34 f kulbergtaub

Page 1

Horti Hesperidum Studi di storia del collezionismo e della storiografia artistica Rivista telematica semestrale

LE IMMAGINI VIVE coordinamento scientifico di Carmelo Occhipinti

L’età contemporanea a cura di Carmelo Occhipinti

Roma 2015, fascicolo II, tomo II

UniversItalia Horti Hesperidum, V, 2015, II 2


Il presente volume riproduce il fascicolo II (tomo II) del 2015 della rivista telematica semestrale Horti Hesperidum. Studi di storia del collezionismo e della storiografia artistica.

Direttore responsabile: Carmelo Occhipinti Comitato scientifico: Barbara Agosti, Maria Beltramini, Claudio Castelletti, Francesco Grisolia, Valeria E. Genovese, Ingo Herklotz, Patrick Michel, Marco Mozzo, Simonetta Prosperi Valenti Rodinò, Ilaria Sforza Autorizzazione del tribunale di Roma n. 315/2010 del 14 luglio 2010 Sito internet: www.horti-hesperidum.com/

La rivista è pubblicata sotto il patrocinio di

Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” Dipartimento di Studi letterari, Filosofici e Storia dell’arte Serie monografica: ISSN 2239-4133 Rivista Telematica: ISSN 2239-4141

Prima della pubblicazione gli articoli presentati a Horti Hesperidum sono sottoposti in forma anonima alla valutazione dei membri del comitato scientifico e di referee selezionati in base alla competenza sui temi trattati. Gli autori restano a disposizione degli aventi diritto per le fonti iconografiche non individuate.

PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA © Copyright 2015 - UniversItalia – Roma ISBN 978-88-6507-794-8 A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile è vietata la riproduzione di questo libro o parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, microfilm, registrazioni o altro.

2


INDICE TOMO I BRAM DE KLERCK, Inside and out. Curtains and the privileged beholder in Italian Renaissance painting VALERIA E. GENOVESE, Statue vie: lavori in corso

5 29

DANIELA CARACCIOLO, «Qualche imagine devota da riguardare»: la questione delle immagini nella letteratura sacra del XVI secolo

51

CRISTINA ACUCELLA, Un’ekphrasis contro la morte. Le Rime di Torquato Tasso sul ritratto di Irene di Spilimbergo

89

MARIA DO CARMO R. MENDES, Image, devotion and pararepresentation: approaching baroque painting to neuroscience, or a way to believe

127

NINA NIEDERMEIER, The Artist’s Memory: How to make the Image of the Dead Saint similar to the Living. The vera effigies of Ignatius of Loyola.

157

ALENA ROBIN, A Nazarene in the nude. Questions of representation in devotional images of New Spain

201

PAOLO SANVITO, Arte e architettura «dotata di anima» in Bernini: le reazioni emotive nelle fonti coeve

239

TONINO GRIFFERO, Vive, attive e contagiose. Il potere transitivo delle immagini

277

ABSTRACTS

307

Horti Hesperidum, V, 2015, II 1

3


TOMO II PIETRO CONTE, «Non più uomini di cera, ma vivissimi». Per una fenomenologia dell’iperrealismo

7

ARIANA DE LUCA, Dall’ekphrasis rinascimentale alla moderna scrittura critica: il contributo di Michael Baxandall

27

A. MANODORI SAGREDO, La fotografia ‘ruba’ l’anima: da Daguerre al selfie

77

FILIPPO KULBERG TAUB, «They Live!» Oltre il lato oscuro del reale

91

ALESSIA DE PALMA, L’artista Post-Human nel rapporto tra uomo e macchina

105

ABSTRACTS

115

4


EDITORIALE CARMELO OCCHIPINTI

Vide da lontano un busto grandissimo; che da principio immaginò dovere essere di pietra, e a somiglianza degli ermi colossali veduti da lui, molti anni prima, nell’isola di Pasqua. Ma fattosi più da vicino, trovò che era una forma smisurata di donna seduta in terra, col busto ritto, appoggiato il dosso e il gomito a una montagna; e non finta ma viva; di volto mezzo tra bello e terribile, di occhi e di capelli nerissimi; la quale guardavalo fissamente; e stata così un buono spazio senza parlare, all’ultimo gli disse: «Chi sei?» G. LEOPARDI, Dialogo della natura e di un islandese

Poco prima che si chiudesse l’anno 2013, nel sito internet di «Horti Hesperidum» veniva pubblicato il call for papers sul tema delle «Immagini vive». Nonostante la giovane età della rivista – giravano, ancora, i fascicoli delle sole prime due annate –, sorprendentemente vasta fu, da subito, la risposta degli studiosi di più varia formazione: archeologi, medievisti, modernisti e contemporaneisti. In poche settimane, infatti, il nostro call for papers si trovò a essere rilanciato, attraverso i siti internet di diverse università e istituti di ricerca, in tutto il mondo. Risonanza di gran lunga inferiore, nonostante l’utilizzo degli stessi canali, riuscivano invece a ottenere le analoghe iniziative di lì a poco condotte da «Horti Hesperidum» su argomenti specialisticamente meglio definiti come quello della Descrittione di tutti i Paesi Bassi (1567) di Lodovico Guicciardini (a proposito dei rapporti artistici tra Italia e Paesi nordici nel XVI secolo), e del Microcosmo della pittura (1667) di Horti Hesperidum, V, 2015, I 1


C. OCCHIPINTI

Francesco Scannelli (a proposito del collezionismo estense nel XVIII secolo). Evidentemente era il tema in sé, quello appunto delle «Immagine vive», a destare una così inaspettata risonanza. Tanta risonanza si dovrebbe spiegare – mi sembra – in ragione di una nuova e sempre più diffusa esigenza, molto sentita ormai da parte degli studiosi di storia artistica (sollecitati, più o meno consapevolmente, dagli accadimenti del mondo contemporaneo): l’esigenza, cioè, di indagare certa qualità ‘attiva’ che le immagini avrebbero posseduto nel corso della storia, nelle epoche, nei luoghi e nei contesti sociali e religiosi più diversi prima che esse diventassero, per così dire, gli ‘oggetti’ – in un certo senso ‘passivi’ – della moderna disciplina storico-artistica, prima cioè che le stesse immagini si ‘trasformassero’ in ‘reperti’, diventando, così, non necessariamente qualcosa di ‘morto’ (rispetto a una precedente ‘vita’ perduta), bensì diventando, in ogni caso, qualcosa di ‘diverso’ da ciò che originariamente esse erano state. Già per il solo fatto di essere ‘guardate’ sotto una prospettiva disciplinare come quella della storia dell’arte, che è vincolata a proprie istanze di astrazione e di scientificità (in funzione, per esempio, delle classificazioni o delle periodizzazioni), le immagini non hanno fatto altro che ‘trasformarsi’: ma è vero che, per loro stessa natura, le immagini si trasformano sempre, per effetto della storia e degli uomini che le guardano, e dei luoghi che cambiano; tanto più, oggi, le immagini continuano a trasformarsi per effetto dei nuovi media i quali, sottraendole a qualsivoglia prospettiva disciplinare, ce le avvicinano nella loro più imprevedibile, multiforme, moderna ‘vitalità’. Il fatto è che, immersi come siamo nella civiltà nuova del digitale – la civiltà delle immagini virtuali, de-materializzate, decontestualizzate che a ogni momento vengono spinte fin dentro alla nostra più personale esistenza quotidiana per ricombinarsi imprevedibilmente, dentro di noi, con i nostri stessi ricordi, così da sostanziare profondamente la nostra stessa identità – ci siamo alla fine ridotti a non poter più fare a meno di questo flusso magmatico che si muove sul web e da cui veniamo visceralmente nutriti, e senza il quale non riusciremmo proprio a decidere alcunché, né a pensare, né a scrivere, né a comunicare, né a fare 6


EDITORIALE

ricerca. In questo modo, però, le immagini che per via digitale, incessantemente, entrano per così dire dentro di noi sono immagini del tutto prive della loro materia, del loro stesso corpo, perché internet, avvicinandocele, ce le impoverisce, ce le trasforma, ce le riduce a immateriali parvenze. Ma così diventa addirittura possibile – ed è questo per molti di noi, come lo è per molti dei nostri studenti, un paradosso davvero mostruoso – diventa possibile, dicevo, studiare la storia dell’arte senza quasi che sentiamo più il bisogno di andare a vedere le opere d’arte, quelle vere, senza cioè riconsiderarle concretamente in rapporto, per esempio, all’esperienza nostra del ‘paesaggio’ di cui esse sono state e continuano a essere parte: non può che venirne fuori, ormai, una storia dell’arte fatta di opere ridotte alla parvenza immateriale la quale, distaccatasi dalle opere d’arte ‘vere’, non conserva di esse alcuna idea di fisicità, né possiede la benché minima capacità di coinvolgimento emotivo che derivava anticamente dalla ‘presenza’, dalla ‘corporeità’, dal rapporto col ‘paesaggio’ e col ‘contesto’, nonché dalle tradizioni e dai ricordi che, dentro quel ‘paesaggio’, dentro quel ‘contesto’, rivivevano attraverso le immagini, vivevano nelle immagini. La storia dell’arte ha finito per ridursi, insomma, a una storia di immagini ‘morte’, staccate cioè dai contesti culturali, religiosi, rituali da cui esse provenivano: in fondo, è proprio questo tipo di storia dell’arte, scientificamente distaccata dalla ‘vita’, a rispecchiare bene, nel panorama multimediale e globalizzato che stiamo vivendo, il nostro attuale impoverimento culturale. In considerazione di quanto detto, questa miscellanea sulle «Immagini vive» è stata pensata anzitutto come raccolta di testimonianze sugli orientamenti odierni della disciplina storicoartistica la quale – oggi come non mai afflitta, per di più, dall’arido specialismo accademico che l’ha ridotta alla più mortificante inutilità sociale –, ambisce, vorrebbe o dovrebbe ambire, alla riconquista dei più vasti orizzonti della storia umana, nonché alla ricerca dei legami profondi che uniscono il passato al presente e, dunque, l’uomo alla società e le civiltà, seppure lontane nello spazio o nel tempo, l’una all’altra.

Horti Hesperidum, V, 2015, I 1

7


C. OCCHIPINTI

Ebbene questi due fascicoli della V annata (2015) di «Horti Hesperidum», ciascuno diviso nei due tomi che ora finalmente presentiamo, raccolgono i contributi di quanti, archeologi, medievisti, modernisti e contemporaneisti, abbiano voluto rispondere al nostro call for papers intervenendo su argomenti sì molto diversi, però tutti collegati a un’idea medesima: quella di verificare, nel passato come nel presente, una certa qualità ‘attiva’ che sia storicamente appartenuta, o appartenga, alle immagini. Esattamente come lo enunciavamo nel sito internet di «Horti Hesperidum», alla fine del 2013, era questo il contenuto del nostro call for papers: La rivista semestrale «Horti Hesperidum» intende dedicare il primo fascicolo monografico del 2015 al tema delle “Immagini vive”. Testimonianze letterarie di varie epoche, dall’antichità pagana all’età cristiana medievale e moderna, permettono di indagare il fenomeno antropologico dell’immagine percepita come presenza “viva”, capace di muoversi, parlare, interagire con gli uomini. Saranno prese in particolare considerazione le seguenti prospettive di indagine: 1. Il rapporto tra il fedele e l’immagine devozionale 2. L’immagine elogiata come viva, vera, parlante, nell’ekphrasis letteraria 3. L’iconoclastia, ovvero l’“uccisione” dell’immagine nelle rispettive epoche

Ora, una siffatta formulazione – cui ha partecipato Ilaria Sforza, antichista e grecista – presupponeva, nelle nostre intenzioni, le proposte di metodo già da noi avanzate nell’Editoriale al primo primo numero di «Horti Hesperidum» (2011), dove avevamo cercato di insistere sulla necessità di guardare alle opere d’arte secondo un’ottica diversa da quella più tradizionalmente disciplinare che, in sostanza, si era definita, pure nella molteplicità degli indirizzi metodologici, tra Otto e Novecento. Allora, infatti, ci chiedevamo: Ma sono pienamente condivisibili, oggi, intenzioni di metodo come le seguenti, che invece meritano la più rispettosa storicizzazione? Ri-

8


EDITORIALE

muovere ogni «ingombro leggendario», auspicava Longhi, che si frapponesse tra lo storico e le opere. Considerare queste ultime con il dovuto distacco scientifico. Guardarle «in rapporto con altre opere»: evitare cioè di accostarsi all’opera d’arte – come però sempre accadeva nelle epoche passate – «con reverenza, o con orrore, come magia, come tabù, come opera di Dio o dello stregone, non dell’uomo». Negare, in definitiva, «il mito degli artisti divini, e divinissimi, invece che semplicemente umani». Queste affermazioni, rilette oggi alla luce di nuove esigenze del nostro contemporaneo, finiscono per suonare come la negazione delle storie dell’arte in nome della storia dell’arte. Come la negazione degli uomini in nome dello storico dell’arte. Come la negazione dei modi di vedere in nome della connoisseurship. Come la negazione, in definitiva, della stessa ‘storia’ dell’arte. Infatti la storia ha davvero conosciuto miracoli e prodigi, maghi e stregoni, opere orribilmente belle, sovrumane, inspiegabili, e artisti terribili e divini. Lo storico di oggi ha il dovere di rispettare e comprendere ogni «ingombro leggendario», senza rimuoverlo; dovrebbe avere cioè il dovere di sorprendersi di fronte alle ragioni per cui, anticamente, a destar «meraviglia», «paura», «terrore» erano i monumenti artistici del più lontano passato come anche le opere migliori degli artisti di ogni presente. Quell’auspicato e antiletterario distacco scientifico ha finito in certi casi per rendere, a lungo andare, la disciplina della storia dell’arte, guardando soprattutto a come essa si è venuta trasformando nel panorama universitario degli ultimi decenni, una disciplina asfittica, non umanistica perché programmaticamente tecnica, di uno specialismo staccato dalla cultura, dalla società, dal costume, dalla politica, dalla religione».

In effetti, dalla cultura figurativa contemporanea provengono segnali ineludibili – gli odierni storici dell’arte non possono non tenerne conto – che ci inducono a muoverci in ben altra direzione rispetto alle indicazioni enunciate da Roberto Longhi nelle sue ormai lontane Proposte per una critica d’arte (1950) alle quali ci riferivamo nell’appena citato Editoriale di «Horti Hesperidum» del 2011. Pensiamo, per esempio, a quanto si verificava in seno alla 55a Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia (2013), quando artisti e critici dovettero condividere il bisogno di ritrovare la fede – quella fede che, anticamente, era così sconfinata – nel ‘potere’ delle immagini, e di ritrovare, tentando di recuperarla dal nostro passato, «l’idea che l’immagine Horti Hesperidum, V, 2015, I 1

9


C. OCCHIPINTI

sia un’entità viva, pulsante, dotata di poteri magici e capace di influenzare, trasformare, persino guarire l’individuo e l’intero universo»: d’altronde una tale idea non la si poteva affatto ritenere estranea alla tradizione culturale da cui noi stessi proveniamo nonostante che la modernità ‘illuministica’ abbia tentato di cancellarla, respingendola come vecchia, come appartenente a una «concezione datata, offuscata da superstizioni arcaiche»1. Così, persino sulle pagine del catalogo della stessa Biennale del ’13 (come pure su quelle dell’11, dove era fatta oggetto di rimpianto addirittura la potenza mistica di cui in età medievale era capace la ‘luce’, contro il buio introdotto da una deprecata età dei ‘lumi’), l’urgenza di un rinnovato sguardo sul passato e sulla storia era già di per sé un fatto sorprendente e audace: tanto più se, per contrasto, ripensiamo all’altrettanto audace rifiuto del passato che lungo il XX secolo fu provocatoriamente mosso, in nome della modernità, da parte delle avanguardie e delle neoavanguardie. Del resto, «la parola ‘immagine’ contiene nel suo DNA, nella sua etimologia, una prossimità profonda con il corpo e con la morte: in latino l’imago era la maschera di cera che i romani creavano come calco per preservare il volto dei defunti»2: ma visto che gli uomini del nostro tempo se ne sono dimenticati, serviva ricordare ai visitatori della Esposizione Internazionale che il misterio primigenio della scultura funeraria era, ed è, quello «di opporre alla morte, all’orizzontalità informe, la vericalità e la rigidità della pietra»3. Di fronte a questa nuova disponibilità dei ‘contemporaneisti’ nei confronti della ‘storia’, gli storici dovrebbero, da parte loro, tornare a cercare nel contemporaneo le motivazioni della loro stessa ricerca. Sottratte alle rispettive dimensioni rituali, magiche, funerarie, devozionali e religiose – quelle dimensioni che la civiltà moderna, multimediale e globalizzata ha tentato di annul1 La Biennale di Venezia. 55a Esposizione d’arte. Il palazzo enciclopedico, a cura di M. Gioni, Venezia, Marsilio, 2013, p. 25. 2 Ibidem, p. 25. 3 Ibidem, p. 26.

10


EDITORIALE

lare definitivamente – le immagini sono diventate vuoti simulacri, come paiono esserlo quando le si vedono esposte, scientificamente classificate, dietro le vetrine o dentro le sale dei musei al cui interno esse hanno finito per arricchirsi di significati nuovi, certo, ma diversi da quelli che molte di esse possedevano al tempo in cui – citiamo sempre dal catalogo dell’esposizione del ’13 – «magia, miti, tradizioni e credenze religiose contavano quanto l’osservazione diretta della realtà»4.

4

Ibidem, p 28.

Horti Hesperidum, V, 2015, I 1

11



«THEY LIVE!»

OLTRE IL LATO OSCURO DEL REALE FILIPPO KULBERG TAUB

Tre film sono presi in esame in questo articolo: Suspense (The Innocents, Jack Clayton, 1961) con Deborah Kerr e Michael Redgrave, tratto dal romanzo di Henry James, Il giro di vite (The Turn of the Screw, 1898); Il processo (Le procès, Orson Welles, 1962) con Anthony Perkins, tratto dall’omonimo capolavoro dello scrittore cecoslovacco Franz Kafka (nato a Praga sotto il dominio dell’Impero austro-ungarico) ed Essi vivono (They Live, John Carpenter, 1988) tratto dal racconto Alle otto del mattino (Eight O’Clock in the Morning, 1963) di Ray Nelson. Alla base di questi tre film c’è un’idea comune: la paura e l’avversione verso le ‘immagini’: si tratta di immagini che dietro la loro apparenza, al di là della loro superficie, nascondono una loro ‘vita’ inquietante e minacciosa la quale finisce inevitabilmente per rivelarsi allo spettatore. Liberandosi in un certo senso dalla forma di cui sono prigioniere, cambiando aspetto all’interno dello schermo cinematografico, moltiplicandosi, ingiHorti Hesperidum, V, 2015, II 2


F. KULBERG TAUB

gantendosi, confondendosi, tante immagini mettono lo spettatore in un eterno dubbio iperbolico. Quasi che le immagini delle cose, degli oggetti, degli individui che entrano nella finzione scenica non costituissero altro che la ‘facciata’ dietro la quale si cela il lato oscuro del reale. 1. Suspense non è un film come gli altri. Non è un dramma, né un horror, né un thriller. Può essere considerato un ibrido, una miscela di generi cinematografici che l’inglese Jack Clayton riuscì ad allacciare gli uni con gli altri, senza avere mai cadute di stile. Costretto per questioni di produzione ad usare la tecnica del Cinemascope, egli decise di girare l’intero film in bianco e nero, supportato anche dalla bravura tecnica del direttore della fotografia, Freddie Francis, riuscendo così a realizzare il suo capolavoro. Il film racconta di una giovane istitutrice, assunta da un famoso uomo d’affari di Londra per badare a due orfani (Flora e Miles) dei quali il ricco signore (interpretato nel film dall’attore Michael Redgrave [1908-1985], capostipite della celebre famiglia di attrici) ne è il tutore legale. Lasciati vivere nell’apparentemente tranquilla magione di Bly, i bambini trascorrono le loro giornate suonando il pianoforte o andando a cavallo, sotto l’attento sguardo dall’ormai anziana balia Mrs. Grose. L’arrivo della nuova governante, la giovane e avvenente Miss Giddens (Deborah Kerr) porta brio ed energia positiva ai bambini entusiasti della nuova compagnia. La felicità iniziale si tramuta ben presto in orrore, quando Miss Giddens comincia a notare nei comportamenti dei bambini qualcosa di anomalo, di finto e per certi versi addirittura morboso. Scopre che prima di lei, l’altra governante, Miss Jessel è morta suicida dopo aver scoperto il cadavere dello stalliere, Peter Quint (Peter Wyngarde) sul pavimento della casa. La donna finisce per scoprire una realtà ancora più inquietante: i bambini sono ‘invasati’, addirittura posseduti dalle anime dei due defunti che ‘vivono’ nel loro stesso corpo. La linea di demarcazione tra realtà, apparenza e finzione è molto sottile in tutto il film che, grazie anche all’aiuto di Truman

92


«THEY LIVE!»

Capote per i dialoghi, cerca di restare il più possibile fedele all’opera originale di Henry James. Nella biografia dedicatale nel 1977, lo storico Eric Braun dette la parola all’attrice Deborah Kerr, a proposito del ruolo da lei stessa giocato in Suspense: È stato uno dei più difficili; ero presente in ogni singola scena. Mi ricordo di essermi sentita a pezzi alla fine delle riprese dopo aver lavorato ogni giorno per sedici settimane, ma è stato così affascinante lavorare con Clayton, soprattutto guardarlo lavorare con gli altri. La sottigliezza con cui lui e la sua squadra ha stabilito l’atmosfera dei due mondi – il quotidiano e il mondo dello spirito – era così pieno di decadenza, nel modo più delicato, che è sfuggito completamente alla maggior parte dei critici. Oggi, una nuova generazione di giovani appassionati di film si sono resi conto di quanto straordinari siano stati gli effetti da lui congeniati. Un esempio è il modo in cui i bordi dello schermo erano appena un po’ fuori fuoco, come se fossero visti attraverso un vetro. Ora Suspense è acclamato come una grande opera d’arte; all’epoca essi non lo apprezzarono molto perché non sapevano come interpretare qualcosa di così genuinamente inquietante – così intrecciato con la realtà che poteva sembrare vero – e questa è una cosa che la gente non desidera. Oggi le persone amano essere spaventate: si dilettano guardando L’inferno di cristallo (The Towering Inferno, John Guillermin, 1974) o Terremoto (Earthquake, Mark Robson, 1974) perché sanno a priori che non è reale, ma anche così ancora esitano quando si devono affrontare le paure e gli orrori che avvengono troppo vicino alla propria casa1.

La sua interpretazione estremamente complessa della governante, Miss Giddens, che tenta di far fronte all’incarico di badare ai due bambini che sembrano essere sotto l’incantesimo della coppia di amanti morti, rappresenta per molti la realizzazione suprema della carriera cinematografica di Deborah Kerr. L’attrice si è confrontata con precisione nitidissima con il suo personaggio per suggerire la rettitudine morale di una governan-

1

BRAUN 1977, p. 184.

Horti Hesperidum, V, 2015, II 2

93


F. KULBERG TAUB

te di età vittoriana, ben educata – o forse per «mascherare fantasie febbrili legate ad una sessualità repressa»2. Miss Giddens rimane un enigma e, soprattutto, una delle caratterizzazioni più sottili dell’attrice. La sua controparte, la grassa Mrs. Grose (interpretata da Megs Jenkins), solida come una roccia nella sua limitatezza, proverà in tutti i modi ad aiutare la giovane governante. Se, guardando il film, lo spettatore provasse a mettersi nei panni di Miss Giddens, rimarrebbe in bilico tra ciò che è reale e ciò che non lo è: questo è proprio lo scopo voluto e desiderato sia dal regista sia dall’attrice, lasciare lo spettatore nel dubbio. A tal proposito la Kerr disse: Ho recitato come se il mio personaggio fosse perfettamente sano di mente. Dal mio punto di vista, e dopo aver studiato attentamente la storia originale di James, mi resi conto di come la governante fosse completamente sana, ma dal momento che nel mio caso (secondo la sceneggiatura) la donna era più giovane e fisicamente attraente – era possibile che lei fosse profondamente frustrata, e avesse creato un’altra dimensione mentale, irreale, nella quale sfogare tutte le sue paure3.

La straordinaria riuscita del personaggio interpretato dalla Kerr in Suspense si spiega di certo anche in considerazione del rapporto molto stretto, quasi confidenziale, stabilitosi tra l’attrice e il suo regista. Tutto il film è pervaso da un’aura di angoscia e di morte e la stessa magione diviene parte di un canovaccio narrativo, una cornice nella quale persino gli oggetti inanimati, le statue lugubri che sono disseminate nel grande giardino o gli animali (delle comunissime pavoncelle) assumono un aspetto inquietante. In un complesso gioco di luci e ombre, all’interno della casa si intravedono nei lunghi corridoi i fantasmi della precedente governante, morta dopo essersi gettata nel lago, e dello stalliere. I due ridono e velatamente fornicano attraverso i corpi 2 3

BRAUN 1977, p. 186. BRAUN 1977, p. 187.

94


«THEY LIVE!»

dei bambini inconsapevoli (forse?) di ciò che sta accadendo nelle loro vite. In un eterno giro di vite, Suspense rappresentò una vera sfida per il regista e per la censura dell’epoca: si pensi alla scena del bacio sulla bocca tra il piccolo Miles e Miss Giddens nell’ora della buonanotte. Sin da subito lo spettatore si rende conto che qualcosa di ‘strano’, di morbosamente intricato è legato alle personalità dei bambini. La celebre frase: «I bambini vedono…» che echeggia tra le mura di Bly, sentita più volte dalla governante in preda forse ad allucinazioni o forse condizionata da reali presenze sovrannaturali, rappresenta uno dei tanti escamotage narrativi e visivi che utilizza Clayton per distruggere le immagini, per decostruirle a suo piacimento, creando sempre più tensione nell’occhio di chi guarda. La musica spettrale di O Willow Waly (scritta da Paul Dehn e musicata da Georges Auric) che la bambina canticchia e suona diverse volte al pianoforte e che fa da sfondo al clima grigiastro e spettrale della casa, è il tema costante che risuona dal vecchio carillon ritrovato in soffitta e che la bimba porta sempre con sé. Lo sguardo tagliente e realmente preoccupato di Miss Giddens quando affronta Flora (Pamela Franklin) nella scena del lago è considerata una delle scene climax del film. In questa scena la Kerr cerca di mettere di fronte alla realtà la piccola bambina allo scopo di ‘svegliarla’ dall’incubo nel quale è entrata e per scacciare il demone della precedente governante, Miss Jessel, che ormai da tempo tormenta l’anima di Flora. Miss Giddens: «E dov’è tesoro mio? Dov’è Miss Jessel? Dov’è lei Flora? Dillo dov’è! Lo sai che puoi vederla, guarda Flora, è là, tu la vedi come me!» Flora: «Non la vedo! Non la vedo… Io non ho visto niente! Non ho mai visto niente! Lei è cattiva! La odio! La odio! La odio!» e riferendosi a Mrs. Grose che era appena sopraggiunta: «Mi porti via da lei! Non la guardi! Non la guardi! Mi fa impaurire!»

La bambina si sveglierà da quell’incubo e da quel momento non sarà più la stessa. L’immagine candida e puerile della fanciulla lascia definitivamente il posto ad una ‘menade impazzita’. Il suo risveglio è la disincantata fine di una favola nera. Horti Hesperidum, V, 2015, II 2

95


F. KULBERG TAUB

Il secondo momento topico del film è quello in cui avviene lo scontro finale tra la Kerr e il piccolo Miles, un uomo intrappolato nel corpo di un bambino che parla e si atteggia come un adulto in carne e ossa. La governante desidera salvare almeno la sua anima ricacciando lo spirito dello stalliere all’inferno. Decide di restare sola con Miles all’interno della grande dimora e cerca di affrontarlo come aveva fatto in precedenza con Flora. Dopo un alterco verbale molto aspro tra i due, il bambino fugge in giardino dove si svolge l’epilogo del film: circondato dalle statue agghiaccianti che lo attorcigliano come le spire di un serpente, Clayton intesse il dialogo conclusivo allo scopo di lasciare lo spettatore senza fiato. Miss Giddens abbraccia il bambino e come in un gioco di specchi, lo mette di fronte alla cruda realtà anche a costo di perderlo per sempre: Miss Giddens: «Caro Miles, dillo adesso, adesso che sei qui stretto a me, dillo, dimmi il suo nome e tutto sarà finito!» Miles: «Di chi?» Miss Giddens: «Dell’uomo che ti ha guastato. Dell’uomo con cui t’incontravi che non hai mai cessato d’incontrarti!» Miles: «Ti sbagli! Tu sei pazza! Tu sei Pazza!» Miss Giddens: «Il suo nome Miles! Dimmi il suo nome! Tu devi dirmi il suo nome!» Miles: «È morto!» Miss Giddens: «Guarda! Guarda! È qui! Per l’ultima volta è qui! Tu devi dirmi il suo nome!» Miles: «Peter Quint! Dove? Dove sei demonio?!»

In questo dialogo decisivo la Kerr mette tutta se stessa e facendo affrontare la realtà al bambino lo libera dallo spirito demoniaco che lo aveva invasato. Il cuore del piccolo Miles cessa di battere nel momento stesso in cui, per la prima volta, riesce a ‘vedere’ l’immagine del suo persecutore. Tutto tace e torna tranquillo nella dimora dove adesso resta solo la governante con il corpo esanime del bambino tra le braccia. 2. Passiamo dall’Inghilterra alla Francia. Siamo nel 1961. L’acclamato e controverso regista americano Orson Welles 96


«THEY LIVE!»

(1915-1985) – premio Oscar nel 1942 per la migliore sceneggiatura originale per film Quarto potere (Citizen Kane, 1941) da lui non solo scritto, ma anche diretto, prodotto e interpretato – stufo delle imposizioni dei produttori hollywoodiani, decise di recarsi in Europa e di trovare dei finanziatori per il suo nuovo progetto: Il processo (Le procès, Orson Welles, 1962). Il film, seguendo in parte il libro di Kafka, racconta le vicissitudini giudiziarie di un uomo, l’impiegato Josef K. che una mattina viene svegliato nella sua camera della pensione dove alloggia dalla polizia ed è arrestato senza un motivo apparente. Il giovane (interpretato magistralmente dal nevrotico Anthony Perkins) si ritrova così in un labirinto senza via d’uscita, fatto di immagini di donne (Romy Schneider, Jeanne Moreau, Elsa Martinelli) che lo hanno amato e che vengono messe alle mercé di ricchi signori. Gli incubi ricorrenti trascinano il protagonista sembrano prender forma come quadri di Dalí. Welles non si preoccupò di essere troppo fedele all’autore del romanzo, infatti Josef K. è molto più ribelle e sarcastico nel film di quanto non lo sia nel libro e insegue un sogno di cinema visionario, grandioso ma compiaciuto e chiuso su se stesso. Di una cupa bellezza piranesiana, il film sconta personaggi senza spessore [...]4.

La sequenza d’apertura del film, fu creata appositamente dal regista russo Alexandre Alexeieff (1901-1982), utilizzando una tecnica da lui inventata e chiamata ‘schermo di spilli’5. Tale sequenza è tratta dal racconto di Kafka del 1914, pubblicato nel 1918 nella raccolta Un medico di campagna. Il dialogo, conosciuto con il titolo Davanti alla legge, viene riportato fedelmente nel film per far capire allo spettatore la follia senza fine e le nevrosi cui il protagonista andrà incontro:

MEREGHETTI 2005. Questa tecnica permetteva il movimento delle ombre grazie allo spostamento di migliaia di spilli posizionati in uno schermo. 4 5

Horti Hesperidum, V, 2015, II 2

97


F. KULBERG TAUB

Davanti alla porta della legge c’è un guardiano. Un uomo di campagna si presenta a lui e lo prega di farlo entrare ma il guardiano non può lasciarlo passare. Ha qualche speranza di poter entrare più tardi? Può darsi, risponde il guardiano. L’uomo cerca di spiare attraverso la porta aperta. Non gli è stato forse insegnato che la legge è accessibile a tutti? Non tentare di entrare senza il mio permesso, dice il guardiano. Io sono molto potente eppure non sono che l’ultimo dei guardiani. Di sala in sala, di porta in porta, ogni guardiano è più potente del precedente. Con il consenso del guardiano, l’uomo si siede accanto alla porta e li aspetta. Per giorni e anni dà fondo a tutto quello che ha portato con se sperando di corrompere il guardiano. Questi però non cessa di ripetergli: «Accetto ciò che mi dai solo perché tu non creda di aver trascurato qualche possibilità». Per anni l’uomo non fa che studiare il guardiano, impara a conoscere persino le pulci allegate nel suo bavero di pelliccia. E tornato fanciullo a causa della vecchiaia prega persino le pulci di aiutarlo a convincere il guardiano a lasciarlo passare. La sua vista si è indebolita ma egli distingue sempre nel buio il chiarore soprannaturale che emana dalla porta della legge. E ora, prima di morire, concentra tutte le esperienze fatte in una sola domanda. Fa cenno al guardiano di chinarsi. Il guardiano brontola: «Sei insaziabile! Che cosa vuoi sapere?» Il vecchio risponde: «Ogni uomo aspira a conoscere la legge. Come mai allora, in tutti questi anni nessuno all’infuori di me ha mai chiesto di entrare?» Il suo udito è debole perciò il guardiano deve gridarti all’orecchio: «Tu solo avresti potuto essere ammesso! A nessun altro è consentito varcare questa porta! Questa porta era destinata solo a te… e adesso te la chiuderò!»6

Quanto alle immagini, il film ne è molto ricco. Il regista ha cercato di decostruirle, a volte appesantendo il protagonista, il quale è quasi ‘schiacciato’ all’interno di un mosaico narrativo il cui incedere è determinato da un uso particolare del montaggio che segue di pari passo l’affannata ricerca di verità dell’uomo. Le visioni, sottolineate soprattutto dal bianco e nero vengono distorte dall’uso del grandangolo7 che evidenzia il forte contrasto interiore del personaggio, in un clima claustrofobico e inquietante KAFKA 1970. Il regista utilizzò questa tecnica anche per L’orgoglio degli Amberson (The Magnificent Ambersons, 1942). 6 7

98


«THEY LIVE!»

nel quale addirittura i colleghi d’ufficio sembrano dei robot usciti da un’altra dimensione. Gli ambienti diventano determinanti e scenograficamente imponenti allo scopo di far sentire molto piccolo e colpevole il modesto Josef K. che viene decifrato e ‘indossato’ da Anthony Perkins con ironia e (forse?) rabbia, assenti nel romanzo originale. Il mondo descritto da Welles è «marcio, allucinato, privo di ragione e, ancor peggio, corrotto da una giustizia che dovrebbe invece garantire i diritti del singolo cittadino»8. La città stessa entro la quale si svolge l’azione è ai limiti dell’assurdo: cupa, gelida, priva di vita. I personaggi che ruotano intorno a Josef K. sono privi di volto, quasi dei manichini senza espressione come i giudici della corte suprema che lo stanno analizzando e giudicando; le donne invece, unica vera speranza per l’uomo, sono schiacciate dal sistema e messe alla mercé dei più ricchi. Stremato e ‘disgustato’ dal doversi difendere da un’accusa senza logica, in un mondo ai limiti dell’assurdo, il protagonista si convince che l’unico modo per fuggire da quella situazione sia svegliarsi dal sogno: come? Accettando (non senza riserbo) la condanna a morte. Nella scena finale del film, poco prima dell’esecuzione, Josef K. affronta il suo avvocato (interpretato dallo stesso Welles) provando per l’ultima volta a difendersi e a voler dimostrare la sua innocenza: Avvocato Hastler: «Compiendo la follia di ribellarti al tribunale speri per caso di darvi intendere di essere pazzo? E indubbiamente hai trovato il modo di convalidare questa tesi sostenendo di essere vittima di non si sa quale complotto!» Josef K: «Secondo lei questo è un segno di pazzia?» Avvocato Hastler: «Solo di mania di persecuzione» Josef K.: «Non pretendo di essere un martire!» Avvocato Hastler: «Nemmeno una vittima della società?» Josef K.: «Io faccio parte della società!» Avvocato Hastler: «Pensi di poter convincere il tribunale che non sei responsabile perché infermo di mente?» Josef K.: «Penso sia il tribunale a volermi convincere di questo. Sì! Ecco qual è la vera congiura! Persuadere tutti noi che il mondo inter8

VALENTINETTI 1995.

Horti Hesperidum, V, 2015, II 2

99


F. KULBERG TAUB

no è pazzo, informe! Privo di senso, assurdo! Ecco lo sporco gioco! Perciò ho perso la mia causa. E con questo? Lo sa? Anche lei ha perduto. Tutto è perduto. Tutto! E che significa! Crede basti una sentenza a condannare l’universo intero alla follia?»

3. Nel 1988 il regista americano John Carpenter, famoso in tutto il mondo per film quali: Halloween – la notte delle streghe (Halloween, 1978) con Jamie Lee Curtis, 1997: fuga da New York (Escape from New York, 1981) o La cosa (The Thing, 1982) entrambi con il suo attore-feticcio Kurt Russell, dopo essere rimasto molto colpito dalla lettura del racconto breve Alle otto del mattino (Eight O’Clock in the Morning) dello scrittore di fantascienza Ray Nelson decise di trasporlo sul grande schermo. Essi vivono (They Live) contiene una serie di connotazioni e substrati che vanno al di là del racconto filmico: un uomo come tanti, senza lavoro e senza famiglia si ritrova a Los Angeles in cerca di una posizione. Per una serie di circostanze l’uomo si ritroverà in una chiesa dove entrerà in possesso di una scatola al cui interno vi sono degli strani occhiali da sole. Una volta indossati gli occhiali, la sua percezione della realtà cambierà radicalmente, la sua vita ‘a colori’ si trasforma in una vita in bianco e nero. Dopo un breve momento di euforia, il protagonista John Nada (interpretato dall’ex lottatore di wrestling Roddy Piper) si rende conto che ciò che sta osservando non è una realtà distorta dalle lenti, bensì è qualcosa di peggiore: è in grado di vedere la vera essenza delle persone e degli oggetti. Scegliendo come protagonista un ex wrestler, Carpenter gioca su un ulteriore livello di finzione. Il wrestling è qualcosa in cui tutti fingono di credere, in realtà non è reale, si tratta di una lottaspettacolo, dove nessuno si fa veramente male. Di conseguenza il wrestling non è altro che l’essenza del cinema. Ritornando alla storia del film, John deve affrontare altre difficoltà; infatti quasi tutte le persone attorno a lui si rivelano dei ‘mostri’, degli alieni che sembrano avere fattezze diverse e fingono di stare sulla terra come tutti gli esseri umani, facendo dei lavori comuni e vivendo una vita ‘normale’. Da quel momento la vita del protagonista si modificherà per sempre. L’uomo, pensando ad un complotto, inizia ad uccidere tutti ‘gli esseri’ che intralciano il 100


«THEY LIVE!»

suo cammino, cercando un modo per rivelare al mondo che ciò che sta vivendo non è la realtà: Los Angeles è realmente invasa e dominata da forze superiori. Disperato, riesce a mettersi in contatto con un gruppo di ribelli i quali gli fanno dono di un paio di lenti a contatto molto più utili degli occhiali. L’uomo scoprirà così il vero intento degli alieni: colonizzare completamente il pianeta e sfruttarlo come risorsa naturale. I restanti esseri umani sono all’oscuro di ciò che sta succedendo poiché condizionati mentalmente da un canale televisivo, il mezzo con il quale gli alieni si fingono persone agli occhi del genere umano. Durante un inseguimento l’uomo viene tradito da quella che crede essere una sua alleata ma che in realtà è a favore della colonizzazione aliena; dopo essere riuscito ad eliminare la donna, si rende conto che l’unico modo per ‘salvare’ il genere umano è quello di metterlo di fronte alla realtà. John distrugge l’antenna di ricezione del Canale 54, cancellando in questo modo l’illusione di normalità. Poco prima di essere ucciso, il protagonista riesce nel suo intento svelando così il vero volto dell’America e della sua città. La mancanza di colore porta con se una presa di coscienza della banalità del consumismo americano, sciorinata attraverso messaggi subliminali rivelati. Tutto può cambiare da un momento all’altro così come succede all’ignaro ma tenace protagonista, il quale si ritrova coinvolto suo malgrado, in un vortice di violenza, omicidi e fughe vertiginose per tutta Los Angeles. Lo spettatore si troverà davanti ad alcune scene esilaranti (quella del supermarket nel quale Nada viene scoperto da una signora) ad altre di forte tensione (quando si confronta con la sua partner che crede sua amica sul tetto del palazzo). Il bianco e nero diviene il simbolo del reale, che mette in luce tutte le brutture e le angosce più recondite dei personaggi descritti. Carpenter ha dimostrato di essere fedele alla tradizione, così come Clayton e Welles. I tre registi sono stati capaci di mescolare i vari generi. Si può parlare di entità sovrannaturali (Suspense) o di labirintici inseguimenti nella mente umana (Il processo) o di paradossali e mostruosi alieni che si fingono umani (Essi vivono), ma alla base di tutto vi sono e resteranno sempre le immagini

Horti Hesperidum, V, 2015, II 2

101


F. KULBERG TAUB

della celluloide. E non importa se queste assumono una valenza diversa in ognuno dei tre film presi in analisi. Se in Suspense, Clayton ha tentato di esaltare la figura della sua protagonistaeroina giocando sui suoi primi piani inquietanti o sulla magione spettrale di Bly e di conseguenza sulla duplice presenza dei bambini-spiriti; nel controverso film di Welles, invece, le immagini si confondono e letteralmente appesantiscono Perkins che vive sempre in uno stato di semi-coscienza, come se tutto ciò che vede intorno a sé sia solo frutto di un sogno o meglio, di un incubo. Nel film di Carpenter le immagini diventano l’illusione della realtà e solo andando oltre il loro lato oscuro, cercando di scavare a fondo, la vera natura di quest’ultime emerge mettendo in mostra gli esseri alieni che cercano di sostituirsi a noi. Nonostante siano tre film appartenenti a contesti storico-sociali diversi, conservano tutti un unico comun denominatore: l’aggregazione e disgregazione delle immagini. Tali immagini hanno lo scopo di testimoniare, distruggere e allo stesso tempo contemplare le nevrosi e le paure che da sempre ci condizionano e delle quali non saremo mai sazi.

102


«THEY LIVE!»

Bibliografia ANGER 1987 = K. Anger, Hollywood Babilonia, Milano 1987. ANGER 2000 = K. ANGER, Hollywood Babilonia 2, Milano 2000. BRAUN 1977 = E. BRAUN, Deborah Kerr, Londra 1977. CAPUA 2003 = M. CAPUA, Anthony Perkins, prigioniero della paura, Torino 2003. COSTA 1985 = A. COSTA, Saper vedere il cinema, Milano 1985. FARINOTTI 2002 = P. FARINOTTI, Dizionario di tutti i film, Milano 2002. JAMES 2005 = H. JAMES, The Turn of the Screw, Il giro di vite, Milano 2005. KAFKA 1970 = F. KAFKA, Davanti alla legge in Racconti, Milano 1970. KAFKA 2005 = F. KAFKA, Der Prozess, Il processo, Milano 2005. LIBERTI 2003 = F. LIBERTI, John Carpenter, Milano 2003. MEREGHETTI 2005 = P. MEREGHETTI, Il Mereghetti. Dizionario dei Film, Milano 2005. NELSON 1963 = R. NELSON, Eight O’Clock in the Morning, New York 1963. RONDOLINO 1996 = G. RONDOLINO, Storia del cinema, Torino 1996. TOLFA 2004 = B. TOLFA, Il giro di vite e Suspense, Roma 2004. VALENTINETTI 1995 = C. VALENTINETTI, Orson Welles, Milano 1995. ZELATI 2008 = P. ZELATI, Il signore del male, Roma 2008.

Horti Hesperidum, V, 2015, II 2

103



Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.