LIRICA
Tra Storia, fiaba e filosofia si aprono le stagioni d’opera
ANDREA CHÉNIER, di Umberto Giordano. Regia di Mario Martone. Scene di Margherita Palli. Costumi di Ursula Patzak. Luci di Pasquale Mari. Coreografia di Daniela Schiavone. Orchestra e Coro del Teatro alla Scala di Milano, direttore musicale Riccardo Chailly, maestro del coro Bruno Casoni. Con Yusif Eyvazov, Anna Netrebko, Luca Salsi, Annalisa Stroppa, Mariana Pentcheva, Judit Kutasi, Gabriele Sagona, Costantino Finucci, Carlo Bosi, Gianluca Breda, Francesco Verna, Manuel Pierattelli, Romano Dal Zovo, Riccardo Fassi. Prod. Teatro alla Scala, MILANO. Era il 23 dicembre del 1982 quando Riccardo Chailly per la prima volta dirigeva il capolavoro di Giordano nella sala del Piermarini: lo spettacolo, trionfalmente ripreso tre anni più tardi, era firmato, per la regia, da Lamberto Puggelli, che così inaugurava un percorso di riscoperta del repertorio verista, tanto amato dal pubblico quanto vituperato dalla critica togata. Il tempo sembra esser trascorso invano, tuttavia, non fosse per l’ardore con cui il direttore milanese continua a difendere questa partitura, eseguita tutta d’un fiato con un’unica interruzione a metà, ma senza gli applausi che tradizio-
Hy96
nalmente ne scandiscono i momenti più attesi - con un soffio epico travolgente, complice la doviziosa rigogliosità timbrica della Netrebko, sempre vigile nel composto rigore della sua svolta post-belcantista, e il contenuto slancio di Eyvazov, nei panni del poeta. Per Martone è stata l’occasione per approfondire la ricognizione sulla drammaturgia del Terrore, avviata a Torino con La morte di Danton di Büchner. Frammenti di pur suggestive - scenografie, risucchiate nel nero dello sfondo, lasciano spa zio, al pr oscenio, a una galleria degli specchi adorna di statue di calco canoviano, «gabbia dorata» di un’aristocrazia al tramonto; quindi a una stilizzata ambientazione parigina, che preferisce incidere al bulino ulceranti cammei (l’anziana contessa e l’amica prostituta, la spia del regime e il sanculotto Mathieu, fino al carceriere corrotto) e imponenti scene di popolo di stampo miserabilista, trascurando un più accurato lavoro di scavo sulla psicologia dei protagonisti. E ancor meno impressiona il fatto che l’appello alla patria del rivoluzionario Gérard («Occorre e l’oro e il sangue!») venga rivolto al pubblico, con le mezze luci in sala. Puggelli faceva calare il sipario sulla carretta dei condannati a morte che si stagliava su un cielo livido e
premonitore; un fin troppo simile barroccio, qui, s’inoltra invece mentre sfolgora l’alba: nihil sub sole novi? Giuseppe Montemagno TAMERLANO, di Georg Friedrich Händel, di Nicola F. Haym da Agostino Piovene. Regia di Davide Livermore. Scene di Davide Livermore e Giò Forma. Costumi di Mariana Fracasso. Luci di Antonio Nicastro. Orchestra del Teatro alla Scala su strumenti storici, direttore Diego Fasolis. Con Bejun Mehta, Placido Domingo/Kresmir Spicer, Maria Grazia Schiavo, Franco Fagioli, Marianna Crebassa/ Lucia Cirillo, Christian Senn. Prod. Teatro alla Scala, MILANO. Melomani di tutta Italia segnatevi questo nome, se non lo avete già fatto: Davide Livermore. Artista proteiforme, uomo dalle mille facce, regista, scenografo, costumista, light designer, ballerino, sceneggiatore, attore, cantante, chi più ne ha più ne metta. Non so quale delle citate carriere gli sia più congeniale. Certo in questo Tamerlano si è dimostrato magnifico regista-scenografo: finalmente qualcuno che sa muovere i cantanti, che li rende credibili, che toglie loro le insopportabili pose da grandi divi ottocenteschi. Livermore aveva anche a disposizione, va detto subito, un cast
eccezionale: soprattutto i due controtenori, Bejun Mehta (Tamerlano) e Franco Fagioli (Andronico), di una bravura da togliere il fiato, più quella vecchia volpe di Placido Domingo (Bajazet) che è un mattatore nato e da qualsiasi personaggio, anche il più insulso, sa tirar fuori perle preziose. L’idea di fondo del regista è, diciamolo pure, balzana: ambientare la vicenda dell’imperatore dei Tartari, vissuto alla fine del XIV secolo, negli anni della rivoluzione bolscevica del 1917. Il testo settecentesco fa a pugni con l’armata rossa, i treni blindati, le divise dell’esercito di Trockij, niente torna se si ascoltano le arie cantate dagli interpreti (ripeto tutti sublimi, a partire dai due controtenori). Ma lo spettacolo funziona. Ogni tanto ci si dimentica di Händel e si guarda quel che fanno i cantanti, ogni tanto ci si dimentica del 1917 e si ascoltano le arie eccelse del compositore tedesco. Così alternativamente le (poche) lungaggini del testo vengono riempite dall’ottima azione scenica e le incongruenze sceniche vengono cancellate da momenti musicali sublimi. Evviva Livermore, venga più spesso alla Scala, ce n’è bisogno. Fausto Malcovati JÉRUSALEM, di Giuseppe Verdi. Regia, scene e costumi di Hugo de Ana. Luci di Valerio Alfieri. Coreografie di Leda Lojodice. Filarmonica “Arturo Toscanini”, Coro del Teatro Regio di Parma, direttore musicale Daniele Callegari, maestro del coro Martino Faggiani. Con Ramón Vargas, Annick Massis, Michele Pertusi, Pablo Gálvez e altri 6 interpreti. LA TRAVIATA, di Giuseppe Verdi. Regia di Andrea Bernard. Scene di Andrea Bernard e Alberto Beltrame. Costumi di Elena Beccaro. Luci di Adrian Fago. Coreografie di Marta Negrini. Orchestra e Coro del Teatro Regio di Parma, direttore musicale Sebastiano Rolli, maestro del coro Andrea Faidutti. Con Isabella Lee, Alessandro Viola, Marcello Rosiello, Marta Leung e altri 8 interpreti. STIFFELIO, di Giuseppe Verdi. Regia di Graham Vick. Scene e costumi di Mauro Tinti. Luci di Giuseppe Di Iorio. Coreografie di Ron Howell. Orchestra e Coro del Teatro Regio