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HYENA

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7 HYENA

Sette note per suonare, per danzare


Fantasmi sfuggenti dentro vibrazioni di cristallo Sandro Parmiggiani Si firma, l’autore dei lavori presentati in questa mostra, con uno pseudonimo, Hyena, legato a un soprannome affibbiatogli nell’infanzia, che immediatamente suscita in noi un’aspettativa di opere intrise di una efferata crudeltà, per spontanea associazione con l’animale sinistro e sgradevole che ne porta il nome. Nulla di più distante, in verità, dall’autore, uomo di rara mitezza e ritrosia, e dai caratteri dell’opera, che pure si trovano a condividere quel termine. È opportuno, innanzitutto, osservare che le opere di Hyena sono l’esito di una ibridazione tra fotografia e pittura, entrambe tenute su toni molto bassi, come se, di tutte le possibilità del linguaggio fotografico e di quello pittorico, all’autore interessasse ciò che può essere alluso e detto con un’immagine di fatto monocroma, sia essa presentata come positivo o come negativo del reale – arrivando, talvolta, a evocare apparizioni di fantasmi e esiti quali le lastre dei raggi X –, e con tracce, e scritte, che mai tuttavia s’ammantano dello sfarzo che la pittura tante volte dispiega. Hyena è attivo da anni come fotografo – in particolare, ha seguito e documentato i tour di alcuni gruppi musicali –; al 2002-2003 risale la prima esperienza di fuoriuscita dalla fotografia tradizionale, con una serie di immagini di zingari della Camargue, sulle quali lui era intervenuto con scritture e colature, e con un successivo lavoro sui clochard, specchio di un sottile disagio, del desiderio di andare oltre, come se nel frattempo il vestito della fotografia si fosse fatto per lui troppo stretto. Hyena ha così sviluppato una tecnica in cui pare essere mosso, in successione, da sentimenti di crudeltà e di compassione: all’inizio lui infierisce sulla fotografia in bianco e nero, che ha scattato e sviluppato su una carta opaca, impietosamente lacerata, stracciata, accartocciata, calpestata, e in seguito ulteriormente ferita con spugne abrasive, per poi ricomporre i brandelli che ne risultano su una superficie piana, sulla tela, come si fa quando si rimettono assieme i frammenti di un reperto archeologico riemerso dall’oblio del tempo, estratto dal ventre della terra. L’autore, in questo procedere a ritroso nel cammino naturale dell’evoluzione esistenziale delle cose – lui prima volontariamente distrugge, e poi ricompone –, utilizza gli antichi procedimenti e materiali del restauro: eccolo spalmare, sui frammenti dell’immagine originaria, resine naturali, gomma-lacca e colla di coniglio per fissarla e ridarle la perduta unità. L’immagine, tuttavia, continua a recare le tracce delle ferite ad essa inferte, sia nei segni e nelle biffures che ne solcano la superficie – evocando in noi le intermittenti righe che connotano i fotogrammi di una vecchia pellicola che stia per spezzarsi –, che nelle segmentazioni rettangolari in cui a suo tempo è stata piegata e suddivisa la fotografia originaria – l’autore non vuole occultare, anzi tende ad accentuare, nel processo di ricostruzione, le divisioni della carta, che, negli squarci bianchi, nelle cadute di colore dentro il corpo dell’immagine, richiamano alla memoria le piegature del telo della Sindone. Hyena interviene poi con la pittura, utilizzando una vernice ad acqua bianca con la quale traccia macchie, spruzzi, segni, colature – bave di colore errante, scie di comete, lacerti di galassie… – e con la scrittura, brani di un testo poetico di un qualche autore importante, che vanno di solito a collocarsi all’interno di un confine geometrico prestabilito, in uno spazio non invaso dall’immagine fotografica, e che dunque riequilibrano il rapporto tra pieni e vuoti – l’autore definisce questi accostamenti di elementi propri della pittura e della scrittura all’immagine fotografica come un “rumore”, che credo lui intenda come “disturbo” che emerge dal fondo dello spazio quando si ascoltano dei suoni, delle parole, che giungono a noi “sporcate” da misteriose interferenze. L’esito finale è quello proprio di un’opera ambivalente: immagine intrisa di modernità, che evoca tanti recenti ricordi veicolati dai mezzi di comunicazione contemporanea, e antico reperto, che una mano pietosa ha ricomposto, provvedendo a inscrivervi accanto un commento, come si faceva per fissare le prime impressioni suscitate da ciò che era appena affiorato: parole tracciate con una elegante grafia che, più che essere destinate a essere lette, decifrate e interpretate, diventano un puro fatto pittorico. Hyena ricorre alla fotografia non solo perché essa è stata per anni il suo mezzo espressivo di elezione, ma soprattutto in ragione di ciò che essa ha introdotto nella cultura dell’immagine, e che ha segnato nel tempo la stessa evoluzione della pittura. Se pensiamo all’essenza dei lavori di Hyena, soprattutto di quelli più recenti, ci rendiamo conto che in essi è fondamentale il taglio, e cioè la porzione del reale che ci viene mostrata sulla superficie dell’opera, con una parte non visibile che noi invece subito immaginiamo proseguire, distendersi al di là del confine della tela. Ebbene, le inquadrature del nostro sono proprio quelle tipiche del patrimonio accumulato dalle esperienze della fotografia, con, in alcuni casi, l’artificio, operato in fase di sviluppo, di fare sì che l’immagine, incompleta, parziale, vada a collocarsi al margine dell’inquadratura, in modo da rendere fisicamente visibile il movimento di una sua fuoriuscita, o entrata, nel campo visivo, sulla scena – si pensi all’analoga operazione che Vasco Ascolini compiva negli anni Settanta e Ottanta con la serie straordinaria di fotografie, scattate nel Teatro Municipale di Reggio, durante gli spettacoli dei danzatori e dei mimi. In verità, il gusto per una composizione “decentrata”, in cui il “centro” mai corrisponde a quello geometrico definito dal perimetro dell’opera, Hyena lo viene coltivando sin dalla prima serie di lavori – quelli, fin troppo “immediatamente” affascinanti, che si avvalevano dell’attrazione magnetica esercitata dal corpo femminile –, nei quali la figura andava a collocarsi in una posizione che, al contempo, consentiva di esaltare l’immagine e di misurare


la vastità dello spazio ad essa circostante, facendola respirare e dandoci visivamente l’idea di una ripartizione dello spazio interno all’opera basata su simmetrie e opposizioni. Questa sensibilità si è ulteriormente accentuata nel ciclo recente sui musicisti jazz, in cui l’immagine ci propone frammenti di strumenti musicali, o lacerti di musicisti con il loro strumento, talvolta ricorrendo al “mosso”, che naturalmente rende il senso del “trasporto”, del coinvolgimento totale del corpo nel farsi di quella musica che ha bisogno di rompere ogni armonia pre-ordinata, di operare continuamente discontinuità, salti, variazioni, alla ricerca dell’immediatezza espressiva e delle fonti della creatività vera. Le suggestioni di Hyena non sono solo quelle della storia della fotografia, ma rivelano pure qualche frequentazione della pittura e della scultura antica e moderna: nelle immagini di donna, non sono casuali la ricerca di una tensione direzionale affidata a un arto proteso o disteso che fende la superficie, nel quale si coagula una forza espressiva ben più forte del resto del corpo; nelle immagini speculari dei dittici del ciclo del jazz, c’è, contemporaneamente, un senso di stordimento e di rafforzamento della capacità comunicativa di ciò che vediamo, mutuato da recenti esperienze pittoriche; le colature, l’esercizio del dripping, presuppongono una frequentazione della pittura informale e delle motivazioni profonde che furono alla base dell’adozione di quelle modalità espressive; l’utilizzo della scrittura come fatto pittorico rimanda a esperienze della poesia visiva. Insomma, le opere di Hyena possono intrigare non solo per l’immagine ricomposta che esibiscono, ma anche per ciò che ad essa viene correlato, per ciò che viene innestato sulla superficie dell’opera, suggerendo contaminazioni e rimandi che muovono il nostro immaginario. Hyena dice di avere molto amato, agli esordi della sua attività di fotografo, Ansel Adams, e di essere poi rimasto affascinato da esperienze che utilizzano, come strumenti espressivi, la pittura o il cinema: Robert Rauschenberg, che ha praticato sia la pittura che la fotografia, integrandole nelle sue opere; Anselm Kiefer, nei cui lavori sempre ritornano l’idea della distruzione e il senso tattile del retaggio di sentimenti incorporati nelle immagini e nei materiali; David Lynch, autore di tanti memorabili film, che paiono volersi immergere nell’esplorazione di ogni più remoto anfratto, anche onirico, dell’anima e della psiche. In verità, queste dichiarate “affinità elettive” riflettono il perimetro dei riferimenti culturali in cui Hyena pare inscrivere il suo lavoro. C’è, costantemente, nelle sue opere, il fascino e la nostalgia dell’immagine, che assume un senso quasi sacrale: tensione che lui rende facendone un fantasma lacerato, che sembra essere passato attraverso una sorta di redenzione. Il perdersi, il disfarsi dell’immagine, e la sua successiva ricomposizione, il senso di un retroterra che è, alternativamente e insieme, luce abbagliante dentro la quale l’immagine stessa pare sul punto di fare naufragio e liquido amniotico che l’ha preservata, finiscono per alludere a uno stato intermedio della vita delle cose, tra le certezze del passato, tra ciò che è stato ma che più non può essere, e ciò che ancora non è, come se queste immagini di Hyena fossero fissate sull’incerto, misterioso crinale tra dissoluzione dell’esistere e venire alla vita. Probabilmente, ciò cui siamo di fronte con queste immagini fluttuanti, spettrali, ibernate in una solitudine glaciale, è la rappresentazione di ciò che avviene quando qualcosa, lacerato e poi ricomposto, subisce nel corso di questo processo una modificazione, un transito, che irrimediabilmente ne cambia il carattere e la nostra stessa percezione, come ben sappiamo avvenire quando la memoria è chiamata a fare rivivere e riaffiorare qualcosa di perduto, che viene in un qualche modo reinventato e rivisitato alla luce dei sentimenti del momento. Forse, queste opere di Hyena sono una spia dell’impossibilità di rappresentare, nel nostro tempo, ciò che veniva abitualmente concepito nella sua interezza, in un’epoca, quella attuale, in cui anche la ricomposizione dei frammenti costitutivi di un corpo o di un’idea, non più afferrabili, resta una missione incompiuta, e del valore, invece, che assume il lacerto, che tuttavia sempre incarna una tensione a una unità perduta. Forse sono, queste opere, l’apparire, il mostrarsi per un momento, congelato da una sorta di processo di ibernazione, di ciò che è irrappresentabile, che è perennemente in fuga, che non vuole piegarsi a una definizione troppo precisa e vincolante. In questa mostra Hyena presenta due filoni di composizioni: immagini della danza, in cui il corpo in movimento ci parla spesso attraverso il mosso, come se diventasse quasi impossibile fermare le figure disegnate dentro l’aria, nello spazio; immagini tratte dai concerti jazz, in cui dal buio emergono la silhouette di uno strumento, le mani che lo suonano, il volto, insieme partecipe e assente, trascinato e coinvolto nell’invenzione del suono. La strada intrapresa da Hyena non è ancora abbastanza lunga per esprimere giudizi conclusivi e perentori, anche se non è, la sua, una via solitaria – pensiamo all’opera che, con intenti e sensibilità diverse, Giovanni Sesia è venuto realizzando. Hyena è partito dall’esigenza di un arricchimento del senso, della capacità di dire dell’immagine (assieme alla fotografia, ha sentito la necessità di un utilizzo “minimale” della pittura e della scrittura), e ha poi continuato a saggiare i nuovi linguaggi che stava imparando a padroneggiare, elaborando immagini più complesse, apparizioni più fugaci e nebulose: corpi sfumati in una eterna fibrillazione, dentro vibrazioni di cristallo. Se Hyena saprà diffidare dalla routine, non adagiarsi nei cliché, nei facili consensi o nella rincorsa delle mode cangianti, ma sarà capace di conservare il gusto della scoperta, del viaggio che sempre è senza fine sulle tracce dell’arte – la quale per un artista vero, e per gli appassionati autentici, risulta in ogni momento una “terra incognita” –, potrà probabilmente dare un contributo prezioso a una ricerca, a un cammino, ancora in parte inesplorati. Alludo a quelle esperienze in cui fotografia e pittura entrano in un crogiuolo e ne esce qualcosa che, pur conservando alcuni dei loro caratteri originari, è anche l’esito di una mutazione, di un salto, qualcosa che si è fatto portatore di un carico di mistero che spetta a chi guarda, nel tempo di una frequentazione prolungata, tentare di svelare.


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