critiche
Disgraced (Dis-crimini) (foto: Andrea Macchia)
Disgraced, dagli Usa post Twin Towers il difficile dialogo tra etnie e culture
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acopo Gassmann, da vero rabdomante della drammaturgia contemporanea, ha il merito di aver scoperto per primo questo copione, Disgraced, dalla scrittura forse un po’ sopravvalutata, che ha visto, quasi in contemporanea, due edizioni, una a Genova (regia di Gassmann) e una a Torino (regia di Kusej). Protagoniste due coppie della NewYork bene in cui si incrociano identità etniche diverse, destinate a collidere nel corso di una cena: Amir, avvocato di successo, pakistano-musulmano di nascita e statunitense per scelta; la moglie Emily, sofisticata pittrice newyorchese, affascinata dalla cultura islamica; i loro amici, una giovane afroamericana e un brillante mercante d’arte ebreo. La situazione dell’incontro/scontro tra due coppie borghesi di coniugi intellettuali, in una circostanza di rito sociale come la cena tra amici, e il tipo di conflitti che si scatenano tra loro ricordano testi europei come Le Prénom o Carnage, pur senza la stessa vena ironica o la stessa decisione iconoclasta, con l’oggettiva novità delle coppie miste e dei problemi razziali connessi. La tesi finale secondo cui il comportamento attuale e l’identità futura dell’individuo sono immutabili, geneticamente determinate dalle origini sociali e dall’educazione ricevuta, è materia trattata più al cinema che sul palcoscenico. La regia di Gassmann è molto abile, dunque, a scandire i tempi, a organizzare lo spettacolo come una sinfonia tripartita (andante-vivace-grave), restituendo il testo con un iperrealismo ammirevole (la scena è un loft upper class, autentico trionfo del design contemporaneo), spinto fino ad avere in scena attori (eccellenti) e perfettamente aderenti ai personaggi: un pakistano, un ebreo, una nera,
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DISGRACED, di Ayad Akhtar. Traduzione e regia di Jacopo Gassmann. Scene di Nicolas Bovey. Costumi di Daniela De Blasio. Luci di Gianni Staropoli. Con Hossein Taheri, Francesco Villano, Lisa Galantini, Saba Anglana, Lorenzo De Moor. Prod. Teatro della Tosse, GENOVA. DISGRACED (DIS-CRIMINI), di Ayad Akhtar. Traduzione di Monica Capuani. Drammaturgia di Milena Massalongo. Regia di Martin Kušej. Scene di Annette Murschetz. Costumi di Heide Kastler. Luci di Fabrizio Bono e Daniele Colombatto. Musiche di Michael Gumpinger. Con Paolo Pierobon, Anna Della Rosa, Fausto Russo Alesi, Astrid Meloni, Elia Tapognani. Prod. Teatro Stabile di TORINO. una bianca; ma non basta a mimetizzare l’andamento alquanto prevedibile del crescendo fino a un’acme più che programmata. A Torino, Martin Kušej, regista austriaco attuale direttore del Residenztheater di Monaco e presto al Burgtheater di Vienna, restituisce il testo di Akhtar con uno stile molto secco e incisivo, in cui i conflitti relazionali e le contraddizioni intime tra i personaggi sono programmaticamente illuminati da una luce limpida e gelida, da camera autoptica. Colloca questa contemporanea conversation pièce post Torri Gemelle in un astratto ambiente immacolato, un non-luogo dalle prospettive assurde in cui domina l’oscuro quadrilatero nero di un pavimento di torba polverosa, quasi un gorgo che inghiotte l’uman a civiltà occidentale con le sue futilità e i suoi codici comportamentali. Sul palco opera un quartetto di attori di assoluto livello, a partire da Paolo Pierobon, di statura incommensurabile nel ruolo di Amir, avvocato pakistano di seconda generazione, integrato tra difficoltà e debolezze non risolte nella realtà Usa (caratteristiche che lo accomunano forse all’autore) e da un Fausto Russo Alesi di ammirevole maturità nel creare, tra ironia e convinzione, la figura del gallerista ebreo, un po’ sornione e un po’ approfittatore. Anna Della Rosa, moglie di Amir, 100% wasp, pittrice appassionata di cultura islamica, sperimenta ora corde diverse da quelle per cui è sempre stata apprezzata e fatica un po’ a scostarsi dalla sua consueta immagine, mentre Astrid Meloni padroneggia con sicurezza le ambiguità della sua figura di avvocato rampante pronta a sfruttare le occasioni di carriera quando non a crearle. Sandro Avanzo
Le baruffe alla prova della lingua italiana LE BARUFFE CHIOZZOTTE, di Carlo Goldoni. Traduzione di Natalino Balasso. Regia di Jurij Ferrini. Scene di Carlo De Marino. Costumi di Alessio Rosati. Luci di Lamberto Pirrone. Con Elena Aimone, Matteo Alì, Lorenzo Bartoli, Jurij Ferrini, Christian Di Filippo, Sara Drago, Barbara Mazzi, Raffaele Musella, Rebecca Rossetti, Michele Schiano di Cola, Marcello Spinetta, Angelo Tronca, Beatrice Vecchione. Prod. Teatro Stabile di TORINO. IN TOURNÉE Mettere in scena Goldoni è sempre un rischio: anacronismo, apparente assenza di azione, difficoltà linguistiche. Ed è su quest’ultimo aspetto che si è concentrata la regia di Jurji Ferrini, che ha affidato a Natalino Balasso la traduzione in italiano corrente del dialetto chioggiotto, parlato dai personaggi. Per il resto, Ferrini inc as t ra l’esile t rama della commedia - i pettegolezzi di cinque donne causano l’intervento di un “coadiutore” e momentanee rotture di fidanzamenti assodati - in una cornice metateatrale, fingendo che lo spettacolo sia una prova, con gli attori in abiti casual e i costumi a vestire manichini sul fondo del palco, spogliato delle quinte. Poco più che un pretesto per dare avvio alla commedia, che procede rapida e leggera, grazie all’affiatamento e all’efficacia del cast, che movimenta anche le semplici strutture praticabili che costruiscono la scenografia insieme al tavolo al quale è seduto Ferrini, all’inizio nelle vesti di regista e poi quale “coadiutore”. Ritmo e leggerezza che assicurano un paio d’ore di divertimento agli spettatori senza tuttavia sedimentarne emozioni ovvero riflessioni non momentanee come, invece, era nelle intenzioni di