregato a Penllerengare intorno alle figure della cugina di Talbot, Emma Thomasina, ed al marito di lei John Dillwyn Llewelyn (oggi ricordato come pioniere della fotografia, e membro fondatore della Photographic Society – poi Royal Photographic Society -, dedito ad invenzione e perfezionamento di tecniche fotografiche17). In questo contesto le signore, lungi dall’essere relegate al ruolo di passivi osservatori, erano attivamente coinvolte nelle sperimentazioni. Una lettera scritta a Talbot dalla cugina Charlotte rivela uno spaccato dei primi contatti della famiglia Llewelyn e del suo entourage con la nascente fotografia:

Insieme allo sprone di Lady Elisabeth Feilding, madre ambiziosa e figura dominante nella vita di Talbot, alla partecipazione impegnata della moglie e delle sorelle alle prime sperimentazioni con le ‘mousetraps’ (cfr. Corrispondenza a Talbot William Henry Fox da Constance Talbot nata Mundy, 7 settembre 1835, British Library, London, Fox Talbot Collection LA35-26) negli infiniti tentativi di photogenic drawing con felci e merletti – a metà tra l’intrattenimento e l’assistenza alla ricerca scientifica –, piace ricordare che nella narrazione fatta da Talbot – non immune da tentazione agiografica – della storia dell’invenzione va riconosciuta a Constance Talbot, abile utilizzatrice della camera lucida di Wollaston, una indiretta ma determinante responsabilità di ispiratrice (LASSAM, GRAY 1988, pp. 10-11; TALBOT 1844; ARNOLD 1977). 17 PAINTING 1991. 16

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Penllergare Feb. 28th [1839]. My dear Henry I am charmed with the piece of lace [photogenic drawing] you sent. It is much too pretty for you to have it again. John Llewelyn has been making some paper according to your process and they are all busy trying little scraps of lace & ribbon. One succeeded very well this morning before breakfast but the day is clouding over. Mr Calvert Jones is quite wild about it and I dare say by this time is making experiments in Swansea for himself. John Llwelyn’s paper turns out browner than your piece and not so dark. We put a piece in the Camera obscura but got only a faint outline or rather shadowing of the trees, but the sun was not strong or steady [...]18.

Più tardi, definite le basi del procedimento, ed entrati nella prolifica fase di ricerca di migliorie ed alternative per l’affinamento delle tecniche di ripresa e di stampa, le donne della famiglia Talbot sono ancora protagoniste. Oltre a fotografare, Mrs Emma Llewelyn si occupava della stampa della maggior parte dei positivi per il marito; le loro figlie che, fatto all’epoca inconsueto per delle donne, avevano ricevuto una istruzione che contemplava anche le scienze della natura, erano incoraggiate a fotografare. In questo contesto, un particolare fotoritratto fatto a Thereza dal genitore nel 1853-1856 circa19 (fig. 1) è rivelatorio non solo della condivisione di padre e figlia della passione per la botanica e l’astronomia, ma anche di un pensiero se non progressista, almeno relativamente aperto in merito all’identità ed al ruolo femminili, ed all’opportunità di impartire un’istruzione analoga a quella riservata ai maschi anche alle fanciulle di ceto elevato. L’elaborata costruzione del positivo combina un disegno fotogenico (ottenuto per contatto diretto dell’esemplare botanico con la carta fotografica) che funziona sia da cornice ornamentale sia da riferimento alle scienze naturali, ed il ritratto vero e proprio della giovane (realizzato, invece, col procedimento di ripresa tramite apparecchio fotografico e successiva stamCorrispondenza a Talbot William Henry Fox da Charlotte Louisa Traherne, nata Talbot, 28 Febbraio 1839, British Library, London, Fox Talbot Collection LA39-016. 19 Album di Emma Charlotte Dillwyn Llewelyn conservato al Metropolitan Museum of Art di New York, inv. 2005.100.382/1-85. 18

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pa da negativo a positivo). La carta salata mostra Thereza Llewelyn al tavolo da lavoro con libri e microscopio. L’iconografia, lo si vede, è propria delle raffigurazioni maschili e decisamente insolita per un ritratto di donna, in cui è comunemente privilegiata la gamma dei temi destinati ad esaltare le qualità muliebri (grazia, docilità, dedizione al focolare...) prima che l’acume intellettuale. Preme qui sottolineare che non si tratta di un caso isolato, né di una messa in scena orchestrata come divertissement: Thereza non posa en travestie e sono noti, oltre a positivi varianti tratti dal medesimo negativo, altri ritratti di analoga regia (figg. 2 e 3 ). Sulla base di questi ritratti che enunciano, se ne tenga conto, l’etica della visione del capofamiglia autore dello scatto, si potrebbe cautamente inferire che le ragazze Llewelyn fossero incoraggiate a sviluppare una cognizione di sé esorbitante i ridotti limiti di quella ordinariamente accordata alle donne in età vittoriana. Tra le figure legate al circolo di Pennlergare si segnala anche una cugina, Jane Martha St. John, nata Beach: fotografa entusiasta e prolifica, Jane St. John lavorava sia in calotipo sia in collodio, e stampava da sé stessa le proprie fotografie. Nel 1856, ossia in un momento in cui, nonostante i decisi avanzamenti, la tecnica fotografica era ancora di impegnativa e macchinosa applicazione, talché la fotografia di viaggio era impresa particolarmente faticosa, St. John documentava il proprio tour in Italia con una serie di notevoli riprese su negativo in carta salata stampato su carta albuminata20. Dagli anni Ottanta circa del XIX secolo, la generazione impegnata nel dibattito sui diritti ed i ruoli delle donne immetteva un numero importante di fotografe nel circuito professionale. Se, nonostante i mutamenti sociali in corso, permanevano molti degli impedimenti che ne rendevano improba la carriera nelle arti e nelle professioni tradizionali, d’altra parte la versatilità d’uso e le stesse caratteristiche tecniche del medium fotografico contribuirono in senso positivo alla sua diffusione tra le espoStampe all’abumina da negativo in carta salata. Esemplari nelle collezioni del Metropolitan Museum of Art di New York e del J. Paul Getty Museum di Los Angeles. 20

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nenti del gentil sesso. La questione della pratica fotografica al femminile si definisce anzitutto nei termini effettivi della scarsa autonomia di movimento e della esigua disponibilità di tempo da dedicare ad attività ‘extracurricolari’ di cui le donne potevano disporre: impegnativo, ma non di proibitiva difficoltà, l’apprendimento dei fondamenti della fotografia e dell’utilizzo delle apparecchiature non reclamava la costante, lunga e totalizzante dedizione richiesta, invece, da un’adeguato apprendistato nelle arti tradizionali. Nell’ultimo decennio del secolo – complici i significativi mutamenti della posizione della donna nella società, e della percezione che ella ha di sé21 – la diffusione amatoriale della fotografia riceve un forte, definitivo impulso, e numerose appartenenti alla media e piccola borghesia vi trovano un mezzo di espressione (artistica o meno) conciliabile con i doveri familiari e domestici dai quali non sono mai svincolate; ma anche una fonte di guadagno, un mezzo di sostentamento che per molte nubili, lavoratrici per la prima volta non solo appartenenti alla classe operaia, si rivela di vitale importanza22. A coronamento dei numerosi, rapidi progressi tecnologici, nel 1888 George Eastman immette sul mercato la prima fotocamera Kodak destinata ai non professionisti23, ma la banalizzazione tecnica e le sollecitazioni emotive24 spiegano solo in parte l’attrattiva eserciCfr. MOELLER 1992. Il caso delle sorelle Allen, discusso più avanti, ne è un esempio perspicuo, ma la casistica è vasta. 23 Il senso dell’intera operazione commerciale era sintetizzato nel noto slogan «You press the button, we do the rest». L’idea era quella di promuovere e diffondere l’attività fotografica presso il vasto pubblico offrendo al cliente un dispositivo di uso più che semplice (l’apparecchio, piccolo e maneggevole, era precaricato con pellicola negativa e dotato di regolazioni fisse) e sollevandolo dalle difficoltà della camera oscura (la casa produttrice provvedeva servizi di sviluppo e stampa). Ciò permise ad un numero enorme di persone di accostarsi alla fotografia, altrimenti di complessa e scomoda frequentazione. 24 Le donne furono intenzionalmente sollecitate dalle campagne pubblicitarie della Kodak Company loro destinate, che ebbero il doppio effetto di assegnare alle custodi del focolare domestico il compito preservare la memoria dei momenti importantanti della vita familiare, da immortalarsi, ovviamente, per mezzo della immagine fotografica, e di rimuovere ogni residua percezione di eccentricità correlata all’attività fotografica muliebre. E se prima della massificazione della fotografia le occasioni degne di solennizzazione tramite la cattura in immagine erano oculatamente scelte tra le molte 21 22

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tata sulle donne dalla fotografia: infatti, una volta dominato il metodo semplificato, molte compiono un passo ulteriore, e si misurano con procedimenti raffinati ed apparecchiature sofisticate sino a padroneggiarli pienamente. Il preconcetto di genere secondo cui le donne sono naturalmente inette alla comprensione tecnico-scientifica, ed ancor più disadatte all’utilizzo della tecnologia, è smentito nei fatti, e le signore scendono numerose nell’arena del mestiere. Altro elemento di determinante importanza per la diffusione della fotografia tra le donne e l’emersione delle prime professioniste sono i circoli fotografici. Alla fine dell’Ottocento, si è detto, le implicazioni mascoline del professionismo (ossia la retribuzione per lo svolgimento di un lavoro che richiede competenza, dimestichezza, assertività ed indipendenza, oltre che l’assunzione di un ruolo nella sfera pubblica) erano considerate inappropriate per la donna: all’interno dei circoli fotografici le signore potevano operare in un ambiente considerato rispettabile, dunque, queste vivaci, prime istituzioni amatoriali favorirono grandemente lo sviluppo della fotografia professionale femminile. I camera club conobbero una espansione inarrestabile, soprattutto negli Stati Uniti, finendo per costituire un movimento, una dinamica e capillare rete organizzata che collegava anche i centri urbani più isolati in attività di supporto, scambio, confronto e recensione critica, oltre che di promozione all’esterno della fotografia come arte. Alcune personalità costituirono, a loro volta, il fulcro aggregante di reti di sostegno che si svilupparono spontaneamente, stimolate dal desiderio di partecipazione, condivisione e reciproco incoraggiamento delle donne. Frances Benjamin Johnston, ad esempio, fu una delle più importanti promotrici e sostenitrici delle nuove fotografe negli Stati Uniti: svolse una incessante attività di consulenza, recensione, saggi-

possibili, le aumentate possibilità offerte dagli snapshot stimolarono il desiderio di possesso di souvenir fotografici: si moltiplicava così il numero degli eventi meritevoli di essere consegnati alla memoria e, di conseguenza, il numero delle immagini prodotte.

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stica, organizzazione di mostre e sollecitazione dell’interesse pubblico sul tema della fotografia realizzata dalle donne25. Al passaggio del secolo, tra Stati Uniti ed Europa si registrava, dunque, un incremento senza precedenti del numero delle fotografe di mestiere, competenti e progressivamente sempre più accreditate presso il pubblico, dedite non solo ai generi fotografici ritenuti più consoni alle donne (simmetricamente a quanto statuito nelle arti tradizionali: ritratto, scena di genere, paesaggio, possibilmente di scuola pittorialista), ma anche al reportage ed alla fotografia giornalistica; negli anni Venti del Novecento la metamorfosi può dirsi completa e la carriera fotografica cessa di essere una roccaforte maschile. In America le donne si dimostrano particolarmente intraprendenti, riuscendo anche ad emergere precocemente come firme di prestigio, e stimolando il dibattito pubblico intorno al problema dell’accreditamento professionale artistico femminile, ma di loro non si ha notizia nelle storie della fotografia26, tantomento nelle grandi vulgate. Di nuovo, il problema del mancato riconoscimento non dipende dal numero di professioniste attive, che non può certo dirsi esiguo, bensì dalla costruzione culturale soggiacente i resoconti tramite cui la storia della fotografia è tramandata. Soggetto prediletto dell’arte Occidentale e, di fatto, agenti della creazione artistica nei laboratori artigianali e negli scriptoria, nei salotti e nelle corti, infine ammesse anche nelle grandi accademie, le donne, si è detto, si vedono negare il riconoscimento pieno dello statuto di professioniste. Si è anche visto come GOVER 1988; PALMQUIST 1992. Si vedano anche a titolo di esempio BARNES 1891, JOHNSTON 1897. 26 Diversi titoli curati studiose donne hanno voluto colmare, per quanto possibile, la lacuna. Per la storia generale della fotografia spicca indubbiamente la storia delle donne fotografe di Naomi Rosenblum, pubblicata per la prima volta nel 1994 e successivamente arricchita ed aggiornata (ROSENBLUM 2010). Della stessa autrice si veda anche ROSENBLUM 1999. Le numerose, diverse ricerche monografiche, approfondiscono singoli temi o autori: WILLIAMS 1986; WATTS 1995; SMITH 2009; BAKER 1989; BERCH 2000; GALUSHA, MARSHALL 1994; GOVER 1988; KREISEL 1999; MALOOF, DYER 2011; MCEUEN 2004; GLAUBER 1997; WEPRICH 1997: PELADEAU 1977; WEXLER 1988. 25

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l’ethos proprio del momento sociale in cui di volta in volta le grandi dimenticate hanno operato abbia condizionato presso i contemporanei la percezione e l’apprezzamento – critico ed economico – della loro produzione; e come quanto ereditato dal passato e ricevuto nell’attuale orizzonte culturale influenzi tuttora l’accoglimento dei loro profili e lavori; infine, si è rilevato che la ricerca sulle donne artiste, ancora pionieristica pochi decenni or sono, è oggi notevolmente articolata, vantando una ricca produzione sia in termini quantitativi che qualitativi. Essa ha dischiuso all’indagine i più diversi ambiti dell’espressione artistica, la cui meticolosa scandagliatura ha restituito opere ed autrici obliate o mai considerate dalle storie delle arti; ha proposto nuovi spunti per la comprensione del lavoro e della personalità di quelle note, generalmente additate come casi eccezionali, operando il felice smantellamento del pregiudizio della loro straordinarietà; ha aperto orizzonti interpretativi ed insospettate relazioni interdisciplinari; ha, tuttavia, paradossalmente canonizzato la coestensione delle figure della donna artista e della vittima. Questo rapporto di diretta corrispondenza, effettivamente innestato sui quegli stessi pregiudizi che la ricerca desidera smentire, si dimostra particolarmente resistente alle iniziative di rimozione anche in seno ai gender studies. Nelle ricostruzioni storiche e nelle analisi critiche si è persa di vista una quantità di atteggiamenti delle donne all’interno del discorso artistico, elementi che si colgono, forse, in posizione seconda rispetto al sesquipedale svantaggio femminile in pressoché tutti gli aspetti della vita regolata da norme patriarcali, ma che devono essere necessariamente rilevati ai fini del superamento della discrasia tra due condizioni entrambe vere, ed apparentemente inconciliabili: quella del soggetto oppresso, e quella della artista affermata. Rilevata la oggettiva penalizzazione delle artiste, è indubbiamente più euristico sospendere (senza rinnegarlo) il modello di analisi che le inquadra nei termini della loro marginalizzazione, e rivolgere invece maggiore attenzione alla capacità di sopravvivenza in un ambiente ostile, ossia inda-

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gare le forme e le modalità di resilienza femminile27, le risposte al discapito, la facoltà di individuazione di risorse nello svantaggio. Rappresentazione di sé dalla pittura alla fotografia: lasciti e calappi della tradizione I tentativi di affrancamento dalle sovrastrutture culturali, di opposizione al disconoscimento della loro esistenza professionale (e del discendente valore delle opere) posti in essere dalle artiste, hanno conosciuto alternanze di successi, parziali o smaglianti; di amari tradimenti delle aspettative; di fasi d’introiezione dei divieti sociali e di reazioni agli stessi. La consapevolezza della propria dignità di produttrici di arte, storicamente vigile, è stata enunciata nel tempo attraverso soluzioni diverse di rappresentazione, ma la figurazione autobiografica per eccellenza, l’autoritratto, è stata28 e continua ad essere, lo Assecondare la tentazione di considerare le donne come meri soggetti oppressi ed incapaci di reazione conduce ad esiti riduttivi. Con differenze condizionate dalle stesse diversità di trattamento loro riservate secondo le specifiche situazioni di contesto, esse sono state capaci di organizzare tattiche di resistenza rimanendo millimetricamente all’interno dei dettati sociali e giuridici. Si vedano, ad esempio le eccezioni rilevate da Christiane Klapisch-Zuber nel suo studio sulla condizione delle donne in Toscana durante il Rinascimento; nonostante l’abnorme svantaggio femminile registrato, «la irrilevanza sociale delle donne in una società che pure ci ha lasciato di esse le immagini più sensibili e raffinate, e che ha parlato moltissimo della famiglia», l’autrice raccomanda di porre attenzione al fatto che «in margine ai comportamenti più docili alla norma corrente, [si incontrano] parecchie deviazioni che rivelano i punti nei quali tutte queste belle costruzioni genealogiche mostrano alcune crepe significative», che forniscono necessario contrappeso ad un quadro la cui sussistenza sarebbe altrimenti inverosimile (KLAPISCH-ZUBER 1995, pp. IX, 305-307). Occorre rimarcare che quella femminile è, in questo come in innumerevoli altri casi, una risposta di resistenza, non di rovesciamento della propria condizione. Passando al XIX secolo, anche lo studio di Gen Doy (DOY 2005) – focalizzato sul caso francese, ma per molti versi estensibile al piano generale – oppone al discorso sulla invisibilità, sottomissione e totale soppressione della volontà femminile nella cultura borghese, la risorsa della resilienza premiata dai successi conseguiti dalle donne che, pur in condizioni di proibitiva difficoltà, si affermarono in cultura, arte, letteratura esi sottrassero, nonstante tutto, ad un totale, irreversibile addomesticamento. 28 Nel X secolo si incontrano autorappresentazioni di artiste che non rimangono occultate o riservate alla visione privata, ma conoscono un certo grado di circolazione. Tra le miniatrici è ben nota Ende, attiva tra X e XI secolo, che si firma «depentrix et 27

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strumento principale dell’espressione di questa coscienza. Metafora, entelechia29, metonimia, vicario, falsa evidenza: sovraccarico ed incompleto al tempo stesso, il ritratto sostituisce ad una elaborata costruzione verbale, una sofisticata sintesi visuale negoziata in seno ad un sodalizio tra l’artista e il suo modello: è il luogo della narrazione, dell’esplorazione, e dell’accesso al sé; si confronta con la molteplicità istantanea dell’individuo, e richiede anzitutto che, tra i vari possibili, sia trascelto uno statuto, un patrimonio simbolico da ostendere presso il mondo sociale; il suo funzionamento esige, cioè, che si opti, caso per caso, per una specifica, delimitata enunciazione di sé30. Nella più intensa formulazione dell’autoritratto il problema della diffrazione semantica è arginato poiché, per quanto condivida con altre modalità di rappresentazione individuale la disponibilità ad una incontrollabile moltiplicazione degli usi e degli orientamenti interpretativi, rispetto ad esse si mantiene più saldamente legato alla significazione cui era originariamente destinato nelle intenzioni del suo autore. Può essere riutilizzato, decontestualizzato, caricato di nuove valenze, ma le marche dell’enunciazione rimangono in lui indelebili, e tendono a tornare a manifestarsi dei autrix» (CHADWICK 1990, p. 47). Ancora, Claricia, con ogni probabilità una giovane laica, attiva nel XIII secolo ad Augusta che ha lasciato un vivace, piccolo ritratto di sé come parte della iniziale ornata Q del cosiddetto Salterio di Claricia (W26, f.64r. Walter Arts Museum, Baltimora). Un ulteriore prototipo della esposizione pubblica (per quanto limitata alla comunità conventuale) della donna in quanto autrice, se non artista, può essere cautamente individuato nel ritratto di Herrade di Landsberg badessa del convento di Hohenburg compilatrice dell’Hortus Deliciarium. Il manoscritto, riccamente illustrato ed ornato, fu probabilmente miniato fuori del monastero; è tuttavia molto probabile che Herrade, alla mano ed alla ispirazione della quale sono attribuiti alcuni dei poemi presenti nell’opera, abbia esercitato una stretta supervisione sulla decorazione, contribuendo anche ai disegni preparatori. In chiusura d’opera, Herrade di Landsberg inserisce insieme a quelli delle consorelle, il proprio ritratto, rivendicazione autoriale integrale alla dedica (Hortus Deliciarum, folio 323r. Il presunto originale – secondo alcuni una copia di XIII secolo – andò distrutto nel 1870 nel bombardamento della biblioteca di Strasburgo ed è stato ricostruito sulla base di e pubblicato in base a copie). Cfr. CHADWICK 1990; HARRIS, NOCHLIN 1976; POLLOCK 1988; HELLER 1987; BORZELLO 2000. 29 SCIASCIA 1989. 30 BOURDIEU, KRIPKE; DOY 2005; MIRROR IMAGES 1998; MIRROR MIRROR 2001; SOBIESZEK, IRMAS 1994; MAVOR 1999; GOLDIN 1986.

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emergendo da sotto la pellicola di eventuali, nuove pertinentizzazioni. Nell’autoritratto si esprime sempre, invariabilmente, una volontà autoassertiva e, comunque lo si guardi, comunque lo si interpreti, non è possibile ignorarne la missione declaratoria. Attraverso questa forma definitiva – ma comunque patteggiata – di autorappresentazione, le artiste stabiliscono ed inscenano la propria identità professionale in un complesso e delicato bilanciamento con le strutture retoriche preordinate dell’identità di genere configurata ed assegnata loro dal mondo sociale. Si confrontano con gli stereotipi che accompagnano le idee sulla femminilità e devono decidere se strumentalizzarli o scardinarli; se convivere con le sovrastrutture generate dalle aspettative che la società ha nei confronti della donna, o sfidarle e tentare di liberarsene; se proporre una narrazione inaudita, che procede dall’interno della familiarità della conoscenza; oppure assecondare quella già nota, calata su di loro dall’esterno. La storia della autorappresentazione della donna professionista dell’arte è, dunque, un carosello di moti di omologazione, di resistenza, di rielaborazione e di superamento di standard iconografici consolidati e di strutture culturali androcentriche interiorizzate che, se non totalmente accolte, sono comunque metabolizzate31 nella consuetudine. Il tranello degli stereotipi di genere è sempre in agguato; molte artiste scivolano nella trappola alla quale altre tentano di sfuggire, ossia quella del riconoscimento – e successiva enunciazione – dell’identità individuale secondo le vigenti prescrizioni sociali circa le differenze sessuali. Un caso emblematico è quello di Julia Margaret Cameron (1815-1879), che riporta nei ritratti che esegue le influenze pittoriche, letterarie, e più in generale culturali, del suo tempo, operando in maniera diversa secondo che il ritratto preso sia quello di una donna o di un uomo. Cameron osserva e rappresenta le donne attraverso uno sgurado maschile, o meglio, un’etica della visione derivata dai codici culturali vittoriani, decisamente androcentrici (cfr. CLARKE 1997, p. 105). I ritratti maschili di Cameron, solenni e celebrativi, accolgono e rinforzano il mito del dominio virile e lasciano all’effigiato spazio per esprimere la propria vitalità e consistenza individuale. All’opposto, le fotografie di donne non parlano dell’individuo in sé, non esprimono l’identità intellettuale, né la personalità della modella: piuttosto trasfigurano la donna ritrattata, preferibilmente adottando le forme della pittura preraffaelita per dare forma all’ideale corrente di passività e bellezza femminile. Pierre Bourdieu sostiene la necessità di defatalizzare il mondo sociale e riconoscere al suo interno i meccanismi contingenti ed arbitrari della produzione e dell’esercizio del potere simbolico e della violenza simbolica: «Il potere simbolico 31

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Se negli autoritratti maschili l’affermazione della posizione dell’uomo, chiaramente definita ed accettata dalla società, non conosce dubbi o esitazioni, nel tempo l’autorappresentazione femminile ha saggiato risorse diverse percorrendo un territorio aperto, e confrontandosi con gli svantaggi e le potenzialità che questa condizione irrisolta comporta. In mancanza di matrici iconografiche originali, ed operando in contesti sociali in cui la rispettabilità32 è una parte tanto vitale quanto labile e vulnerabile del loro patrimonio simbolico, nei secoli le donne hanno captato ricorsivamente in prima istanza le configurazioni della rappresentazione dell’artista uomo; queste, tuttavia, spesso non sono adottate come mera ripresa mimetica; sono bensì consapevolmente rimodellate ed estese allo scopo di dichiarare, più o meno sommessamente, il valore dell’identità professionale del’autrice. Nei lavori di Sofonisba Anguissola, Lavinia Fontana o di Adélaïde Labille-Guiard, per citare pochi, emblematici esempi, si incontrano saggi di simultanea adesione alle, ed alterazione delle, isole referenziali della tradizione. Le artiste in questione si appropriano del contemporaneo standard dell’autoritratto del pittore al cavalletto, eventualmente circondato da allievi, o di quello ancor più solenne di artista erudito come potere di [...] far vedere e di far credere, di confermare e di trasformare la visione del mondo e, in questo modo, l’azione sul mondo, dunque il mondo, potere quasi magico che permette di ottenere l’equivalente di ciò che è ottenuto con la forza (fisica o economica) [...] si esercita se e solo se è riconosciuto, cioè misconosciuto come arbitrario» (BOSCHETTI 2003, p. 126). 32 Anche una firma del calibro di Berthe Morisot subì, postuma, la ‘riabilitazione’ nella dignità socialmente prescritta per le donne: nel suo certificato di morte, come anche in quello di matrimonio, risulta «sans profession» (cit. in HIGONNET 1992, p. 36). Il significato dell’espressione travalica quello di rentier: la famiglia della pittrice si adoperò per obliterarne la reputazione di artista, ossia di donna dedita ad una attività manuale che non rispondeva ai criteri di contegno prescritti. Negli autoritratti di Morisot la consapevolezza della precarietà contraddittoria della coesistenza presso il mondo sociale delle identità di donna e di artista si manifesta in quello stesso atteggiamento difensivo che si rileva nella produzione autoiconografica delle artiste di età moderna, e che trova continuità per tutto l’Ottocento e parte del Novecento, ossia la frapposizione, tra l’artista ed il biasimo sociale, del diaframma del decoro borghese, principale e forse unico baluardo difensivo disponibile per le pittrici (e, successivamente, per le fotografe). Nel merito si vedano anche POLLOCK, PARKER 1981, pp. 41-44; HIGONNET 1993 p. 36; STUCKEY, SCOTT 1987, p. 175.

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equipaggiato degli attributi emblematici del genio creatore, manipolandoli per adeguarli alle proprie esigenze, senza tuttavia renderli irriconoscibili, e quindi inefficaci; e vi combinano l’immagine di donna onesta e onorata, ostentando all’occasione anche i ruoli di moglie e madre33. Il doppio ritratto-autoritratto di Anguissola e Bernardino Campi (fig. 4), che ha stimolato una vivace discussione critica34, catalizza diverse questioni relative all’autorappresentazione delle artiste, temi che rimangono validi anche per l’analisi della produzione di epoche successive all’età rinascimentale: trattenendosi entro i limiti del canone figurativo che vuole il pittore soggetto attivo e la modella oggetto passivo della rappresentazione, Anguissola conduce una originale operazione di ribaltamento dei ruoli, riuscendo ad imporsi come deus ex machina della creazione artistica pur avendo collocato sé stessa in una posizione di apparente remissività. Nell’autoritratto conservato a Vienna (fig. 5), di impostazione assai diversa, Anguissola opta per la rivendicazione diretta del suo ruolo di autrice, senza lasciare spazio ad ambiguità. La solennità del contegno dell’effigiata, che mostra al pubblico le pagine di un libro su cui è scritto «Sophonisba Anguissola virgo se ipsam fecit 1554», è enfatizzata dalla austerità cromatica e dalla essenzialità della composizione in cui l’artista si offre come soggetto sovrano. Di nuovo, Anguissola riesce ad affermare i propri meriti e ad incontrare le aspettative sociali dissimulando la consapevolezza del proprio valore senza sopprimerla. Una ulteriore declinazione iconografica della conciliazione delle caratteristiche di rispettabilità femminile e valenza artistica è rappresentata dal piccolo autoritratto ad olio su rame di Lavinia Fontana, caratterizzato da un ricco sfoggio di attributi a dispetto del quale l’artista si atteggia a decorosa modestia, lasciando che la sua competenza emerga attraverso riferimenti simbolici, piuttosto che essere eroicamente ostentata. Più tardi, Adélaïde LabilleElisabeth Vigée Le Brun e Mary Beale, per citare due artiste di chiara fama, si ritraggono in più occasioni in compagnia della prole o del coniuge. 34 Sofonisba Anguissola, Bernardino Campi ritrae Sofonisba Anguissola, 1559 ca. (Pinacoteca Nazionale, Siena). Si confrontino le due contrastanti interpretazioni di CHADWICK 1990 e GARRARD 1994. 33

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Guiard, che pure si immortala circondata dalle proprie altolocate allieve (fig. 6), mostrandosi così anzitutto nella sua veste professionale, si mantiene sulla medesima falsariga, presentandosi come una dama elegante, colta, consapevole del proprio valore, ma sempre ammantata di aggraziata e dignitosa compostezza. Quel che non viene mostrato negli autoritratti delle succitate pittrici, né delle loro predecessore, è la fatica del lavoro, la durezza della formazione, la sporcizia che il trattamento dei colori procura, o la vigoria fisica del gesto creativo. Questa strategia di persuasione si trasmette al XIX secolo35: le artiste di epoca vittoriana continuano a compendiare una immagine di sé che intercetta sia la validazione professionale sia la certificazione di rispettabilità; al contempo procedono nel distacco dall’immagine della praticante amatoriale ed al traghettamento della percezione sociale della donna artista verso una nuova elaborazione dell’identità professionale femminile. Il processo si svolge per graduale, lenta revisione delle gerarchie artistiche e sociali di genere, piuttosto che attraverso atti di radicale perturbazione. Un nuovo tipo di artista – che propone elaborazioni originali attuando tattiche di segno opposto, disturbanti, volte alla programmatica violazione dei tabù, dei rapporti di forza simbolica e materiale, ed all’aperto rinnegamento dei codici di genere36 –, entra invece in scena alla fine del XIX secolo, insieme alla New woman, alle avanguardie artistiche del Novecento, alla nascita della psicanalisi e dello spirito modernista. La storica diatriba sullo statuto, artistico o meramente tecnologico, della fotografia è complanare con quella sullo statuto dei suoi artefici. Nei percorsi di rivendicazione della rilevanza estetica del proprio operato, i fotografi si appropriano degli espedienti figurativi adottati nelle arti visive tradizionali; in particolare, gli addentellati della fotografia con la pittura e le arti grafiche inducono il diretto prelevamento dei loro standard iconografici, le cui configurazioni trascorrono direttamente nella fotografia 35 36

CHERRY 1993, pp. 78 e ss. BORZELLO 1998.

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portandovi il proprio bagaglio di simbolico e valoriale. L’autoritratto in dagherrotipo di Antonio Sorgato37, prolifico fotografo veneziano formatosi come pittore, che alla metà dell’Ottocento preferisce trasmettere l’immagine blasonata dell’artista del cavalletto piuttosto che quella di operatore di una disciplina meccanica e gregaria, segnala efficacemente in quale ordine si collocassero fotografia e pittura nel sistema gerarchico delle arti. Dunque, le prime fotografe condividono con le pittrici sia le esigenze di accreditamento (cui si somma, si è visto, anche il desiderio di nobilitazione artistica della fotografia), sia i vincoli culturali e la disponibilità di una limitata gamma di espedienti utili al loro superamento; pertanto, anche per le fotografe la perentoria necessità di soddisfazione delle aspettative sociali sulla femminilità prevale sulla possibilità di mostrarsi nelle reali condizioni di lavoro, e la rappresentazione di sé che mettono in campo oscilla tra la tentazione di rimanere nell’ambito rassicurante della creazione di icone, mostrando ciò che è già codificato nell’immaginario collettivo senza rivelare nulla di nuovo, ed il desiderio di narrare storie inedite provenienti dalle profondità di una dimensione ignorata dal mondo sociale ma familiare per coloro che la vivono38. Membri della piccola borghesia rurale americana, le sorelle Frances S. (1854-1941) e Mary E. Allen (1858-1941) sono coAntonio Sorgato, [Autoritratto al cavalletto], post 1847, dagherrotipo, (Collezione Ferruzzi Balbi, Venezia). Cfr. I SORGATO IMPRENDITORI FOTOGRAFI 2008. 38 Quale che fosse la loro collocazione sociale ed occupazione, e anzi, soprattutto se dedite ad una attività professionale, nell’Ottocento le donne erano tenute a pagare un consistente tributo alle apparenze ed alla morale corrente. Il caso di Annie Oakley ‘Princess of the West’, è un esempio iperbolico: la famosa ed abilissima tiratrice, che per anni si esibì nello spettacolo itinerante di William Cody, al secolo Buffalo Bill, fu rigorosamente attenta a preservare la propria reputazione. Svolgendo un’attività riservata agli uomini, per di più nell’ambiente circense, Oakley si trovava in una posizione particolarmente delicata agli occhi della società; tuttavia riuscì a conservare una fama di riservatezza ed irreprensibilità tali da consentirle di omaggiare personalmente la Regina Vittoria. Utilizzò abilmente la fotografia per promuovere la propria immagine nei termini della aggraziata eleganza appropriata per una signora, facendosi ritrarre in pose manierate (pur imbracciando il fucile) ed evitando accuratamente di propalare un’immagine grossolana, associata alla cruda volgarità ed alla violenza. 37

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strette ad abbandonare l’insegnamento a causa di una patologia degenerativa che le rende entrambe sorde, e ad ingegnarsi in una attività lavorativa compatibile con la menomazione e congruente con la loro formazione e classe sociale39. Avvicinatesi alla fotografia tramite il fratello Edmund, ne fanno il proprio mestiere riversandovi le nozioni artistiche e letterarie che componevano il loro bagaglio intellettuale, una rara sensibilità e raffinatezza estetica, ed una notevole attitudine tecnica. Le ‘Signorine Allen’, attive dal 1885 circa, nella loro cinquantennale carriera vantano un curriculum invidiabile: ricercate al punto che i clienti attraversano il Paese per raggiungerle nella loro casa atelier (che si trovava, si badi, nella provincia rurale del Massachusetts, e non era elegante studio di una grande città), premiate ed osannate dalla critica40, nel 1900 arrivano sino all’Esposizione Universale di Parigi, le loro fotografie esposte tra quelle delle trenta autrici americane rappresentate nella mostra organizzata dall’infaticabile Frances Benjamin Johnston41. Le immagini delle sorelle Allen provengono direttamente dall’universo borghese, il cui immaginario si riflette nelle scelte stilistiche e nella retorica patetica e nostalgica del genere pittorialista, e modella altresì la percezione che le fotografe hanno di sé. La garbata modestia con cui Frances e Mary Allen si mostrano non deve, tuttavia, trarre in inganno: forti della consapevolezza dell’alta qualità del loro lavoro, e del prestigio che questa porta con sé, le artiste dichiarano che A picture is not necessarily beautiful because it’s blurred, and there’s need of all one’s technical skill even after a negative is made, in adapting the print to its peculiar individual qualities. The merit of posing, which you kindly gave us credit for, belongs rather to the models. Our chief virtue is letting them alone [...] until they forget about us and the drop catches an unconscious pose42.

BRUEGGEMANN 2006. 1901, FLYNT 2002. 41 AMBASSADORS OF PROGRESS 2001. 42 FLYNT 2002, p. 27 39

40 JOHNSTON

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Le Allen, dunque, avocano a sé una superiore perizia tecnica, ma soprattutto l’innata ed insostituibile capacità dell’artista di far emergere «le peculiari qualità individuali dell’immagine» e di trarre il meglio dal modello in posa. Nell’ultimo quarto del XIX secolo, l’educazione artistica delle donne si era effettivamente estesa dalle classi di ceto alto a quelle di censo inferiore, talché la familiarità con la storia dell’arte europea ed i suoi capolavori, insieme alla pratica stessa del disegno, influirono positivamente sulla raffinatezza compositiva e la sensibilità luministica delle fotografe. Tuttavia, queste oggettive motivazioni, alla base della distinzione del lavoro di molte professioniste dell’obiettivo, erano generalmente confuse con il presunto, innato ‘intuito femminile’ in un discorso distorsivo che finiva per disconoscere la maestria conquistata al prezzo di anni di studio ed applicazione (e con essa la sottesa capacità di apprendere ed evolvere), riesumando invece l’ambiguo gioco di riconoscimento della bellezza dell’opera e contestuale svalutazione dei meriti dell’autrice. Frances e Mary Allen, rimaste nubili, condivisero vita e lavoro in un rapporto tanto integrato e simbiotico, e con una tale comunità di visione, da consentire di inserire legittimamente i reciproci ritratti nell’ambito di un discorso sull’autoritratto fotografico. L’autorappresentazione che le Allen dispongono sta in armonia con l’immaginario da loro costruito nelle fotografie che propongono al mercato, e risponde diligentemente alle aspettative della società nei confronti di due donne non sposate. In stretta analogia con i misurati autoritratti delle pittrici già considerati, le Allen si mostrano al lavoro, sul campo, con gli attributi del mestiere (fig. 7), ostentando tanta disinvoltura nel rapporto con la imponente e sofisticata apparecchiatura fotografica, quanta grazia e compostezza nel contegno, quest’ultimo elemento essendo imprescindibile nella raffigurazione di una donna al lavoro perché, in sua assenza, l’intera operazione di legittimazione professionale sarebbe stata invalidata.

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La parabola professionale di Frances Benjamin Johnston 43 (1864-1956) intercetta l’età eroica della fotografia al femminile, e la compie con deciso entusiasmo. Personalità vigorosa, forte anche di una indipendenza economica e di una rete sociale che la introducono nei più esclusivi circoli dell’aristocrazia finanziaria americana, Johnston si prodiga per il riconoscimento delle fotografe in una instancabile attività editoriale44, organizzativa, e promozionale. La via percorsa dalla Johnston per giungere ad una piena e soddisfacente affermazione di identità professionale genderizzata punta in una direzione diversa, e tuttavia non diametralmente opposta, rispetto a quella scelta dalle sorelle Allen delle quali ammira il lavoro, è sostenitrice, ed amica. Sovente, nei suoi autoritratti forza le convenzioni figurative tradizionali in composizioni arrangiate all’interno del suo studio, nelle quali l’infingimento è palese e l’esagerazione voluta. Indossa con facilità maschere diverse, inscenando sé stessa in una varietà di ruoli, passando dai panni bohémienne a quelli signorili, fino al camuffamento vero e proprio, con un tono di beffa appena contenuto; si presenta come una esponente del pensiero progressista, o con un piglio deliberatamente provocatorio; fa passare l’atteggiamento antagonista attraverso l’uso dell’ironia, della teatralizzazione, della provocazione, oppure si prova nei primi tentativi di diluizione dei limiti di genere nell’androginia (figg. 811). Questi autoritratti, riflesso dell’esperienza sociale di genere vissuta dall’autrice, non hanno il valore certificativo del reportage: al contrario, possono sussistere solo nella zona franca della finzione. L’artista si muove sul terreno del gioco, della simulazione apertamente dichiarata e, operando con il mezzo fotografico, non potrebbe fare altrimenti: all’impossibilità, per l’epoca, di procedere oltre il punto di rottura degli equilibri culturali – che, per altro, Johnston sta già notevolmente forzando –, si somma una peculiare, ed in questo caso insidiosa, caratteristica della fotografia: la sua referenzialità indicale. Consapevole che Tra gli studi monografici più accurati su Johnston si ricorda PETE, SMOCK 1974. Per recensioni sull’opera di altre fotografe citate qui, si vedano ad esempio JOHNSTON 1901, JOHNSTON 1903, JOHNSTON 1906. 43 44

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l’immagine fotografica, diversamente da quella pittorica, è comunemente percepita come latrice di una oggettività irriducibile, Johnston compensa tramite una amplificata artificiosità della composizione l’immediatezza della trasmissione della scabra volgarità del vero. Operando al riparo di questo ombrello, può concedersi provocazioni altrimenti intollerabili per un medium socialmente ricevuto come specchio fedele del reale. Lo confermano le scelte, assai diverse, che la fotografa fa per la specifica rappresentazione di sé come professionista: nel raffigurarsi nei panni del mestiere (figg. 12 e 13), Johnston adotta toni più sobri e collaudati, persino solenni: posa, con l’immancabile fotocamera, offrendosi con la disinvolta sicurezza data dalla piena padronanza del dispositivo e della situazione45. Professionalmente coetanea, Gertrude Stanton, sposata Käsebier (1852-1934) si rivolse agli studi d’arte, e poi di fotografia, in età già matura, intraprendendo la carriera professionale solo a 45 anni, quando aprì uno studio a Manhattan per fare fronte alle mutate condizioni economiche familiari46. Divenne presto una delle più note (e meglio pagate) fotografe ritrattiste pittorialiste degli Stati Uniti47; nel 1902, ormai raggiunta la fama, era tra i membri fondatori del gruppo Photo-Secession guidato da Alfred Stieglitz. Il rapporto tra Stieglitz e Käsebier è un esempio del perpetuarsi di schemi tanto antichi quanto inossidabili: anche negli ambienti in cui era coltivato il pensiero estetico più avanzato, infatti, i maschi tendevano a preservare le tradizionali È incerto se il ritratto del 1936 qui proposto sia effettivamente un autoscatto o se, viceversa, l’otturatore sia stato chiuso da altri che dalla fotografa, ad esempio un assistente di atelier. Tuttavia, la regia appare predisposta, e soprattutto dominata, da Johnston; esercitando la fotografa un sostanziale controllo della propria rappresentazione, è sembrato coerente assimilare i ritratti del 1905 e 1936 agli autoritratti. 46 La condizione celibataria di Johnston e delle sorelle Allen è un aspetto consistente nello svolgimento delle loro carriere e negli orientamenti intellettuali che le caratterizzarono. Käsebier, che pure dalla propria professione trae le risorse economiche per il sostentamento della famiglia, è contrastata dal proprio marito; solo successivamente alla morte di questi ed al raggiungimento dell’età dell’indipendenza dei propri figli la fotografa poté dedicarsi appieno al proprio lavoro. 47 DELANEY 2007, MICHAELS 1992. 45

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forme di egemonia attraverso la subordinazione artistica e professionale delle donne. Gertrude Käsebier, il cui determinato senso dell’autonomia si era già imposto nel più costrittivo e rigidamente codificato ambiente familiare, non fu soggiogata neppure dalla figura, tanto carismatica ed influente quanto egocentrica ed oppressiva, di Stieglitz. Il fotografo sovrastava i propri affiliati e protetti, ed in particolare le numerose donne di cui era mentore, replicando il canonico schema di relazioni tra il maestro d’arte e l’allieva, nel quale egli esasperava la necessità di controllo ed approvazione del primo sull’operato della seconda. Artista consolidata, ed al culmine della propria carriera, Käsebier rispose ai tentativi di aggiogamento estetico e commerciale compiendo il drastico e coraggioso passo della dissociazione dal gruppo Photo-Secession. Consumata la rottura, la fotografa dovette sopportare gli attacchi critici di Stieglitz, il quale non perse occasione per denigrarne l’opera fallendo, tuttavia, il tentativo di offuscarne la stella, e vedendosi anzi rapidamente abbandonato da altri membri dell’associazione. Quella di Käsebier è insieme una rivendicazione di legittimità professionale e di autosufficienza estetica; la fotografa non consente incursioni nel suo territorio, né si assoggetta ad essere eterodiretta nella propria etica dello sguardo. Ella, di fatto, reclama la reggenza esclusiva della propria produzione artistica, sotto ogni profilo. Käsebier è nota soprattutto come acclamata autrice di ritratti in stile pittorialista. Nel proprio autoritratto, pubblicato in Camera Notes nel 1900 (fig. 14), l’autrice celebra istantaneamente più aspetti della sua identità: riunisce artista ed opera d’arte in un solo corpo osteso, esibisce la raffinatezza stilistica e destrezza tecnica, approfitta dell’indessicalità fotografica per mantenere la consistenza, il legame con l’identità mondana della persona, altrimenti suscettibile di una totale dissoluzione nell’astrattezza simbolica dell’immagine iconica. In quest’opera, Käsebier non si sottomette supinamente alle regole previste per la rappresentazione della donna in generale, né a quelle prescritte per il ritratto della donna artista; piuttosto, sopravanza gli stereotipi agendo da sé stessa il proprio corpo, oggetto-soggetto integrale all’opera. 256


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I cambiamenti sociali e culturali che accompagnano il primo conflitto mondiale aprono una nuova fase del processo di emancipazione femminile. Dopo aver affrontato le asprezze della guerra e aver sostituito gli uomini coscritti al fronte in una moltitudine di funzioni della vita privata e pubblica, le donne entrano negli Anni Venti con nuova consapevolezza conquistando molti bastioni del professionismo maschile: quello della fotografia non fa eccezione, e gli autoritratti testimoniano la corrispondente metamorfosi dell’immagine della fotografa professionista. La frusta raffigurazione dell’artista con gli strumenti del mestiere va esaurendo il proprio potenziale, pur non estinguendosi: cede il passo a nuove ricerche che, muovendo dal medesimo tema iconografico, vanno in direzione dell’introspezione soggettiva combinata con la ricerca estetica più aggiornata. Tra i numerosi autoritratti che Ilse Bing ha lasciato i Selbsporträt mit Leica del 1931 si sono indelebilmente impressi nella memoria collettiva (fig. 15). La fotografa sfrutta un gioco di specchi per produrre una immagine poliprospettica ed ottenere un doppio ritratto di sé con la propria Leica48. L’espediente metafotografico offre simultaneamente all’osservatore più soggetti protagonisti comprimari della elaborata composizione: l’atto fotografico, l’unità attanziale tra fotografo ed apparecchio (nel volto offerto ripreso frontalmente, parzialmente integrato all’apparecchio tramite la sovrapposizione occhio-obiettivo) ed insieme il ruolo professionale; la segnalazione dell’identità individuale (nella vista di profilo). L’autoritratto multiplo non esaurisce la propria funzione e ricchezza di senso come testimo48All’inizio

del Ventesimo Secolo, il ritratto fotografico multiplo realizzato con l’ausilio di specchi è un espediente alquanto diffuso sia tra i fotografi amatoriali, sia nell’ambito della ricerca delle avanguardie artistiche. In quest’ultimo contesto, il fotoritratto quintuplo di Duchamp (scattato nel 1917 da un anonimo operatore su indicazioni dell’artista, e definito da quest’ultimo ‘autoritratto’) costituisce un paradigma e un punto di accelerazione dell’esplorazione delle molteplici sfaccettature dell’identità individuale e della capacità che il ritratto ha di modellarla. Il problema fu, per altro, variamente scandagliato dall’artista nel corso della sua carriera, attraverso camuffamenti, distorsioni, capovolgimenti, e creazioni di alter-ego.

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nianza di esercizio di stile modernista della fotografia, e trasforma piuttosto la rappresentazione dell’identità in una impresa di ricerca concettuale. Cinquantacinque anni più tardi, nel 1986, Bing reinscena la fotografia con Abe Frajndlich, e le restituisce vitalità strappandola al destino condiviso delle immagini iconiche che subiscono, fatalmente, la sovrascritturra dell’immaginario collettivo perdendo nel cambio il proprio originario valore. L’apparente aporia dell’inversione dell’autoritratto in un ritratto e dell’infingimento mediale ed ottico (questa volta di fronte a Bing non c’è uno specchio, bensì Frajndlich con la propria apparecchiatura; suo è l’occhioobiettivo che coglie l’immagine, non più quello della Leica di Bing), è risolta dalla inusitata condizione assunta dal modello che, non solo si fa detentore di uno sguardo dominante su quello del fotografo, ma contrappone al gesto di questi il proprio. Bing rimette in gioco le proprie posizioni estetiche, e le conferma facendo transitare la propria etica, ed estetica, della visione attraverso lo scatto di un altro fotografo. L’accostamento di due autoritratti, uno pittorico realizzato da Ernst Ludwig Kirchner (1880-1938), l’altro fotografico di Marianne Breslauer (1909-2001), consente di evidenziare la distanza di atteggiamento dei due autori in relazione alla loro identità di genere e al contesto in cui operarono. L’autoritratto con modella di Kirchner (fig. 17) si colloca ancora nella Belle Époque. Lo splendido autoscatto del 1933 Die fotografin di Marianne Breslauer (fig. 16) autrice recentemente riscoperta49, il cui astro ha brillato di luce intensa nel corso di una breve carriera (19261937), mostra invece le conseguenze dei mutamenti culturali prodotti dall’esperienza della guerra in termini di inedite opportunità di espressione artistica per le donne. Entrambi gli autori adottano la classica – per gli anni Trenta, ormai, abusata – soluzione iconografica dell’artista all’opera che percorre con la disinvolta naturalezza degli eletti la dimensione sacra della creazione. Tuttavia, dal quadro alla fotografia, le inversioni nella or49

MARIANNE BRESLAUER: FOTOGRAFIEN 2010.

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ganizzazione dello spazio e nella connotazione dei segni esteriori denotano uno spostamento del peso gerarchico in favore della donna, sottratta al ruolo di mero oggetto dato da elaborare alla visione di altri. Kirchner e Breslauer si mostrano entrambi in veste da camera, colti nell’atto di creare50, equipaggiati della propria attrezzatura, ad un tempo testimonianza tecnica e metafora di primato nel mestiere. Kirchner domina lo spazio della tela, e colloca in secondo piano una anonima modella la cui dignità è ulteriormente diminuita dalla tenuta discinta, ed è perciò assimilata, se mai, a quella degli strumenti del pittore. La scelta informale dell’abbigliamento di Kirchner che, diversamente dalla modella, non si scopre e salvaguarda così la sua posizione di soggetto dominante, è un ulteriore indice di padronanza delle circostanze. Breslauer, dal canto suo, non richiede un termine di paragone per asserire la propria posizione: impegna completamente lo spazio dell’immagine, ed aggiunge la seminudità alla tenuta confidenziale, ricomponendo istantaneamente la dicotomia tra donna soggetto creatore attivo e donna oggetto passivo di contemplazione, ed insieme valicando il limite del ritratto professionale per addentrarsi ad esplorare il territorio della propria identità sessuale attraverso una rivelazione centellinata della propria bellezza fisica. In questa compiaciuta esibizione si rinvengono, labili ma persistenti, tracce della strategia di antica tradizione adottata dalle pittrici che promuovevano il ruolo di donna artista attraverso l’immagine della donna bella51.

Breslauer pone bene in vista la mano che tiene il cavo flessibile di scatto dell’otturatore, ed insieme ad essa enfatizza l’azione stessa di prendere la fotografia che lascia la sua traccia nell’effetto leggermente sfocato causato dal movimento. Il cavo flessibile sembra essere un oggetto che crea imbarazzo ai fotografi, almeno all’interno degli autoritratti, forse perché distanziando l’operatore dall’apparecchio sembra diminuire l’integralità tra i due nell’atto fotografico. Sembra infatti possibile ravvisare una tendenza diffusa nei ritratti di fotografi ‘in veste di fotografi’ a dissimulare, piuttosto che sciorinare, questo elemento protesico dell’apparecchiatura fotografica. Volendo enunciare il proprio statuto di agenti creatori dell’immagine, gli autori preferiscono mostrarsi con l’apparecchiatura vicina a sé, o tenuta in mano con il dito poggiato sul tasto dell’otturatore, pronti a cogliere l’istante. 51 MIRROR MIRROR 2001, p. 11. 50

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Le biografie (ed agiografie)52 di Margaret Bourke-White (19041971), celebre fotoreporter e ‘collezionista’ di primati giornalistici, narrano di una donna di straordinario talento e di altrettanto grandi audacia, volontà di determinazione e capacità di adattamento. Bourke-White scelse di neutralizzare le politiche di genere che, nella specifica nicchia professionale del fotogiornalismo, vessavano le donne con speciale accanimento, ricusando il principio ontologico del dualismo maschile-femminile. I suoi ritratti – autoscatti o scatti accordati ad altri – sono riprese accortemente predisposte, compendiosamente simboliche e d’effetto, in linea con l’estetica nitida e sensazionalista dei magazine per i quali lavorava. Nelle fotografie che la immortalano si mostra sì bella, ma sempre e soprattutto spigliata ed efficiente, all’opera anche in situazioni estreme; del lavoro esibisce la malagrazia, la fatica, l’impegno fisico e manuale, trasfigurati in chiave epica e sostenuti con la medesima vigoria e gli stessi codici d’abbigliamento53 di un uomo (fig. 18). In equilibrio tra la proposta di una immagine eroica di sé, ed una veridica, non fece della propria bellezza – che pure valorizzava – un’arma di seduzione né un passepartout per la fama. La legittimazione professionale di Bourke-White passa, dunque, attraverso la rivendicazione della qualità dell’opera e della capacità nel mestiere di fotografo, non di presunte specificità spirituali e, meno ancora, di un’etica dello sguardo, propriamente femminili. In poco più di un cinquantennio, dunque, le parole di Catharine Weed Barnes «Good work is good work, whether it be by men or woman, and poor is poor by the same rule»54 hanno trovato accoglimento e traduzione pratica nell’opera delle fotografe; esBOURKE-WHITE 1963, CALLAHAN 1998, GOLDBERG 1986, tra le innumerevoli. Esiste una moltitudine di ritratti di Bourke-White all’opera con la macchina fotografica, che la collocano negli ambienti più estremi: dalle impalcature del Chrysler Building (Oscar Graubner, 1931-34), ai campi di battaglia dei conflitti del Ventesimo Secolo: la fotografa indossa di volta in volta sgraziate, ma adeguate, tenute da aviatore, tute da lavoro, equipaggiamenti militari tutt’altro che indicati ad esaltare la figura femminile, sia fisicamente, sia simbolicamente. 54 BARNES 1889. 52 53

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se hanno percorso la parte decisiva dell’arco di parabola che, ancora in attesa di vedere il proprio definitivo compimento, ha determinato in maniera cruciale lo smantellamento della porzione di ordine del mondo55 che deprime la dignità artistica professionale femminile. Negli autoritratti, in particolare, oltre a rivendicare il pieno riconoscimento della dignità di mestiere, le fotografe hanno variamente modulato forme di resistenza e risposta alla rappresentazione conservatrice della donna, all’assetto del rapporto sociale tra i sessi ed alla perpetuazione delle relazioni di dominio tra di essi56, sino alla dissoluzione dell’idea che l’identità di genere sia naturale ed assoluta, e si manifesti perciò nell’opera artistica attraverso successive metempsicosi in forme visivamente differenti rimanendo, tuttavia, sostanzialmente stabile ed immutata.

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Didascalie Fig. 1. John Dillwyn Llewelyn, Ritratto della figlia dell’autore, Thereza

Dillwyn Llewelyn, 1853–1856. New York, Metropolitan Museum of Art. Fig. 2. John Dillwyn Llewelyn, Ritratto della figlia dell’autore, Thereza Dillwyn Llewelyn, 1854 ca. New York, Metropolitan Museum of Art. Fig. 3. John Dillwyn Llewelyn, Ritratto della figlia dell’autore, Thereza Dillwyn Llewelyn, con globo e telescopio, 1854 ca. Swansea, Swansea Museum. Fig. 4. Sofonisba Anguissola, Bernardino Campi ritrae Sofonisba Anguissola, 1559 ca. Siena, Pinacoteca Naizonale. Fig. 5. Sofonisba Anguissola, Autoritratto, 1554. Vienna, Kunsthistorisches Museum. Fig. 6. Adélaïde Labille-Guiard, Autoritratto con le allieve Marie-Gabrielle Capet e Carreaux de Rosemond, 1785. New York, Metropolitan Museum of Arts. Fig. 7. Frances S. Allen, Ritratto di Mary E. Allen con banco ottico, ca. 1885. Fig. 8. Frances Benjamin Johnston, Autoritratto come ‘New woman’, 1896. Washington DC, Library of Congress. Fig. 9. Frances Benjamin Johnston, Autoritratto vestita da uomo con baffi posticci (a destra, in compagnia di due donne non identificate, una delle quali è vestita a sua volta da uomo), 1880-1900. Washington DC, Library of Congress. Fig. 10. Frances Benjamin Johnston, Autoritratto vestita da uomo con baffi posticci e velocipede, 1880-1900. Washington DC, Library of Congress. Fig. 11. Frances Benjamin Johnston, Autoritratto, 1901. Washington DC, Library of Congress. Fig. 12. Autore non identificato, Ritratto di Frances Benjamin Johnston con banco ottico di fronte all’Arts Club, 2017 Eye Street, Washington, D.C., 1936. Washington DC, Library of Congress. Fig. 13. Autore non identificato, Ritratto di Frances Benjamin Johnston presso una fontana in Italia, 1905. Washington DC, Library of Congress. Fig. 14. Gertrude Käsebier, Portrait of the photographer, 1899 ca. pubblicato in Camera Notes, III, 4, Aprile 1900. Fig. 15. Ilse Bing, Selbsporträt mit Leica, 1931. Fig. 16. Marianne Breslauer, Die fotografin, 1933. 268


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Fig. 17. Ernst Ludwig Kirchner, Selbstbildnis mit Modell, 1910 ca. Amburgo, Hamburger Kunsthalle.

Fig. 18. Margaret Bourke-White, Autoritratto in tuta da aviatore di fronte ad un B-17, 1943.

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