TEATROMONDO
Lugano, Fit Festival 2017 quando il teatro non fa lo struzzo Si interroga sul rinnovato rapporto tra politica e arti performative il festival svizzero. E se vengono meno gli approfondimenti tematici su questioni di attualità, si riflette sulle potenzialità politiche dei linguaggi e sul rapporto tra individuo e società. di Maddalena Giovannelli
S
e amate uscire da un festival annotandovi il nome di un artista che non conoscevate, e se vi piace spaziare senza soluzione di continuità da un linguaggio espressivo all’altro, il Fit Festival di Lugano è il luogo che fa per voi. La direttrice artistica Paola Tripoli lavora da anni mettendo a punto programmazioni polifoniche e orientate all’internazionalità, con una decisa apertura a quelle compagnie che difficilmente incontrereste in un teatro italiano, senza trascurare nemmeno alcune voci significative del panorama nostrano (l’anno scorso Lucia Calamaro e Carlo Cerciello, quest’anno Deflorian/Tagliarini e Francesca Garolla). L’edizione 2017, firmata in collaborazione con il direttore del Lac di Lugano Carmelo Rifici, si è aperta nel segno di una decisa e coraggiosa interrogazione tematica: come viene declinato il rapporto con la politica nelle arti performative contemporanee? E come è cambiato il volto del teatro politico? A rappresentare icasticamente la direzione presa, sul libretto del Fit 2017 campeggia uno struzzo con la testa orgogliosamente fuori dalla sabbia, che guarda minaccioso verso una città sullo sfondo. Ma basterà anche solo uno sguardo cursorio alla programmazione per rendersi conto che fare teatro politico, per Paola Tripoli e Carmelo Rifici, non coincide con il parlare di temi di attualità: significa piuttosto dare spazio all’inatteso, interrogarsi sul mutato rapporto con la realtà, mettere in discussione i linguaggi e la loro capacità di incidere oggi. E se non c’è più spazio per tesi e asserzioni – così sembra di poter leggere in controluce, a guardare attentamente le proposte del festival – sarà invece il tempo del dubbio, della domanda, della contraddizione. Sono dunque benvenute le piccole rivolte personalissime e individuali (immortalate, per esempio, nelle interviste di Officina Orsi in Sull’umano sentire), possono offrire lampi interpretativi sul presente anche gli spiazzanti paradossi del teatro dell’assurdo (Matthew Lenton con Striptease & Out of the sea) e divengono fortemente significanti in
senso politico persino i dispositivi spaziali e scenici (Cut di Philippe Saire). La narrazione lineare o la ricostruzione documentata di eventi socialmente rilevanti – in tempi di comunicazioni virali e di fake news – viene evitata o fortemente messa in questione. È interessante, in questa prospettiva, Before the revolution di Ahmed El Attar, regista e autore egiziano: al centro del testo, la rivoluzione deflagrata da piazza Tahrir nel gennaio 2011 che ha trasformato la recente storia egiziana. La drammaturgia è costruita su uno straniante gioco di rifrazione, che continua a rimandare al “prima” della rivoluzione (di questo si parla, almeno apparentemente, fin dal titolo) o al “dopo” (il qui e ora della rappresentazione), senza mai toccare direttamente l’oggetto della narrazione. Due performer, immobili sul palco in una forzosa frontalità, ripercorrono ricordi di vita quotidiana dell’Egitto pre-rivoluzionario, chiamando il pubblico a interrogarsi sui labili confini realtà/finzione (gli episodi narrati sono veri?) e sociale/individuale (in che modo i frammenti condivisi di storie amorose sono rilevanti per la memoria collettiva?).
«Il personale è politico» sembra dichiarare a gran voce anche l’eclettico regista tedesco Boris Nikitin, con il suo Hamlet. La performance queer è cucita intorno alla personalità del musicista Julian Meding, che offre agli spettatori il proprio corpo androgino e la propria inadeguatezza a essere Amleto mescolandoli con esibizioni musicali (il quartetto barocco di Basilea è presente in scena), e con schegge addomesticate di vita personale. Non diversamente da quanto accade nel fortunato MDSLX di Motus, l’autentica presenza scenica del performer fa deflagrare gli echi dell’opera scelta come punto di partenza dello spettacolo, e fa riverberare la dimensione biografica in quella finzionale, e la dimensione individuale in quella collettiva. La possibilità di un’autodefinizione fluida, in relazione a un piano di realtà altrettanto fluido diventa dunque un grido di rivendicazione politica, un’istanza davanti alla quale è difficile lasciare la testa sotto la sabbia. ★
Hamlet, regia di Boris Nikitin (foto: Donata Ettlin).
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