Horti Hesperidum Studi di storia del collezionismo e della storiografia artistica Rivista telematica semestrale
LE IMMAGINI VIVE coordinamento scientifico di Carmelo Occhipinti
L’età contemporanea a cura di Carmelo Occhipinti
Roma 2015, fascicolo II, tomo II
UniversItalia Horti Hesperidum, V, 2015, II 2
Il presente volume riproduce il fascicolo II (tomo II) del 2015 della rivista telematica semestrale Horti Hesperidum. Studi di storia del collezionismo e della storiografia artistica.
Direttore responsabile: Carmelo Occhipinti Comitato scientifico: Barbara Agosti, Maria Beltramini, Claudio Castelletti, Francesco Grisolia, Valeria E. Genovese, Ingo Herklotz, Patrick Michel, Marco Mozzo, Simonetta Prosperi Valenti Rodinò, Ilaria Sforza Autorizzazione del tribunale di Roma n. 315/2010 del 14 luglio 2010 Sito internet: www.horti-hesperidum.com/
La rivista è pubblicata sotto il patrocinio di
Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” Dipartimento di Studi letterari, Filosofici e Storia dell’arte Serie monografica: ISSN 2239-4133 Rivista Telematica: ISSN 2239-4141
Prima della pubblicazione gli articoli presentati a Horti Hesperidum sono sottoposti in forma anonima alla valutazione dei membri del comitato scientifico e di referee selezionati in base alla competenza sui temi trattati. Gli autori restano a disposizione degli aventi diritto per le fonti iconografiche non individuate.
PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA © Copyright 2015 - UniversItalia – Roma ISBN 978-88-6507-794-8 A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile è vietata la riproduzione di questo libro o parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, microfilm, registrazioni o altro.
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INDICE TOMO I BRAM DE KLERCK, Inside and out. Curtains and the privileged beholder in Italian Renaissance painting VALERIA E. GENOVESE, Statue vie: lavori in corso
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DANIELA CARACCIOLO, «Qualche imagine devota da riguardare»: la questione delle immagini nella letteratura sacra del XVI secolo
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CRISTINA ACUCELLA, Un’ekphrasis contro la morte. Le Rime di Torquato Tasso sul ritratto di Irene di Spilimbergo
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MARIA DO CARMO R. MENDES, Image, devotion and pararepresentation: approaching baroque painting to neuroscience, or a way to believe
127
NINA NIEDERMEIER, The Artist’s Memory: How to make the Image of the Dead Saint similar to the Living. The vera effigies of Ignatius of Loyola.
157
ALENA ROBIN, A Nazarene in the nude. Questions of representation in devotional images of New Spain
201
PAOLO SANVITO, Arte e architettura «dotata di anima» in Bernini: le reazioni emotive nelle fonti coeve
239
TONINO GRIFFERO, Vive, attive e contagiose. Il potere transitivo delle immagini
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ABSTRACTS
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Horti Hesperidum, V, 2015, II 1
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TOMO II PIETRO CONTE, «Non più uomini di cera, ma vivissimi». Per una fenomenologia dell’iperrealismo
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ARIANA DE LUCA, Dall’ekphrasis rinascimentale alla moderna scrittura critica: il contributo di Michael Baxandall
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A. MANODORI SAGREDO, La fotografia ‘ruba’ l’anima: da Daguerre al selfie
77
FILIPPO KULBERG TAUB, «They Live!» Oltre il lato oscuro del reale
91
ALESSIA DE PALMA, L’artista Post-Human nel rapporto tra uomo e macchina
105
ABSTRACTS
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EDITORIALE CARMELO OCCHIPINTI
Vide da lontano un busto grandissimo; che da principio immaginò dovere essere di pietra, e a somiglianza degli ermi colossali veduti da lui, molti anni prima, nell’isola di Pasqua. Ma fattosi più da vicino, trovò che era una forma smisurata di donna seduta in terra, col busto ritto, appoggiato il dosso e il gomito a una montagna; e non finta ma viva; di volto mezzo tra bello e terribile, di occhi e di capelli nerissimi; la quale guardavalo fissamente; e stata così un buono spazio senza parlare, all’ultimo gli disse: «Chi sei?» G. LEOPARDI, Dialogo della natura e di un islandese
Poco prima che si chiudesse l’anno 2013, nel sito internet di «Horti Hesperidum» veniva pubblicato il call for papers sul tema delle «Immagini vive». Nonostante la giovane età della rivista – giravano, ancora, i fascicoli delle sole prime due annate –, sorprendentemente vasta fu, da subito, la risposta degli studiosi di più varia formazione: archeologi, medievisti, modernisti e contemporaneisti. In poche settimane, infatti, il nostro call for papers si trovò a essere rilanciato, attraverso i siti internet di diverse università e istituti di ricerca, in tutto il mondo. Risonanza di gran lunga inferiore, nonostante l’utilizzo degli stessi canali, riuscivano invece a ottenere le analoghe iniziative di lì a poco condotte da «Horti Hesperidum» su argomenti specialisticamente meglio definiti come quello della Descrittione di tutti i Paesi Bassi (1567) di Lodovico Guicciardini (a proposito dei rapporti artistici tra Italia e Paesi nordici nel XVI secolo), e del Microcosmo della pittura (1667) di Horti Hesperidum, V, 2015, I 1
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Francesco Scannelli (a proposito del collezionismo estense nel XVIII secolo). Evidentemente era il tema in sé, quello appunto delle «Immagine vive», a destare una così inaspettata risonanza. Tanta risonanza si dovrebbe spiegare – mi sembra – in ragione di una nuova e sempre più diffusa esigenza, molto sentita ormai da parte degli studiosi di storia artistica (sollecitati, più o meno consapevolmente, dagli accadimenti del mondo contemporaneo): l’esigenza, cioè, di indagare certa qualità ‘attiva’ che le immagini avrebbero posseduto nel corso della storia, nelle epoche, nei luoghi e nei contesti sociali e religiosi più diversi prima che esse diventassero, per così dire, gli ‘oggetti’ – in un certo senso ‘passivi’ – della moderna disciplina storico-artistica, prima cioè che le stesse immagini si ‘trasformassero’ in ‘reperti’, diventando, così, non necessariamente qualcosa di ‘morto’ (rispetto a una precedente ‘vita’ perduta), bensì diventando, in ogni caso, qualcosa di ‘diverso’ da ciò che originariamente esse erano state. Già per il solo fatto di essere ‘guardate’ sotto una prospettiva disciplinare come quella della storia dell’arte, che è vincolata a proprie istanze di astrazione e di scientificità (in funzione, per esempio, delle classificazioni o delle periodizzazioni), le immagini non hanno fatto altro che ‘trasformarsi’: ma è vero che, per loro stessa natura, le immagini si trasformano sempre, per effetto della storia e degli uomini che le guardano, e dei luoghi che cambiano; tanto più, oggi, le immagini continuano a trasformarsi per effetto dei nuovi media i quali, sottraendole a qualsivoglia prospettiva disciplinare, ce le avvicinano nella loro più imprevedibile, multiforme, moderna ‘vitalità’. Il fatto è che, immersi come siamo nella civiltà nuova del digitale – la civiltà delle immagini virtuali, de-materializzate, decontestualizzate che a ogni momento vengono spinte fin dentro alla nostra più personale esistenza quotidiana per ricombinarsi imprevedibilmente, dentro di noi, con i nostri stessi ricordi, così da sostanziare profondamente la nostra stessa identità – ci siamo alla fine ridotti a non poter più fare a meno di questo flusso magmatico che si muove sul web e da cui veniamo visceralmente nutriti, e senza il quale non riusciremmo proprio a decidere alcunché, né a pensare, né a scrivere, né a comunicare, né a fare 6
EDITORIALE
ricerca. In questo modo, però, le immagini che per via digitale, incessantemente, entrano per così dire dentro di noi sono immagini del tutto prive della loro materia, del loro stesso corpo, perché internet, avvicinandocele, ce le impoverisce, ce le trasforma, ce le riduce a immateriali parvenze. Ma così diventa addirittura possibile – ed è questo per molti di noi, come lo è per molti dei nostri studenti, un paradosso davvero mostruoso – diventa possibile, dicevo, studiare la storia dell’arte senza quasi che sentiamo più il bisogno di andare a vedere le opere d’arte, quelle vere, senza cioè riconsiderarle concretamente in rapporto, per esempio, all’esperienza nostra del ‘paesaggio’ di cui esse sono state e continuano a essere parte: non può che venirne fuori, ormai, una storia dell’arte fatta di opere ridotte alla parvenza immateriale la quale, distaccatasi dalle opere d’arte ‘vere’, non conserva di esse alcuna idea di fisicità, né possiede la benché minima capacità di coinvolgimento emotivo che derivava anticamente dalla ‘presenza’, dalla ‘corporeità’, dal rapporto col ‘paesaggio’ e col ‘contesto’, nonché dalle tradizioni e dai ricordi che, dentro quel ‘paesaggio’, dentro quel ‘contesto’, rivivevano attraverso le immagini, vivevano nelle immagini. La storia dell’arte ha finito per ridursi, insomma, a una storia di immagini ‘morte’, staccate cioè dai contesti culturali, religiosi, rituali da cui esse provenivano: in fondo, è proprio questo tipo di storia dell’arte, scientificamente distaccata dalla ‘vita’, a rispecchiare bene, nel panorama multimediale e globalizzato che stiamo vivendo, il nostro attuale impoverimento culturale. In considerazione di quanto detto, questa miscellanea sulle «Immagini vive» è stata pensata anzitutto come raccolta di testimonianze sugli orientamenti odierni della disciplina storicoartistica la quale – oggi come non mai afflitta, per di più, dall’arido specialismo accademico che l’ha ridotta alla più mortificante inutilità sociale –, ambisce, vorrebbe o dovrebbe ambire, alla riconquista dei più vasti orizzonti della storia umana, nonché alla ricerca dei legami profondi che uniscono il passato al presente e, dunque, l’uomo alla società e le civiltà, seppure lontane nello spazio o nel tempo, l’una all’altra.
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Ebbene questi due fascicoli della V annata (2015) di «Horti Hesperidum», ciascuno diviso nei due tomi che ora finalmente presentiamo, raccolgono i contributi di quanti, archeologi, medievisti, modernisti e contemporaneisti, abbiano voluto rispondere al nostro call for papers intervenendo su argomenti sì molto diversi, però tutti collegati a un’idea medesima: quella di verificare, nel passato come nel presente, una certa qualità ‘attiva’ che sia storicamente appartenuta, o appartenga, alle immagini. Esattamente come lo enunciavamo nel sito internet di «Horti Hesperidum», alla fine del 2013, era questo il contenuto del nostro call for papers: La rivista semestrale «Horti Hesperidum» intende dedicare il primo fascicolo monografico del 2015 al tema delle “Immagini vive”. Testimonianze letterarie di varie epoche, dall’antichità pagana all’età cristiana medievale e moderna, permettono di indagare il fenomeno antropologico dell’immagine percepita come presenza “viva”, capace di muoversi, parlare, interagire con gli uomini. Saranno prese in particolare considerazione le seguenti prospettive di indagine: 1. Il rapporto tra il fedele e l’immagine devozionale 2. L’immagine elogiata come viva, vera, parlante, nell’ekphrasis letteraria 3. L’iconoclastia, ovvero l’“uccisione” dell’immagine nelle rispettive epoche
Ora, una siffatta formulazione – cui ha partecipato Ilaria Sforza, antichista e grecista – presupponeva, nelle nostre intenzioni, le proposte di metodo già da noi avanzate nell’Editoriale al primo primo numero di «Horti Hesperidum» (2011), dove avevamo cercato di insistere sulla necessità di guardare alle opere d’arte secondo un’ottica diversa da quella più tradizionalmente disciplinare che, in sostanza, si era definita, pure nella molteplicità degli indirizzi metodologici, tra Otto e Novecento. Allora, infatti, ci chiedevamo: Ma sono pienamente condivisibili, oggi, intenzioni di metodo come le seguenti, che invece meritano la più rispettosa storicizzazione? Ri-
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EDITORIALE
muovere ogni «ingombro leggendario», auspicava Longhi, che si frapponesse tra lo storico e le opere. Considerare queste ultime con il dovuto distacco scientifico. Guardarle «in rapporto con altre opere»: evitare cioè di accostarsi all’opera d’arte – come però sempre accadeva nelle epoche passate – «con reverenza, o con orrore, come magia, come tabù, come opera di Dio o dello stregone, non dell’uomo». Negare, in definitiva, «il mito degli artisti divini, e divinissimi, invece che semplicemente umani». Queste affermazioni, rilette oggi alla luce di nuove esigenze del nostro contemporaneo, finiscono per suonare come la negazione delle storie dell’arte in nome della storia dell’arte. Come la negazione degli uomini in nome dello storico dell’arte. Come la negazione dei modi di vedere in nome della connoisseurship. Come la negazione, in definitiva, della stessa ‘storia’ dell’arte. Infatti la storia ha davvero conosciuto miracoli e prodigi, maghi e stregoni, opere orribilmente belle, sovrumane, inspiegabili, e artisti terribili e divini. Lo storico di oggi ha il dovere di rispettare e comprendere ogni «ingombro leggendario», senza rimuoverlo; dovrebbe avere cioè il dovere di sorprendersi di fronte alle ragioni per cui, anticamente, a destar «meraviglia», «paura», «terrore» erano i monumenti artistici del più lontano passato come anche le opere migliori degli artisti di ogni presente. Quell’auspicato e antiletterario distacco scientifico ha finito in certi casi per rendere, a lungo andare, la disciplina della storia dell’arte, guardando soprattutto a come essa si è venuta trasformando nel panorama universitario degli ultimi decenni, una disciplina asfittica, non umanistica perché programmaticamente tecnica, di uno specialismo staccato dalla cultura, dalla società, dal costume, dalla politica, dalla religione».
In effetti, dalla cultura figurativa contemporanea provengono segnali ineludibili – gli odierni storici dell’arte non possono non tenerne conto – che ci inducono a muoverci in ben altra direzione rispetto alle indicazioni enunciate da Roberto Longhi nelle sue ormai lontane Proposte per una critica d’arte (1950) alle quali ci riferivamo nell’appena citato Editoriale di «Horti Hesperidum» del 2011. Pensiamo, per esempio, a quanto si verificava in seno alla 55a Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia (2013), quando artisti e critici dovettero condividere il bisogno di ritrovare la fede – quella fede che, anticamente, era così sconfinata – nel ‘potere’ delle immagini, e di ritrovare, tentando di recuperarla dal nostro passato, «l’idea che l’immagine Horti Hesperidum, V, 2015, I 1
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sia un’entità viva, pulsante, dotata di poteri magici e capace di influenzare, trasformare, persino guarire l’individuo e l’intero universo»: d’altronde una tale idea non la si poteva affatto ritenere estranea alla tradizione culturale da cui noi stessi proveniamo nonostante che la modernità ‘illuministica’ abbia tentato di cancellarla, respingendola come vecchia, come appartenente a una «concezione datata, offuscata da superstizioni arcaiche»1. Così, persino sulle pagine del catalogo della stessa Biennale del ’13 (come pure su quelle dell’11, dove era fatta oggetto di rimpianto addirittura la potenza mistica di cui in età medievale era capace la ‘luce’, contro il buio introdotto da una deprecata età dei ‘lumi’), l’urgenza di un rinnovato sguardo sul passato e sulla storia era già di per sé un fatto sorprendente e audace: tanto più se, per contrasto, ripensiamo all’altrettanto audace rifiuto del passato che lungo il XX secolo fu provocatoriamente mosso, in nome della modernità, da parte delle avanguardie e delle neoavanguardie. Del resto, «la parola ‘immagine’ contiene nel suo DNA, nella sua etimologia, una prossimità profonda con il corpo e con la morte: in latino l’imago era la maschera di cera che i romani creavano come calco per preservare il volto dei defunti»2: ma visto che gli uomini del nostro tempo se ne sono dimenticati, serviva ricordare ai visitatori della Esposizione Internazionale che il misterio primigenio della scultura funeraria era, ed è, quello «di opporre alla morte, all’orizzontalità informe, la vericalità e la rigidità della pietra»3. Di fronte a questa nuova disponibilità dei ‘contemporaneisti’ nei confronti della ‘storia’, gli storici dovrebbero, da parte loro, tornare a cercare nel contemporaneo le motivazioni della loro stessa ricerca. Sottratte alle rispettive dimensioni rituali, magiche, funerarie, devozionali e religiose – quelle dimensioni che la civiltà moderna, multimediale e globalizzata ha tentato di annul1 La Biennale di Venezia. 55a Esposizione d’arte. Il palazzo enciclopedico, a cura di M. Gioni, Venezia, Marsilio, 2013, p. 25. 2 Ibidem, p. 25. 3 Ibidem, p. 26.
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lare definitivamente – le immagini sono diventate vuoti simulacri, come paiono esserlo quando le si vedono esposte, scientificamente classificate, dietro le vetrine o dentro le sale dei musei al cui interno esse hanno finito per arricchirsi di significati nuovi, certo, ma diversi da quelli che molte di esse possedevano al tempo in cui – citiamo sempre dal catalogo dell’esposizione del ’13 – «magia, miti, tradizioni e credenze religiose contavano quanto l’osservazione diretta della realtà»4.
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Ibidem, p 28.
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LA FOTOGRAFIA ‘RUBA’ L’ANIMA: DA DAGUERRE AL SELFIE ALBERTO MANODORI SAGREDO
Che il ritratto di una persona ne racchiuda l’anima e, con essa, il tempo della sua esistenza, lo aveva già capito Oscar Wilde nel suo Ritratto di Dorian Gray; ma l’uso del ritratto per ‘agire’, in qualche modo, sulla persona, sull’anima che nel ritratto è racchiusa è ben descritto, per quanto attiene alla realtà antropologica, da Alfredo De Paz nel suo Fotografia e società176. Quando la fattucchiera concentra le sue arti di magia nera su un malcapitato del quale qualcuno desidera la morte o la sventura, ella non solo utilizza, per comporre e realizzare il segreto incantesimo, formule recitate a memoria, spesso incomprensibili, accompagnate a gesti strani, come a voler tagliare l’aria, alla luce tremante di una sporca candela poggiata su un teschio nelle cui orbite un ragno ha posto il suo rifugio; ma si serve pure, avendoli richiesti, di una ciocca di capelli appartenenti all’ignaro sventurato oltre che di una sua fotografia, la più recente. Su questa fotografia la strega rovescia maledizioni e ingiurie e, nel
176
DE PAZ 2001, pp. 20-32.
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A. MANODORI SAGREDO
contempo, la trapassa con alcuni spilloni, come per ferirla, quasi fosse un gesto di profanazione di una santa reliquia177. Tutto questo perché, secondo la convinzione popolare, un tempo diffusa in ogni strato della società, nel ritratto fotografico (ma non solo) vi sta racchiusa l’anima del protagonista dell’immagine. Perché, sempre secondo la credulità collettiva, l’azione del fotografare ‘ruba’ l’anima a chi è fotografato: come se la sua immagine, riflessa nello specchio della lente fotografica, penetrata all’interno della camera oscura (tanto più misteriosa perché buia), lasciando sull’emulsione (oggi sul file digitale) l’eco ‘figurata’ di sé, vi lasciasse anche il senso ultimo della propria persona, il proprio modo d’apparire nel mondo e agli altri, la propria identità. Come se un ritratto fotografico potesse racchiudere tutta la personalità del ritrattato, catturandone l’esistenza, il carattere, svelando e rivelando ogni più intimo aspetto di sé178. In altre parole l’emulsione si impadronirebbe dell’anima più segreta e riposta di colui che viene fotografato. Il ritratto fotografico, infatti, nell’accezione più comune, dall’età di Daguerre al selfie, è traccia della parte avuta dal soggetto nella vita collettiva, non solo di quella sua personale, e perciò nella storia. Il ritratto sostituisce, nel portafogli o in borsa, negli antichi pendenti di tante vedove e mamme inconsolabili, sulle lapidi cimiteriali, negli album di famiglia, colui che raffigura: ne prende il posto, si fa immagine ferma e muta rivelando di esistere oltre il tempo ma nel tempo, esattamente come è nella natura e nell’eziologia della fotografia, che cattura l’attimo sottraendolo al tempo, bloccandolo, non permettendogli, metafisicamente, di continuare a scorrere, di concludersi. Pertanto se il ritratto fotografico ‘vale’ quanto colui che rappresenta arrivando, col tempo, addirittura a sostituirsene, è come se, transitivamente, lo stesso ritratto possedesse del suo protagonista l’anima, in senso lato: la vita. Per questo tanto più la nera maga può determinare la sorte dell’affatturato e gestirne così il coinvolgimento emotivo, quanto più quello condivide la convinzione che la fattura lanciatagli sia efficace e potente. FREEDBERG, pp. 405-407. BETTINI 2008, pp. 14-15; 94-95; SONTAG 1978, pag. 133-136; SCHWARTZ, RYAN 2009, p. 213. 177 178
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LA FOTOGRAFIA ‘RUBA’ L’ANIMA: DA DAGUERRE AL ‘SELFIE’
Solo una controfattura, compiuta con altrettanta forza psichica può liberarlo dalla condanna che gli è stata lanciata. Ebbene, la fotografia ‘ruba’ l’anima. Infatti, sorridendo davanti alla macchina fotografica, ogni soggetto in posa, anche il più razionale degli individui, prova un minimo di imbarazzo, sapendo che l’immagine di sé che sta per lasciare altrove, lo rappresenterà. Allora egli si dispone al meglio nella posa e nel gesto, se non nel sorriso d’occasione. A questo codice di recitata spontaneità di sono adeguati tutti i personaggi storici davanti al fotografo, da Baudelaire179 a Garibaldi, dagli attori ai politici, ai religiosi, ai campioni dello sport e così via, fino alla gente cosiddetta comune. Da questa sensazione di sottile sottomissione ad un’operazione di replica di se stessi, qual è intesa la ripresa fotografica nel ritratto, dipende la convinzione, un tempo ampiamente condivisa a livello popolare, che il fotografo fosse un complice del demonio, pronto ad impossessarsi dell’anima del personaggio sia che stesse in posa davanti all’obbiettivo sia che si trovasse casualmente nel campo fotografico, cioè nell’inquadratura. Quando Honorè de Balzac si recò da Nadar, il più grande e illustre ritrattista di Francia, non fece altro che esibire, e senza troppo pudore, la propria paura, istintiva e irrazionale, nei confronti della fotografia. La celebrità raggiunta esigeva che un suo ritratto fosse realizzato e diffuso. Lo volevano i suoi lettori, i collezionisti di ritratti di persone famose e le dame dell’alta società. Eppure, fino all’ultimo, tergiversò, cercò di non corrispondere alle richieste formali del fotografo. Temeva non solo che la sua immagine fotografica non avrebbe corrisposto, in pieno, alla sua personalità (non dubitava infatti della tecnica fotografica e della maestria del fotografo), ma aveva paura che una parte di sé, impalpabile e invisibile, gli sarebbe stata sottratta, una volta catturata dalla fotografia, restando celata nella fotografia stessa. A convincere Balzac ci volle tutta la pazienza e l’amabilità di Nadar, il quale sempre usava, prima di eseguire la ripresa, mettere a proprio agio il cliente, conversando a lungo 179
VALLORA 2010, p. 51.
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con lui, fino ad annullarne l’estraneità all’ambiente dell’atelier fotografico e a vincerne ogni imbarazzo nei confronti della macchina fotografica180. Nel 1842 il grande scultore svedese Thorvaldsen nel posare per un suo ritratto, eseguito con la primitiva tecnica del dagherrotipo, al momento dello scatto, nella lunga posa necessaria a quei tempi, fa con l’indice e il mignolo della mano destra quel gesto di rottura del malocchio che il lungo soggiorno in Italia gli aveva dato modo di apprendere. Come se dalla macchina fotografica promanasse un fluido magico, un’aura molesta che lo investisse silenziosamente e che solo quell’antico gesto apotropaico aveva il potere di neutralizzare. Insomma Thorvaldsen «fa le corna» per difendersi dall’azione magica della macchina fotografica, impedendo allo strumento capace di replicare la figura umana, di rubargli l’anima181. Se la macchina fotografica era creduta capace di impadronirsi dell’anima della persona fotografata, allora essa non poteva non essere che uno strumento del demonio, il quale, si sa, va in cerca di anime, come lo stesso Goethe assicurava nel Faust. Quasi che non ci fosse molta differenza, tra vendere l’anima al diavolo e lasciarsi ‘rubare’ l’anima attraverso la ripresa fotografica realizzata con uno strumento che tutto decide al buio, sia all’interno della scatola o camera oscura sia, poi, nel buio del laboratorio, anch’esso chiamato camera oscura, sia ancora nella prima resa dell’immagine sul negativo, che, ovviamente, nega la realtà mostrandola in una monocromia contraria a quella positiva. Così la fotografia sembra appartenere alla dimensione del magico, così da innescare, come tutte le immagini che hanno un senso magico182, attimi di superstizione. Osserviamo, per esempio, un’altra fotografia (fig. 1), che ci mostra una prostituta romana, ripresa nuda per il commercio clandestino di immagini oscene, ma poi utilizzata nel famoso fotomontaggio che coinvolse, con la sostituzione del solo volto, la già regina delle Due Sicilie, Maria Sophia di Baviera. In questa fotografia la suddetta modella fa il gesto tradizionale e apotroRAGO 1982, PP. 4-8; MORMORIO 2013, pp. 61-62 BERNER 2005, pp. 96-98. 182 FLUSSER 2006, PP. 3-6; VERNANT 2010, p. 108. 180 181
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paico delle corna, per evitare che l’azione fotografica le rubi l’anima, tanto più perché, davanti all’obbiettivo, la donna appare nuda e, dunque, ancor più indifesa183. C’è da aggiungere che la lunga posa, richiesta dai tempi di esposizione dei primi ritratti fotografici, doveva contribuire a rafforzare la convinzione popolare che all’interno della macchina fotografica vi fosse una presenza invisibile, che, nel lungo lasso di tempo della posa, avesse tutta la possibilità di agire e di catturare così, con l’immagine del soggetto, anche la sua anima. Riguardo a questa capacità della macchina fotografica di rubare l’anima di chi era fotografato, numerose testimonianze ci vengono dai primi fotografi impegnati nella corsa al West, lungo le grandi praterie del Nord America. Questi infatti sperimentarono quanto i nativi americani temessero l’azione della ripresa fotografica, convinti anche loro che questa rubasse loro l’anima. Davanti all’obbiettivo fotografico i grandi capi delle tribù dei nativi del Nord America posavano con espressione severa (fig. 2), come a sfidare, silenziosamente, la scatola magica che si preparava a ‘ri-prenderli’. Tenevano tra le braccia l’ascia di guerra o il lungo fucile, mentre le penne di aquila ornavano il loro volto. Forse in cuor loro invocavano il Grande Spirito, Manitou, perché li proteggesse. Nonostante ogni ancestrale timore i cosiddetti pellerossa finivano per accettare la proposta dei fotografi. A vincere ogni dubbio era il desiderio di acquisire una copia di se stessi, a vedere la propria immagine non più provvisoria e imprendibile come in uno specchio, ma fissata sulla superficie lucida del dagherrotipo o su quella cartacea del calotipo. Anche i grandi capi e i loro guerrieri avevano compreso la capacità del183 Questo fotomontaggio è stato realizzato molto tempo dopo quello ritenuto originale, mai pervenuto. Si tratta quindi di una ricostruzione di una delle immagini (quella di destra) prodotte per screditare la ex regina del Regno di Napoli agli occhi dell’opinione pubblica negli anni successivi al 1860, quando la già sovrana era in esilio, con il consorte, l’ex re Francesco II, a Roma. L’operazione diffamatoria fu scoperta e i responsabili individuati e sottoposti a processo penale condannati. Autrice dei fotomontaggi risultò la fotografa Costanza Diotallevi. Il fotomontaggio ha utilizzato la fotografia di un nudo di donna eseguita da Ludovico Tuminello, attivo a Roma dal 1842 al 1900. La modella dell’immagine compie, con l’indice e il mignolo della mano sinistra, un noto e antico gesto scaramantico con il proposito di allontanare il malocchio proveniente dalla macchina fotografica al momento dello scatto. Cfr. BECCHETTI 1983, p. 248 ; MANODORI SAGREDO 2012, p. 134.
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A. MANODORI SAGREDO
la fotografia di tramandare il loro ritratto ai posteri e, quindi, alla storia!184 Basti pensare ai tanti ritratti degli Indiani delle Pianure, appartenenti alla preziosa collezione fotografica raccolta da Enrico Hillyer Giglioli e oggi conservata presso il Museo Nazionale Preistorico Etnografico “Luigi Pigorini” a Roma185. Questa paura istintiva della macchina fotografica, poi divenuta solo imbarazzo di fronte all’obbiettivo e infine semplice desiderio di apparire migliori di quel che si è, ha segnato tutta la storia del ritratto fotografico, tanto che anche il cinema ne ha inevitabilmente tratto svariatissimi spunti. Infatti, alla paura nei confronti della riproduzione fotografica dei ritratti, diffusa nella credulità popolare, si ispirarono per esempio gli autori del soggetto e della sceneggiatura di un film che Roberto Rossellini girò nel 1948, La macchina ammazzacattivi. Il film narrava le imprese di un modesto fotografo, tanto ingenuo quanto sincero, desideroso di giustizia sociale, il quale svolgeva la propria attività in un paese della costa amalfitana. Egli venne facilmente convinto da un diavoletto, che aveva assunto le sembianze di un povero vecchio, da lui creduto S. Andrea, patrono di Amalfi, come attraverso l’azione fotografica si sarebbe potuto fare giustizia sui malfattori del paese. Il diavoletto, così, fece credere al fotografo che se avesse rifotografato una fotografia raffigurante il ritratto di chi s’approfittasse del bene del prossimo, quest’ultimo sarebbe morto all’istante (fig. 3). L’equazione era chiara: nella fotografia positiva si credeva già racchiusa l’anima del ritrattato, pertanto era sufficiente rifotografare la suddetta fotografia per sottrarre all’immagine proprio quell’anima che essa racchiudeva: un duplice percorso, quindi, che la magia del fotografare, rivelata dal diavoletto creduto S. Andrea, rendeva possibile e attuabile. Così uno dopo l’altro il fotografo rifotografava i ritratti dei loschi maggiorenti del paese, ammantati di ipocrita perbenismo. Ed essi cadevano morti all’improvviso: mentre cadevano assumevano la stessa posa fissata nella fotografia originaria, cioè quella rifotografata: c’era chi restava come fulminato con un dito in bocca, proprio come nel184 185
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ADAM 2000, pp. 130, 140. GIGLIOLI 1914.
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la sua immagine infantile. C’era chi rimaneva come paralizzato nel saluto detto ‘romano’ perché la fotografia utilizzata per ucciderlo lo mostrava nell’uniforme dell’orbace fascista in atto di salutare romanamente. Insomma, ne derivò una vera strage di approfittatori e di corrotti, una giustizia sommaria voluta da un fotografo tanto ingenuo e onesto, quanto credulone. Solo il suo pentimento finale, dopo la fulminante presa di coscienza che la giustizia non poteva dipendere da un agire individuale e soggettivo, e dopo la conversione del diavoletto, tutti quelli cui la fotografia aveva tolto la vita, sarebbero ritornati a vivere, la storia rivelandosi così un’edificante parabola. Resta da aggiungere che anche Severino, il fotografo, credeva, senza porsi alcun dubbio, che la ripresa fotografica potesse davvero sottrarre l’anima a chi stesse in posa: la stessa inconfessabile e inconfessata convinzione era, in definitiva, condivisa tanto dai soggetti in posa che dai fotografi. Nella stessa prospettiva eziologica del valore identificativo del ritratto fotografico agiva lo sciamano del film The Missing di Ron Howard del 2003, il quale portava al collo i ritratti di coloro cui aveva tolto la vita, non solo e non tanto come trofei, ma perché così egli si rendeva padrone dell’anima loro che nel ritratto era racchiusa. Ancora nel film The Others di Alejandro Amenàbar del 2001, interpretato dalla bella e sempre in ansiosa apprensione Nicole Kidman, la presenza dei morti che non vogliono rassegnarsi a morire, nascondendosi nel buio di un’antica casa, è, in una veloce inquadratura, suggerita dalle cornici con i ritratti fotografici degli stessi prigionieri del loro incubo. Come se quelle fotografie-ritratto stessero, mute, a suggerire come l’anima si fosse già divisa dai corpi delle persone, mentre dalle cornici quei volti apparivano come traccia indistruttibile di una realtà ancora non accettata. Tutto ritorna a proporsi su un piano di una più modesta, ma non meno incisiva narrazione in uno dei film (Yvonne la nuit, 1949) di Giuseppe Amato, interpretato dal grande Totò, il cui protagonista, richiamato alle armi nella Grande Guerra, rifiutava di farsi fotografare in divisa prima di partire per il fronte, confessando la propria convinzione che farsi fare un ritratto gli avrebbe procurato ogni sciagura e malaugurio. Nel film di Totò il ritratto fotografico sembrava identificarsi con quello della traHorti Hesperidum, V, 2015, II 2
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dizione cimiteriale: perciò facendosi fotografare si correva il rischio di avvicinare il momento della propria morte, come se alla morte si consegnasse, in anticipo o come caparra, la propria anima. Così, per esempio, in una fotografia stereoscopica dei primi del Novecento, scattata in Algeria, in una strada di un villaggio non identificato, si vede una donna locale che è trattenuta dall’abbraccio del suo consorte, mentre lei stessa si copre il volto con entrambe le mani davanti alla macchina fotografica che la riprende (fig. 4), come a volersi proteggere nei confronti dell’azione fotografica. Se tutti questi comportamenti sono indicativi di una mentalità e di una cultura ingenua e ignorante, soltanto ai nostri giorni sembra che le riprese fotografiche dette selfie, realizzate con il fototelefono, siano riuscite a dissolvere l’antica paura che l’agire fotografico rubi l’anima del fotografato186. Ma forse tutta l’antica e istintiva paura si è solo capovolta, risolvendosi in una miriade di ritratti, che, nel loro numero incalcolabile, moltiplicato ancor più nelle interrelazioni dei social work, tentano come di annullare la presenza dell’anima di colui che è fotografato. In realtà il richiamo ricorrente alle norme di protezione della privacy implica pur sempre un’idea di protezione della personalità di chi è fotografato, la si chiami anima o identità, trattenuta nel ritratto-selfie. Insomma sempre, in ogni ritratto, resta qualcosa di chi vi è raffigurato e se pure non si ha più paura di perdere l’anima (sempre che si creda ancora all’esistenza dell’anima), certo rimane il timore che altri possano disporre liberamente, incontrollabilmente, dell’altrui ritratto. In altre parole l’azione fotografica, indissolubilmente legata all’idea della morte, come ricorda Roland Barthes187, rimane sempre signora e padrona del ricordo, del tempo fermato e mai trascorso, seppure irrimediabilmente passato.
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MANODORI SAGREDO 2015, pp. 87-91. BARTHES 1980, pp. 90-91; SCIANNA 2014, p. 20.
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Didascalie Fig. 1a. Ludovico Tuminello, Nudo di donna, 1890 ca., gelatina al bromuto d’argento 256x172. Fig. 1b. Anonimo, Fotomontaggio con il volto di Maria Sophia di Wittelsbach, consorte di Francesco II già re del Regno delle Due Sicilie, 1890 ca., positivo all’albumina, carte de visite. Fig. 2. Rolland Lutz, Ritratto di un Gran Capo Sioux, 1920 ca., gelatina al bromuro d’argento, 86x78. Fig. 3. Fermo immagine dal film La macchina ammazzacattivi di Roberto Rossellini (1948), in cui si vede il protagonista, il fotografo Celestino, prepararsi a fotografare un ritratto fotografico, uccidendo così il personaggio rifotografato, al momento dello scatto. Fig. 4. Anonimo, Bordj-Bou-Arreridj, Femme ouled naïls et marchand de Charbon, 1916, gelatine al bromuro d’argento stereoscopica, 74x74, 163.
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