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Carabinieri

Carabinieri

Soraya trascinava la bicicletta sull’erba e teneva la testa un po’ bassa per darsi più spinta. Il sole le attraversava i capelli riflettendoli come spighe di grano e un maglione rosso con dei bottoni blu le dava un aspetto quasi fiabesco.

“Che ci fate seduti laggiù sulla staccionata? Sembrate due rondinelle che si sono perse!” la sentirono da lontano mentre dava le ultime spinte alla bici. “Questo borgo l’hanno costruito per gli asini e per i cavalli, non di certo per le biciclette.” disse sbuffando per la fatica.

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Conan le lanciò un’occhiata e poi riprese a pensare, tra le punte degli alberi, giù nella valle. Pepito invece, rapito dai colori di Soraya, la guardò togliersi il maglione e infilarlo nel cestino della bici. Poi la seguì attento mentre tirava fuori dai jeans stretti la camicia a scacchi bianchi e blu muovendo un po’ i fianchi e ancora quando si piegò a sistemare i pantaloni sugli anfibi neri che aveva ai piedi. Poi pensò fosse davvero bellissima e sentì un colpo nello stomaco così forte che si preoccupò e guardò Conan per assicurarsi che non l’avesse sentito anche lui.

“E a te cos’è successo!?” urlò Soraya, che ancora si piegava le maniche della camicia. “Hai un occhio nero!”

Pepito si sfiorò l’occhio che era livido come il carbone. “Dici l’occhio”, balbettò “No niente...”

“È stata Titania” li interruppe Conan, entrando ed uscendo dal discorso severamente. “Titania? E chi è?!” replicò Soraya.

“Sai… è una cavalla vecchia e un po’ cicciona... quindi... non è che sa bene quello che fa.” rispose Pepito, che aveva l’aria di essersi completamente inebetito. E fu ancora più intenso il batticuore nei secondi infiniti in cui Soraya gli venne ad un palmo dal viso e che per vedere meglio il livido, dischiuse un poco le labbra e Pepito la sentì respirare. Era come se un vento di tra- montana gli avesse scoperchiato la pancia per soffiargli nel petto.

Lei lo accarezzò su una guancia, lo fissò per un istante negli occhi, con fermezza. Lui mosse un po’ il volto per allontanarsi, ma lei lo precedette indietreggiando rabbiosa.

“Smettetela con questa storia del cavallo!” li ammonì Soraya. Era in piedi davanti alla bicicletta che aveva appoggiato ad un pioppo e teneva le braccia sui fianchi.

“Non mi piace. Mi dite solo frottole. Pensavo fossimo diventati amici e tra amici ci si deve confidare!”

Pepito cercava una reazione di Conan che però aveva l’aria di non volerne sapere nulla. Era talmente concentrato sui dettagli del paesaggio che dava le spalle a tutti e due.

“Hai per caso detto ‘A-mi-ci’? bella parola... Prima di chiamarsi amici bisogna mangiare dieci chili di sale insieme...” disse Pepito con arroganza, sfumando cosi l’imbarazzo del nodo alla gola.

“E comunque quella cavalla è un po’ scombinata, le manca una rotella nella testa e mentre la spingevo mi ha tirato un calcio diritto in faccia... e sono crollato a terra... punto.”

“Ah ma sì, certo!” annuì ironicamente Soraya. “Come quella storia fantastica di voi due che dormite dietro al mio trattore perché c’è un branco di lupi che vi segue dopo che il tuo amico mezzo russo ne ha ammazzato uno con un sasso.”

Conan rimase ancora in silenzio.

“Vi ricordo che di lupi, nei paraggi, non se ne vedono da vent’anni...e quei pochi ancora in vita sono nelle riserve, sulle colline verso il mare!” concluse, allungando il braccio ad indicare un luogo oltre la valle.

“Potresti dirci perché hai voluto incontrarci qui?” si girò Conan, lentamente e alzando il mento su di lei, con aria circospetta. “Forse possiamo cominciare da questo discorso.” Aggiunse.

“Vi ho chiesto di incontrarmi qui per un motivo che credo proprio abbia a che fare con l’occhio del tuo amico!” e puntò il dito verso la faccia livida di Pepito.

“Vedete, quando l’altro giorno eravate a casa mia, dopo che abbiamo sistemato la legna e siete andati via, proprio poco dopo sono arrivati dei tizi, quelli che vanno sempre in bisca, gli spavaldi insomma...”

Conan era fermo e rigido e con le braccia conserte gli si gonfiava ancora di più il petto.

“Mi è toccato uscire perché si erano attaccati al citofono come delle piattole. Mi sono affacciata e stavano tutti su dei motorini, tranne uno bassetto con l’orecchino, che credo sia Pablo.”

“E che ti ha detto?” chiese Conan con voce profonda.

“Pablo ha detto che cercava due come voi. Ha detto che stavate ‘giocando’ insieme ma non siete usciti dal bosco e che vi avevano aspettato davanti al cancello di scuola ma non eravate mai arrivati. Perciò erano venuti a cercarvi da me. Io gli ho detto che non sapevo di cosa stesse parlando e che non vi conoscevo affatto.”

Pepito aveva l’aria preoccupata e i pensieri che gli attraversavano il viso rendevano la ferita un po’ più scura.

“Dunque vi ho invitato quassù. Avevo intenzione di sapere da voi cosa fosse successo perché qualcosa non torna. Ma ora che vedo che tra noi c’è anche un ferito, beh allora voglio sapere per filo e per segno cosa succede senza troppe frottole!”

“Non è un ferito grave.” puntualizzò Conan, “E comunque è successo quello che ti abbiamo detto, né più né meno”. Non mosse di un millimetro nessuna parte del corpo.

Soraya era amareggiata e attendeva immobile che i due si confidassero con lei e invece ci fu del silenzio e fu così lungo che si sentì di nuovo il torrente fluire giù a valle tra le fronde del bosco.

“Non me la raccontate giusta!” urlò con la voce acuta.

Poi puntò il dito verso Conan: “Nessuno me la sta raccontando giusta ed è meglio per voi che io sappia cosa sta succedendo perché altrimenti vi prendo per le orecchie a tutti!”

Lo disse talmente convinta che i ragazzi sentirono un coraggio autentico uscirle di dosso e ne furono colpiti.

Poi senza salutare prese la bicicletta e la portò diritta verso l’uscita del parco, varcò il cancello e montò sulla sella facendo cigolare i pedali fin dietro l’angolo di una palazzina.

Conan era davanti al bancone del bar ad aspettare che arrivasse Pepito mentre pensava preoccupato alle nuove notizie da dargli. La barista aveva la coda e una camicetta a fiori piena di colori. Conan le chiese un chinotto e subito lei disse: “Siediti pure, te lo porto al tavolo”.

“Grazie.” si limitò a rispondere Conan e andò timidamente a sedersi fuori.

Doveva dire a Pepito che non sarebbe andato alla sfilata di carnevale della sera successiva. Era una questione seria perché Conan era un solitario e non amava la folla, soprattutto se fatta di gente mascherata immersa in una massa che si muoveva senza una destinazione precisa.

Inoltre ci sarebbero stati certamente gli spavaldi a prendere in giro gli altri e picchiare i più piccoli... era fuori discussione. Non sarebbe andato.

Pensò anche al secondo problema, che era ancora più grande.

Quella mattina stessa la mamma era di nuovo andata a svegliarlo, ma stavolta aveva avuto un’aria seria e decisa e gli aveva chiesto di andare in cucina dove la tavola era tutta apparecchiata con la colazione. Lei, davanti al caffellatte, gli aveva detto, girando il cucchiaino nella tazza, che no, non c’erano alternative, la nonna era sul punto di morte.

Bisognava tornare in Siberia per un po’ di tempo e sarebbero dovuti partire tutti e tre, lei, Conan e Mirabella.

Conan non aveva lasciato trapelare alcuna emozione. Aveva tirato il petto in fuori e con voce profonda aveva detto: “Stai tranquilla mamma, andrà tutto bene”.

Ed ora era seduto al bar ad aspettare Pepito, con un chinotto e due notizie, ma neanche una buona.

Stazione

Non c’era nulla di interessante alla stazione dei treni, a vederla così, con gli occhi della fretta di chi veniva dopo una lunga giornata di lavoro. Non c’era nulla di interessante neanche per chi si preoccupava di aspettare sul secondo binario o per chi cercava il biglietto nel disordine della borsa.

Eppure la stazione, un palazzetto vecchio di almeno cinquant’anni ad un paio di chilometri fuori dal centro abitato, bruciava nel tramonto fulgido del tardo pomeriggio di fine febbraio allungando un’ombra sui binari dorati.

Sulle banchine si accendevano i lampioncini e le stecche luminose a basso consumo a contrastare il buio che sarebbe arrivato a breve.

Alla fine del binario uno, dove non andava mai nessuno e c’erano solo le centraline dei comandi manuali, su un blocco di cemento con delle scritte incomprensibili viola e nere e dei ferri arrugginiti, era seduto Conan, immerso nel suo piumino rosso con i piedi che sfioravano terra e con il mento nel colletto.

Aveva deciso di essere triste e aveva gli occhi che gli brillavano più dell’oro e anche se sentiva un pianto pronto a rompersi in lacrime, il dolore gli rimaneva sulle palpebre e non scendeva mai.

Tirò un respiro profondo fino al nodo nel petto e si sentiva nell’aria che la primavera era pronta a fiorire. Conan sarebbe dovuto partire con la mamma e sarebbero rimasti fuori per del tempo imprecisato. Nessuno glielo avrebbe permesso di rimanere a casa da solo e si sentiva in colpa per le mille volte che aveva pensato tra sé e sé ‘ora vado via e non torno più’.

Chiedeva scusa a tutti, nel silenzio delle mani in tasca e nello sguardo da vichingo, inseguiva le persone nei ricordi per scusarsi, appollaiato alla fine del binario.

E poi non aveva ancora detto tutto a Pepito. Era già abbastanza doloroso per l’amico sapere che Conan non sarebbe andato al carnevale. Figuriamoci se gli avesse detto che sarebbe partito definitivamente!

Conan faceva questi pensieri e man mano che pensava, il tramonto si andava consumando dietro le colline all’orizzonte lasciando uscire i finestrini illuminati dei treni che passavano ad uno ad uno.

Poi scese dal cubo di cemento e tornò verso casa, mischiandosi ai pendolari e agli studenti universitari che si riversavano sulla comunale all’ora di punta, illuminato a tratti rapidi dalle auto in corsa e lasciandosi trasportare dai pensieri e dalle strisce di luce finché, dopo qualche passo, incontrò Titinella.

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