V. Colonna, L'oggetto islamico tra conoscenza e collezione. Il Museo artistico industriale di Roma

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L’OGGETTO ISLAMICO

TRA CONOSCENZA E COLLEZIONE. L’ESPERIENZA DEL MUSEO ARTISTICO INDUSTRIALE DI ROMA

VALENTINA COLONNA

Nel bazar di Costantinopoli, scriveva Théophile Gautier nel 1853, «[…] si trovano le belle sciarpe di Tunisi, i tappeti e gli scialli di Persia, gli specchi in madreperla, i bruciaprofumi in filigrana d’oro e d’argento, in rame sbalzato e rabescato, le tazze della Cina e del Giappone […] tutta la curiosa chincaglieria d’oriente e la ricchezza chimerica di quei paesi»1. Questo non è che un frammento dei numerosi récits de voyage che a partire dalla metà dell’Ottocento avevano descritto dettagliatamente i luoghi d’oriente. Circa vent’anni dopo, Edmondo De Amicis ripercorreva gli stessi itinerari di Gautier, coinvolgendo nella sua avventura i lettori della «Illustrazione Italiana» con la descrizione dello sfarfallio degli oggetti che popolavano il bazar, stoffe, ceramiche smaltate, profumi e narghilè: «[…] è un emporio di bellezze da perderci gli occhi, il cervello e la borsa»2. GAUTIER 1853, citato in GUADALUPI 1989, p.80. DE AMICIS, Costantinopoli, reportage giornalistico per la rivista «L’Illustrazione Italiana», Milano 1878-79 in due volumi. Il brano sul bazar è ripubblicato in DE AMICIS 1979, pp. 233-241. 1 2


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Il tripudio dello sguardo diventava tripudio della scrittura e le stesse descrizioni fungevano da produttori di stili e ambienti; non è un caso, infatti, che nei cataloghi delle esposizioni spesso ricorrano i riferimenti alle descrizioni offerte dalla letteratura di viaggio, a riprova di come non fossero tanto i contorni delle situazioni reali a dettare i modi della sua ricezione, quanto il filtro che attorno ad essi creavano le diverse forme di rappresentazione artistica. ‛Chincaglierie e ricchezze’ dunque, un’inesauribile varietà di oggetti che entravano in sintonia con le inclinazioni del gusto ottocentesco europeo, volto all’eclettismo e all’accumulo di manufatti3. Se l’oggetto islamico fin dal Medioevo produceva stupore e curiosità in chi lo osservava, la capacità di comprenderne il significato storico-documentario era pressoché nulla. La difficoltà di separare, nelle manifestazioni materiali artistiche, la produzione islamica araba da quella turca o persiana è, dunque, da sempre evidente. Si dovrà attendere la seconda metà dell’Ottocento affinché la percezione dell’arte islamica in Occidente subisca un’evoluzione significativa. Fino ad allora questa produzione veniva classificata come ‛araba’, se non addirittura semplicemente ‛orientale’. Le scarse ed imprecise cognizioni sulle articolazioni interne delle culture ‛esotiche’ determinarono in molti casi la formazione e la diffusione di un universo figurativo composto da immagini stereotipate di un Oriente ‛costruito’ dalla cultura occidentale. L’orientalismo romantico – di pittori e letterati – coinvolgerà anche l’interesse per la cultura materiale, in conseguenza delle numerose campagne di scavo che, a partire dal 1885, si svolgevano in diverse aree del Medio Oriente e dell’Asia minore. Sebbene l’attenzione prevalente fosse rivolta all’Egitto antico, il collezionismo, sia pubblico che privato, raccolse un numero sempre crescente di oggetti acquistati sui mercati coloniali e ottomani, ma anche nelle maggiori città europee, O. SELVAFOLTA, Le esposizioni e l’oriente bazar, in GIUSTI, GODOLI 1999, pp. 183-194. 3

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dove il mercato dell’arte ora diventa più attento alle qualità estetiche e tecniche di questi manufatti4. Le pubblicazioni e gli studi, soprattutto francesi, sull’architettura e sulla produzione materiale islamica, erano discordanti sulla denominazione di queste antichità. A seguito dell’Exposition des Arts Musulmans (dicembre 1893)5 al Palais de l’Industrie aux Champs-Élysées di Parigi, curata da Georges Marye, la definizione ‛arte musulmana’, già adottata da alcuni anni, entrerà ufficialmente nel linguaggio scientifico, per identificare «[…] tutti i monumenti dei paesi sottomessi alla legge dell’Islam che siano ad Oriente o Occidente […] contro l’orientalismo convenzionale»6. In seguito alla pubblicazione dei primi studi sull’arte islamica, come il testo di H. Saladin, Manuel d’Art Musulman. L’architecture (Parigi 1907), oppure quello inerente alle tecniche decorative e di produzione, di Gaston Migeon, Manuel d’Art Musulman pour les arts plastiques et industriels (Parigi 1907), prevarrà una maggiore consapevolezza nei confronti di questi manufatti, favorendo anche la loro circolazione e fruizione. L’esperienza delle Esposizioni Universali promuoverà la ricerca spasmodica, da parte di mercanti, borghesi e aristocratici, di novità nel campo dell’arte, sottesa al rinnovamento dell’industria e dell’artigianato mediante l’adozione di motivi decorativi originali, affascinanti, diversi, di cui il mondo orientale era fonte. La tradizione musulmana è stata particolarmente creativa riguardo agli oggetti d’arte decorativaindustriale, grazie alla sperimentazione di motivi ornamentali riconducibili a figure geometriche ripetibili, o motivi astratti ad arabeschi; di conseguenza l’oggetto islamico ben si adattava alle esigenze europee nel campo delle arti applicate7. Pensiamo ad GALLOTTA, MARAZZI 1984-1989; HASKELL 1989. de l’Islam des origines 1971; L’Islam dans les collections 1977; GRABAR 1996; POMIAN 1989; VERNOIT 2000; PELTRE 2006. 6 MARYE 1893-1894, pp. 490-499. 7 O. GRABAR The implications of collecting islamic art, in VERNOIT 2000, pp. 194200; GRABAR 1992. 4

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esempio ai pannelli ceramici prodotti in serie all’interno del naqqàsh-khanè ottomano ad Istanbul, “la casa del disegnatore”: il laboratorio reale in cui si creavano ed elaboravano motivi ornamentali che venivano poi applicati a diversi materiali artistici, come ceramiche, tappeti, tessuti o intagli in legno. Chiediamoci dunque quali siano stati i canali privilegiati per la trasmissione dei modelli ornamentali islamici all’interno del contesto produttivo artistico occidentale. Sicuramente le Esposizioni Universali furono i principali strumenti di diffusione della moda orientalista, erano il momento e il luogo per la celebrazione dello spirito produttivo e mercantile del secolo, così da configurarsi come «[…] una lezione di geografia industriale, commerciale e morale» (per utilizzare un’espressione di Gautier)8. Non solo erano occasione di intrattenimento e di curiosità etnografica, ma erano anche un momento di riflessione sulle manifestazioni artistiche e architettoniche delle terre coloniali d’Oriente (fig. 1). In effetti le maggiori fonti bibliografiche e iconografiche, in Italia e all’estero, sono costituite dai cataloghi e dalle guide delle esposizioni, dai trattati e dai manuali di architettura, nonché dalle pubblicazioni di rilievi e vedute9. Nel nostro paese trovarono grande diffusione i testi di studiosi e viaggiatori francesi e inglesi, e in questo frangente saranno soprattutto l’Egitto e la Spagna, come pure la Turchia ottomana, ad essere oggetto di maggiore interesse. L’ammirazione verso la maestosità delle decorazioni dell’Alhambra di Granada si risente nei rilievi di Owen Jones, fino poi al suo famoso Grammar of Ornament (pubblicato a Londra per la prima volta nel 1845) che divenne un vero e proprio manuale di decorazione presente in tutte le scuole d’arti applicata europee e italiane. Gli schemi decorativi “moreschi”, con muqarnas e azulejos, esercitarono un’influenza a livello GAUTIER 1867, p. 2. A. SISTRI, L’Orientalismo nelle esposizioni italiane dall’Unità alla Grande Guerra, in GIUSTI, GODOLI 1999, pp. 177-182, O. SELVAFOLTA, Le esposizioni e l’oriente bazar, Ibidem, pp. 183-194. 8 9

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internazionale, anche nelle Esposizioni Universali di Londra (1862) Parigi (1876-1878) e Vienna (1873), al punto che furono realizzati allestimenti in “stile Alhambra” che riproducevano i moduli decorativi dei diversi patii del palazzo10. A tal proposito è necessario segnalare anche il testo del barone Jean-Charles Daviller, Histoire de faїences ispano-mauresques à reflets métalliques, del 1861 e il Voyage pittoresque et historique de l’Espagne, pubblicato tra il 1806 e il 1812 da Alexandre de Laborde. Allo stesso modo la Turchia ottomana occupa un posto privilegiato e riceve in questo momento un’attenzione particolare dai viaggiatori. Costantinopoli diventa la meta prediletta di studiosi e collezionisti occidentali: il fascino della capitale ottomana, con il Topkapy, l’harem e la visione di uno dei bazar più grandi del mondo islamico, rendeva questa città un emporio di merci e idee. Uno dei testi maggiormente diffusi sull’arte turca-ottomana era quello del francese Leon Parvillée, Architecture et Décoration turques au XVeme siècle (1874), ispirato a Bursa, la prima capitale ottomana. In Italia abbiamo i Ricordi di Architettura Orientale di Giuseppe Castellazzi, editi a Venezia nel 1872-1874; Costantinopoli (1878-1879), il reportage giornalistico di De Amicis; l’opera di Antonio Baratta Costantinopoli effigiata e descritta (del 1840 circa); i viaggi di Giacomo Bono e Cambellotti. Uno dei protagonisti della diffusione nel nostro paese di repertori decorativi orientali sarà Alfredo Melani attraverso una serie di testi a carattere manualistico editi soprattutto nel corso degli anni ottanta dell’Ottocento. Una parte del suo trattato, Dell’ornamento nell’architettura, dedica un’intera sezione all’ornamento musulmano (fig. 2). Egli ricorda, tra le sue fonti, il testo di Michelangelo Lanci, Trattato sulle simboliche rappresentanze arabiche (1845), il manuale del Castellazzi, e il già citato testo di Jones sull’Alhambra, inoltre il testo più tardo L’Art Arabe d’apres les monuments du Caire, (1877) di Prisse d’Avennes. La documentazione didattica all’interno delle Accademie artistiche italiane finora non dimostrava 10

GAYET 1893; MIGEON 1903; DANBY 2002.

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particolare interesse per la cultura orientale, in quanto prevalentemente legata alla tradizione classicistica. Camillo Boito all’Accademia di Brera a Milano sarà il pioniere dei corsi di storia degli stili, tra cui si inserisce anche quello arabomoresco e turco, contribuendo alla direzione del periodico «L’arte italiana decorativa e industriale» dal 1892. Ma i modelli decorativi erano presentati senza una particolare contestualizzazione storica, semmai accompagnati da alcune notazioni di carattere pratico per l’esecuzione grafica11. La trasposizione concreta dell’interesse per l’oggetto islamico sarà la creazione delle scuole d’arte applicata, rivolte allo studio e alla rielaborazione di manufatti e motivi ornamentali. Connessi a queste scuole, o istituti, nasceranno i musei cosiddetti d’arte industriale o di arti decorative, che compaiono nelle maggiori capitali europee così come in Italia (Torino, 1863; Roma, 1874; Firenze, 1880; Napoli, 1882; Palermo, 1885; Venezia, 1895). La riflessione sull’arte applicata all’industria si avvia a partire dalle sperimentazioni del South Kensington Museum di Londra, fondato nel 1852; seguirà l’istituzione dell’Union Centrales des Beax Arts appliquées à l’Industrie (1865) a Parigi; di seguito nasceranno a Vienna l’Oesterreichische Museum für Kunst und Industrie (1863), e a Berlino il Deutsche Gewerbe Museum (1873). In Italia il MAI12 e le rispettive scuole-officina si sviluppano come ampliamento della sfera delle Accademie di Belle Arti, coinvolgendo direttamente la pratica applicazione dell’arte. La collezione del MAI non si rivolge ad illustrare un periodo storico, una specifica area geografica o uno stile, bensì agisce per capolavori, nei quali si rintraccia un motivo formale, un elemento figurativo da porre a modello e da rielaborare. Agisce per esemplarità e la sua raccolta ha valore culturale nella nuova ottica commerciale, con la quale si indaga e si coglie il passato,

C. BARUCCI, L’orientalismo nelle fonti bibliografiche e nella manualistica italiana dell’ottocento, in GIUSTI, GODOLI 1999, pp. 23-30. 12 MAI: Museo Artistico Industriale. 11

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rielaborato attraverso la modellistica delle scuole industriali13. All’interno di questi istituti, la conoscenza del manufatto islamico, come oggetto da studiare e da riproporre nei suoi tratti stilistici, ne caratterizza una visione scolastica. La circolazione di determinati materiali, piuttosto che di altri, tra gli studenti e gli operai-artigiani, prevede la selezione e l’acquisizione degli stessi materiali da parte di chi gestisce le scuole. Dunque, nel canale di trasmissione e conoscenza entrano in modo privilegiato i mercanti d’arte e i collezionisti, ma anche architetti e professori, coloro i quali si rendono attivamente partecipi della scelta degli oggetti. Il collezionismo volto specificatamente alla realtà di un Museo Artistico Industriale è un collezionismo dove il gusto soggettivo del proprietario deve necessariamente cedere spazio all’utilità che l’oggetto acquisisce nell’ambito di un’osservazione didattica e non storica del suo significato. In effetti, l’interesse verso il manufatto islamico si traduce essenzialmente nell’attenzione alla novità del decoro, tralasciando l’indagine storica del suo contesto di appartenenza14. Era il repertorio figurativo dell’esotico ad affascinare, per le forme, i colori, per le tecniche del lustro e dell’agemina, ma erano in pochi ad avere una conoscenza diretta dei luoghi e degli ambienti che tanto si cercava di riprodurre. L’esemplare orientale fa parte di una strategia collezionistica, che lavora tra produzione e consumo di immagine, inserendosi come porzione specialistica di un insieme più ampio di aree di elaborazione didattica. Focalizzando la riflessione sulle collezioni notiamo come le ceramiche furono il materiale maggiormente richiesto nel mercato delle arti industriali italiane, conseguentemente alla tradizionale fortuna commerciale che fin dal medioevo registrò l’arrivo di questo materiale, attraverso il Mediterraneo, dai maggiori porti medio-orientali e nord-africani. Saranno inizialmente le ceramiche tunisine e maghrebine ad essere E. ALAMARO Sulle collezioni didattiche e sulla ragionata imitazione degli ornati islamici nella produzione delle scuole officine del Museo Artistico Industriale di Napoli (1880-1892), in GALLOTTA, MARAZZI 1989, pp. 263-268. 14 GRABAR 1996. 13

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collezionate, ma a partire dal XV secolo le ceramiche Iznik, nome dell’antica città di Nicea, eserciteranno il fascino maggiore sul mercato occidentale. Questo centro, situato a nord-est della Turchia, sulle sponde del lago Iznik, conobbe una produzione ceramica di particolare valore, durante l’Impero ottomano, tra il XIV e il XVI secolo, realizzando una tipologia di ceramica invetriata e dipinta con motivi floreali in blu, turchese e rosso, che si avvicinava molto alla porcellana cinese15. I moduli decorativi delle ceramiche Iznik saranno quelli maggiormente riprodotti dalle fabbriche d’arte applicata; in Francia troverà grande rilievo la produzione di Deck, dal nome del collezioista Théodore Deck che nel 1887 pubblicherà il testo La Faience. In Italia ricordiamo a tale proposito le famose imitazioni candiane, tra il XVIII-XIX secolo, nel territorio di Padova e Venezia, come pure le fabbriche fiorentine di Cantagalli e di Doccia, mentre sul territorio romano, oltre a quelle turche, trovano particolare fortuna le produzioni ispanomoresche grazie all’abilità di collezionisti del settore come Guglielmo Castellani e Gaetano Corvisieri (cfr. supra il saggio di Benocci). Proprio nel MAI di Roma ritroviamo numerosi esemplari Iznik e di maiolica spagnola. Fondato nel 1874 dal principe Baldassare Odescalchi e dall’orafo Augusto Castellani, il MAI di Roma fu uno dei primi musei del genere nell’Italia post unitaria. La storia della sua collezione è quanto mai complessa, a causa dei continui spostamenti della sede espositiva, ma anche a causa Inizialmente si pensava che tale produzione fosse cinese, ma la tecnica e la finezza del materiale di questa porcellana era lontano dalla produzione turca. Inoltre, all’inizio della circolazione di queste ceramiche in Occidente, si pensava che fosse una produzione dell’isola di Rodi, poi successivamente, alla fine dell'Ottocento, si scoprì che la provenienza era turca. Un elemento particolare della decorazione Iznik, fu l’introduzione del colore rosso intenso, simile alla ceralacca, chiamato bolo armeno, realizzato con un’argilla ad alta percentuale di ferro proveniente dal nord dell’Anatolia. Proprio le fabbriche di Iznik fornirono in gran quantità i pannelli ceramici per decorare le moschee di Costantinipoli. LANE 1971, p. 57; CARESWELL 1996. 15

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dello smembramento della collezione stessa in diversi musei della città. Senza ripercorrere ora le dinamiche di questa istituzione, ricordiamo solo che la sede iniziale si trovava nel convento di San Lorenzo in Lucina, dove il museo venne inaugurato nel gennaio del 1874, ma dopo circa un anno esso venne spostato al quarto piano dell’edificio del Collegio Romano16. Nella nuova sede furono istituiti i primi tre corsi d’arte: applicazione dello smalto ai metalli, modellazione della ceramica e pittura su vetro. Nel fermento dei primi anni di Roma Capitale, il ministro di Agricoltura Industria e Commercio Majorana Calatabiano propose di realizzare un grande Museo Italiano d’Arte Industriale con sede a Roma, proprio per valorizzare e ampliare la struttura romana, in previsione di esposizioni e concorsi. L’idea non ottenne il giusto sostegno finanziario e le raccolte del museo subirono un ulteriore spostamento. Dal 1884 fu responsabile del MAI Raffaele Erculei che organizzò diverse esposizioni con i lavori degli allievi, al Palazzo delle Esposizioni di Roma17, per dare visibilità all’istituzione, partecipando anche all’Esposizione Nazionale di Torino, nel 1884, e a quella Universale di Parigi nel 188718. Nel frattempo la collezione si arricchiva di esemplari importanti, alcuni provenienti anche dalle raccolte del Museo Kircheriano, dismesso alcuni anni prima: vetri, fregi lignei, ceramiche, avori, metalli, stoffe, calchi in gesso, sculture, fotografie e altro ancora. L’esperienza del MAI, già in crisi alla fine degli anni venti, si stava avviando alla sua conclusione, anche in seguito all’acceso dibattito, all’inizio del Novecento, sulla necessità di superare l’oramai obsoleto classicismo romano Per le informazioni di carattere storico vedi: ERCULEI 1876; CAPOBIANCHI 1884; FERRARI 1906; SERRA 1934; GOLZIO 1942; RAIMONDI 1990, pp. 1840. Da segnalare sono inoltre i diversi contributi di studio pubblicati all’interno del testo dell’Istituto Centrale di Catalogazione e Documentazione di Roma, BORGHINI 2005. 17 R. SILIGATO, Le due anime del Palazzo: il Museo Artistico Industriale e la Società degli amatori, in Il Palazzo delle Esposizioni 1990, pp. 165-181. 18 ODESCALCHI, ERCULEI 1880; ERCULEI 1885. 16

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e ampliare il linguaggio artistico, inserendo nuovi stili e nuovi indirizzi, al passo con le mutazioni del gusto e della società. Nel dopoguerra, la strada delle collezioni e quella delle scuole si divisero: molti oggetti erano stati chiusi nelle casse per preservarli dai bombardamenti, e vennero successivamente dispersi in vari musei romani in assenza di una sede idonea, mentre gli attuali Istituti Statali d’Arte raccolsero l’eredità delle scuole del Museo Artistico Industriale. Nel 1934, i pezzi più significativi della collezione tornarono finalmente ad essere esposti, e ne abbiamo notizia dal catalogo redatto dall’allora direttore Luigi Serra. Il percorso espositivo si sviluppava su sei sale, in cui alcune vetrine erano dedicate agli oggetti d’arte islamica, soprattutto ceramiche e metalli. In seguito le collezioni vennero divise: le armi al Museo di Castel Sant’Angelo, i calchi in gesso e gli oggetti in terracotta al Museo della Civiltà Romana, i reperti archeologici ai Musei Capitolini, frammenti marmorei e modelli lignei al Museo di Roma a Palazzo Braschi, l’archivio fotografico, circa dodicimila pezzi, è conservato all’Istituto Statale d’Arte di Roma, oggetti in ferro e alcune ceramiche al Museo di Palazzo Venezia. Ma il nucleo più consistente, circa duemila pezzi, tra cui ceramiche, porcellane, metalli, tessuti e vetri, confluì nella collezione della Galleria d’Arte Antica a Palazzo Barberini, dove attualmente è in fase conclusiva l’allestimento e l’apertura di un settore di Arti Decorative. Tra gli esemplari islamici che rientrano in questa raccolta molti provengono dal museo Kircheriano, come la lanterna siroegiziana del XIV secolo, due bruciaprofumi di produzione veneto-saracena, del XIV secolo, due candelabri mamelucchi del XV secolo, una coppetta irachena del XIII secolo (fig. 3) e un calice ottagonale dalla regione persiana del Fars risalente al XIV secolo. Gli esemplari islamici in metallo del MAI sono invece una coppetta con versatoio mamelucca del XIV secolo, un bacile siro-egiziano del XIV secolo e un piatto di produzione persiana di XV secolo. In occasione della mostra Il Fascino

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dell’Oriente nelle collezioni e nei Musei d’Italia è stato possibile esporre alcuni di questi esemplari per la prima volta19. Oltre alle raccolte del museo arrivarono anche lasciti e donazioni da parte di collezionisti privati e aristocratici dell’alta società romana, inclini al gusto della moda orientalista. Il catalogo delle ceramiche del MAI redatto nel 1929 dallo studioso Gaetano Ballardini, il fondatore del museo delle ceramiche di Faenza, ci propone già un panorama composito e qualificato di materiale islamico20. Oltre alla selezione e catalogazione di tutte le tipologie ceramiche presenti nella raccolta (ceramiche laziali, umbre, toscane e liguri) compare una prima schedatura degli esemplari islamici di produzione turca e ispano-moresca. In realtà successivamente si unirono anche alcuni manufatti di produzione indo-pakistana, del tardo Ottocento, vasi invetriati in turchese. Relativamente alla ceramica turca gli esemplari del MAI sono principalmente piatti, circa una decina, due vasi, diversi pannelli e una piccola brocca. La tipologia decorativa è quella della produzione Iznik risalente alla seconda metà del XVI secolo, con le foglie di saz e un fiore al centro, tipo a “cespuglio”, e una seconda tipologia, sempre Iznik ma del terzo periodo di produzione, XVI-XVIII secolo, con stile a fogliame blu su fondo bianco, di cui rimangono alcuni frammenti di mattonelle, che risultano acquistate dal principe Odescalchi (fig. 4). Nel catalogo Ballardini c’è anche un gruppo ceramico a due colori classificato come “Damasco”, e frammenti di mattonelle rivestite con tre colori indicate come Rodi, purtroppo senza immagine (probabilmente si tratta sempre di produzione Iznik erroneamente identificata). Questa prima raccolta di ceramiche turche venne incrementata, agli inizi degli anni cinquanta, dalla cospicua donazione dei Marchesi Dusmet. La collezione Dusmet faceva parte dell’arredo di un’elegante villa signorile sita a Roma in via M.G. STASOLLA, “Dolce color di oriental zaffiro…” Il collezionismo d’arte islamica a Roma. Un breve profilo, in PALMA-VENETUCCI 2010, pp. 187-195. 20 ZACCAGNINI 2001, pp. 128-131. 19

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Abruzzi 15. Era stata creata per soddisfare i gusti dei proprietari senza seguire un preciso gusto culturale ed uno specifico indirizzo di collezionismo e questo carattere composito della raccolta si rispecchia ancora oggi negli oggetti passati alla Galleria Nazionale d’Arte Antica (vetri, tessuti e ceramiche). Fu la Marchesa Edith Dusmet a legare con disposizione testamentaria (1949) gli oggetti di interesse artistico conservati nella sua casa. Un ulteriore gruppo di oggetti fu aggiunto successivamente dal marito Alfredo Dusmet (1956)21. Le ceramiche turche della collezione Dusmet sono ancora in fase di studio22 e in questo contesto mi propongo di anticipare solo alcuni aspetti relativi alla tipologia degli esemplari visionati. Numerosi sono i piatti con decoro policromo, blu, verde e rosso, con motivo floreale di garofani, tulipani e foglie, con la classica cornice a tondini sulla tesa, ascrivibili alla seconda metà del XVI secolo. Sono tutti della stessa grandezza, circa 25 cm di diametro e variano solo l’altezza del piede, più o meno profondo. Uno di questi piatti (inv. 4336) riporta un’etichetta con la scritta ‛Galleria San Giorgi-Roma- via Ripetta’ (fig. 5). I pannelli ceramici, che risultano acquisti del MAI, sono molto particolari, assemblati, forse dagli allievi in maniera poco consona, con frammenti di varia produzione, anche di diverso periodo; essi suggeriscono l’idea di come il materiale ceramico venisse utilizzato solo per lo studio e l’esecuzione delle decorazioni, e non come oggetto da esporre. I frammenti di mattonelle presentano colorazioni varie, da quella più classica in blu su fondo bianco; altre sezioni, sempre frammentarie, hanno fondo verde con decori floreali rossi dai contorni scuri. Di altra fattura è il nucleo di ceramiche ispano-moresche. Alcune risultano di produzione Manises, nei pressi di Valencia, del XV secolo, realizzate con la tecnica del lustro metallico, e Parte della raccolta fu venduta all’asta e se ne ha notizia in VON GRAFFE 1954, pp. 37-38. 22 La raccolta non è stata ancora oggetto di uno studio sistematico e solo una breve segnalazione di alcuni pezzi di particolare interesse è stata pubblicata da D’ORSI, 1954, pp. 365-366. 21

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una serie abbastanza numerosa di azulejos, acquistati dall’Odescalchi nel 1880 (fig. 6), altri come dono di Torquato Castellani. Alcune fasce con azulejos sono realizzate con la tecnica a cuenca, mentre altre mattonelle, in bruno manganese, risultano provenienti dalla moschea di Tangeri, datate XV secolo (fig. 7). Talune invece riportano iscrizioni in cufico e lo scudo dei nasridi di Granada (XIII-XV secolo). La difficoltà di reperire tutti i numeri d’inventario o d’ordine di entrata in alcuni casi non permette di ricostruire precisamente il percorso “collezionistico” dell’oggetto, sottoposto a continui spostamenti e registrazioni. I lavori degli allievi del MAI purtroppo sono andati persi. Ci rimangono però alcune fotografie e riproduzioni su riviste specializzate quali “Arte Italiana Decorativa e Industriale” e “Per l’Arte”, che pubblicavano le opere degli studenti in occasione di concorsi e premiazioni o di esposizioni nazionali o internazionali. L’attività del MAI è stata particolarmente vivace e ben integrata con l’ambiente romano almeno fino agli anni trenta, testimoniando la volontà di un rinnovamento artistico e ideologico in nome dell’eclettismo e delle nuove esperienze orientaliste. L’orientalismo romano appare dunque come educazione del pensiero, concezione della forma decorativa, delle tecniche e dei materiali, ma anche come costume di vita e atteggiamento, che va a caratterizzare personaggi interessanti del protomodernismo romano23. Un aspetto ancora poco noto che si inserisce in questo contesto è l’interesse di principi, marchesi e cardinali a far realizzare nelle loro ville i giardini “all’orientale”, chioschi e padiglioni in stile neo-moresco o neoindiano. Ricordiamo il giardino anglo-cinese voluto dal cardinale Giuseppe Doria Pamphilj, realizzato da Franceso

A.M. DAMIGELLA, Presenze, memorie, caratteri dell’orientalismo a Roma dalla metà dell’Ottocento ai primi del Novecento, in GIUSTI, GODOLI 1999, pp. 107-116; SPINAZZÉ 2010, pp. 103-122. 23

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Bettini, o la serra moresca alla villa Torlonia, opera di Giuseppe Jappelli24. Di particolare interesse è il clima artistico dominante alla fine dell’Ottocento dello “spagnolismo” romano, portatore di moda e cultura “moresca” nella pittura, nelle decorazioni, nelle feste mascherate, o durante occasioni mondane in cui si era soliti far costruire giostre pirotecniche in stile arabo. A riprova di ciò sarà l’esperienza del pittore Josè Villegas, che fece realizzare il suo villino in stile moresco ai Parioli (fig. 8), poi demolito negli anni cinquanta25, o la casa-atelier di Fortuny. Residenze che divennero anche un luogo d’incontro e frequentazione per la borghesia e l’aristocrazia romana di collezionisti e mercanti d’arte, al cui interno si potevano ammirare decori e arredi ispirati ai luoghi ispano-moreschi. Come pure il Circolo Artistico Internazionale di via Margutta, spesso coinvolto in allestimenti di scenari andalusi 26. Inoltre, nella seconda metà dell’Ottocento è attestata a Roma la presenza di numerose botteghe che riproponevano lavori di maiolica ispano-moresca con la tecnica del lustro. Oltre a quella del noto Torquato Castellani, altre botteghe sono quelle di Romeo Zampi, Cesare Moretti, Mariano Cerasoli e Pio Fabri27. Quest’ultimo, probabilmente uno dei più rinomati, nel 1872 sposa Guendalina Castellani, figlia dell’orafo Augusto Castellani, e inizia a frequentare il laboratorio del suocero, a piazza Fontana di Trevi, punto di ritrovo di artisti e luogo di sperimentazione di tecniche decorative antiche e moderne. Successivamente egli apre un laboratorio ceramico in via del Babuino 65, organizzato per la cottura dei suoi lavori presso la fornace dei fratelli Borzelli a Trastevere. Nel 1881 apre un laboratorio ceramico dotato di forno e nel 1883 esordisce alla A. CAMPITELLI, Le fabbriche orientali nei giardini di Roma. Le opere di Francesco Bettini e Francesco Jappelli, in GIUSTI, GODOLI 1999, pp. 97-106. 25 R. DE SIMONE, Il Villino Villegas, in GIUSTI, GODOLI 1999, pp. 117-126. 26 HOOGEWERFF 1953; JANDOLO 1953. 27 FONTANA 1988a; FONTANA 1988b, pp. 311-322; M.V. FONTANA, L’Influsso dell’Arte Islamica in Italia, in CURATOLA 1994, pp. 455-476. 24

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mostra tenuta al Palazzo di Belle Arti di Roma con alcune ceramiche ispirate alla maiolica rinascimentale ed islamica decorate a smalto e arricchite di preziosi lustri argento e oro. Artista-artigiano lavora da solo nel suo laboratorio che presto dota di tre forni, uno per la cottura a gran fuoco e due a muffola utilizzati per i lustri metallici oro e argento di cui è maestro. Nel 1889 partecipa, con ceramiche ispirate all’Islam, all’arte greco-bizantina, al medioevo e al rinascimento, alla Mostra della Ceramica e dell’Arte Vetraria svoltasi a Roma e l’anno seguente, sempre a Roma, espone i suoi lavori alla Mostra Industriale. Un’ulteriore conferma di questo attivo ambiente orientalista romano è fornita dalle “Cronache Mondane” di un giovane D’Annunzio, che nel gennaio 1884 scrive: «[…] ieri sera, in casa di Don Baldassarre Odescalchi ci fu un pranzo in onore degli artisti spagnuoli che con tanta finezza di arte illustrarono il nuovo libro principesco su Colombo […] dunque sedevano alla mensa i pittori Tusquets, Vallés, Pradilla, Hernandez, Don Maffeo Colonna, gli onorevoli Ettore e Luigi Ferrari, il famoso Villegas, il pittore Simonetti, Guglielmo Castellani, il valentissimo riproduttore di maioliche arabo-siculo ed araboispane, lo scultore Monteverde […]»28. Questo lo scenario della diffusione del gusto orientalista negli ambienti dell’alta società romana alla fine del XIX secolo.

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D’ANNUNZIO 1948, pp. 15-20.

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V. COLONNA

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Didascalie Fig. 1. Bazar Orientale, Esposizioni Riunite di Milano, 1894 (da GIUSTI, GODOLI 1999). Fig. 2. Grate di legno di varie moschee, da L’ornamento policromo nelle arti e nelle industrie artistiche: antiche, medievale e moderne per uso delle scuole e degli artisti; raccolta di 40 tavole dorate inargentate e in colori con note illustrative dell'Arch. Alfredo Melani, Milano 1886, tav. 25. Fig. 3. Coppetta, Iraq XIII sec., già Museo Kircheriano, Collezione Museo Artistico Industriale (foto Museo). Fig. 4. Piastrelle, Iznik XVI sec, già Odescalchi, Collezione Museo Artistico Industriale (foto Museo). Fig. 5. Piatto, Iznik XV-XVI sec., già Collezione Dusmet, Galleria Nazionale d'Arte Antica, Roma (da D’ORSI 1954). Fig. 6. Azulejos XV sec., già Odescalchi, Collezione Museo Artistico Industriale (foto Museo). Fig. 7. Piastrelle, Tangeri XV sec., Collezione Museo Artistico Industriale (foto Museo). Fig. 8. Villino Villegas, 1887-1890 (Archivio Fotografico dei Musei Vaticani).

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