Iconemi 2011 Città-Campagna

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Università degli Studi di Bergamo - Centro Studi sul Territorio “Lelio Pagani”

QUADERNI 22

a cura di Fulvio Adobati, Maria Claudia Peretti, Marina Zambianchi

BERGAMO UNIVERSITY PRESS

sestante edizioni


Con il contributo

Comune di Bergamo

Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Bergamo

Š 2012, Bergamo University Press Collana fondata da Lelio Pagani, diretta da Anna Maria Testaverde

ICONEMI alla scoperta dei paesaggi bergamaschi a cura di Fulvio Adobati, Maria Claudia Peretti, Marina Zambianchi p. 112 cm. 21x29,7 ISBN – 978-88-6642-072-9

Segreteria organizzativa: Renata Gritti Revisione editoriale: Paola Gelmi www.iconemi.it

In copertina: Fotografia di Francesca Perani

Ordine degli Ingegneri della Provincia di Bergamo


INDICE

FULVIO ADOBATI Consumo di città

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MARIA CLAUDIA PERETTI Luoghi versus siti Antipaesaggi o nuovi paesaggi della contemporaneità? ................................................................

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MARIA CHIARA ZERBI Per una nuova urbanità ..................................................................................................................

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RICCARDO RAO Alla riscoperta dei paesaggi lombardi del basso medioevo: percorsi storici per la valorizzazione del territorio ........................................................................

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RENATO FERLINGHETTI L’anello dei corpi santi Una lettura geografica per la valorizzazione dell’area di frangia urbana di Bergamo .................

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MARIO CARMINATI Il ruolo dell’agricoltura nella manutenzione e nella valorizzazione del paesaggio nella fascia periurbana di pianura, a Bergamo ..............................................................................

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ANTONIO GALIZZI Lo sguardo del geologo ...................................................................................................................

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MARIO DI FIDIO Lo sguardo dell’ingegnere idraulico Polifunzionalità del reticolo idrografico della pianura. Caratteristiche, criticità, riqualificazione

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UGO MORELLI Un approccio di psicologia ambientale. Mente e paesaggio tra arte e cultura. Riconoscere la relazione estetica specie umana-paesaggio ............................................................

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ANNA MARIA TESTAVERDE Spettacolarizzare lo spazio urbano: la rappresentazione dei sogni, tra storia e contemporaneo ...........................................................

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MANUELA BANDINI Il paesaggio tra descrizione e evocazione. Lettura e interpretazione dei luoghi attraverso l’iconografia; il caso di Bergamo .......................

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LOREDANA POLI Lo sguardo etnografico sui luoghi. Il caso della Mappa di Comunità dell’Ecomuseo Val San Martino ...............................................

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SERGIO SOTTOCORNOLA Crescita del costruito e decrescita della cura del territorio ...........................................................

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CARLOS DE CARVALHO Norme e professione nella pianificazione del paesaggio ................................................................

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GIORGIO CAVAGNIS - MARINA ZAMBIANCHI Lo sguardo dell’urbanista: Il progetto di Cintura Verde nel nuovo PGT di Bergamo .............................................................

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FULVIO ADOBATI*

CONSUMO DI CITTÀ

Città-Campagna, incontro o scontro? Dove inizia la città, dove finisce la campagna? Qual è il limite tra il luogo dove abitiamo e il territorio non edificato? Quali sono gli elementi che caratterizzano il paesaggio al confine dei centri urbani? Esiste ancora questo confine? Quali i temi da valorizzare, quelli da aggiungere e quelli da eliminare? Apre con questi interrogativi l’edizione 2011 di Iconemi. Temi e problemi sono quelli, ricorrenti, delle forme contemporanee di quella città/non città che chiamiamo “città diffusa”. Diverse e interessanti sono le iniziative recenti dedicate al tema città (diffusa) - campagna (urbanizzata). Dalla prospettiva di recupero di qualità paesaggistica per la competitività delle aree urbane, in particolare delle realtà periurbane1, alla riflessione intorno alla trasformazione della campagna e nella campagna2, e alle potenzialità di ripensare il ruolo dell’agricoltura in forma multifunzionale o complessa (produttiva, fruitiva, didattica), in particolare negli ambiti periurbani3. Ancora, un tema emergente che appartiene alla riflessione posta è il “consumo” di suolo; tema emerso all’attenzione del dibattito grazie a iniziativa promossa da Legambiente4, ha dato vita a una doverosa presa di coscienza del fenomeno di espansione

quantitativa dell’urbanizzato sottovalutata per anni. Il tema del progressivo consumo di suolo, posto oltre la (doverosa) dimensione quantitativa, si presenta anche con il volto del “consumo di città”. Difendere il suolo per difendere la città, la città compatta con tessuti connettivi densi e vivaci, con luoghi che pur asciugati nelle molte funzioni urbane, diluitesi nella campagna urbanizzata, mantengono il ruolo di riferimento simbolico delle comunità. Città come forma organizzativa sociale ricca e complessa nelle diversità, straordinario patrimonio italiano ed europeo. E in questa cornice problematica una prospettiva possibile è quella di ricomporre un disegno per gli spazi aperti anche al fine di ricostruire un disegno alla città costruita. Obiettivo qualitativo forte di questa prospettiva di attenzione risiede nella ricomposizione di un rapporto (a più dimensioni spaziale e funzionale-fruitivo), tra città e campagna; rapporto che nella dinamica realtà padano-veneta si presenta sovente come casuale, disarmonico, lacerato. Quasi ovunque incompiuto. Il tema-chiave assunto per la realtà bergamasca è il progetto di cintura verde che la città di Bergamo aveva delineato già nella rinnovata attenzione al verde di pianura riposta nel piano regolatore Secchi-Gandolfi, e che si è riconfi-

* Università degli Studi di Bergamo - Centro Studi sul Territorio “Lelio Pagani”. 1 Si segnala il progetto PAYS.MED.URBAN (Programma UE Med 2007-2013) - Alta qualità del paesaggio come elemento chiave nella sostenibilità e competitività delle aree urbane mediterranee, http://www.paysmed.net/pays-urban/, che vede tra i partners la regione Lombardia. 2 Si segnalano qui il concorso Rural City: “un progetto per una nuova alleanza tra città e campagna” promosso da Urban Center Bologna, http://concorsi.archibo.it/ruralcity/, e il progetto Spazi aperti, promosso da Fondazione Cariplo e orientato a porre la questione dell’impoverimento (oltre che della continua erosione) della campagna nella realtà della regione urbana milanese, http://www.spaziaperti.fondazionecariplo.it/. 3 Da rilevare la Carta dell’agricoltura periurbana promossa dalla Confederazione Italiana Agricoltori, http://www.cialombardia.org/ documenti/agricoltura_periurbana/carta_%20agricoltura_%20periurbana.pdf, e il progetto 100 cascine, verso e oltre Expo 2015, http://www.100cascine.it/uploads/eventi/present100cascine2dic.pdf. Ancora merita menzione come percorso culturale più generale il successo di molte iniziative di formazione di orti urbani come forme di socializzazione ma anche, nei contesti scolastici, come forma di rieducazione al valore della terra, ai prodotti del territorio e al valore del lavoro agricolo. 4 Legambiente, “Limitare il consumo di suolo & costruire ambiente, promuovere un governo sostenibile del territorio”, Convegno, Politecnico di Milano, 7 novembre 2007. Dall’iniziativa è gemmato l’Osservatorio Nazionale sui Consumi di Suolo, con il concorso oltre a Legambiente dell’INU - Istituto Nazionale di Urbanistica e del Politecnico di Milano. Si aggiunga poi, per il contesto lombardo, lo studio del 2011 condotto dall’ERSAF Lombardia “L’uso del suolo in Lombardia negli ultimi 50 anni”.


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FULVIO ADOBATI

Fig. 1. Orti del Morla, Filippo Carlo Pavesi. Bergamo, Paesaggio dalla ferrovia - Orti coltivati sui terreni del paleoalveo del Morla alle porte di Bergamo. (http://www.iconemi.it)

Fig. 2. Terza parete, Manolo Caglioni. Endine Gaiano, Località Piangaiano, Paesaggi delle bellezze nascoste, “….Fabbrica così, che la casa di campagna con cerchi i campi…” Catone il censore, L’agricoltura. (http://www.iconemi.it)


CONSUMO DI CITTÀ

7 Fig. 3. Urgnano, Mario Carminati. Urgnano, verso Basella; È necessario tutelare il reticolo idrico superficiale: qualità e quantità dell’acqua irrigua disponibile costituiscono infatti elementi determinanti per lo sviluppo del territorio agricolo. (http://www.iconemi.it)

Fig. 4. Magog02, Luca Ferri. Stezzano, Una stanchezza metafisica nel pomeriggio dove la geometria umana non regolarizza il senso vago di un’attesa. \\Ubu al cubo. (http://www.iconemi.it)


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FULVIO ADOBATI

gurato in un disegno di ricerca di continuità nelle tessere e nei lacerti di spazi aperti dislocati ai margini del territorio comunale con il recente Piano di Governo del Territorio. Il tema si propone per una realtà, Bergamo, che ha vissuto stagioni di scelte coraggiose e lungimiranti che hanno salvaguardato larga parte del paesaggio dei Colli. Piace ricordare due provvedimenti: (i) la regola “del cinquantesimo” introdotta nella strumentazione urbanistica a inizio anni Cinquanta del XX secolo a limitare il rapporto di copertura nell’ambito dei colli; (ii) l’istituzione del Parco Regionale dei Colli di Bergamo, negli anni Settanta del XX secolo, con un disegno – intercomunale – di salvaguardia territoriale e un perimetro territoriale che in modo innovativo abbraccia per intero la città storica entro le mura venete. L’obiettivo di perseguire un disegno di qualità degli spazi aperti e del rapporto città-campagna nella area urbana di Bergamo, e più in generale nella regione urbana milanese e lombarda, sollecita una dimensione territoriale intercomunale di lavoro; la scala della “Grande Bergamo”, nella fertile intuizione e nelle difficoltà di attuazione, si pone qui ancora come dimensione ineludibile per politiche territoriali adeguate alla ricca complessità del tema. *

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Il tema nei contributi a seguire spicca per la varietà degli approcci di competenza e di sensibilità al tema: uno sguardo plurale. Maria Claudia Peretti, muovendo da una straordinaria opera di Tom Leighton, “Venice 2”, ci racconta il modo con il quale oggi interiorizziamo il paesaggio e i suoi riferimenti elementari, i suoi iconemi appunto. Nell’era della mobilità veloce e del veloce consumo di storie e di luoghi, le nostre mappe mentali rischiano un affastellarsi di immagini forti che rappresentano storie, monumenti, luoghi, … nell’era della mobilità veloce e del silicio tante stimolazioni sensoriali, indigestioni di immagini e di emozioni e la difficoltà di dargli un ordine. Le profonde trasformazioni territoriali intervenute negli ultimi sessanta anni sono alla base del contributo di Sergio Sottocornola: al crescere dell’attività edilizia ha corrisposto un’attenzione sempre minore alla cura del territorio. Citando il poeta Andrea Zanzotto propone un’immagine forte: nel secondo dopoguerra “dai campi di sterminio allo sterminio dei campi”. La denuncia di Sottocornola ci invita a porre attenzione alla qualità dei progetti nei bordi urbani, e alla qualità del progettare inteso come atto responsabile capace di costruire il territo-

rio, coinvolgendo gli abitanti. Carlos De Carvalho sottolinea poi la frammentazione normativa e la conseguente divisione delle competenze professionali quale debolezza nella pianificazione del territorio, e in particolare nella pianificazione del paesaggio. Maria Chiara Zerbi opera una descrizione nitida dei paesaggi rurali, dei paesaggi urbani e dei paesaggi “ibridi” in epoca contemporanea, attraverso i principali pronunciamenti normativi e i momenti significativi del dibattito internazionale sul tema. Richiamando poi Tierry Paquot invita a un nuovo approccio all’urbanistica: sensoriale, partecipativa, ecologica; un approccio paesaggistico capace di urbanizzare, nel senso più ricco del termine, gli abitanti della città diffusa. Un territorio da ri-qualificare anche in un camminare lento nei luoghi. È la modalità di racconto che ci propone Renato Ferlinghetti; una sequenza di immagini della corona dei “corpi santi” della città di Bergamo. Un paesaggio “minore”, di una città “minore”, che conserva tracce, paesaggi minimi, del farsi di un territorio (qui come in buona parte della regione urbana milanese e lombarda) che in mezzo secolo ha vissuto un’alluvione di mattoni e di giardinetti. Riccardo Rao ci accompagna in una riscoperta dei paesaggi lombardi del basso medioevo attraverso le forme, le colture, i prodotti della terra, in una lettura capace di evocare la profondità della storia dei territori “di margine urbano”. Realtà che oggi leggiamo quale intreccio ibrido e che attraverso le fonti storiche riemergono nella ricchezza delle colture che si sono succedute e che raccontano dell’evoluzione delle culture di un territorio e di una città. Il ruolo dell’agricoltura per la salvaguardia del territorio e per un paesaggio di qualità è al centro della riflessione di Mario Carminati. L’intervento muove dai dati relativi al consistente processo di urbanizzazione in atto in Italia, e in particolare nella realtà lombarda. Una sottrazione di suolo agricolo che ha messo in crisi l’attività agricola in molte realtà; la ricca dotazione di immagini vale a sollecitare una presa di coscienza per recuperare il valore del territorio agricolo, e dell’agricoltura, dopo il tempo della crescita. L’intervento di Antonio Galizzi ci ricorda la straordinaria opera idraulica rappresentata dalla pianura lombarda: la ricchezza del reticolo idrografico per la produzione agricola e per i valori ecologici e paesaggistici che assumono i corsi d’acqua specie in contesti a urbanizzazione densa e diffusa. Ancora l’acqua al centro dell’intervento di Mario Di Fidio. La riflessione di Di Fidio ci invita a cogliere l’importanza delle opere idrauliche e di regi-


CONSUMO DI CITTÀ

mazione per l’agricoltura ma anche per gli equilibri delle realtà urbanizzate. Intrapresa una traiettoria di miglioramento della qualità delle acque superficiali, Di Fidio propone un programma di riorganizzazione delle competenze n materia idraulica e l’introduzione di misure di contribuzione economica correlate agli interventi di trasformazione territoriale, a partire dall’esperienza dell’ecoconto da tempo introdotto in Germania. La natura transdisciplinare del paesaggio è il punto di partenza della densa riflessione di Ugo Morelli. Morelli illustra la svolta che la specie umana si trova di fronte: una svolta che muove dal riconoscere il limite e dal riconoscersi parte del tutto; il paesaggio rappresenta quindi una cartina di tornasole dei vincoli e delle possibilità di questa ri-figurazione, e la fondamentale occasione di assumersi la responsabilità di garantire la sostenibilità delle traiettorie di sviluppo che ci diamo. Acquisendo da Eugenio Turri la nota immagine di paesaggio quale messa in scena della vita, quale teatro appunto, la spettacolarizzazione dello spazio urbano è il tema, affascinante, proposto da Anna Maria Testaverde. La spettacolarizzazione delle città appartiene certo a una commercializzazione e a volte a una artificializzazione degli spazi urbani stessi, ma nel contempo è la spettacolarizzazione è interpretabile quale il desiderio di affermazione dei propri luoghi, quale recupero di identità. Ancora la rappresentazione ad effetto, attraverso l’iconografia, è il tema attraversato da Manuela Bandini. L’evolversi di tecniche e stili racconta attraverso una sequenza di mappe, vedute storiche, ritratti, i modi di rappresentare paesaggi volontari e involontari. Loredana Poli ci offre una descrizione del percorso in atto nell’Ecomuseo della Val San Martino. Strumento di successo degli ultimi anni, la formula ecomuseale rappresenta l’occasione di mettere in valore in modo partecipato patrimonio culturale, tradizioni e paesaggio; la mappa di comunità, costruita attraverso il coinvolgimento attivo dei cittadini, rappresenta così fertile momento di riconoscimento identitario e di progetto. Infine Marina Zambianchi e Giorgio Cavagnis espongono il progetto di cintura verde contenuto nel Piano di Governo del Territorio (PGT) di Bergamo. La cintura verde rappresenta la sfida più diffici-

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le e innovativa del progetto di paesaggio del PGT, un modo di ripensare la città intermedia a partire dai fragili e preziosi spazi aperti presenti sul piano.

Bibliografia di riferimento ADOBATI F., 2011, Rappresentare la diversità paesaggistica: scenari territoriali in area lombarda in ZERBI M.C., BREDA M.A. (a cura di), Paesaggi e biodiversità, Cortina, Milano. BALDUCCI A. (a cura di), 2006) La città di città. Un progetto per la regione urbana milanese, Provincia di Milano, Milano. BOERI S., 2011, L’anticittà, Laterza, Bari. CHOAY F., PAQUOT T., VILLANI T., 2009, L’esplosione urbana, Millepiani/Urban, Ass. Eterotopia, Milano. DANIELS T., LAPPING M., 2005, “Land Preservation: An Essential Ingredient in Smart Growth”, in Journal of Planning Literature, 19, 3, pp. 316-329. DONADIEU P., 2006, MININNI M. a cura di, Campagne urbane: una nuova proposta di paesaggio della città, Donzelli, Roma. EUROPEAN ENVIRONMENT AGENCY, 2006, Urban sprawl in Europe: the ignored challenge, Office for Official Publications of the European Communities, Copenhagen. GREGOTTI V., 2011, Architettura e postmetropoli, Einaudi, Torino. LANZANI A., 2011, In cammino nel paesaggio, Carocci, Roma. OSSERVATORIO NAZIONALE SUI CONSUMI DI SUOLO, 2009, Primo Rapporto 2009, Santarcangelo di Romagna. PERULLI P., 2010, “Città tra agglomerazione e disaggregazione”, in Economia e società regionale, 109, pp. 62-70. SIEVERTS T., 2003, “Al centro del margine: da periferia a paesaggio urbano regionale, passando per la città intermedia”, in Nella città diffusa. Idee, indagini, proposte per la nebulosa insediativa veneta, Fondazione Benetton Studi Ricerche, materiali dal XIV Corso sul governo del paesaggio, Treviso. TURRI E., 2000, La megalopoli padana, Marsilio, Venezia. ZERBI M.C., 2010, Paesaggi urbani contemporanei: forme e rappresentazioni, in ZERBI M.C., FERLINGHETTI R., (a cura di), Metamorfosi del paesaggio. Interpretazioni della geografia e dell’architettura, Guerini, Milano, pp. 167-178.


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FULVIO ADOBATI

Fig. 5. Panoramica in-possibile, Roberta Medini. Bergamo “bassa”, via Nullo, via Locatelli, viale Albini, Camminando dentro la città lo sguardo volge al Colle costruendo uno scenario possibile solo grazie ad un gioco di prospettive. Ciò che l’urbanizzazione toglie, la tecnologia restituisce con l’inganno. (http://www.iconemi.it)


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MARIA CLAUDIA PERETTI*

LUOGHI VERSUS SITI Antipaesaggi o nuovi paesaggi della contemporaneità?

Tra i tanti spunti che emergono dalla Convenzione Europea del Paesaggio, due soprattutto riassumono i capisaldi del dibattito degli ultimi decenni. 1. Il paesaggio è ovunque, non soltanto nei luoghi a cui viene riconosciuto valore di emergenza significativa, bellezze monumentali o naturali, ambienti storici dove la memoria del passato si mostra compatta e densa. L’idea di paesaggio sancita dalla Convenzione Europea coincide con quella del territorio nel suo complesso. È paesaggio l’ambiente in cui viviamo e dentro il quale organizziamo i nostri sistemi sociali: ogni gesto, ogni progetto deve quindi essere compiuto con la consapevolezza di essere un intervento sul paesaggio, che investe questioni intrecciate e non separabili di tipo relazionale, funzionale, tecnico, ambientale, ma anche percettivo, simbolico, estetico e etico. Le conseguenze di questo assunto sono molte, in particolare per ciò che riguarda i sistemi di gestione e controllo pubblico esercitati sull’attività di trasformazione edilizia ed urbanistica: nella prassi tali sistemi continuano ad essere concettualmente e proceduralmente separati tra zone vincolate, dentro le quali vige un regime di controllo più attento e a volte macchinoso, e zone non vincolate, per le quali sembra invece continuare a valere un approccio completamente diverso, ispirato dall’implicito convincimento che se il contesto di intervento non è qualificato dal punto di vista paesaggistico, ciò autorizza a perpetrare un approccio disattento. Questo è grave soprattutto quando la sottovalutazione riguarda interventi di trasformazione legati ai progetti strategici dei PGT, capaci di incidere in maniera rilevante sulla qualità di un contesto territoriale ampio, ma che spesso attraversano procedure di approvazione nelle quali viene attribuita gran* Architetto, ideatrice di ICONEMI.

de attenzione agli aspetti quantitativi e convenzionali che regolano il quadro di impegni reciproci tra pubblico e privato e pochissime attenzioni invece agli aspetti qualitativi dell’inserimento paesistico, rimandati all’esame a posteriori di Commissioni che in molti casi si trovano ad esprimere pareri su progetti completamente definiti dal punto di vista morfotipologico, senza possibilità di ridefinizione generale che non espongano le Amministrazioni a rischi di ricorso e contenzioso. Si finisce così col perdere occasioni irripetibili di miglioramento e riqualificazione paesaggistica di tessuti degradati e “brutti” e a volte addirittura per peggiorare la situazione. Di certo non aiuta la proliferazione di una normativa che molto spesso è contraddittoria, gestita da Enti incapaci dei necessari livelli di coordinamento. La frammentazione concettuale si accompagna alla frammentazione delle politiche, degli apparati legislativi, degli Enti preposti al controllo, degli strumenti di pianificazione, delle competenze operative, in un sistema generale di l’iperdilatazione normativa e di autoreferenzialità disciplinare che non riesce a produrre qualità e senso civile, ma, al contrario, è spesso la causa vera di una sottocultura distruttiva che trova nei conflitti tra norme, procedure e linguaggi l’humus ideale per affermarsi. Spesso l’Italia che ci offende per la sua bruttezza etica e fisica è un’Italia ‘a norma’. Tra Stato, Regioni, Province e Comuni si gioca una contesa continua, contraddittoria e dispersiva, dentro la quale ha avuto la peggio l’idea del paesaggio come bene comune, sancita all’art. 9 tra i principi fondamentali della nostra Costituzione, in favore di una sempre più larga affermazione del territorio come bene finanziario, campo d’azione dell’interesse singolo. Queste due entità, che tendono verso orizzonti sostanzialmente divergenti, vengono sempre più spesso sovrapposte e confuse in un rapporto del tutto squilibrato che genera consumo di suolo e di paesaggio.


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MARIA CLAUDIA PERETTI

Tale processo pare non arrestarsi nonostante l’evidenza delle diseconomie che provoca: in altre parole si sta irreversibilmente perdendo la capacità di anteporre una visione profonda e collettiva capace di unire la conoscenza del passato al progetto responsabile del futuro, in favore di una visione corta e individualista di sfruttamento nell’immediato. Si tratta di una sconfitta molto grave, che impoverisce tutti e che nei fatti, ogni giorno, appesantisce l’insostenibilità generale del nostro modello di sviluppo1. 2. Il paesaggio è abitato, è un’entità sociale in cui la presenza dell’uomo è centrale e irrinunciabile. Tale presenza si configura in un duplice ruolo, come ben argomenta Eugenio Turri nel libro “Il paesaggio come teatro: dal territorio vissuto al territorio rappresentato”2. Dentro il paesaggio a volte siamo attori, cioè occupiamo la scena interpretando la nostra parte, compiendo le azioni che individualmente e nel loro insieme provocano la trasformazione continua e quotidiana dei luoghi. A volte invece siamo spettatori, cioè osserviamo gli altri che agiscono e guardare ci consente di capire, di assumere consapevolezza e di attribuire senso e valore al nostro operare. Guardare è quindi un’operazione molto più complessa che non una mera e automatica registrazione ottica: piuttosto coincide con la costruzione di una visione, di un sistema di riferimento valoriale, di un codice di interpretazione allargato rispetto al quale definire il senso delle scelte parziali e dei singoli progetti. Legato com’è alla percezione umana, quello di paesaggio non è quindi un concetto assoluto e oggettivo definibile una volta per tutte, ma è un dato profondamente culturale che si trasforma con noi, con il nostro modo di pensare, con i nostri modelli culturali e i nostri stili di vita. Anche questo assunto ha implicazioni e conseguenze profonde. Innanzitutto non si può agire sul paesaggio senza tenere nella giusta considerazione la necessità di at-

tivare un processo di coinvolgimento di chi abita i luoghi. Tale coinvolgimento può e deve essere variamente interpretato per conseguire con efficacia l’obbiettivo di declinare tre termini fondamentali della governance dei processi territoriali e cioè l’informazione facile e trasparente, la comunicazione chiara delle scelte e delle loro motivazioni e la partecipazione allargata e inclusiva aldilà degli obblighi puramente formali, di un sempre più vasto gruppo di attori che possano poi farsi soggetti attivi della buona riuscita dei processi e delle politiche stesse. Il paesaggio è un insieme complesso di elementi che si intrecciano e che determinano la natura e l’identità dei luoghi: questo presuppone necessariamente un approccio pluridiscipinare dove diversi linguaggi e diverse competenze possano incontrarsi e interagire. La complessità aumenta per l’inclusione, tra i numerosi dati tecnici, di aspetti umani e sociali che creano un substrato fondamentale nel legame tra i luoghi e chi li abita, memorie individuali e collettive dentro cui si sostanzia il senso dei territori e della loro storia. Il concetto di “iconema” comprende tutte queste tematiche, alcune analizzabili razionalmente, altre radicate in ciò che potremmo definire “sentire comune” che porta, al di là di ogni spiegazione, molte persone a riconoscere qualcosa come elemento fondamentale e irrinunciabile nell’identità dei luoghi. L’osservazione dell’esistente, l’educazione allo sguardo, sono quindi elementi centrali di ogni progetto paesistico, di ogni azione consapevole, così come basilare è la creazione di un confronto attivo e fertile tra i diversi codici di lettura, mirata alla costruzione allargata e condivisa di una cultura del territorio e dei paesaggi che si trasformano. In questo senso senz’altro si può affermare che il tema del paesaggio offre una straordinaria opportunità di confronto e crescita collettiva. Ogni luogo è un deposito di segni che comunicano soltanto se chi percepisce può e sa mettersi in sintonia con loro. Non c’è paesaggio senza percezione: non c’è paesaggio senza consapevolezza. Il paesaggio è un sistema di valori collettivo den-

1 Il tema del conflitto normativo e delle competenze degli Enti che gestiscono il controllo e le politiche territoriali viene sviluppato con grande profondità da Salvatore Settis nel libro “Paesaggio Costituzione Cemento “pubblicato per Einaudi nel 2010. Secondo Settis la distinzione che si verifica nel linguaggio e nelle procedure tra Territorio, Paesaggio e Ambiente, è all’origine di gravissime conseguenze. “Ma il cittadino, in quanto soggetto della politica e protagonista della democrazia, ha il diritto di chiedersi quale sia il suo vantaggio in queste dispute verbalistiche: di domandare al legislatore se, al di là di questa giungla di parole, possa mai esistere un ‘territorio’ senza paesaggio e senza ambiente; o un ‘ambiente’ senza territorio e senza paesaggio; o, infine, un ‘paesaggio’ senza territorio e senza ambiente. Di indignarsi, perché l’intrico delle norme danneggia salute, cultura, imprenditorialità. Una ricomposizione normativa, per cui le tre Italie del paesaggio, del territorio e dell’ambiente ridiventino una sola, è al tempo stesso difficilissima e necessaria”. (S. SETTIS, op. cit., p. 253). 2 EUGENIO TURRI “Il paesaggio come teatro. Dal territorio vissuto al territorio rappresentato”, Marsilio, 1998.


LUOGHI VERSUS SITI

tro il quale le individualità, le singole parti, si sostanziano soltanto in un rapporto di relazione con le altre individualità e le altre parti.

ANTI PAESAGGI O NUOVI PAESAGGI DELLA CONTEMPORANEITÀ? Se l’esercizio dello sguardo approfondito è un tema centrale nel progetto del paesaggio, in apertura del ciclo di Iconemi 2011 è sembrato opportuno analizzare un’opera del giovane artista-fotografo londinese Tom Leighton, per l’evidenza con la quale rappresenta alcune caratteristiche dello sguardo contemporaneo che pongono interrogativi sui nostri modi di abitare, di percepire il tempo e lo spazio, di viaggiare, di porci in relazione con gli altri e con l’ambiente3. L’opera in questione è intitolata “Venice 2” e fa parte di “Appropriation of Space”, un ciclo di paesaggi realizzati con la tecnica del fotomontaggio digitale di frammenti di fotografie estratti da località di tutto il mondo, rimontati all’interno di un iperterritorio dentro il quale galleggiano iconemi svincolati dalla geografia e dalla storia dei luoghi di provenienza, immersi in un nuovo immaginario ipertestuale, del tutto soggettivo. “Venice 2” rappresenta Piazza San Marco che, seppur ancora riconoscibile, è del tutto diversa e falsata rispetto alla realtà. È un capriccio in cui si mischiano le identità, in cui frammenti delle memorie “locali” si intrecciano in una nuova dimensione “globale”: è un mondo segnato dalla moda e dalla pubblicità delle grandi multinazionali del commercio, dalle nuove forme di consumo legate al divertimento, al tempo libero e al turismo di massa. Tom Leighton è a tutti gli effetti figlio dell’era del silicio e ne interpreta con acutezza e ironia alcuni contenuti significativi che assumono grande importanza per chi si occupa di paesaggio. In particolare. – La diffusione delle reti sta cambiando totalmente la nostra idea di territorio: lo spazio contemporaneo è fatto di relazioni tra nodi concettuali, in un sistema di flussi non solo fisici, ma, in grande misura, di informazioni mediate. La nostra esperienza dei luoghi è spesso fondata soltanto sull’immagine riprodotta. – Nello spazio contemporaneo, fisico e virtuale, ci muoviamo come in un ipertesto, ciascuno con un proprio tragitto, spesso variabile nel corso del 3

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tempo, in modo a-gerarchico e a-simmetrico, funzionale ad un’ipotesi soggettiva che nella gran parte dei casi ha un esito non programmato: gli spostamenti non avvengono più “dentro ai paesaggi”, ma “fuori” e “sopra” di essi. Il paesaggio viene concepito come un’interfaccia personalizzabile entro cui organizzare una raccolta di icone scaricandole dagli stores digitali che ci propongono un enorme quantità di immagini: all’interno di questo iperterritorio individuale e virtuale, i simboli e i significati galleggiano svincolati dalla dimensione del tempo storico e delle differenze geografiche, sospesi in quello che Marc Augè ha in molte occasioni definito “l’eterno presente” dell’immaginario. Il rapporto tra individuo e comunità sociale è labile, il rapporto tra paesaggio e abitante del paesaggio frantumato. Per contro, a fronte di una dimensione spiccatamente individualista del nostro rapporto col mondo, il predominio dell’immagine e della rappresentazione visiva veicolato dai circuiti della comunicazione globale favorisce la diffusione di uno sguardo stereotipato, condizionato da luoghi comuni e narrazioni già confezionate: se infatti i legami con la comunità territoriale sono più flebili, sono invece più forti e invasivi i modelli legati al consumo e all’economia che, come un’onda travolgente, stanno uniformando in tutto il pianeta i luoghi del commercio (reti di vendita), della mobilità (areoporti, stazioni..), del turismo (catene alberghiere, formule di vacanza), dell’intrattenimento e del tempo libero (parchi tematici...). È impressionante notare come, ovunque ci si trovi, le vie commerciali tendano sempre più ad assomigliarsi, indipendentemente dalle differenze identitarie che le forme urbane hanno concretizzato attraversando la storia nelle diverse geografie. L’unico linguaggio possibile pare essere quello dell’eclettismo linguistico, favorito dalla disponibilità di materiali e tecnologie costruttive che si spostano secondo i flussi del commercio mondiale, superando qualsiasi frontiera, in maniera del tutto indipendente dalle disponibilità e dalle tradizioni locali. Visitare le metropoli delle nuove economie è come immergersi ogni volta nel catalogo di tutti i segni dell’architettura accostati con spregiudicatezza in un collage linguistico che – come i fotomontaggi di Tom Leighton – supera ogni confine geografico, ogni soglia temporale. Concetti come “contesto”, “genius loci”, “analisi della morfologia e della storia dei luoghi”, che

L’opera di Tom Leighton è stata presentata dalla Cynthia Corbett Gallery di Londra alla Fiera dell’Arte di Bologna del 2011.


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MARIA CLAUDIA PERETTI

sono basilari nella teoria del progetto territoriale degli ultimi decenni e nella formazione scolastica dei progettisti europei, tendono invece ad essere sempre più astratti nella percezione quotidiana di chi abita, attraversa, agisce quotidianamente dentro i luoghi stessi determinandone, giorno per giorno, la forma reale, i ritmi, il senso complessivo. Nel bene e nel male. – L’idea di comunità sociale legata ad una geografia specifica e capace di originare nel tempo una cultura territoriale riconoscibile e diversa da quella di altri luoghi, si sta via via perdendo, soppiantata dalla dimensione del “transitorio” svincolata da un sentire comune fatto di riferimenti e

simboli condivisi, valori e tradizioni sedimentate, ma legata piuttosto ai cicli del consumo globale. L’opera di Leighton offre una prospettiva importante per analizzare le possibilità e il destino del paesaggio: di certo i cambiamenti che stiamo attraversando sono di proporzioni enormi e toccano strutture profonde, antropologiche che esigono la ridefinizione dei modelli che per decenni hanno guidato la progettazione degli spazi urbani e territoriali e che oggi appaiono per molti versi non più adeguati. La domanda che viene spontaneo porsi è se la contemporaneità sia di fronte alla fine del paesaggio o, piuttosto, alla costruzione di nuove e inedite forme del paesaggio contemporaneo.


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MARIA CHIARA ZERBI*

PER UNA NUOVA URBANITÀ

Il decennale della “Convenzione europea del paesaggio” consacra il Consiglio d’Europa come l’istituzione internazionale che si è maggiormente distinta per l’attenzione al paesaggio. Della rilevanza di questa Convenzione si è ampiamente parlato nelle numerose manifestazioni che, a partire dall’autunno del 2010, ne hanno celebrato la presentazione e apertura alla firma dei paesi membri, avvenuta a Firenze il 20 ottobre 2000. Vorrei considerare però anche altri aspetti dell’impegno del Consiglio d’Europa nei confronti del paesaggio, un impegno che si esprime in una varietà di documenti e linee d’indirizzo le quali, pur non essendo esplicitamente dedicate a tale tema, costituiscono delle anticipazioni o dei corollari della Convenzione stessa, contribuendo a delineare un sistema coerente di indirizzi in materia di pianificazione sostenibile del continente europeo. Il particolare interesse nei confronti delle posizioni espresse da quest’istituzione internazionale deriva dall’ipotesi che si possa realizzare un incrocio fecondo tra la concezione di paesaggio promossa dalla Convenzione e il modo di pensare e agire sul territorio, sempre più modificato dalle dinamiche economiche e sociali in atto. È come pensare a un approccio paesaggistico agli spazi in trasformazione.

VERSO LA TERZA RIVOLUZIONE URBANA? Le trasformazioni territoriali che, pur con modalità e temporalità diverse, hanno investito ed investono i paesi industriali avanzati così come i paesi in via di sviluppo, almeno in quelle porzioni del loro territorio che sono integrate al sistema economico globale, richiedono di essere affrontate da una plu-

ralità di prospettive per consentirne una convincente interpretazione. A renderne possibile la comprensione concorrono varie linee di ricerca di matrice storica, geografica, economica, sociologica, urbanistica che, pur non arrivando necessariamente a occuparsi della dimensione spaziale del cambiamento della società, offrono, nondimeno, efficaci chiavi interpretative delle trasformazioni stesse, così da fornire strumenti utili per problematizzare le forme urbane e rurali contemporanee. In questa sede si possono soltanto riprendere alcuni spunti di riflessione. Dalla ricerca sociologica, per esempio, si possono ricavare suggestioni riguardo al dibattito sulla post-modernità o, al contrario, sulla nuova tappa che la modernità starebbe attraversando (definita variamente come “terza modernità” o “modernità avanzata” o “ipermodernità”…), dibattito che non tralascia del tutto le ripercussioni territoriali che la transizione, da una tappa all’altra, sta generando. Geneticamente sensibili alla dimensione spaziale dei fenomeni, i geografi hanno delineato, già dalle prime avvisaglie1, i fenomeni di dilatazione urbana, la suburbanizzazione, la peri-urbanizzazione, la conurbazione, la formazione di metropoli e di megalopoli (concetto, quest’ultimo, squisitamente geografico) e la progressiva strutturazione di tessuti misti urbano-rurali, giocando oltre che sul registro delle forme materiali ed osservabili dell’urbanizzazione anche su quello delle forme immateriali. Hanno, in tal modo, preso in considerazione i modi di vita, l’omologazione dei valori e dei comportamenti tra gli abitanti della città e quelli della “campagna” che venivano modificando la loro propensione alla mobilità e all’utilizzo delle nuove tecnologie, iniziando un cambiamento culturale irreversibile. Le problematiche affrontate hanno por-

* Università degli Studi di Milano. 1 Già negli anni Sessanta vari geografi si interrogavano sulla pertinenza di espressioni quali “città-regione” o “regione-città” (si veda, in particolare, Saibene e Corna Pellegrini, 1967) o, ancor prima, di “megalopoli” (il nome coniata da J. Gottman, nel 1957, per il sistema urbano del corridoio costiero nord orientale degli Stati Uniti, tra Boston e Washington) ai fini dell’identificazione della fenomenologia urbana che si stava manifestando a livello sociale e territoriale.


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tato rapidamente al superamento degli approcci dicotomici al binomio città-campagna e al ripensamento dell’inquadramento terziario del territorio fondato sulle tradizionali nozioni di centralità. Storici ed economisti, in modi diversi, hanno fatto prendere coscienza dell’esaurimento del modello industriale classico e del “regime fordista”, aprendo la strada all’esame delle conseguenze territoriali generate dalle “crisi” che ne sono derivate. Vari filoni di ricerca hanno messo in luce le mutazioni sperimentate dalle attività industriali: il declino ineguale di alcuni settori (tessile, metallurgico…) e lo sviluppo di altri (farmaceutico, agroalimentare..), ma soprattutto la progressiva dipendenza dalle attività di servizio, divenute le vere imprese strategiche. Non si tratta del passaggio dallo stadio industriale a quello terziario, preconizzato dalla vecchia modellistica economica sul processo di modernizzazione, ma piuttosto di una compenetrazione tra i settori economici, vale a dire l’industrializzazione del terziario oltre che del settore primario e, corrispettivamente, la terziarizzazione delle attività industriali e delle attività agricole. I processi e i prodotti vengono sempre più a incorporare “componenti immateriali” e sul costo complessivo finiscono per influire meno i materiali da cui sono costituiti e anche il lavoro con cui sono realizzati, di quanto non influiscono i costi in ricerca e sviluppo, in design, in packaging, in pubblicità, in marketing, in servizi finanziari… Il complesso intreccio di piste di ricerca e concetti che si è reso disponibile ha contribuito a cambiare il modo con cui immaginare e affrontare le problematiche urbane. Raccogliendo le linee interpretative offerte da varie discipline si può delineare un quadro che, in forma del tutto schematica, considera che le città della rivoluzione industriale, la cui traiettoria evolutiva è stata guidata dalla successione della macchina a vapore prima, dell’elettricità e del motore a scoppio poi, abbiano probabilmente raggiunto il loro apice in Europa tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta del secolo scorso2. L’utilizzo combinato dell’automobile e dell’elettricità, in particolare, che ne hanno reso possibile lo sviluppo sia in senso orizzontale sia in senso verticale, ha reso particolarmente forte la loro impronta sul territorio. Le mutazioni economiche e sociali, che si sono succedute dai decenni successivi alla seconda guerra mondiale, hanno contemporaneamente preparato e 2

messo a disposizione opportunità precedentemente impensabili. Tra di esse la diffusione delle tecnologie informatiche e delle telecomunicazioni, il cui ruolo, nell’opinione di molti, potrebbe essere comparato a quello svolto dall’elettricità nell’Ottocento. La loro diffusione geografica, la loro pervasività nei diversi settori produttivi, ma anche il ruolo, per molti aspetti, determinante nella crescita economica ne fanno delle variabili cruciali anche per gli effetti che possono determinare sull’organizzazione spaziale delle attività umane. Se alcune conseguenze a livello economico e sociale hanno già acquisito evidenza, rendendo rapidamente obsoleti interi settori industriali e differenziando i potenziali lavoratori sulla base delle competenze informatiche possedute, meno facili da prevedere restano ancora i loro riflessi territoriali. A rendere più complesse le previsioni è la constatazione che si affiancano alle ICT altre tecnologie possenti, che giocano la loro parte nelle trasformazioni in atto, tra le quali vanno almeno ricordate: le biotecnologie, le tecnologie energetiche, le tecnologie dei trasporti (soprattutto in rapporto alla logistica delle merci), anch’esse gravide di potenziali esiti territoriali di portata non ancora immaginabile. Pur senza sottacere il rilievo delle trasformazioni di carattere sociale e culturale3, le nuove tecnologie sembrano in grado, da sole, di offrire chiavi interpretative soddisfacenti per la comprensione delle dinamiche di deagglomerazione e di diffusione che si disegnano sul territorio. Due aspetti della città contemporanea sono ormai di generale riconoscimento ed esecrazione: la sua frammentazione e la banalizzazione di una gran parte dei “luoghi”, che perdono specificità, si dequalificano, perché privati dei valori di cui nel passato, erano portatori o per la loro ripetitività. Compiendo un arretramento nel tempo, possiamo rintracciare le prime osservazioni sugli effetti spaziali che le dinamiche della “terza modernità”, ancorché allo stato nascente, cominciavano a rendere visibili in alcune fra le regioni più avanzate del mondo. Agli inizi degli anni Sessanta cominciavano, infatti, a essere oggetto d’attenzione e ad entrare nel circuito culturale – attraverso la letteratura specializzata negli studi sul territorio – nuovi fenomeni relativamente all’inquadramento urbano del territorio. Per descriverli faceva la sua apparizione la nozione di “area metropolitana”, dapprima per motivi statistico-amministrativi, in un necessario adeguamento alla mutata morfologia urbana, poi per con-

Va osservato, tuttavia, come aldilà di ogni tipologia e relativa periodizzazione, ogni città abbia – nella realtà – un proprio percorso evolutivo che dipende dalle risposte più o meno lente a processi locali o globali. 3 Come sfondo degli sviluppi economici e tecnologici del secolo scorso sono da vedersi almeno tre tendenze variamente evidenziate nella letteratura scientifica: l’emergere del soggetto, l’emergere del quotidiano, la democratizzazione dello spazio urbano, banalizzato e difficile da padroneggiare. Si vedano fra gli altri: Secchi, 2005; Ascher, 2009.


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cettualizzare la distinzione rispetto alla nozione di “metropoli”. Quest’ultima, pur nell’ingigantimento delle variabili demografiche e funzionali, conservava, infatti, i caratteri essenziali della città tradizionale e, in primis, la separazione dal territorio del suo intorno territoriale. Forgiandosi come nuovo concetto, l’area metropolitana, diventava il veicolo per evidenziare aspetti urbani inediti, riferibili – in prima approssimazione – a un insieme spaziale in cui si sfuocavano le differenze, fisica e sociale, fra città e campagna in un processo di “diffusione urbana”4. L’affermarsi della tendenza alla crescita di queste forme di agglomerazione cominciò a generare ripercussioni economiche e sociali ben più vaste territorialmente di quanto la pura trasformazione topografica potesse rivelare, a causa dell’attrazione da esse esercitata, sotto forma di flussi demografici, economici, finanziari e informazionali che andavano ad alimentare la condizione di “dominanza” dell’area metropolitana. Dalla conoscenza e interpretazione della realtà che si andava configurando si passò rapidamente a interrogarsi sugli effetti distorsivi che si generavano sull’organizzazione complessiva del territorio, a partire dalle aree periurbane prossime fino alle più remote aree rurali. A porsi il problema degli squilibri territoriali che si generavano tra le varie parti dell’Europa furono, tra i primi, gli organismi internazionali e tra di essi il Consiglio d’Europa (CoE) che vedeva come compito essenziale – di cui le istituzioni europee dovevano farsi carico – la pianificazione territoriale, nella più ampia accezione di prospettazione di orientamenti strategici. Limitando l’attenzione a questa istituzione, si possono ripercorrere alcune delle principali iniziative che hanno fatto seguito all’assunzione nella propria sfera d’azione della problematica pianificatoria. Nel 1964, per iniziativa dell’Assemblea parlamentare, fu creato un gruppo di lavoro misto tra eletti ed esperti, incaricato di esplorare la possibilità di una cooperazione europea in questo campo. Il risultato fu un articolato rapporto, noto come rapporto Fläming, uscito nel 1968, che confortava la posizione assunta dell’Assemblea e apriva la strada a iniziative comuni nel campo della pianificazione territoriale, attraverso l’istituzione della Conferenza ministeriale permanente (CEMAT)5 incaricata di delineare le linee strategiche per un’equilibrata politica europea capace di armonizzare le differenti politi-

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che nazionali. La prima riunione di lavoro fu quindi indetta a Bonn, nel 1970, con l’intento di fondare tale politica. Da tale data il Comitato degli Alti Funzionari della CEMAT – organismo responsabile dell’attuazione delle attività del Consiglio d’Europa nel campo della pianificazione territoriale e dello sviluppo sostenibile – si riunisce periodicamente e organizza, con cadenza (tendenzialmente) triennale, una Conferenza ministeriale. L’ultima Conferenza, in ordine di tempo, ha avuto luogo a Mosca (8-10 luglio 2010) sul tema “Sfide del futuro: sviluppo territoriale sostenibile del continente europeo in un mondo in trasformazione”. Nel corso delle precedenti sessioni erano stati adottati importanti documenti. Tra di essi è opportuno almeno ricordare i “Principi direttori per lo sviluppo territoriale sostenibile del continente europeo” (adottati ad Hannover, nel 2000) e la Dichiarazione di Lubiana (adottata nella 13ª sessione, nel 2003) che mette l’accento sulla dimensione territoriale dello sviluppo sostenibile, tema ben sintetizzato dal titolo “Implementazione di strategie e visioni per uno sviluppo territoriale sostenibile del continente europeo”. La Dichiarazione di Lubiana puntualizza l’idea di sviluppo sostenibile adottata dal Consiglio d’Europa e riprende i principi guida di Hannover6. Tali principi sono stati presentati dal Consiglio d’Europa, come proprio contributo al programma delle nazioni Unite “Azione 21”, in occasione del Summit mondiale dell’ONU di Johannesburg nel 2002. I Principi Guida di Hannover, inoltre, sono rivolti a trovare soluzioni ai principali problemi di carattere territoriale che i Paesi avanzati si trovano a fronteggiare. Suggeriscono, a tal fine, il miglioramento di un complesso di politiche, che sono rivolte a: – ridurre le disparità; – sostenere lo sviluppo policentrico equilibrato del continente; – prevedere misure destinate a rivitalizzare le aree in declino economico; – migliorare l’efficienza delle reti di trasporto e d’energia, minimizzandone gli impatti negativi; – prevenire e ridurre i danni potenziali dovuti a catastrofi naturali; – proteggere e migliorare l’ambiente naturale e costruito; – ridurre l’intensificazione e l’industrializzazione delle pratiche agricole; – pervenire ad un equilibrio tra conservazione e trasformazione ed infine – accrescere la partecipazione del pubblico ai processi di pianificazione.

4 L’espressione “diffusione urbana” compare come titolo di un testo pioniere di Achille Ardigò, nel 1967, in cui l’Autore compie uno fra i primi tentativi di dare un inquadramento sociologico agli aspetti geografici ed urbanistici messi in evidenza dalle prime rilevazioni empiriche condotte sulle realtà urbane più avanzate. 5 CEMAT, Conference européenne des ministres responsables de l’aménagement du territoire. 6 L’idea di sviluppo sostenibile fa riferimento, com’è noto, ai tre aspetti economico, ambientale e sociale. È da sottolineare come a queste tre dimensioni, i Principi direttori ne aggiungano una quarta: quella della sostenibilità culturale.


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PAESAGGI RURALI In occasione della Conferenza di Lubiana, del 16-17 settembre del 2003, il Comitato degli alti funzionari della CEMAT ha portato all’attenzione dei Ministri responsabili della pianificazione del territorio un documento dal titolo Guida europea all’osservazione del patrimonio rurale - CEMAT. Il documento offre una traduzione operativa dei “Principi direttori per uno sviluppo territoriale sostenibile del continente europeo” adattandoli al territorio rurale. In forma chiara e con una semplice articolazione essa fornisce un’introduzione a ciò che costituisce il patrimonio rurale (patrimonio che comprende il paesaggio) e agli strumenti metodologici e tecnici per conoscerlo e valorizzarlo. Più in particolare la Guida suggerisce di realizzare un lavoro di censimento delle componenti naturali, culturali e paesaggistiche delle aree rurali e di progettare possibili azioni di valorizzazione, arrivando a toccare le modalità con cui realizzarle e gestirle. Il tema del patrimonio rurale è di nuovo tornato in primo piano con l’adozione della Carta pan-europea per il patrimonio rurale: promuovere lo sviluppo spaziale sostenibile, avvenuta a Mosca nel 2010, in occasione della 15ª sessione della Conferenza della CEMAT. La Carta ha come oggetto “Il patrimonio rurale come un fattore di coesione territoriale” e il presupposto da cui muove la risoluzione adottata dalla CEMAT è che “il patrimonio rurale è un bene effettivo ed una risorsa per i territori, un fattore ed una driving force nello sviluppo sostenibile del continente europeo, e gioca un ruolo decisivo nel rendere più attrattive le aree rurali e nel creare un equilibrio tra città e campagna”. Partendo da questo presupposto la Carta sottolinea come qualsiasi territorio rurale, anche il più svantaggiato, possegga un patrimonio materiale o immateriale che contribuisce alla qualità della vita dei suoi abitanti, alla qualità del paesaggio e alla sua capacità attrattiva, un patrimonio che, peraltro, è particolarmente vulnerabile a causa del complesso delle trasformazioni sociali ed economiche in atto. In questa luce indica le linee di azione da intraprendere. In primo luogo la conoscenza e il riconoscimento del patrimonio (non sempre i suoi valori sono d’immediata evidenza), che dovrebbe fondarsi su un processo di crescente consapevolezza, come dire di “formazione al patrimonio”. Tale processo include la

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creazione di Guide nazionali o regionali compilate sulla base della Guida europea all’osservazione del patrimonio rurale - CEMAT, che torna ad acquisire un’indiscussa attualità7. In secondo luogo la ricerca di un utilizzo idoneo del patrimonio che, a meno di essere sottoposto a un trattamento di carattere museale, è destinato ad evolvere. Diventa allora necessario formulare un progetto entro cui inquadrare la nuova vita da restituire al patrimonio stesso. In terzo luogo l’attuazione delle potenzialità del patrimonio per dare slancio allo sviluppo culturale e economico. S’impongono interventi su un duplice fronte: da una parte il ricercare un equilibrio tra i metodi tradizionali di produzione, alla piccola scala, e metodi innovativi, dall’altra l’indirizzare a un uso pratico dei prodotti di natura culturale, locale, artigianale, turistica. Al riguardo vi sono iniziative legislative sul fronte dei marchi territoriali per i prodotti eno-gastronomici che meriterebbero un’adeguata estensione. La quarta linea d’azione spinge a collocare il patrimonio al centro delle dinamiche territoriali, in una visione che assegna un ruolo significativo all’emergente “economia del patrimonio”, un’economia che richiede professionalità e coinvolgimento degli stakeholders oltre che delle comunità interessate. L’ultimo indirizzo suggerito riguarda le occupazioni e le professioni a sostegno dell’“economia del patrimonio”. È noto come l’interessamento al patrimonio locale, nella forma sia della conservazione sia della valorizzazione, parta molto spesso dalle associazioni, che agiscono attraverso “volontari”8. Pur riconoscendo il ruolo chiave di questi attori nel dare inizio alla “catena patrimoniale” appare indispensabile, per il pieno successo delle iniziative, il coinvolgimento nei progetti e nella loro gestione di persone aventi una specifica preparazione, il coinvolgimento di “esperti”. Nasce quindi un’esigenza di formazione di figure professionali adeguate, che richiede di partire da operazioni elementari quali: l’individuazione delle singole attività da svolgere, delle competenze che esse richiedono, delle istituzioni che possono fornirle, dei finanziamenti cui fare ricorso. Emerge il ruolo cruciale delle comunità locali, ma anche quello che le istituzioni preposte alla formazione potrebbero giocare (e le Università, in particolare, avrebbero tutte le carte in regola per farsene carico o per assumersene la guida).

Se ne veda la traduzione italiana, a cura di M.C. Zerbi, nel 2007. Michel Colardelle evidenzia con chiarezza il ruolo dei diversi attori nella creazione del patrimonio (FIORE, 2010).


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PAESAGGI URBANI Poiché la concezione di paesaggio propria della Convenzione europea del paesaggio si estende all’intero territorio, il profilo “ruralista” non è l’unico atto a coglierne pienamente il senso. È opportuno spostare lo sguardo dal paesaggio rurale al paesaggio urbano. Nel 2008 è stata adottata dal Congresso dei poteri locali e regionali del Consiglio d’Europa la Carta urbana europea II: Manifesto per una nuova urbanità. Essa rappresenta un completamento ed un aggiornamento della Carta già adottata nel 1992, che è stata antesignana di una nuova impostazione delle politiche urbane in Europa9. La sua revisione, a distanza di 15 anni dalla edizione originale (che resta, comunque, come testo di riferimento) è motivata dalla rilevanza dei cambiamenti e dalla rapidità delle trasformazioni intervenute, che fanno emergere l’esigenza di una nuova forma di urbanità. La nuova Carta parte dal patrimonio di competenze già acquisite dai governi urbani dei Paesi europei nella gestione delle città, un patrimonio che costituisce un insieme consolidato di principi su cui costruire il Manifesto. Sopra di esso vengono eretti nuovi principi che in parte riformulano e ribadiscono la Carta originaria, in parte propongono nuove prospettive per il vivere insieme e per una nuova cultura della vita nelle città. Più precisamente la Carta si pone come “un invito a costruire, nell’ambito di valori condivisi e di scambi di esperienze, un nuovo progetto urbano per le città europee”. Pur riconoscendo la difficoltà di fornire un’idea corretta di un documento cosi complesso, mi prendo la libertà di interpretare alcuni requisiti di base cui tale progetto dovrebbe rispondere. I – Una città dei cittadini. L’idea centrale di tale requisito è che la democrazia urbana si ponga come scuola di democrazia a livello nazionale. Corollari di questa visione sono, in primo luogo, la partecipazione dei cittadini – a supporto della quale viene incoraggiato il pieno utilizzo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (Le nostre città devono adoperarsi per instaurare le modalità di un’ambiziosa democrazia elettronica locale (par. 32)), in secondo luogo l’applicazione del principio di sussidiarietà, che prevede una devoluzione delle competenze e delle responsabilità territoriali al livello più adatto per risolvere i problemi e, parallelamente, il con9

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ferimento dei mezzi finanziari corrispondenti. Sono le pre-condizioni per un governo delle città chiaramente individuato e capace di impegnarsi nel promuovere una buona governance urbana. II – Una città sostenibile. L’interpretazione di questo requisito parte dal presupposto che “le città abbiano un ruolo fondamentale da svolgere nel campo della protezione, del ripristino e della gestione del nostro ambiente globale” (par. 47) e che si impegnino a sviluppare l’ecologia urbana, orientando le proprie politiche verso uno sviluppo urbano sostenibile. Due sono gli aspetti direttamente considerati: la forma urbana e la mobilità. Il Manifesto prende posizione a favore delle forme urbane compatte e dense, nella convinzione che “Soltanto la coerenza e la compattezza delle nostre città permetteranno di rendere lo spazio urbano più facile, più accessibile, più vivo per tutti gli abitanti indipendentemente dalle loro condizioni sociali, dalla loro età o dalle condizioni di salute” (par. 52). Per una mobilità controllata e sostenibile vede necessario lo sviluppo di alternative credibili allo sviluppo dell’automobile e lo stimolo a sviluppare modi di spostamento urbano a basso impatto ambientale (marcia a piedi, bicicletta, mezzi pubblici). III – Una città solidale. L’assioma alla base di questo requisito è che la città deve essere “uno spazio di qualità di vita per tutti”, una caratteristica che implica il promuovere la solidarietà tra le diverse generazioni e nei confronti sia delle persone con redditi bassi o in difficoltà economico-finanziarie, sia nei confronti delle persone diversamente abili. Vi è, nel documento, una chiara presa di coscienza di come le condizioni di disparità socio-territoriali abbiano spesso un carattere cumulativo: condizioni ambientali degradate si coniugano alla maggiore vulnerabilità economico-sociale creando condizioni drammaticamente inique. IV – Una città della conoscenza. Alla base vi è il riconoscimento di come le città rappresentino i “poli territoriali privilegiati dell’economia della conoscenza” e una sorta di crogiolo dei saperi, delle abilità, della cultura e dell’arte. E qui vi è un esplicito richiamo a tutelare le bellezze architettoniche delle città, consci che i paesaggi urbani di recente formazione e i paesaggi periurbani sono spesso senza qualità. Sembrerebbero pochi – ad una prima lettura – i riferimenti al paesaggio urbano presenti nel Manife-

È appena il caso di ricordare come alla Carta urbana europea del Congresso del Consiglio d’Europa abbiano fatto seguito altri testi fondamentali relativi alla città, vuoi ancora provenienti dal Consiglio d’Europa, vuoi dall’Unione Europea (per es. la Carta di Lipsia sulle Città europee sostenibili, 2007), vuoi dall’ONU (per es. Dichiarazione sulle città e altri insediamenti umani in questo nuovo millennio, 2001), vuoi infine da associazioni di enti territoriali (per es. Carta delle città europee per uno sviluppo sostenibile, nota come Carta di Aalborg, 1994, e relativi Impegni di Aalborg, 2004).


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sto. Più precisamente sarebbero soltanto due gli aspetti esplicitamente riferiti al paesaggio: la mobilità automobilistica vista in relazione ai danni inferti al paesaggio urbano (par. 55) e il problema della tutela delle bellezze architettoniche, da una parte, e della promozione della qualità delle nuove architetture, dall’altra (par. 77 e 78). Tuttavia, se si circoscrive l’idea di paesaggio urbano soltanto ai problemi generati dalla circolazione automobilistica e ai caratteri delle architetture, si rischia di rinchiudere questo concetto in limiti piuttosto angusti. L’idea di paesaggio urbano appare oggi ben più complessa. Il paesaggio è venuto a far parte di una riflessione più generale sulla città, sulla sua forma, sulle sue espansioni esterne, sulle sue funzioni economiche e tecniche e sul loro impatto sulla vita dei cittadini. Proprio la qualità del contesto di vita delle popolazioni diventa la quintessenza dell’idea paesaggio, in linea con la concezione della Convenzione Europea del Paesaggio che lo considera come l’ambiente di vita delle popolazioni e si propone l’obiettivo di assicurarne la “qualità” a tutti i cittadini, partendo dal presupposto che il paesaggio contribuisca “al benessere e alla soddisfazione degli esseri umani”.

PAESAGGI IBRIDI DELLE AREE PERIURBANE, PERIMETROPOLITANE E DELLE MEGA-REGIONI URBANE

Nelle regioni economicamente più avanzate del globo, il tema della nuova urbanità non riguarda più, come si è avuto modo di osservare, la città nei suoi confini tradizionali, ma insiemi territoriali ben più vasti, dai caratteri indefiniti, che mescolano insieme tratti urbani e rurali. Osservazioni empiriche e prime interpretazioni teoriche fanno prendere coscienza dell’entità delle trasformazioni contemporanee, Non si tratta più soltanto della formazione di

cinture peri-urbane, fenomeno la cui manifestazione risale, com’è noto, agli anni Settanta/Ottanta del secolo scorso e ormai oggetto di numerosi studi, ma d’insediamenti non necessariamente contigui al tessuto urbano o periurbano, che si rinnovano o sorgono autonomamente entro le grandi maglie create dalle infrastrutture di trasporto (le determinanti dell’accessibilità ai luoghi), di nuove polarità puntuali o lineari (come i grandi empori commerciali), di piccoli e grandi agglomerati residenziali, di capannoni industriali e di infrastrutture necessitanti di ampi spazi. Sono insiemi eterogenei che non rappresentano più necessariamente la “periferia” delle città10. Si affacciano, da due o tre decenni, nuove unità economiche: le mega-regioni urbane costituite da insiemi integrati di città, circondate dalle loro aree peri-urbane, nelle quali il capitale e il lavoro possono essere riallocati da una parte all’altra a costi molto bassi11. Un esempio di queste realtà è descritto e lucidamente interpretato da Bernardo Secchi (2005) con riferimento al “Flemish Diamond”: la mega-regione belga compresa tra Bruxelles, Gand, Anversa, Lovanio, in cui le infrastrutture per la mobilità hanno densità tra le più alte del mondo. Da questa, come da altre realtà simili, nascono interrogativi riguardanti le posizioni espresse dal Manifesto del Coe esaminato (e riecheggiate anche da documenti dell’UE). Questi ultimi sono apertamente a favore di una città compatta e densa. Se questo è comprensibile per le attività economiche più avanzate (per le quali vale il paradosso che “nello stesso momento in cui la tecnologia consente la diffusione geografica delle attività economiche, queste continuano a raggrupparsi e concentrarsi attorno alle unità mega-regionali” (Florida et alii, 2007)) è più difficile da immaginare per la residenza e le sue infrastrutture. Al riguardo risulta spontaneo chiedersi se ci troviamo di fronte ad una scelta di dottrina – che l’urbanistica può esprime – o non siamo piuttosto di fronte ad una tendenza difficilmente contro-

10 Sono presenti interessanti osservazioni su questi insiemi spaziali nella geografia francese d’inizio del secondo millennio, entro cui quale va segnalata la raccolta di scritti curata da J. Mirloup (2002) e la puntualizzazione sull’idea di regione peri-metropolitana, apparsa – per mano dello stesso Autore – nel 2004 sugli Annales de géographie. Queste regioni peri-metropolitane, a un tempo distinte e prossime alle grandi aree metropolitane – scarsamente note e ancora prive di riconoscimento semantico – sarebbero state oscurate da un utilizzo troppo semplicistico del modello “centro-periferia”. L’ipotesi avanzata dall’A. è che il processo di mondializzazione in atto tenda ad attenuare la pertinenza di tale schema, mentre tale processo insieme alla metropolizzazione – che ne rappresenta la traduzione spaziale – favorirebbero, a gradi diversi, l’integrazione di queste regioni entro sistemi metropolitani complessi che assocerebbero sottosistemi peri-metropolitani e relative aree metropolitane. 11 Si noti come le mega-regioni urbane siano insiemi policentrici, che differiscono profondamente dalla mega-città (termine con il quale sono generalmente indicati agglomerati urbani di oltre dieci milioni di abitanti, secondo la definizione adottata dal Department of Economic and Social Affairs, Population Division delle Nazioni Unite). Da un punto di vista geografico, esse appaiono molto vicine alle megalopoli di Gottman (1957) proiettate nel contesto globale. Recenti lavori (Florida, Gulden, Mellander, 2007) sono pervenuti a individuare, sull’intero globo, una quarantina di mega-regioni urbane utilizzando le immagini satellitari delle emissioni di luce durante le ore notturne e combinando poi le impronte luminose con altri dati (popolazione, innovazioni, scoperte scientifiche, attività economiche) per stimare il ruolo economico svolto da ciascuna di esse.


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vertibile e contenibile, una tendenza che nasce dalle aspirazioni della gente ad insediarsi in luoghi accessibili, ma fuori dalle città, che ricerca il “buon vivere” nel possesso della propria abitazione, dei beni materiali, dei servizi essenziali posti a distanza ragionevole, nel rapporto con la campagna, che si sente più sicura in una comunità ristretta e in qualche misura conosciuta. E sono tendenze presenti, non solo nel nord dell’Europa, ma – a vari livelli – anche nelle aree più dotate d’infrastrutture del Nord d’Italia. Immaginare un più coerente disegno di questi spazi ibridi/ancora senza nome, in cui le aspirazioni, i comportamenti, i consumi degli abitanti non possono essere definiti che urbani (anche se il contesto fisico non è tale), cercando di ridare loro qualità, è forse una delle sfide più impegnative con cui si confronta l’urbanistica contemporanea.

UN APPROCCIO PAESAGGISTICO ALL’URBANISTICA Come geografo non posso che raccogliere – su queste tematiche – le linee di tendenza che mi sembrano portatrici di novità e in quest’ottica raccolgo le osservazioni sulla carica innovativa che, da varie parti, viene riconosciuta all’approccio paesaggistico in campo urbanistico. Prendo, volutamente, i miei esempi dalla Francia, in cui il dibattito sul paesaggio urbano e sui paesaggi della città diffusa (per usare l’espressione che mi sembra tra le più accreditate) appare essere più avanzato12. Come primo caso, faccio riferimento al geografo paesaggista JeanMarc Besse che dà inizio a un suo libro con queste parole “Il paesaggio costituisce una prospettiva nuova per le questioni relative al progetto urbano e, in generale, al pensiero sulla città” (2009, p. 11). Come secondo esempio, riferisco le provocazioni di un filosofo urbano e urbanista – come Tierry Paquot13 – con la sua proposta di un nuovo approccio all’urbanistica, la cui originalità potrebbe (almeno a mio avviso) essere sintetizzata da tre aggettivi: sensoriale, partecipativa, ecologica. Sono aggettivi che non richiedono spiegazioni. Riecheggiano, è appena il caso di sottolinearlo, tutte quelle tematiche (presenti nel Manifesto del CoE, prima esaminato) che hanno un rapporto con il contesto di vita delle popolazioni, anche se non vengono esplicitamente riferite come tematiche paesaggistiche. Certo, utilizzare il termine paesaggio è una precisa scelta lessicale, da

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alcuni non condivisa, ma una scelta capace di inglobare sia la centralità dei cittadini nelle scelte pianificatorie o progettuali, sia la nuova sensibilità nei confronti dei caratteri del proprio quadro esistenziale, sia l’ecologia urbana. In modo più definito, qual è il senso da dare all’espressione approccio paesaggistico? Gli attori dell’urbanistica sono ben dotati di concetti e di metodi per intervenire sulla città consolidata. Non altrettanto si può dire per il “nuovo urbano” in corso di costituzione, che è il risultato di un’evoluzione (peraltro ancora insufficientemente studiata) dei comportamenti sociali, dell’abbandono all’iniziativa privata di individui (per i micro-interventi) e di imprese immobiliari (per le più impegnative realizzazioni). Si deve accettare questo “caos urbano” o si può contrastarlo? Malgrado i documenti degli organismi internazionali siano a favore della città compatta ed il pensiero economico (si veda il recente contributo di Glaeser, 2011) ed urbanistico supporti queste posizioni, il fenomeno della città diffusa è destinato a propagarsi. Il prendere coscienza di orientamenti sociali che sembrano incontrovertibili (almeno per gli orizzonti temporali per cui è lecito fare delle previsioni) induce a modificare il modo di pensare le possibili azioni sulla “città fuori dalla città”. Si impone, in primo luogo, un rovesciamento di prospettiva a proposito degli “spazi vuoti” (le aree agricole, le friches rurali e industriali, le aree “naturali”) che non rappresentano necessariamente terreni in attesa di essere edificati o di essere riempiti di funzioni urbane. Al “pensiero del vuoto” si accompagna, in secondo luogo, il riconoscimento della scala territoriale di riferimento, che non è più la scala locale, ma quella dell’area vasta, nelle sue relazioni con dimensioni regionale ancora più ampie. Queste due considerazioni spingono a dialogare con altri campi disciplinari che abbiano maggiore familiarità con gli spazi aperti e con le scale sovralocali: quali le discipline del paesaggio. Queste ultime possono arricchire i concetti e i metodi dell’urbanistica “tradizionale” per creare un approccio più pertinente all’organizzazione volontaria dei nuovi spazi dell’urbano. Per delineare meglio questo approccio, si possono ricavare varie suggestioni dal dibattito in argomento. In primo luogo l’attenzione alla natura. Si tratta generalmente di una natura poco “naturale” caratterizzata da una spinta commistione di usi del suolo, produttivi e residenziali, da canali di traffico,

12 Segnalo, peraltro, l’emergere di un’attenzione da parte di geografi e urbanisti italiani, come si evince tra l’altro dal recente Convegno “Dalla campagna verso la città. La valorizzazione paesaggistica delle aree urbane”, Bergamo, 26-28 gennaio 2010. 13 L’Autore traccia alcune tappe dell’evoluzione di quella che chiama urbanistica “sensibile” o “sensoriale” in contrapposizione alle ideologie funzionaliste responsabili della disumanizzazione delle città e degli edifici (PAQUOT, 2008).


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MARIA CHIARA ZERBI

reticoli idrografici, macchie residue di vegetazione. Ma a differenza di quanto avviene nelle città, la “natura” (questa natura) riesce comunque a “affiorare” per l’inversione del rapporto di predominanza tra spazio costruito e spazio aperto, che fa apparire il cielo, fa scorgere l’orizzonte, mette a contatto con il terreno, con il suo suolo e la vita vegetale ed animale che vi è presente. In secondo luogo il riconoscimento dell’egemonia del sito. Il proprium dell’approccio paesaggistico sta nel ruolo da protagonista attribuito al sito, in ogni scelta progettuale o di programma. La sua geografia (i caratteri fisici e topografici minuti, la sua idrografia, la sua ricchezza biologica, la sua estetica) insieme alla sua storia, con le tracce materiali e immateriali (la memoria invisibile e gli eventi) ne definiscono i caratteri, da conservare o da potenziare, per mantenerne l’identità e assicurare un ancoraggio sociale. La connessione dei frammenti rappresenta un ulteriore orientamento. L’arcipelago di frammenti territoriali difformi necessita della costruzione di reti di saldatura, che li connettano: reti di trasporto, reti ecologiche, reti paesaggistiche. Ci sono, anche nel nostro paese, vari accenni di creatività in questa direzione. La “scoperta”, entro tessuti disfatti, di frammenti di valore patrimoniale, rappresentati per esempio da insediamenti residenziali storici (dai piccoli centri rurali che si sono conservati ai più recenti episodi di case operaie unitariamente progettate), di frammenti di valore paesaggistico (isole agricole, macchie di bosco residuali, allineamenti arborei) ha portato ad immaginare – a fianco delle reti infrastrutturali e delle reti ecologiche –. altri tipi di reti (patrimoniali e paesaggistiche) che costruiscano una trama capace di conferire una qualità e un’identità a territori che sono spesso senza un volto riconoscibile: anonimi e comuni. Si va, inoltre, definendo una prospettiva pluralistica: l’apertura a diversi “possibili”. Come nella creazione di un giardino o di un parco o in ogni altro intervento sulla natura, non si può pensare ad esiti univoci, definiti una volta per tutte. È illusorio un controllo completo. Un atteggiamento analogo a quello del giardiniere o del paesaggista dovrebbe essere alla base del modo di affrontare situazioni ben più complesse in cui ai processi naturali si mescolano dei processi sociali, ancora più imprevedibili dei primi. Sui grandi spazi appare vincente un’attitudine prudente, minimalista, in cui i programmi d’intervento siano flessibili, reversibili, pronti anche a ri-organizzarsi per assorbire il cambiamento. Un ultimo orientamento, infine, riguarda l’alleanza del progetto con il tempo. Ogni lavoro che

comporti l’utilizzo di componenti naturali si fonda sull’attesa di un’evoluzione non completamente prevedibile, che richiede propri tempi di realizzazione. Il disegno originario, in parte rispettato, in parte piegato a un’evoluzione impensata, si completa, si definisce o ri-definisce con il passare delle stagioni e degli anni. L’arte della lentezza diventa un insegnamento anche per l’urbanistica. Cercare di orientare le trasformazioni significa farsi carico della sfida di assicurare a tutti gli abitanti, in modo indipendente dal contesto territoriale in cui trovino insediati – urbano, rurale, periurbano, peri-metropolitano, ibrido/senza nome – una nuova urbanità.

Bibliografia ARDIGÒ A., 1967, La diffusione urbana, A.V.E., Roma. ASHER F., 2009, L’âges des métapoles, L’Aube, Parigi. BESSE J.-M., 2009, Le goût du monde. Exercise de paysage, Actes Sud. COLARDELLE M., 2010, “Gli attori nella costituzione del patrimonio: lavoratori, cultori, professionisti”, in FIORE F., pp. 27-38. CONSIGLIO D’EUROPA, 2007, Guida europea all’osservazione del patrimonio rurale-CEMAT, (tr. it. a cura di M.C. Zerbi), Guerini Scientifica, Milano. FLORIDA R., GULDEN T., MELLANDER C., 2007, The rise of the Mega-Region, paper, ottobre. FIORE F., 2010, Museo e cultura dei luoghi, Guerini Scientifica, Milano. GLAESER E., 2011, Triumph of the city, Pan MacMillan, Basingstoke (UK). GOTTMAN J., 1957, “Megalopolis, or the urbanization of the Northeastern seabord”, Economic Geography, 33, pp. 189-200. JACOBS J., 1961, The Death and Life of Great American Cities, Random House, New York. MIRLOUP J., 2002, “Les régions périmétropolitaines: problématiques, hypothèses, méthodologie”, in J. MIRLOUP (dir.), Régions, périmétropolisations et métropolisations, PUO, Orléans. MIRLOUP J., 2004, “Les régions périmétropolitaines: géosémanthique et approche systémique”, Ann.Géo., n° 640, pp. 626-644. PAQUOT T., 2008, “Pour un Urbanisme Sensoriel”, Urbanisme, Hors-série, n° 34. SAIBENE C., CORNA PELLEGRINI G., 1967, “La regionecittà”, Riv. geogr. ital., LXXIV, pp. 405-434. SECCHI B., 2005, La città del ventesimo secolo, Laterza, Bari.


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RICCARDO RAO*

ALLA RISCOPERTA DEI PAESAGGI LOMBARDI DEL BASSO MEDIOEVO: PERCORSI STORICI PER LA VALORIZZAZIONE DEL TERRITORIO

Con il passare dei decenni, il dilatarsi della distanza tra i paesaggi attuali e quelli che erano diffusi nel medioevo costringe chi intenda ricostruire questi ultimi allo studio di paesaggi non solo “minimi”1, ma talora persino invisibili. Le grandi innovazioni agricole che si sono imposte a partire dalla fine del Settecento e, ancor più, tra Otto e Novecento hanno infatti compromesso la conservazione di un patrimonio paesaggistico in buona misura legato a pratiche colturali ormai scomparse. L’affermazione di un’agricoltura con una forte vocazione commerciale ha messo in crisi sistemi basati sulla compenetrazione degli spazi a favore della creazione di aree agricole monocolturali (ZAPPA, 1986, pp. 6870). Se anche i prodotti dell’agricoltura medievale e di ancien régime erano destinati alla commercializzazione, l’allargamento geografico del mercato ha consentito una forte specializzazione e l’incremento di alcune produzioni a scapito di altre, rimettendo in discussione consolidati equilibri tra le differenti coltivazioni. Si analizzerà in seguito un simile processo nel dettaglio. Per adesso basti accennare al fatto che alcuni dei paesaggi lombardi che vengono considerati tra i più autentici – i vitigni dei colli bergamaschi, del Franciacorta e dell’Oltrepò pavese o le risaie della Lomellina – sono in realtà invenzioni otto-novecentesche, basate sull’affermazione di monocolture commerciali, che hanno cancellato un paesaggio più antico impostato in forme assai differenti: nel medioevo le aree collinari lombarde oggi celebri per la viticoltura, a fianco di poche superfici già all’epoca specializzate lungo le vie stradali o fluviali più favorevoli (è il caso di zone assai limitate dell’Oltrepò, prospicienti il Po: MAFFI, 2010, pp. 59-60, 70-71), erano dominate dal bosco e dalla policoltura, con la coltivazione della vite su sostegno vivo, per lo più acero campestre, e di cereali in mezzo ai filari (la co-

siddetta piantata o alteno), mentre la Lomellina, per contro, destinava, accanto a notevoli estensioni a grano, ampi spazi proprio alla produzione del vino che si riversava sul mercato pavese e milanese. Paradossalmente, dunque, tali paesaggi che fanno ormai parte a pieno titolo della storia e delle identità della nostra regione sono sorti dalla cancellazione delle tipologie colturali che erano state dominanti per più di seicento anni, dal Duecento all’Ottocento. Si propongono in questa sede tre itinerari tematici legati al medioevo, in particolare ai secoli dal XII al XV, per ricostruire i caratteri originali del paesaggio lombardo. Si tratta di percorsi che possono integrarsi nelle politiche di valorizzazione del territorio e che potrebbero persino avere un’attualità in vista della prossima ricorrenza dell’Esposizione Universale, poiché, come vedremo, si intrecciano con le tematiche proposte dalla manifestazione che avrà luogo in Lombardia.

1. IL RAPPORTO CITTÀ-CAMPAGNA Tema classico della storiografia comunalistica italiana (FIUMI, 1956; PINI, 1981; CHIAPPA MAURI, 2003), il rapporto tra città e campagna interessa qui soprattutto per quanto concerne il suburbio, vale a dire l’area che si estendeva per alcuni chilometri al di fuori delle mura urbiche. Tale area coincide con le zone che oggi sono al centro della riflessione urbanistica finalizzata alla riqualificazione delle cinture verdi cittadine. Nel medioevo, essa si differenziava dalle altre campagne che componevano il contado dei comuni ed era caratterizzata da un rapporto strettissimo con il centro urbano. A Bergamo il suburbio, oggetto degli studi di Angelo Mazzi (MAZZI, 1892), in linea teorica arrivava fino a sei miglia dalla civitas: vi trovavano spazio

* Università degli Studi di Bergamo. 1 Il riferimento è al contributo di Renato Ferlinghetti, in questo stesso volume.


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gli incolti che i cittadini fruivano collettivamente per le necessità di pascolo e di raccolta della legna, a brughiera, in alcune aree pianeggianti come la Broseta e Longuelo, e a bosco, soprattutto sui rilievi alle spalle della Valle di Astino (RAO, 2009-2010, pp. 5859). Ben lontani dall’apparire come selvaggi, nel basso medioevo i boschi urbani erano ormai antropizzati, penetrati dal castagno domestico seminato dagli uomini per aumentare le potenzialità alimentari della macchia e da grappoli di case, spesso costruite grazie alla trasformazione di fienili ed edifici rustici adibiti all’uso stagionale (i tegetes di cui conserva la memoria toponomastica Valtesse, insediamento già documentato sul finire dell’XI secolo), che, sulla scia della forte espansione demografica, cominciavano a comparire qua e là (MAZZI, 1892, pp. 183-187; MENANT, 1993, p. 156). Simili dimore rurali sparse potevano dare vita a vere e proprie contrade, come a Fontana, quartiere sorto nei primi decenni del Duecento e alimentato dall’immigrazione di rustici speranzosi di acquisire attraverso lo stanziamento nel suburbio la condizione di cittadini (RAO, 2009-2010). Negli appezzamenti più a ridosso del centro urbano erano presenti gli orti e le vigne, talora abbinate a sostegni vivi. A Borgo Canale erano numerosissime le terre coltivate a vite, dotate di casa e talora persino di orto: si trattava per lo più di piccole proprietà di artigiani che ricavavano da tali superfici beni di prima necessità, come era all’epoca il vino. La presenza degli orti, in particolare, è assai antica e data almeno dall’alto medioevo: già nell’854 si fa riferimento a una petia ortiva2. In seguito, nel 1032 compare in una transazione un orto in località Castello presso Canale; nel 1076 si ha menzione di una casa con orto appena fuori dalle mura urbane; tra il 1085 e il 1086 sono documentate almeno due petie ortive in tale borgo, una delle quali nei pressi della Porta di Sant’Alessandro3. Anche la vite è una presenza antica, ben attestata nelle transazioni relative al Borgo fra IX e X secolo4. Nella seconda metà del Duecento e nei primi anni del Trecento, la vigna appare spesso associata al castagno: “terra vitata con 2

alberi di castagno” e “vigna con castagneto” sono espressioni che suggeriscono forme di policoltura agevolate dalle caratteristiche edafiche delle due piante, entrambe capaci di attecchire sui suoli scoscesi e di domesticare in tal modo terreni irraggiungibili per i campi5. La menzione nel 1292 di un appezzamento “già vitato e ora a castagneto” lascia supporre che i tentativi più arditi di impianto della vite, laquale durante la massima avanzata dei coltivi si era probabilmente estesa anche in zone scarsamente insolate o poco idonee, fossero stati abbandonati a favore di una coltura meglio adattabile come il castagno6. Se volgiamo lo sguardo ad altre città lombarde, magari con una differente conformazione geografica, come Pavia, priva di sfoghi collinari e per contro più ricca di Bergamo degli ambienti umidi ricavati dalla presenza del Ticino, la distribuzione degli spazi coltivati e incolti non cambia per quanto riguarda la presenza da un lato di appezzamenti per l’autoconsumo dei ceti medi e dall’altro di ampie risorse verdi per pascolo e raccolta legna nelle aree più periferiche e meno agrarizzate per caratteristiche naturali. Nella campanea (un altro nome utilizzato per indicare le superfici suburbane) fra Due e Quattrocento si concentravano minuscole proprietà a campo e a vigna, quest’ultima spesso a piantata. Appena fuori dalle mura urbane, il borgo di San Pietro di Verzolo era dominato dagli orti, bagnati dalle acque della Vernavola7. Nei terreni paludosi e ghiaiosi in riva al Ticino e nelle isole in mezzo a quest’ultimo si conducevano al pascolo gli animali e si raccoglieva la legna. Nel complesso, il suburbio nelle città lombarde del tardo medioevo si presentava come un laboratorio di forme paesaggistiche originali, destinate in seguito a diffondersi in maniera massiccia anche nelle campagne più lontane dalla città. È il caso di alcune novità colturali, come la piantata, o insediative, quali l’abitato sparso – nella forma dei tegetes a Bergamo e, nelquadro più generale della Lombardia, della cascina –, che si imposero fra i tratti distintivi del paesaggio rurale d’ancien régime della regione8.

CORTESI, 1988, doc. 16, p. 26. CORTESI, PRATESI, 1995, doc. 103; CORTESI, PRATESI, 2000, docc. 80, 144 e 155. Per la presenza della vite, ben evocata dall’identificativo del monastero dedicato a Santa Grata, inter vites, si veda, a titolo esemplificativo tra le menzioni più antiche, COSSANDI, 2007, doc. 44 (anno 1124). 4 CORTESI, 1988, doc. 26, p. 46, doc. 62, p. 101, doc. 79, p. 129, doc. 87, p. 141. 5 Per esempio: Biblioteca Civica di Bergamo, perg. 389 (1272), 1244 (1272), 1218 (1280), 1019 (anno 1292), 1070 (1302), 1641 (1302). L’associazione castagno-vite è documentata anche in operazioni di messa a coltura di boschi in Piemonte, in Valchiusella e a Mondovì nel tardo Duecento. 6 Biblioteca Civica di Bergamo, perg. 648. 7 Per la campanea e per gli orti di San Pietro in Verzolo rimando a Romanoni, 2005 (soprattutto alle pp. 60-74) e Romanoni, 2012. 8 Per la piantata, o alteno, si rimanda a COMBA, 1991. Sulla cascina nel medioevo si rimanda, all’interno di una vastissima bibliografia, ai lavori di CHITTOLINI, 1978 e DE ANGELIS CAPPABIANCA, 1988. 3


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Orti a Borgo Canale. Sin dal IX secolo a Borgo Canale sono documentati numerosi orti, che ancora oggi costituiscono una delle caratteristiche di tale zona.

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L’Agogna Morta. Grazie alle iniziative di rimboschimento avviate dall’inizio degli anni Novanta del Novecento, la lanca dell’Agogna morta, creata da un meandro del fiume abbandonato negli anni Cinquanta dello stesso secolo, nel territorio dei comuni di Nicorvo (Pv) e Borgolavezzaro (No), è coperta da un manto vegetale per molti aspetti simile a come si presentavano nel medioevo le foreste degli ambienti umidi lombardi: sono presenti farnie, carpini, pioppi, ontani, salici bianchi, noccioli e aceri campestri. Rispetto al medioevo, gli spazi boschivi sono tuttavia a ridosso delle risaie, che si estendono sin quasi alle acque della lanca.

Vigneti presso Casteggio. Se oggi i vigneti dell’Oltrepò costituiscono quasi una monocoltura, nel medioevo essi erano una presenza di rilievo, che tuttavia solo in alcune zone era sviluppata in forme intensive. Nel complesso, l’Oltrepò era terra di vigne, spesso disposte nella piantata, ma anche di boschi, e campi.

L’Adda Morta nei pressi dell’Abbazia di Cerreto. Il Lodigiano, con i ricchi ambienti umidi creati dall’Adda e dal Tormo, costituiva una zona ricca di paludi e di foreste. Proprio lungo il corso dell’Adda nei pressi dell’abbazia, sin dal XII secolo sono documentati ampi spazi boschivi, che fornivano alle comunità locali legna, frutti spontanei, canne, risorse per la caccia e la pesca.

Non di rado, lo stimolo alla realizzazione di simili trasformazioni fu dovuto alle nuove forme di organizzazione della proprietà imposte dai ceti urbani: il successo dell’abitato sparso, con la proliferazione di cascine nelle campagne, è, per esempio, almeno in parte riconducibile all’impulso trasmesso dalle famiglie di cittadini possidenti, che plasmarono in forma poderale alcune loro proprietà, in forme analoghe a quelle meglio studiate per la Toscana mezzadrile9.

2. LE ACQUE Le aree fluviali all’inizio del basso medioevo, nei secoli XI e XII, si presentavano con un volto assai differente rispetto a quello attuale. Oggi, le pianure, che nelle aree risicole vengono persino livellate con il laser al fine di eliminare le asperità del terreno, presentano anche in riva ai corsi d’acqua un aspetto nel complesso ordinato, scandito dalle coltivazioni:

9 Per la diffusione della mezzadria poderale su stimolo dei ceti cittadini senesi e fiorentini: PINTO, 1996, pp. 123-184. Per la Lombardia mi permetto di rimandare a un mio lavoro sulle investiture ad massaricium nel Pavese, in corso di pubblicazione in RAO, 2012.


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esse sono attraversate da grosse arterie d’acqua ben arginate, a loro volta tagliate da una raggiera di canali che ne impoveriscono in maniera sensibile la portata. Nel medioevo, i fiumi disegnavano paesaggi assai più irregolari. Essi davano luogo a numerosi dossi (dossi), valli (valles) e monti (montes) di cui è rimasta solo in parte traccia, per lo più a livello toponomastico. I corsi d’acqua erano scarsamente irreggimentati, sicché cambiavano corso con frequenza e nel loro incedere creavano rami morti, ampi meandri, lanche, piccoli laghi e vaste isole (dette anche mezzani, quando si trovavano al centro dell’alveo), sopravvissuti soltanto in numero assai modesto al presente. Un documento del XII secolo, relativo al Ticino nei pressi di Pavia, rappresenta in maniera efficace la vivacità dei paesaggi fluviali, animati da un reticolo di vie d’acqua e di isole. Nel 1140, il monastero di San Pietro in Ciel d’Oro entrò in possesso di un prato ubicato nel cosiddetto Ronco di San Pietro (con riferimento dunque a una località prediale oggetto di dissodamenti): la superficie prativa si estendeva dalla costa di Onella, attraverso il Lago di Mosasca, e dalla costa del vecchio corso del Ticino in su, fino al mezzano di Litardo, al prato di San Pietro, delimitato da un fossato, e all’alveo in uso del Ticino10. Le superfici paludose erano assai comuni nella bassa pianura: nel tratto lodigiano del Po, per esempio, nel 1152 si era formato un lago attorniato da un canneto11. Ancora adesso nei dintorni dell’abbazia di Cerreto, sempre nel Lodigiano, alla confluenza del Tormo nell’Adda, sono presenti alcuni laghi, già menzionati in documenti del 1147 e del 1212. In tale zona, il fiume correva particolarmente tumultuoso, dando vita a isole e mezzani, menzionati in un documento del 1187 presso Cavenago12. Soprattutto nelle zone della bassa pianura più distanti dalle città, le aree perifluviali erano rivestite da ampi spazi incolti. Assai ampie erano le foreste nel corso lodigiano dell’Adda, in particolare nei pressi di Galgagnano: qui l’Adda e le sue ramificazioni (Addua Mortua; ramellus Addue; canalis Ad-

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due) formavano vaste superfici paludose e un piccolo lago, il Morticcio, le cui sponde erano rivestite da canneti, prati e boschi, che nel 1151 erano contesi tra i milites milanesi e il vescovo di Lodi13. Nella stessa zona si estendevano, secondo documenti del 1148, del 1156 e del 1195, ulteriori boschi, tra cui quello della gera della Daladella14. Non è immediato determinare le essenze prevalenti in queste foreste fluviali della bassa lombarda, poiché la documentazione le identifica per lo più con parole latine dal significato generico quali nemus e buscus. Isolate menzioni documentarie, unite ai pochi dati palinologici che emergono dagli scavi, restituiscono tuttavia il paesaggio tipico degli ambienti umidi della pianura padana: a fianco della massiccia presenza della quercia, indicata nelle scritture come robur e da identificare per lo più con la farnia, compaiono ontani, carpini e frassini. Risultano diffusi anche i boschi di pioppo, individuati attraverso i vocaboli albaretum e pobledum, anche se essi non raggiungevano le estensioni attuali rese possibili dagli indirizzi commerciali che hanno reso tale idrofila tra le specie più affermate nelle aree perifluviali. Nelle superfici inondate dalle acque crescevano inoltre salici (salices, ma anche gabeta, vocabolo impiegato soprattutto per indicare gli esemplari capitozzati), rovi (spinosa è il termine adoperato da un documento lodigiano del 1195 per designare un’estensione incolta sull’Adda) e canneti15. Talora è documentato persino il castagno – per esempio nel 1187 si fa riferimento a un castagneto sul Lambro tra Pavia e Lodi – oggi poco presente nelle aree di pianura16. Nel complesso, i paesaggi fluviali bassomedievali di Lombardia appaiono mutevoli, in buona misura paludosi nelle zone della Bassa, scarsamente controllati dall’uomo. Le menzioni di argini, intesi dapprima come provvisorie riparazioni in legno e solo in seguito come vere e proprie costruzioni con consistenti riporti di terra, divengono frequenti soltanto fra Tre e Quattrocento, in concomitanza con la diffusione di più complesse competenze ingegneristiche17. Anche lo scavo delle canalizzazioni finalizzate

ANSANI, BARBIERI, BARETTA, CAU, 2004, doc. in data 1140, giugno 13. GROSSI, 2004a, doc. 61, in data 1152, giugno. 12 GROSSI, 2004a, doc. 55, in data 1147, marzo 5; ivi, doc. 170, in data 1187, giugno 25; GROSSI, 2004b, doc. 103, p. 206. 13 GROSSI, 2004a, doc. 59, 1151, settembre 3. 14 GROSSI, 2004a, doc. 55, in data 1148, marzo 7; doc. 77, 1156, marzo 13; doc. 208, 1195, gennaio 23. 15 Sul bosco nel milanese: RAPETTI, 1994, pp. 21-68, in particolare alle pp. 29-32 per le essenze. Per la foresta di Gazzo, ai confini tra il Pavese e il Vercellese, lungo la Sesia: RAO, 2011, pp. 40-47. Per il documento lodigiano del 1195: GROSSI, 2004a, doc. 208, 1195, gennaio 23. Situazioni non dissimili possono essere riscontrate in alcune aree lacuali caratterizzate da coste paludose, come presso il lago di Comabbio, nel Varesotto, dove nel 1105 si fa riferimento a boschi, prati e salici (MANGINI, 2007, doc. 6, in data 1105, gennaio 24). 16 MILANI, TOSCANI, 1974, doc. 54, p. 50. 17 Per un esempio di una simile evoluzione: RAO, 2011, pp. 35-40. 11


ALLA RISCOPERTA DEI PAESAGGI LOMBARDI DEL BASSO MEDIOEVO

all’irrigazione, “l’immenso deposito di fatiche”, nei secoli XII e XIII stava muovendo soltanto i suoi primi passi18. La costruzione del Naviglio grande risale al XII secolo, mentre solo nel 1457 fu progettato quello della Martesana (FANTONI, 1990, pp. 27-34). Il reticolo di canali (rogge, fossati) non raggiungeva le estensioni attuali ed era assai in ritardo nelle zone più vicine ai fiumi, dove lo scavo di fossati era finalizzato soprattutto a drenare le aree paludose: la Lomellina, la bassa Cremonese o il Lodigiano dovevano apparire a un viaggiatore del Duecento assai più arretrati rispetto al Milanese, dove la diffusione delle canalizzazioni era stata più pervasiva e dove già comparivano le prime forme di agricoltura intensiva: sin dai primi decenni di tale secolo, nelle terre dell’abbazia di Chiaravalle Milanese, in zone precocemente destinate alle colture foraggere, era stata sviluppata la rete irrigua attorno alla Vettabia; sempre nel Milanese sono attestate, nello stesso periodo, le prime marcite19.

3. L’ALIMENTAZIONE I paesaggi medievali sono innanzitutto paesaggi alimentari, dove l’uomo interviene sulla natura per incrementarne il più possibile la disponibilità di cibo. Una simile osservazione si adatta non solo agli spazi coltivati, dove la connessione con l’approvvigionamento risulta evidente, ma anche su quelli incolti: paludi, boschi, pascoli, prati e brughiere fornivano superfici essenziali alle pratiche dell’allevamento, della caccia e della pesca. Essi non rispondevano pertanto, secondo la nostra prospettiva attuale, ad ambienti naturali, ma piuttosto a spazi intensamente antropizzati e modellati dall’uomo. I secoli XI-XIII rappresentano in questo ambito un’epoca di decisive trasformazioni. L’imponente crescita demografica innescò la richiesta di nuove risorse alimentari che, come è noto, non fu conseguita attraverso un’agricoltura intensiva, ma piuttosto allargando le superfici coltivate a scapito dell’incolto, i cui prodotti persero nel complesso peso nell’alimentazione contadina rispetto all’alto medioevo (all’interno di una vastissima bibliografia: CHERUBINI, 1984; MONTANARI, 1988, soprattutto alle pp. 35-37). L’intervento sugli incolti si realizzò in due modi. 18

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Innanzitutto, esso avvenne attraverso il disboscamento. Gli spazi forestali furono assai ridotti: in particolare i boschi fluviali furono in buona misura intaccati dalle coltivazioni, che nel periodo di massima pressione demografica si estesero fino alle sponde e alle giare, eventualmente attraverso l’impianto di aglio, legumi e cereali minori (spelta e miglio), meglio adattabili ai suoli alluvionali rispetto ai cereali invernali (frumento e segale). In secondo luogo furono tentati processi di riqualificazione del manto vegetale, la cosiddetta “domesticazione del bosco”, attraverso l’implementazione delle essenze, magari già presenti in forma selvatica, che potevano offrire un contributo alimentare (COMBA 1983, pp. 106108). Il carpino fu aumentato per la sua capacità di provvedere, con il fogliame, al nutrimento degli animali (sui frascheta, gli alberi da foraggio, si veda COMBA, 1990, pp. 56-70). Soprattutto, però, ebbe grande diffusione il castagno domestico, che, in special modo sulle superfici scoscese che non potevano essere aggredite dalle coltivazioni cerealicole, rimpiazzò il castagno selvatico e si sostituì per ampie estensioni alla quercia: parallelamente andò scemando l’allevamento brado dei suini, che proprio dalla presenza delle ghiande aveva tratto linfa nell’alto medioevo (COMBA, 1999). Proviamo a restituire attraverso alcuni esempi un’immagine della compresenza, nei boschi del XII e del XIII secolo, tanto di pianura quanto di collina, di attività agricole volte ad aumentare gli spazi coltivati e pratiche silvo-pastorali intese a sfruttare le potenzialità alimentari degli incolti. A Bergamo, a inizio Duecento i cittadini si recavano sui boschi del Monte di Città – i colli che da San Viglio e dalla valle d’Astino si estendevano fino a Sombreno – per andare a caccia e per condurre il bestiame al pascolo. Il castagno si era assai diffuso sul Monte, mentre nei punti prossimi agli insediamenti abitati gli incolti erano stati trasformati in campi fertili (RAO, 20092010). Nei boschi e nelle paludi di Galgagnano, sull’Adda, nella seconda metà del XII secolo, si segavano i canneti, le frasche e le rame (gli alberi da foraggio), il fieno e la legna; si raccoglievano i frutti dei rovi (more?); si portavano al pascolo buoi e cavalli e si pescava: si coltivavano tuttavia anche il miglio e la segale e parte del bosco del Morticcio era stata arroncata e ridotta a campo20. Infine, nella foresta di

L’espressione è tratta da SINATTI D’AMICO, 1988. CHIAPPA MAURI, 1990, pp. 84-89. 20 GROSSI, 2004a, doc. 59, 1151, settembre 3: “in ipsa Addua Mortua erat quidam lacus in quo piscatus sum per multas vices”; «segavimus cannas in isto Morticio”; “tenemus ipsum Morticium per suprascriptos viginti annos et plus ad pascolandum”; “damus inde fictum pro unoquoque bobulco starium unum inter milium et sicalem”; “et scio quod ipse Petrus arruncavit partem de ipso busco qui erat in ipso Morticio”; “vidi Dedadum facere segare pratum quod est in prefato Morticio”; “egomet tenui et aliis qui intus piscabantur pisces abstuli”; “pascolando et segando de erba et taliando buscum, scilicet frascas et ramas”; “predictorum militum villani pascendi licentiam habeant segandi quos licentiam habeant tunc tantum quando cum bubus ad pascendum vadunt, non cum falce preda19


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RICCARDO RAO

Gazzo, sul basso corso della Sesia tra il Pavese e il Vercellese, le attività di pascolo, di raccolta della legna e delle nocciole, che vi crescevano abbondanti, erano state contratte dall’avanzare dei coltivi: frumento e segale, ma anche miglio e legumi (RAO, 2011). Nei pressi del monastero di San Benedetto di Polirone, nel Mantovano, sorto su un’isola fluviale creata dal Po e dal ramo del Lirone, all’inizio del XII secolo gli ambienti umidi appaiono in trasformazione. La contessa Matilde di Canossa nel 1105 e nel 1109 donò al monastero tutti i suoi beni siti sull’isola, inclusi «case, masserizi, terre colte e incolte, paludi, diritti di pesca e di caccia, foreste, campi, prati, pascoli, le acque con il loro diritti d’uso, rive e mulini». In particolare, i confini dell’isola di San Benedetto erano costituiti dal Po, dalla curtis del Ronco Rolando, dal Lirone e dalle foreste dette Castagnola, Solamen e Carpaneta, nonché da un torrente che giungeva sino a Pescarola21. Emerge l’immagine nitida di un ambiente fluviale, la cui ricchezza principale risiede nelle acque: si notino i riferimenti formulari ma insistiti a paludi, mulini, rive, acque e diritti di pesca. La toponomastica locale esprime in maniera immediata la presenza di zone di pesca (Pescarola) e di ampi spazi boschivi votati alle attività silvo-pastorali e connotati dalla presenza di preziose essenze quali castagni e carpini (Castagnola, Carpaneta), dove tuttavia erano in corso tentativi di agrarizzazione (Ronco Rolando). Nel complesso, la quercia, disboscata o rimpiazzata da altre specie, appare in difficoltà di fronte alle metamorfosi bassomedievali dell’incolto, passando da essenza dominante a presenza tutelata e limitata ad alcuni spazi: la pressione su tale pianta è ben testimoniata da un documento del 1113, con cui Matilde pose vincoli sullo sfruttamento del bosco di Bagnolo, consentendo ai monaci del cenobio di tagliare ogni anno non più di dodici esemplari tra “roveri e cerri” (“rofores et cerros”)22. Venendo agli spazi coltivati, riserveremo una par-

ticolare attenzione a due particolari tipi di coltivazioni: la vite e l’olivo. I vini pregiati erano nel complesso piuttosto esigui e rappresentavano un quota modesta della produzione vitivinicola: essi consistevano soprattutto in vini bianchi23. Dall’Oltrepò pavese, che sin dagli ultimi secoli del medioevo era rinomato per alcune sue produzioni, provenivano moscatelli, malvasie e il gragnolato, tratto da una particolare uva24. Come è noto, tuttavia, il vino costituiva nel medioevo un bene di prima necessità, soprattutto laddove, grazie alle sue proprietà antisettiche, consentiva di evitare il consumo di acque infette. Pertanto, la vigna era presente in ogni centro e si adattava anche a suoli non idonei – pianeggianti, montuosi o scarsamente insolati – in abbinamento con colture che, pur aumentando la produttività complessiva delle superfici coltivate, non permettevano di realizzare vini di qualità. Così, persino nel Lario, su terreni non accoglienti, la vite risultava la coltura dominante dopo il campo (GRILLO, 2010). In tale area, come nel resto della Lombardia, dal Duecento essa sembra imporsi in forme policolturali, associata al solo arativo o anche, nella versione della piantata, a sostegni vivi25. L’olivo, infine, costituiva una produzione di rilievo nelle aree lacustri della regione. Sui Laghi di Garda (VARANINI, 2005) e di Como, esso è attestato in grandi quantità sin dall’alto medioevo. Nell’ultimo quarto del Duecento, negli immediati dintorni della città lariana tale coltura era addirittura la seconda più diffusa dopo il campo (GRILLO, 2010, p. 125). L’olivo è tuttavia attestato anche presso bacini meno ampi, come i laghi d’Iseo e di Varese26. In maniera più sporadica tale pianta fa capolino anche al di fuori delle aree lacustri: nel 933 si fa riferimento, per esempio, al palese fitotoponimo Oliveto nei pressi di Borgo Canale di Bergamo27. Si deve tuttavia ricordare che l’olio di maggior consumo restava probabilmente quello di noce, tratto da una pianta che in Lombardia era assai diffusa, soprattutto nell’alta pianura28.

ria set cum sigezo buscare de ramis et foliis omni tempore eis liceat, que tamen erba scilicet et ligna ad dorsum non cum plaustro ferant”. Ivi, doc. 208, 1195, gennaio 23: “habere et tenere debeant suprascriptam spinosam […] et facere in ea de frugibus et reditibus seu censibus quos exinde annue a Dominus eis dederit quicquid eis fuerit oportunum”; “si dominus episcopus habuerit malgam in curte Galgagnani, quod in ea pasculare possit nisi in labore blave aut leguminum aut pratis postquam erit posita in guarda”. 21 RINALDI, VILLANI, GOLINELLI, 1993, doc. 54, p. 205, doc. 70, p. 228. 22 RINALDI, VILLANI, GOLINELLI, 1993, doc. 84, p. 264. 23 Per un inquadramento generale su consumi, gusti vitivinicoli e uso del torchio nell’Italia medievale si veda PASQUALI, 1994. 24 Per moscatelli e malvasie si veda BUPv, ms. Aldini, ms. 506, Libro dei dazi di Milano e di Pavia (secc. XIV-XV), f. 6. Secondo Opicino de Canistris, in Lomellina “legitur optimorum leguminum copia: ibi adhuc meliora vina nascuntur vivo colore et in estate salubria”, mentre in Oltrepò “sunt vinee preciosissima vina glauca ferentes et valde desiderabilia”. Per quanto riguarda il gragnolato, vi fanno riferimento diversi documenti pavesi trecenteschi, per i quali mi permetto di rimandare a RAO, 2012. 25 Per tali abbinamenti colturali nella Bergamasca (tanto in area collinare che pianeggiante) si veda GRILLO, 1999, pp. 346-347. 26 Per il lago d’Iseo: PASQUALI, 2005; GRILLO, 1999, p. 348. Per quello di Varese si veda per esempio MERATI, 2005, doc. 5, ante 959. 27 CORTESI, 1988, doc. 79, p. 129. 28 Solo a titolo esemplificativo, a Monate, nel Varesotto, nel 1181: ZAGNI, 1986, doc. 27.


ALLA RISCOPERTA DEI PAESAGGI LOMBARDI DEL BASSO MEDIOEVO

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RICCARDO RAO

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CDLM = Codice diplomatico della Lombardia medievale, progettazione a cura di M. Ansani, http://cdlm.unipv.it


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RENATO FERLINGHETTI*

L’ANELLO DEI CORPI SANTI Una lettura geografica per la valorizzazione dell’area di frangia urbana di Bergamo

Nei centri urbani lombardi la porosa area di transizione tra città e campagna ha costituito, dall’alto medioevo alla seconda metà del XIX, i Corpi Santi, suburbio esterno alle mura costituente il limite amministrativo esterno della città. Il termine Corpi Santi si affermò a partire dal Medioevo: in origine indicava, probabilmente, le aree in cui sorsero i primi cimiteri che accoglievano le reliquie dei martiri cristiani. Successivamente il termine definì le proprietà di campagna delle chiese e delle congregazioni religiose, quindi la locuzione fu applicata al complesso dei beni di una città situati oltre la cinta muraria, quando avesse l’onere di immunità ecclesiastiche (GHIZZARDI, 1996). Secondo Carlo Guido Mor ‘Con la denominazione di Corpi Santi si denotò quella fascia di territorio variante fino a un miglio circa che, posta al di fuori delle mura cittadine, rimase però sempre in tutto dipendente dalla città, come sua pertinenza diretta, ed è probabile che altro non rappresenti se non i mille passi dell’antico ordinamento urbano romano (…) . Su questo territorio si esercitò dapprima la giurisdizione del vescovo, al tempo in cui cominciò ad essere titolare anche di diritti politico-amministrativi, poi esso costituì la zona di diretta influenza della città, anzi il massimo confine delle città stesse, in contrapposto al contado (così a Milano, Pavia, Cremona, Alessandria, ecc.) talvolta assumendo nomi diversi’1. Per Giovanni da Lezze (1596) afferiscono ai Corpi Santi di Bergamo le ter-

re ‘non più lontane da Bergomo di due milia incirca’ in cui ricadevano le seguenti località: Antescolis, Redona, Torre Boldone, Valtesse, Rosciano, Spalenga, Boccaleone, San Pietro, Daste, Campagnola, Colognola, Grumello del Piano, Lallio, Sudorno, Fontanabrolo, Castagneta, Broseta, Longuelo, Curnasco con Dalcio, Fontana, Valle d’Astino, San Vigilio, Bastia. Il limite di due miglia è ribadito anche da Celestino Colleoni (1618) e da Vincenzo Formaleoni (1777)2, il primo autore quantifica in circa cinquemila abitanti la popolazione dei Corpi Santi3 bergamaschi. Il Maironi da Ponte nella sua descrizione Odeporica della provincia di Bergamo (1820) ripartisce i Corpi Santi4 locali nelle quattro parrocchie cittadine di S. Grata inter vites, S. Alessandro in Colonna, S. Alessandro in Croce e S. Agata. Alla prima fanno riferimento i nuclei abitati di S. Vigilio, S. Sebastiano, Fontana, S. Martino, S. Matteo, Longuelo, Astino, Castagneta, Valmarina, Fontanabrolo; alla seconda S. Lucia Vecchia (così indicata per distinguerla dalla chiesa di S Lucia e S. Agata dentro le Muraine), Paradiso, Broseta, S. Tommaso de’ Campi, Campagnola. Appartengono alla Parrocchia di S. Alessandro in Croce Boccaleone, Daste e Spalenga, Celadina. ‘La piccola adiacenza chiamata Valverde’, è posta, invece, in relazione con la parrocchia di S. Agata dei Carmini. Una sintesi della mutevole geografia amministrativa dei Corpi Santi di Bergamo è riportata

* Università degli Studi di Bergamo. 1 In CALZA (2000). 2 ‘D’intorno alla città avvi certo spazio di terreno che chiamasi, non so perché de’ Corpi Santi, in cui veggonsi sparse varie ville e luoghi suburbani (…) e che fuori della città più di due miglia dilungasi…’ FORMALEONI (1777), p. ?? 3 ‘Gli abitanti di queste Contrade, e Terre, che non arrivano a cinque milla, possono havere para di Buoi 250, di Cavalli circa 150, Vacche sopra 200 e più di cento Pecore’ Colleoni (1618), p. ??. La cifra collima con quella proposta nel 1596 da G. DA LEZZE: ‘...fuochi n. 1265, anime n. 5031, de quali utili n. 1153’, op. cit., p. 147. 4 Così il Maironi definisce i Corpi Santi: ‘…porzione di contado, che resta adiacente immediatamente alla città, e soggetta alle parrocchie della medesima. Alcuni vogliono che la denominazione di Corpi Santo loro derivi dall’essere stati questi luoghi in certa guisa santificati dai cadaveri de’ primitivi cristiani, che sempre fuori del recinto della città suolevansi nottetempo seppellire; e fra i quali molti santi martiri vennero riconosciuti, e si annoverano. Altri vorrebbero che così si appellassero per quello che tali adiacenze della città anticamente venivano perlustrate da sacre processioni portanti le reliquie de’ santi protettori della città, venerati specialmente nella Cattedrale, donde tali processioni sempre incominciavano’ (1820, p. 48).


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nell’Atlante storico del territorio bergamasco (OSCAR, BELOTTI, 2000); in questa sede più che seguire la complessa evoluzione amministrativa dei Corpi Santi, in perenne oscillazione tra volontà egemonica della città e istanze di autonomia5, si vuol sottolineare la loro specifica struttura paesaggistica raramente richiamata negli interventi che interessano quella che oggi viene generalmente definita frangia urbana. I labili confini degli arcaici pomeria romani, misurati da simbolici mille passi, e le aree extramoenia di sepoltura dei “corpi santi” venerati durante i primi secoli della cristianizzazione e che nel tempo sono andati definendosi come Corpi Santi, sono frequentemente definiti ‘vuoti urbani’6. Le proposte progettuali che li investono spesso utilizzano neologismi di richiamo ecologico-ambientale, quali metrobosco, bosco in città, raggi cinture e dorsali verdi, espressioni efficaci da un punto di visto della comunicazione, ma che non si relazionano con la matrice storico-paesaggistica locale, caratterizzata da quadri ambientali altrimenti strutturati in cui la presenza dei consorzi arborei, ripetutamente richiamati, era marginale o totalmente assente. La causa di tale inadeguatezza può essere probabilmente ricondotta al fatto che i Corpi Santi, nelle analisi di contesto, sono considerati esclusivamente una struttura amministrativa e non un luogo dotato di specifici processi ed esiti territoriali. Tale approccio accentua la presunta fragilità degli ambiti di frangia che se anticamente non hanno potuto resistere o fronteggiare l’egemonia della città, oggi rischiano ancora una volta di soccombere al dominio della visione urbana. Se le contemporanee prassi territoriali non sono sostenute da un’adeguata cultura dei luoghi, a cui la geografia concorrere in modo assai significativo7, gli interventi generano processi di sostituzione più che di integrazione e rifunzionalizzazione, con conseguente indebolimento del palinsesto locale.

Le aree di margine urbano pur in un articolato sviluppo storico8, presentavano una loro identità paesaggistica mantenutasi fino alla metà del Novecento in centri, quali Bergamo, Cremona, Pavia, ecc., non investiti, come il capoluogo regionale dall’esplosiva espansione insediativa. Nel suburbio dei Corpi Santi la vicinanza del mercato urbano favoriva, rispetto al contado, l’ampia diffusione delle colture orticole, con l’approssimarsi del centro urbano s’infittiva anche la rete del reticolo idrico artificiale e la presenza dei luoghi del lavoro ad essi associati. Numerose ville padronali, funzionali sia al controllo delle proprietà fondiarie che agli ozi agresti, punteggiavano il suburbio. Come ricordato da molti autori anche i nuclei demici, gli oratori e le chiese campestri caratterizzavano le aree extra moenia. L’immagine convenzionale e stereotipata dei margini urbani quali luoghi melanconici e depressi è capovolta nelle descrizioni storiche di numerosi autori. Carlo dell’Acqua, autore di una monografia sul comune dei Corpi Santi di Pavia così si esprime: ‘Ubertoso territorio posto in bella e amena parte dell’agro pavese, che spicca per suo vaghissimo tappeto di verzura e di fiori; un territorio sul quale sorgono fabbricati di villeggiatura sparsi qua e là su ridenti poggi, e stendonsi vallette bagnate dalle acque della Vernavola che vi serpeggia con grazioso giro, del Naviglio, del Navigliaccio e di altri piccoli canali che si diramano per ogni dove con immenso vantaggio dell’agricoltura’. Non meno articolato risulta il quadro descritto nei primi decenni dell’Ottocento dal Maironi da Ponte per il contesto bergamasco. Numerose località sono definite luoghi di delizie o ameni ritiri. S. Matteo è il sito di villeggiatura della nobile famiglia Benaglia, al caseggiato detto il Paradiso, posto in Borgo Canale ‘soglionsi dare gli esercizj spirituali a chi ama averli in un ameno ritiro’; le ‘varie campagnuole’ di Boccaleone sono caratterizzate da ‘amene

5 Durante il dominio della Serenissima il comune di Bergamo era costituito da Città Alta, i Borghi, le Vicinie urbane e le contrade dei Corpi Santi. Quest’ultimi, pur soggetti alla stessa legislazione dei cittadini, presentavano alcune specificità. La loro amministrazione era formata dal Consiglio generale, costituito dai capofamiglia; il Consiglio eleggeva uno o più sindaci, un ufficiale addetto alla notifica degli atti e gli impiegati necessari al disbrigo delle pratiche locali. I Corpi Santi provvedevano autonomamente alla soluzione di alcuni problemi locali quali la manutenzione e la pulizia delle strade, l’illuminazione notturna o l’assistenza ai bisognosi (Maffioletti, s.i.d.). Con un decreto del Regno d’Italia del 1805 il comune di Bergamo assunse la competenza su tutto il territorio cittadino, ad esclusione di otto contrade dei Corpi Santi (Colognola, Campagnola, Curnasco, Grumello, Lallio, Redona, Torre Boldone, Valtesse) che divennero comuni autonomi. Il capoluogo si oppose risolutamente all’autonomia amministrativa dei nuovi comuni, ma ottenne solo il riaccorpamento di Campagnola. Nel 1809 un nuovo decreto del Regno d’Italia riunì a Bergamo gli ex Corpi Santi e altri ventiquattro Comuni del circondario da sempre autonomi. Nel 1816 il Governo Austriaco, in uno dei suoi primi decreti ristabilì l’autonomia delle sette contrade e dei centri urbani accorpati a Bergamo dal decreto del 1809. Le antiche contrade dei corpi Santi rimasero autonome fino ai primi decenni del Novecento quando quattro di queste (Colognola, Grumello, Redona, Valtesse) vennero riaccorpate al capoluogo. 6 Il termine ampiamente diffuso nella letteratura e documentazione urbanistica è anche utilizzato nelle pagine del sito del Comune di Bergamo che presenta la meritevole iniziativa della cintura verde del capoluogo. 7 Fondamentale a tale proposito rimane, per il territorio bergamasco, l’opera di L. Pagani, di cui è stata pubblicata recentemente una significativa sintesi (FERLINGHETTI, 2008). 8 Si veda, ad esempio, per la fase medioevale di Bergamo il contributo di Riccardo Rao nel presente volume.


L’ANELLO DEI CORPI SANTI

ville di nobili e signorili famiglie’9; Celadina è invece luogo di delizie del nobile ed illustre conte Ercole Camillo Tassis. La campagna che riveste il piano della città è definita ‘ubertosissima… fornita di gelsi e ferace di ogni sorta di granaglia’. Tra gli opifici il Maironi ci ricorda la realizzazione, nel capoluogo della vasta contrada di Boccaleone, di una filanda la prima delle ‘così dette Filande a vapore che si è veduta nella nostra provincia dopo quella de’ signori Marietti in Canonica. Ne fu introduttrice, e ne è proprietaria la gentilissima dama donna Teresa Balucanti vedova Pezzoli; la quale accoppiando alle doti di spirito tutte le virtù domestiche più pregievoli, ha voluto procurare alla nobile famiglia i vantaggi anche di questa utile riforma nella filatura de’ bozzoli, e promuovere anche coll’esempio suo la introduzione di questo bel ritrovato’. Il quadro paesaggistico dei Corpi Santi della Città di Bergamo non è stato completamente obliterato dalle recenti espansioni del tessuto urbano. Alla sua conservazione hanno contribuito significativamente le norme dei Piani Regolatori e l’istituzione del parco Regionale dei Colli di Bergamo che presentano particolare attenzione alla dorsale collinare10. Nella fascia a meridione delle città la forte espansione, che ha investito il suburbio a partire dagli anni Cinquanta, ha interessato in modo progressivo sia le località dei Corpi Santi, sia le corone dei comuni intorno alla città. L’espansione delle aree produttive e residenziali ha privilegiato il fronte delle strade che si dipartono a raggiera dal capoluogo, risparmiando però ampie superfici intercluse tra le principali direttrici viarie. Tali contesti aperti permettono di fruire di spazi in cui è ancora leggibile l’assetto tra9

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dizionale e di volgere lo sguardo, libero da detrattori paesaggistici, verso la città sul colle. La forte leggibilità dei Corpi Santi è ulteriormente amplificata dalla rete di strade poderali che ancora collegano le antiche contrade e i nuclei storici. Le carrarecce lambiscono chiese campestri, affiancano numerose rogge, seguono le cortine verdi interpoderali, permettendo di incontrare in modo ‘dolce’ e ‘leggero’ la trama paesistica locale. I cascinali in borlanti di Spalenga, tagliati dal sinuoso corso della Roggia Morlana (figg. 1-2), antichi luoghi di stazionamento delle mandrie che ogni anno scendevano e salivano dalle montagne, il nucleo idraulico alle spalle della nuova Fiera in Via Lunga, le cortine di ville storiche di via de Gasperi tra Boccaleone e Campagnola, la via dei Prati a Campagnola, che dal medievale castello (fig. 3) conduce alle pecie agricole (fig. 4) generate dal duecentesco intervento di bonifica comunale che mise a coltura gli incolti dell’antica corte Murgola, il Cinquecentesco complesso delle Canove, sorto nei pressi di un antico castello11, affiancato dall’asta della Roggia Nuova, l’antica e raccolta contrada di Colognola al Piano (fig. 5), stretta dalla roggia Guidana e affiancata dal vaso della Morlana catalizzatrice di numerosi opifici e moderne attività produttive, la vasta campagna verso Grumello al Piano (figg. 6-7) increspata dalle tracce del paleoalveo del Morla, il cui corso nel XIII fu ‘spento’ per condurre le acque del torrente verso la ‘terra nova’ di Comun Nuovo, i nuclei storici di Grumello al Piano (fig. 8) e di Curnasco (fig. 9), la campagna interno a S. Zenone, ricca di acque e di cortine vegetali (fig. 10) che accolgono specie di interesse naturalistico12, ultime testimonianze del bosco del Pola-

Il Maironi richiama per la contrada le ville delle famiglie Romili, Asperti, Agliardi, Pezzoli, Goltara, Sottocasa, Volpi, Benaglia,

Lupi. 10

Esemplare, per sensibilità civile e lungimiranza amministrativa, sono le parole espresse da Tino Simoncini, sindaco di Bergamo dal 1956 al 1964, alcuni anni dopo la promulgazione delle norme a difesa dei Colli di Bergamo, in particolare della norma del cinquantesima, oggetto di numerose critiche, ma che garantì la conservazione della collana verde che abbraccia e valorizza la città sul colle. La tensione civile e culturale delle sue argomentazione lasciano ancor oggi stupiti e per molti aspetti costituiscono un episodio raramente eguagliato nei contemporanei processi di governo del territorio. ’ Abbiamo la chiara consapevolezza, noi Amministratori del Comune, di essere custodi gelosi di un patrimonio tanto prezioso quanto delicato ed interdiamo esercitare una funzione di consapevole conservazione, seguendo i dettami della più moderna scienza urbanistica ed alla luce degli strumenti giuridici a nostra disposizione. Abbiamo quindi resistito a tutte le improvvisazioni che potessero comportare una alterazione dello scenario collinare così come si è conservato ed è stato fino ad oggi molto opportunamente protetto dal nostro piano regolatore generale e da altre norme di carattere panoramico, emanate a tutela dell’ambiente (…). Abbiamo ritenuto giustamente di attendere che dette norme sviluppassero una loro radicazione giuridica e psicologica onde fosse ben chiaro che l’incentivo edilizio era ed è rigorosamente subordinato all’interesse pubblico che, in questo caso, è rappresentato da una serie di elementi per la più parte convergendo verso una esigenza di conservazione. Ogni alterazione particolare deve inserirsi in tale esigenza ed ogni nuovo insediamento residenziale o retificazione viaria, deve introdursi col garbo di chi tutto faccia per armonizzare il più possibile la nuova presenza’. 11 I terreni nei pressi delle Canove sono denominati, in un inventario del XIII secolo e nel Catasto Napoleonico, post castello (PETRÒ s.i.d.). Il toponimo ricorda la presenza in loco di un castello di ricetto, sorto probabilmente nel XI-XII secolo. 12 Le aree degli ex Corpi Santi presentano un significativo patrimonio naturalistico, oltre che per la presenza di prati, cortine arboree, fossi, aree umide, ecc., anche per la diffusa presenza di paesaggi minimi (muri in pietra e borlanti, selciati, rovari o murere, manufatti legati al governo delle acque, siepi, ecc.) che concorrono a salvaguardare la biodiversità e il volto tradizionale dei luoghi (FERLINGHETTI, 2010a). Per paesaggi minimo si intende un’area costituita da superficie esigua, frutto della trasformazione umana, inserita in contesti ad elevata antropizzazione e caratterizzata da originalità, specificità geografica, valore storico-paesaggistico e identi-


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RENATO FERLINGHETTI

resco, l’omonima cascina acquattata su un alto morfologico per difendersi dalla falda idrica subaffiorante, la cui circolazione, probabilmente sottovalutata, tanti problemi pare causare al nuovo complesso ospedaliero cittadino, le conche di Borgo Canale, Astino, Pascolo dei Tedeschi e Fontana costituiscono i nodi di una collana che da oriente a occidente circonda la nostra città saldandosi alla dorsale verde dei colli di Bergamo (fig. 11). Rete periurbana di spazi aperti e nuclei storici ancora, sebbene ogni giorno in modo più faticoso e frammentato, percorribile. La delicata trama dei Corpi Santi merita un’attenta risignificazione, in senso pubblico, aperto e inclusivo che salvaguardi gli aspetti caratteristici di una territorializzazione plurimillenaria e costruisca nuovi paesaggi di transizione tra il nucleo denso della città e gli spazi aperti dell’attuale campagna industrializzata. Le frammentazioni della rete di percorsi campestri sono ancora facilmente superabili, il successo di pubblico della Green-way del Morla e delle piste ciclabili lungo i piedi dei Colli da Bergamo a Sombreno testimoniano l’esigenza di spazio, di ambiente e di luoghi, anzi, richiamando SCANDURRA (2007), di fronte agli omologanti processi della globalizzazione si sente sempre più il bisogno di ripartire dai luoghi. La costruzione di un anello ciclo-pedonale attraverso la frangia urbana di Bergamo intercetterebbe i luoghi degli spazi agricoli multifunzionali, le aree di produzione dell’agricoltura periurbana che dalla fruizione pubblica potrebbero ricevere ulteriori stimoli. L’invito è pertanto a considerare i cosiddetti ‘vuoti urbani’ della cintura cittadina, l’antico contado dei Corpi Santi, come un denso territorio che ci impone una innovativa progettazione densa di cultura dei luoghi e di spinte innovative. Tali processi di qualità urbanistica dovranno mettere in valore anche il capitale sociale di queste aree che negli ultimi anni si è distinto per numerose proposte finalizzate alla costruzione di ambienti di vita di qualità13. I contesti delle cosiddette periferie locali, oltre a l’inaspettata leggibilità della propria stratificazione storico-paesaggistica e la significativa dotazione ambientale, presentano anche una vivace impegno civili, capace di determinare resistenza a ciò che Nancy ha chiamato la ‘banalizzazione del territorio’ cioè la perdita di specificità e di memoria dei contesti locali. La breve rassegna fotografica che completa il saggio vuol essere una suggestione al ri-

conoscimento delle presenze che ancora innervano il margine urbano e un invito a visitare e scoprire con nuovi occhi il suburbio bergamasco, con l’auspicio che tale ambito sia oggetto di una nuove attenzione che sappiano responsabilmente e adeguatamente agire dentro i luoghi. Bibliografia CALZA G.P., 2000, Breve e contrastata la vita autonoma dei Corpi Santi di Pavia (1756-1883), Annali di Storia Pavese, 28, pp. 121-146. COLLEONI C., 1618, Historia quadripartita di Bergamo et suo territorio, II/2, V. Ventura, Brescia. DA LEZZE G., 1596, Descrizione di Bergamo e suo territorio, MARCHETTI V., PAGANI L. (a cura di), Fonti per lo studio del territorio bergamasco, VII, Provincia di Bergamo, Bergamo. DELL’ACQUA C., 1877, Il comune dei Corpi Santi e Ca’ Tedioli, Fratelli Fusi, Pavia. FERLINGHETTI R., (a cura di), 2008, Per una cultura dei luoghi. Antologia di scritti di Lelio Pagani, Monumenta Bergomensia LXXIII, Provincia di Bergamo, Bergamo. FERLINGHETTI R., 2010a, Paesaggi minimi: caratteri, valori, prospettive. Un approccio geografico, in ZERBI M.C., FERLINGHETTI R. (a cura di), Metamorfosi del paesaggio. Interpretazioni della geografia e dell’architettura, Guerini Scientifica, Milano, pp. 103-116. FERLINGHETTI R., RUGGERI G., 2010b, Paesaggi minimi e sapienza territoriale, in ADOBATI F., PERETTI M.C., ZAMBIANCHI M., Iconemi 2010, alla scoperta dei paesaggi bergamaschi, Università degli Studi di Bergamo - Centro Studi sul Territorio ‘Lelio Pagani’, Quaderni, 19, Bergamo University Press - Sestante, Bergamo, pp. 59-68. FORMALEONI V., 1777, Descrizione topografica e storica del bergamasco, dedicata alle tre Stati Generali della Provincia medesima, G.B. Costantini, Venezia. GHIZZARDI E., 1996, Bergamo lungo i secoli. Il quartiere della Celadina, Parrocchia San Pio X di Celadina, Bergamo. OSCAR P., BELOTTI O. (a cura di), 2000, Atlante storico del territorio bergamasco. Geografia delle circoscrizioni comunali dalla fine del XIV sec. ad oggi, Monumenta Bergomensia LXX, Provincia di Bergamo, Bergamo. LONGHI S., Il castello di Campagnola: proprietà e strutture materiali fra XIII e XIV secolo, in COLMUTO ZA-

tario, habitat di biocenosi di pregio naturalistico poco diffuse nell’ambito territoriale contermine. Carattere distintivo dei paesaggi minimi è l’essere frutto della trasformazione umana e quindi di non costituire elemento della matrice originale del luogo, ma di essere frutto della sua reificazione antropica in stretto collegamento con il contesto tradizionale, dotato cioè di particolari caratteri, per le tecniche esecutive, per i materiali utilizzati che lo rendono specifico in senso geografico (FERLINGHETTI, RUGGERI, 2010b). 13 Si veda a tale proposito in questo volume il contributo di S. Sottocornola.


L’ANELLO DEI CORPI SANTI NELLA G. (a cura di), Territorio e fortificazioni, Ateneo di Scienze, Lettere e Arti di Bergamo, Quaderni, Ed. dell’Ateneo, Bergamo, pp. 113-134. MAFFIOLETTI S., s.i.d., Terra di Colognola, AVIS e Aido di Colognola, Bergamo. MAGATTI M. (a cura di), 2007, La città abbandonata. Dove sono e come cambiano le periferie italiane, Il Mulino, Bologna. MAIRONI DA PONTE G.,1820, Dizionario odeporico o sia

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storico-politico-naturale della Provincia di Bergamo, vol. II, Mazzoleni, Bergamo, pp. 48-52. NANCY J.L., 2003, La città lontana, Ombre Corte, Verona, p. 18. PETRÒ G., s.i.d., Introduzione, in MAFFIOLETTI S., Terra di Colognola, AVIS e Aido di Colognola, Bergamo, pp. 9-49. SCANDURRA E., 2007, Un paese ci vuole. Ripartire dai luoghi, Città Aperta, Troina (En).

Fig. 1. Celadina, cascinali Spalenga. Il nucleo rurale ha costituito per secoli il luogo di stazionamento delle mandrie bovine che in autunno e in primavera si trasferivano da monte al piano e viceversa.

Fig. 2. Celadina, cascinali Spalenga. La roggia Morlana, derivata dal Serio probabilmente verso la fine del XII secolo, permea gli edifici creando scorci di grande suggestione.


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RENATO FERLINGHETTI Fig. 3. Colognola, via dei Prati, vista sulla torre di Nord-Est del castello. Le origini del castello vanno collocate all’interno del processo, attuato in tarda età comunale, di privatizzazione e messa a coltura dei vastissimi prati comuni che si estendevano a Sud della città tra Boccaleone, Orio e Colognola, aree che costituivano l’antico patrimonio demaniale afferente alla ‘curtis’ regia del Morla.

Fig. 4. Campagnola, Via dei Prati. Il disegno del tessuto agrario locale si discosta nettamente da quello delle aree contigue ed è costituto da lunghe pezze rettangolari orientate da est verso ovest innervate da numerosi canali derivate dalla Roggia Morla. La trama rurale risale al XIII secolo e fu attuato dalla famiglia Grumelli a cui, nel 1253, il Comune di Bergamo cedette 2287 pertiche del patrimonio demaniale. Lo schema utilizzato nell’operazione di bonifica fu successivamente applicato anche nella fondazione del centro di Comun Nuovo.

Fig. 5. Colognola margine meridionale del borgo. La contrada di Colognola, corpo santo della città nel periodo veneto era delimitata da muri in borlanti, ancora in parte visibili e dalla roggia Guidana per ampi tratti ancora scoperta. Il borgo storicamente attraversato da una via principale, chiusa verso l’esterno da due porte, presenta al suo interno numerose case torri e palazzi di interesse architettonico.


L’ANELLO DEI CORPI SANTI

37 Fig. 6. Grumello al Piano, la massicciata ferroviaria che taglia l’area agricola. Tra Colognola e Grumello persistono ampie superfici aperte percorse da strade campestri da cui si gode di splendide viste sulla città e il fronte prealpino. L’area è oggetto del parco locale d’interesse sovracomunale del Parco agricoloecologico istituito dai comuni di Bergamo e Stezzano.

Fig. 7. La campagna a sud di Colognola. La trama agricola degli antichi Corpi Santi in quest’area presenta un ordine e una pulizia estetica sempre più rara nei margini urbani. Al centro la Chiesa di S. Pietro con il campanile romanico e alle spalle la mole rupestre della Presolana (2521 m), la cima più elevata delle Prealpi Bergamasche.

Fig. 8.Grumello al Piano, via Muracche. Termine della carrareccia che da Colognola raggiunge l’abitato di Grumello al Piano. Il borgo presenta il margine tradizionale tra limite del costruito e campagna, costituito da muri in borlanti, materiale tipico dell’alta pianura, in cui si aprono strette aperture verso i coltivi.


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RENATO FERLINGHETTI Fig. 9. Curnasco, vicolo. La frazione di Treviolo, un tempo corpo santo cittadino, presenta un centro storico strutturato da stalli addossati gli uni agli altri in cui si aprono stretti vicoli che, in alcuni casi, segnano i perimetri delle precedenti strutture fortificate.

Fig. 10. Curnasco, area agricola nei pressi della chiesa campestre di S. Zenone. L’area presenta una naturalità diffusa, a causa della umidità del suolo che ha fortemente condizionato le attività agricole. Numerose sono le specie nemorali che nel tardo inverno e in primavera adornano i fossi, il piede delle alberate e il sottobosco delle siepi e delle macchie boscate. Il fronte meridionale dei Colli di Bergamo costituisce il naturale fondale dell’area sul quale emerge il crinale del Canto Alto che segna il limite settentrionale del Parco regionale dei Colli di Bergamo.

Fig. 11. Valverde, spazi aperti a margine di Porta S. Lorenzo. I Corpi Santi collinari, come Valverde, hanno mantenuto per ampi tratti l’assetto agricolo tradizionale. Tale paesaggio deve essere difeso anche con interventi attivi a sostegno delle attività agricole e messo in connessione con gli spazi aperti dei Corpi Santi del piano al fine di una valorizzazione integrata delle cinture verdi, interna ed esterna, che caratterizzano l’area urbana di Bergamo.


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MARIO CARMINATI*

IL RUOLO DELL’AGRICOLTURA NELLA MANUTENZIONE E NELLA VALORIZZAZIONE DEL PAESAGGIO NELLA FASCIA PERIURBANA DI PIANURA, A BERGAMO

IL CONSUMO DI SUOLO IN LOMBARDIA In Italia il consumo irreversibile di suolo continua da decenni con ritmi insostenibili. Con il suolo scompaiono i relativi ecosistemi, ed in particolare gli agro-ecosistemi, con conseguenze disastrose sul clima, la biodiversità, la salute, l’economia agroalimentare e turistica, la qualità della vita in genere, in una folle corsa all’autodistruzione del Belpaese. Secondo dati Eurostat, in Italia ogni anno si “consumano” oltre 100.000 ha di campagna, pressoché il doppio della superficie del Parco Nazionale dell’Abruzzo (Maria Cristina Treu, 2008); d’altra parte l’Italia è anche ai primi posti in Europa per disponibilità di abitazioni: ci sono circa 26 milioni di abitazioni, di cui il 20% non sono occupate, corrispondenti a un valore medio di 2 vani a persona1. Ciononostante, il suolo agricolo è continuamente ritenuto potenzialmente edificabile. Questa possibilità, oltretutto, influisce pesantemente sul mercato fondiario, con evidenti riflessi negativi anche sugli investimenti agricoli da parte delle aziende del settore primario, che ovviamente sono disincentivate ad investire in terreni (spesso non di loro proprietà) per i quali si possano ipotizzare trasformazioni nel breve periodo. I terreni agricoli che vengono erosi da questa politica dissennata sono per la maggior parte i più fertili in pianura, nella prima collina e nei fondovalle di montagna, posti nelle zone prossime alle città. La campagna diventa così periferia urbana, campagna urbanizzata: un fenomeno impressionante per un Paese la cui immagine è così fortemente ancorata alla produzione agricola ed al suo paesaggio;

si tratta di una minaccia incombente sul nostro futuro produttivo, dato che la filiera alimentare rappresenta una quota significativa del PIL nazionale e produce esportazioni importanti. Inoltre dobbiamo considerare i legami tra paesaggio agricolo e turismo, un’altra voce fondamentale della nostra economia, nonché il ruolo dell’agricoltura e della selvicoltura nella prevenzione del rischio idrogeologico. La classifica delle nostre regioni in cui questa devastazione ha corso più dissennatamente vede ai primi posti la Liguria: la recente tragedia che ha investito questa regione ne è purtroppo la triste conferma. Il nostro Paese, oltre a quanto ci ricorda la cronaca di questi giorni circa il debito pubblico, sta quindi accumulando uno spaventoso “debito pubblico occulto” consistente nella dilapidazione di una risorsa non rinnovabile (il suolo) e nel costo (purtroppo anche di vite umane) che sosteniamo e dovremo sostenere in futuro quando, ad ogni pioggia, una parte del nostro territorio franerà a valle o verrà allagato. Oltre allo spread BTP-BUND c’è quindi uno “spread” territoriale e paesaggistico che ci allontana da partner europei come la Germania dove, sin dal 1998, l’allora ministro per l’Ambiente Angela Merkel, ha posto l’obiettivo di una riduzione quantitativa dell’occupazione di suolo libero a fini urbani fissando la soglia (da raggiungere entro il 2020) a 30 ettari al giorno, cioè ad un quarto dei consumi in atto in Germania in quel periodo2. Per avere un’idea più precisa del consumo di suolo in Italia, in assenza di dati nazionali aggiornati, si consideri che, secondo recentissimi dati ER-

* Dottore agronomo. Vicepresidente Ordine Dottori Agronomi e Forestali. 1 Dati tratti da: Il valore e il consumo di suolo, Maria Cristina Treu, Vicepresidente della Fondazione del Politecnico di Milano, Presidente del CeDaT - Centro di Documentazione dell’Architettura e del Territorio; In convegno: “Produzione e consumo sostenibile. Dalla salvaguardia dell’ambiente alla salute dei consumatori” Monza, 18/06/2008. 2 A tale obiettivo, il “Consiglio per lo sviluppo sostenibile” presso il governo federale tedesco ha formulato la richiesta di “crescita zero” per il 2050.


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MARIO CARMINATI

SAF3, nella sola Lombardia, dal 1955 al 2007 la superficie antropizzata è passata da circa 100.327 ha (4,2% del totale) a circa 336.064 ha (14,07%) con un incremento medio di circa 4.533 ha all’anno (12,4 ha/giorno: circa il 41% del consumo che l’intera Germania si è data come obiettivo da raggiungere entro questo decennio!!). In Lombardia, dal 1955 al 2007, la superficie urbanizata pro capite è così passata da 150 a 350 mq per abitante. Nel medesimo periodo la superficie agricola lombarda è diminuita (anche a causa di marginalizzazione e avanzata del bosco) da 1.322.017 ha (55,4% del totale) a 1.046.268 ha (43,7%) con una variazione di circa 14,7 ettari OGNI GIORNO (102 mq al minuto TUTTI I GIORNI PER 52 ANNI!!!!). A puro titolo esemplificativo4 e non esaustivo, si consideri che questi livelli di consumo di suolo, sia pure con le dovute approssimazioni, corrispondono a: – perdere ogni anno un potenziale produttivo corrispondente a circa 27.000 t di grano; – perdere ogni anno premi PAC potenziali per circa 2,3 M €; – immettere ogni anno 18-20.000.000 di GJ di energia/calore in atmosfera, a causa della mancata evapotraspirazione, corrispondenti a circa 56.000.000.000 kwh (energia consumata da 1520M di frigoriferi); – ridurre ogni anno lo stock di Carbonio nei suoli di circa 850.000 t di CO2 e perdere ogni anno una ulteriore capacità potenziale di immagazzinare nei suoli altro carbonio pari a circa 215.000 t di CO2. A ciò si aggiungano gli innumerevoli problemi legati al ciclo dell’acqua e degli elementi (che notoriamente si svolgono in buona parte nel suolo), alla produzione di cibo e di paesaggio. Ricordo a tal proposito che la Lombardia è la più importante regione agricola italiana5. Anche ammettendo che l’analisi delle banche dati ERSAF possa comportare alcune approssimazioni legate all’eterogeneità dei dati ed alla loro interpretazione, resta evidente l’estrema gravità della situazione. 3

IL CONSUMO DI SUOLO A BERGAMO In provincia di Bergamo (territorio agricolo importante, che detiene un primato in materia di prodotti agricoli con denominazione di origine) la superficie agricola è diminuita, sempre dal 1955 al 2007, di oltre 37.000 ha, pari a circa 20.000 mq al giorno!! Questa superficie è in gran parte stata edificata o in qualche modo urbanizzata e quindi PERSA DEFINITIVAMENTE6. Nel medesimo lasso di tempo, infatti, le “aree antropizzate” sono aumentate di circa 30.000 ha cioè 15.000 mq al giorno. Sempre secondo dati ERSAF in Lombardia la Provincia di Bergamo è quella con la maggiore intensità media annua di aumento delle superfici antropizzate (intesa come variazione percentuale rispetto al valore iniziale, nel periodo di tempo considerato 1955-2007). Come è facilmente intuibile, anche da noi l’urbanizzato è avanzato prevalentemente a spese dei suoli più fertili di pianura e fondovalle, mentre in montagna sono avanzati il bosco e l’abbandono. In merito a quest’ultimo aspetto vale la pena di evidenziare come, a causa delle sempre minori opportunità economiche per le aziende agricole (che, infatti sono diminuite con maggiore intensità in montagna rispetto alla pianura), l’avanzata del bosco nelle zone montane, collinari e svantaggiate in genere, ed in particolare l’aumento di boschi di cattiva qualità o abbandonati, comporti una grave riduzione di biodiversità rispetto alla mirabile alternanza tra boschi, prati e pascoli dei nostri paesaggi prealpini ed alpini, paesaggi tipici, ad esempio, della produzione zootecnico-casearia di montagna. Al contempo ciò produce un aumento del rischio idrogeologico a causa del progressivo abbandono. Purtroppo questi fenomeni non sempre sono chiaramente visibili agli occhi del cittadino, ed in particolare del consumatore di generi alimentari: a fronte della drammatica riduzione di suolo a scala nazionale, la produzione agricola resta infatti alta grazie a tecniche di coltivazione che, però, spesso tendono ad impoverire i nostri suoli ed a banalizzare i paesaggi.

AA.VV., 2011, “L’uso del suolo in Lombardia negli ultimi 50 anni”, Regione Lombardia. http://www.ersaf.lombardia.it/servizi/notizie/notizie_fase02.aspx?ID=1887. 4 AA.VV., 2011, “L’uso del suolo in Lombardia negli ultimi 50 anni”, Regione Lombardia. http://www.ersaf.lombardia.it/servizi/notizie/notizie_fase02.aspx?ID=1887. 5 Dati lombardi su tot nazionale: 29,3% delle vacche da latte; 48,2% dei capi suini; Reddito lordo standard per azienda = 359,2% del dato nazionale; SAU per azienda = 17,31 ha pari a 228,2% del dato nazionale; Ettari per unità lavorativa = 13,12. Dati tratti da: Regione Lombardia - Il sistema agroalimentare della Lombardia - Rapporto 2010. 6 La pedogenesi richiede tempi geologici, mentre il processo di adattamento dei suoli alla coltivazione e le sistemazioni idrauliche agrarie e forestali hanno riguardato interi periodi storici.


IL RUOLO DELL’AGRICOLTURA NELLA MANUTENZIONE E NELLA VALORIZZAZIONE DEL PAESAGGIO

Inoltre i cibi possono comunque arrivare facilmente sulle nostre tavole, a volte viaggiando per migliaia di Km, con relativo dispendio di energia e perdita di potere nutritivo (non si tratta solo delle primizie fuori stagione: ad es. la soia che alimenta le nostre vacche viene coltivata in buona parte all’estero, e lo stesso vale per parte dei pomodori che trasformiamo, dell’olio d’oliva, della pasta, del grano per fare il pane, etc.). Vale a dire che la nostra società può permettersi di consumare suolo perché compensa con forme di agricoltura ad alto input energetico e contemporaneamente compra parte del suo fabbisogno da terre situate altrove, in un certo senso da “terre virtuali”. Ma quando i maggiori costi energetici e la competizione della popolazione mondiale che aumenta il proprio tenore di vita non lo rendessero possibile con altrettanta facilità, quali scenari si aprirebbero per la nostra economia e la nostra stessa sussistenza?

IL SUOLO COME RISORSA STRATEGICA L’instabilità dei mercati delle materie prime agricole, sempre più integrati nella finanza globale, la differenza tra prezzi al produttore e prezzi al consumatore con la scarsa remunerazione del lavoro agricolo, la crescita demografica e la modificazione delle diete7 a livello globale, i vincoli ambientali, economici ed energetici alla produzione di cibo e le conseguenze del cambiamento climatico: sono tutti elementi, anche contradditori tra loro, che hanno da tempo iniziato a delineare uno scenario di nuova scarsità. I segnali sono noti: paesi come la Cina e grandi multinazionali agricole da anni hanno avviato vere e proprie campagne di acquisto del suolo, soprattutto nelle aree più povere del globo come l’Africa, con evidenti riflessi anche in tema di giustizia sociale e distribuzione della ricchezza. Con l’aumento demografico previsto, è stato stimato che l’agricoltura mondiale dovrà aumentare notevolmente la sua produttività per rispondere alle maggiori e mutate esigenze alimentari. Poiché le terre fertili sono una risorsa limitata non riproducibile (nel nostro caso pressoché unica al mondo, anche in quanto prodotto di una storia irripetibile), se auspichiamo forme di agricoltura a minore input energetico, con minore uso di pesticidi e/o prodotti di sintesi e meno dipendente dalle

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multinazionali del cibo, allora dobbiamo ipotizzare anche un maggiore riavvicinamento del consumatore ai prodotti del proprio territorio: appare così sempre più evidente come l’agricoltura vedrà aumentare velocemente la sua importanza strategica anche da noi. La tutela dei suoli agricoli e della loro fertilità va quindi da subito riconosciuta come elemento fondamentale per lo sviluppo e la sicurezza alimentare del Paese, partendo da adeguate politiche anche a scala locale. Il suolo va cioè considerato un BENE COMUNE, poiché eroga benefici collettivi INDIPENDENTEMENTE DA CHI LO POSSIEDE. Per tale motivo non dovrebbe più essere resa possibile la sua trasformazione per fini di mera utilità privata, o almeno non nei termini con cui ciò è avvenuto sinora. Purtroppo finché la rendita fondiaria agricola sarà così fortemente SOTTOVALUTATA rispetto alla rendita urbana e finché anche le Pubbliche Amministrazioni individueranno nel consumo di suolo ai fini edificatori la principale fonte di risorse finanziarie, sarà piuttosto difficile invertire la rotta. Sono quindi necessarie politiche che, ad esempio: – preservino la destinazione agricola dei suoli, anche introducendo entrate alternative agli oneri di urbanizzazione per i Comuni che riducano la pressione speculativa sui suoli; – soprattutto nelle zone periurbane assediate dalla pressione trasformativa, rendano meno conveniente urbanizzare suoli agricoli rispetto a riqualificare l’edificato obsoleto o dismesso e migliorino la qualità ambientale e paesaggistica del territorio rurale (anche attraverso meccanismi perequativi oggi previsti dalla normativa urbanistica); – compensino le difficoltà del comparto agricolo, anche mediante la remunerazione delle “prestazioni ambientali” e di presidio territoriale svolte dalle aziende agricole, incentivando al contempo forme più efficaci di valorizzazione e tutela dei prodotti di qualità e dei loro paesaggi; – nelle zone svantaggiate favoriscano il permanere della popolazione rurale, garantendo i servizi minimi necessari per evitare l’abbandono. Politiche che consentano cioè di rimettere l’agricoltura al primo posto nella gestione del territorio e nella tutela di quel paesaggio italiano che l’agricoltura stessa ha in gran parte costruito nei secoli, rendendo famosa nel mondo l’immagine del nostro Paese.

7 Notoriamente un’alimentazione a base di proteine animali richiede molto più suolo e consuma molta più energia e molta più acqua rispetto ad un’alimentazione prevalentemente vegetariana.


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A ciò si deve aggiungere, ovviamente, anche una presa di coscienza da parte del cittadino – consumatore, a partire da momento in cui decide come fare la spesa e come alimentarsi. È infatti evidente come il consumatore possa svolgere un ruolo fondamentale in tal senso, recuperando un rapporto sempre più consapevole con il cibo e premiando, nei suoi acquisti, prodotti alimentari ottenuti con metodi che rispettano l’ambiente e valorizzano i paesaggi di cui egli stesso beneficia direttamente, anche a scala locale. Infatti, se da un lato la tutela del paesaggio è senz’altro un fattore competitivo per la promozione del territorio rurale e dei suoi prodotti, è altrettanto vero che la tutela e la promozione dei prodotti agricoli locali sono elementi fondanti della biodiversità e della competitività, anche turistica, del territorio e dei suoi paesaggi. Naturalmente le imprese agricole devono fare la loro parte, in particolare per quanto riguarda le problematiche della sicurezza dei prodotti alimentari e della tutela ambientale-paesaggistica connessa allo sviluppo delle proprie attività, in linea con gli indirizzi della politica agricola europea.

MULTIFUNZIONALITÀ DELL’AGRICOLTURA Senza entrare in una trattazione che esula dalle finalità del presente contributo, mi limito a ricordare alcune delle principali funzioni e dei principali prodotti dell’agricoltura: – cibo – ambiente – paesaggio – clima – salute – gestione del territorio e delle sue risorse (suolo, acqua, aria) – equilibrio idrogeologico – energie rinnovabili – attività produttive – turismo – cultura – storia

PECULIARITÀ DELL’AGRICOLTURA PERIURBANA L’agricoltura periurbana possiede inoltre alcune peculiarità, dovute alla vicinanza alla città. Senza la pretesa di una trattazione esaustiva che richiederebbe spazio e competenze ben più ampi, posso ricordare: – posizionamento strategico rispetto alle aree me-

tropolitane, alle principali vie di comunicazione, ai grandi centri di distribuzione organizzata; – vicinanza ad un bacino di potenziali consumatori, con la possibilità di istituire mercati agricoli locali, filiere corte, agricoltura di prossimità e rapporti diretti con forme aggregate di consumo come i GAS (gruppi di acquisto solidale), possibilità di trasformazione aziendale e commercializzazione diretta dei prodotti agricoli e zootecnici, florovivaismo; – offerta di servizi culturali e turistici, ad es. mediante agriturismi e cascine didattiche e, più in generale, attraverso la gestione e la manutenzione del territorio e del paesaggio; – possibilità di rispondere anche ad una domanda di servizi attinenti al settore sociale e sanitario, attraverso l’agricoltura sociale, il reinserimento nel mondo del lavoro di persone svantaggiate, la “terapia orticolturale” e l’impiego di animali a scopi terapeutici, gli orti urbani ed altre iniziative che affiancano il valore produttivo agricolo ad altri valori di tipo ricreativo, culturale, sociale, educativo, sanitario; – maggiore presenza di “agricoltura hobbistica”. Gli spazi agricoli periurbani ospitano quindi molte funzioni spesso in conflitto tra loro; in essi convivono inoltre diverse tipologie di agricoltura e diverse forme, spesso antitetiche e problematiche, di utilizzo del suolo. Il paesaggio agricolo periurbano o, per meglio dire, il territorio rurale urbanizzato, è anche quello più vulnerabile, soprattutto a causa della elevata frammentazione (presenza di infrastrutture e di edificato diffuso), della cattiva qualità ambientale e paesaggistica e, soprattutto, della forte pressione alla trasformazione dei suoli.

TUTELA E SVILUPPO DEL PAESAGGIO AGRARIO URBANO E PERIURBANO

Lungi dal voler proporre ricette che ovviamente non possono essere valide per tutti i casi, né essere semplicisticamente mutuate da esperienze maturate altrove, possiamo però lavorare perché lo spazio agricolo urbanizzato divenga il luogo privilegiato dove sperimentare nuove strategie, dove si instauri maggiore dialogo tra città e campagna, dove a tal fine si possa mettere in atto una partecipazione vera (come del resto prevede l’attuale norma urbanistica). Occorre, ad esempio, creare reti di produttori e reti di acquirenti e collegarle tra loro: chiedendo prodotti di qualità si chiedono infatti anche paesaggi di qualità. In questo senso, ad esempio, la presenza


IL RUOLO DELL’AGRICOLTURA NELLA MANUTENZIONE E NELLA VALORIZZAZIONE DEL PAESAGGIO

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IL RUOLO DELL’AGRICOLTURA NELLA MANUTENZIONE E NELLA VALORIZZAZIONE DEL PAESAGGIO

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di infrastrutture di trasporto che frammentano lo spazio periurbano potrebbe trasformarsi da vincolo problematico ad opportunità. Servono però strategie territoriali e di filiera: non può essere compito della singola azienda o del singolo consumatore (sia pure attraverso le rispettive organizzazioni) affrontare questi temi. Le aziende agricole “periurbane”, dal canto loro, devono saper cogliere le opportunità offerte dalla vicinanza di un mercato potenziale per i loro prodotti, (pur con tutti i problemi e le conflittualità a cui si è brevemente accennato) proponendo anche servizi culturali8, gestione del territorio e tutela del paesaggio. Purtroppo in Italia chi, soprattutto in passato, si è occupato di pianificazione territoriale e tutela del paesaggio ha spesso considerato con difficoltà o addirittura con diffidenza tutto ciò che riguardava l’erogazione di contributi o la definizione di azioni da realizzare in collaborazione con la popolazione rurale e gli operatori agricoli in particolare.

Ciò è particolarmente grave in un Paese come l’Italia, dove il degrado paesaggistico è avvenuto soprattutto a danno del territorio rurale, lo stesso territorio che ha fatto dell’Italia uno dei paesi con i paesaggi più conosciuti al mondo. D’altra parte anche il settore agricolo ha spesso inteso l’adozione di strumenti di tutela del paesaggio come l’applicazione di vincoli fastidiosi se non generatori di costi insopportabili. Almeno in parte ciò riflette la notevole difficoltà a collaborare tra coloro che sono, nel nostro Paese, i portatori di diversi saperi e discipline. Nel caso dei paesaggi rurali, la necessità di uno stretto coordinamento tra pianificazione paesaggistica e intervento economico diviene invece imprescindibile, poiché lo scopo dell’intervento si deve spostare da un’ottica di pura conservazione del paesaggio rurale (i cui costi oltre che incomprensibili sarebbero insostenibili) a quella di una vera riqualificazione del paesaggio anche attraverso i processi economici che esso racchiude.

8 Quali, ad esempio, la custodia delle tradizioni alimentari, della storia e della cultura ad esse collegate, la promozione di stili di vita “sostenibili”, la conoscenza del territorio, etc.


IL RUOLO DELL’AGRICOLTURA NELLA MANUTENZIONE E NELLA VALORIZZAZIONE DEL PAESAGGIO

AREE VERDI E PAESAGGIO URBANO Vorrei concludere queste note con uno “sguardo da agronomo” anche sui paesaggi urbani ed in particolare sulle aree verdi. La qualità del paesaggio dipende dalla qualità del “sistema di ecosistemi”: l’agro-ecosistema periurbano e, per estensione, il sistema del verde cittadino, sono quelli che incidono di più sull’ambiente di vita quotidiano, poiché la quasi totalità della popolazione, tanto a livello planetario quanto più a livello locale, vive in agglomerati urbani. Pertanto, se esiste una ricetta per migliorare la qualità media della vita, probabilmente questa consiste in una sintesi di interventi di sanità pubblica e recupero urbano che siano in grado, tra l’altro, di ridurre lo “Sprawl edilizio”, di salvaguardare l’agricoltura e di migliorare le città. Come migliorare le città? Ad esempio portandovi più aree verdi, più alberi, più biciclette, e contemporaneamente moderando o allontanando gli elementi di maggior impatto negativo come, ad es., il traffico privato. Anche la legge 12/05, art. 9, identifica tra i servizi urbani (Piano dei servizi) la “dotazione a verde, i corridoi ecologici ed il sistema di connessione tra il territorio rurale e quello edificato, nonché tra le opere viabilistiche e le aree urbanizzate ed una loro razionale distribuzione sul territorio comunale, a supporto delle funzioni insediate e previste”. Non mi dilungo sulle numerosissime funzioni di miglioramento ambientale svolte dal verde pubblico, anche perché in gran parte note. Tornando al tema del consumo di suolo voglio invece sottolineare come il verde urbano, se ben progettato, possa rendere le città più attraenti, stimolando così attività di riuso urbano e recupero edilizio e limitando ulteriore consumo di suolo al di fuori della città. Altrettanto importanti sono le funzioni sociali del verde: la presenza in città di spazi verdi diffusi, connessi tra loro e facilmente accessibili a piedi o in bicicletta funge da catalizzatore di relazioni sociali positive e da stimolo per l’attività fisica. Di conseguenza consente anche di ridurre ansia, stress e aggressività. Forme particolari di verde pubblico come gli orti urbani, oltre a favorire la socializzazione soprattutto per gli anziani, conferiscono un vantaggio di salute che è stato misurato sia in termini di abbassamento dei livelli di colesterolo, sia di pressione arteriosa; inoltre contribuiscono a diffondere stili di vita e di alimentazione più corretti e, aspetto non trascurabile, possono contribuire anche in modo significativo al bilancio familiare. Non dobbiamo dimenticare, infine, che gli spazi

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aperti urbani ed in particolare le aree “verdi”, costituiscono buona parte dello spazio fisico e culturale in cui ci formiamo come cittadini, e che sin da piccoli costituisce il teatro del gioco e delle relazioni con cui impariamo a partecipare alla vita sociale. Se il paesaggio, come recita la relativa Convenzione Europea, “designa una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni” risulta chiara l’importanza di poter crescere in un ambiente che ci educhi alla bellezza anche e soprattutto attraverso i suoi paesaggi. È quindi evidente l’importanza culturale degli spazi rurali periurbani e del verde cittadino, per la formazione delle sensibilità e della cultura di coloro che, in futuro, contribuiranno a definire cos’è il paesaggio e si faranno carico della sua tutela. Viceversa, è altrettanto evidente che gli ambienti poveri di aree verdi, oppure dove gli spazi aperti siano degradati, incoraggiano abitudini di vita poco salubri e scarso rispetto del paesaggio. È la cosiddetta “sindrome delle finestre rotte”: la qualità carente degli spazi pubblici, così come pulizia e manutenzione inadeguate, generano abbandono e un senso di insicurezza che, oltretutto, inibisce la vita all’aria aperta soprattutto di bambini e anziani, con conseguenze sociali e sulla salute facilmente immaginabili.

GESTIONE SOSTENIBILE DELLA “FORESTA URBANA” La Forestazione urbana è pertanto un formidabile strumento per migliorare la vivibilità dell’ambiente urbano, sia in termini di salute fisica che di salute mentale. Poiché però l’ambiente urbano è particolarmente ostile al verde ed agli alberi in particolare, diventa fondamentale l’adozione di tecniche progettuali e gestionali adeguate, in modo che i vantaggi ottenuti superino i costi derivanti dalla piantagione e dalla manutenzione della “foresta urbana”. A differenza di sistemi naturali, infatti, la “foresta urbana” non è in grado di auto-mantenersi, ma ha bisogno dell’intervento dell’uomo, a causa dell’ambiente particolarmente ostile in cui si trova. Pertanto non si può impostare un programma di gestione del verde indipendentemente dalla gente che ci vive, perché le attività umane sono spesso dannose agli alberi e, soprattutto, perché un buon modello di forestazione urbana sostenibile necessita dell’attivo coinvolgimento della popolazione. Un altro motivo che lega il destino degli alberi in città alle persone che vi abitano è costituito dal fatto che spesso gran parte del verde urbano è situato su


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proprietà privata: non è quindi pensabile un modello di sostenibilità che non coinvolga direttamente i cittadini. Infine, come si può affermare per la politica paesaggistica in genere, non è possibile gestire e migliorare la foresta urbana se i costi che ne derivano non sono chiaramente associati ai benefici, in modo da renderne evidente il valore di investimento. La gente che riconosce il valore degli alberi e del paesaggio in genere elegge amministratori che fanno altrettanto. Allo stesso modo questi amministratori sono più propensi a dedicare maggiori risorse economiche e a pretendere elevati standard qualitativi sia a livello di progettazione, sia a livello di gestione. Pertanto, come già evidenziato in precedenza parlando di agricoltura periurbana, prima ancora dell’adozione di tecniche adeguate, rispettose dei cicli biologici ed a basso impatto ambientale (che pure costituiscono gli attuali orientamenti anche per la gestione del verde urbano), diventa prioritario il tema della partecipazione e del coinvolgimento dei cittadini, anche in veste di fruitori diretti del verde urbano, così come ho detto in precedenza per i cittadini consumatori dei prodotti agricoli. Iniziative come “Iconemi” che ampliano il dibattito sui temi del paesaggio sono quindi fondamentali, anche perché la partecipazione non può avvenire senza informazione. Successivamente al 3° incontro del ciclo di conferenze “Iconemi 2011” cui si riferisce il presente contributo scritto, è stata approvata la legge regio-

nale 25 del 28/12/2011 che ha modificato la Legge Regionale 5 dicembre 2008, n. 31 “Testo unico delle leggi regionali in materia di agricoltura, foreste, pesca e sviluppo rurale” introducendo l’articolo 4 quater: Tutela del suolo agricolo. In questo articolo la Regione Lombardia riconosce il suolo quale bene comune. Per tale motivo la Regione “elabora politiche per il contenimento del consumo di suolo agricolo finalizzate ad orientare la pianificazione territoriale regionale” e “stabilisce le forme e i criteri per l’inserimento negli strumenti di pianificazione previsti dalla normativa regionale di apposite previsioni di tutela del suolo agricolo, introducendo altresì metodologie di misurazione del consumo del suolo agricolo stesso e prevedendo strumenti cogenti per il suo contenimento”.

Bibliografia AA.VV., 2011, “L’uso del suolo in Lombardia negli ultimi 50 anni” - Regione Lombardia. http://www.ersaf.lombardia.it/servizi/notizie/notizie_fase02.aspx?ID=1887. TREU M.C., Il valore e il consumo di suolo. In convegno: “Produzione e consumo sostenibile. Dalla salvaguardia dell’ambiente alla salute dei consumatori” Monza, 18/06/2008. http://www.marini.biz/Articoli/Cemento%20-%20Maria% 20Cristina%20Treiu%20-%20Valore%20e%20consumo %20di%20cemento%20060618.pdf. REGIONE LOMBARDIA, Il sistema agroalimentare della Lombardia - Rapporto 2010.


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ANTONIO GALIZZI*

LO SGUARDO DEL GEOLOGO

Lo studio geologico dell’area interessata dalla proposta di istituzione del Parco Agricolo Ecologico a Sud di Bergamo è stato condotto dedicando particolar attenzione al rilievo geomorfologico dell’area, al rilevamento dei corsi d’acqua e allo studio del ciclo delle acque. Gli elementi morfologici di maggior rilievo sono le forme dovute alle acque superficiali che sono arealmente estese in dipendenza del fatto che i processi fluviali sono di gran lunga i processi naturali più significativi nell’area in esame. In sito oltre alle forme riconducibili ai processi fluviali, sono state individuate una serie di scarpate secondarie con sviluppo E-W legate sia ai processi deposizionali dei depositi quaternari che alle ripetute attività antropiche di livellamento dei terreni attuate per favorire la pratica agricola. Sicuramente l’agente morfogenetico naturale tuttora parzialmente attivo che ha influenzato in maggior misura la morfologia dell’area in esame è da ritenersi il torrente Morla, nella sua accezione originaria, per il quale è stata effettuata, nel presente studio, la distinzione tra alveo attivo e antico alveo. L’alveo attivo del torrente Morla, attualmente denominato Roggia La Morla, scorre grossomodo in direzione N-S, delimitando il territorio comunale di Bergamo nel settore sud-occidentale, mentre nel territorio di Stezzano presenta un andamento a meandri tipico di un corso d’acqua di pianura alluvionale. Attualmente il corso d’acqua trae origine dalle acque di scolo dei versanti collinari ad ovest di Bergamo, riunendo in sè una serie di impluvi che drenano un bacino di dimensioni piuttosto contenute e raccogliendo lungo il suo percorso le acque di diverse rogge. Originariamente, prima del 1200 quando non era ancora stata operata la sua deviazione verso Zanica, il torrente Morla provenendo da Ponteranica, dopo * Commissione del paesaggio Comune di Bergamo.

aver raggiunto il territorio di Bergamo ai piedi delle propaggini orientali della collina di Città Alta, presumibilmente nella zona di Borgo Palazzo, si indirizzava verso la zona del Parco Ovest - stabilimento del Gres e proseguiva verso sud-ovest lambendo gli attuali abitati della Grumellina e di Grumello al Piano per poi, all’altezza della Madonna dei Campi, disperdersi in una zona depressa acquitrinosa dove si univa ai corsi d’acqua che provenivano dalle pendici collinari occidentali che attualmente sono rappresentati dal fosso del Ponte Perduto e dalla Roggia Oriolo. A sud di quest’area paludosa, riprendeva a scorrere lungo l’attuale tracciato denominato Roggia La Morla. Alla luce di quanto sopra si può facilmente capire che il bacino idrografico di alimentazione del corso d’acqua naturale era di qualche decina di Km2 e di conseguenza anche le portate ordinarie e di piena erano caratterizzate da volumi d’acqua notevolmente maggiori rispetto alla situazione attuale. Tracce ben visibili dell’antico corso del Torrente Morla si possono facilmente riconoscere nel settore del Parco Ovest a nord dell’area Gres, e immediatamente a sud dell’asse interurbano ad ovest della ferrovia, oltre che nelle vicinanze della Azienda Agricola Moleri in Grumello al Piano e nei pressi della cappella votiva di via Santuario in località Madonna dei Campi. Il vecchio tracciato del torrente Morla è caratterizzato da un paleoalveo di portata ordinaria ampio fino a qualche decina di metri, delimitato da due principali scarpate e da una serie di scarpate secondarie che delimitano l’area di influenza del torrente durante gli episodi di esondazione. Ad esempio nel tratto a nord dell’abitato di Grumello al Piano, il torrente Morla era caratterizzato da un alveo delimitato a sinistra da una scarpata di 250 cm di altezza, mentre lungo il lato destro, che era la zona di esondazione del torrente durante le


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Paleoalveo del Morla a Grumello al Piano.

Opera di derivazione in pietra tra Bergamo e Stezzano.

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LO SGUARDO DEL GEOLOGO

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A sinistra terreno bonificato a destra terreno vergine.

piene, da una serie di ordini decrescenti di terrazzamenti delimitati da scarpate morfologiche di circa 100-80-50 cm di altezza. Una morfologia simile si riscontra anche nella zona del Gres - Parco Ovest. Invece all’altezza della Azienda Agricola Moleri e in corrispondenza della cappella votiva vicino al Santuario “Madonna dei Campi”, abbiamo un paleoalveo di portata ordinaria ben marcato su entrambi i lati da due scarpate di 150-250 cm di altezza. Il sistema di scarpate del paleoalveo del torrente Morla assume importanza notevole in quanto attesta particolari fasi del modellamento del paesaggio del settore di studio, e pertanto sarebbe da salvaguardare prevedendo anche l’istituzione di un geotopo di importanza locale. A partire dal medioevo fino agli anni ’80, i suddetti tratti del paleoalveo del torrente Morla venivano sfruttati, sia per la natura limosa dei terreni che per la loro pendenza costante, per realizzare le marcite. Le marcite, tipico sistema di coltivazione della Lombardia, sono prati stabili irrigati con un velo continuo d’acqua perchè seguitino a vegetare per poter dare tagli d’erba fin a 8-10 anche nella stagione fredda. Per la realizzazione di tali aree, oltre ai tratti del paleoalveo, sono state sfruttate ampie aree naturalmente depresse e acquitrinose o che a segui-

to di lavori di livellamento consentissero di realizzare la suddetta coltura. Infine aree a morfogenesi attiva sono da considerare l’alveo naturale del torrente Morla, nel suo tratto attivo, e gli alvei delle principali Rogge, dotati di sponde che talvolta raggiungono altezze dell’ordine di 2 m e dove, in diversi tratti, si evidenziano chiari segni di erosione spondale. In particolare, per quanto riguarda l’alveo naturale del torrente Morla si riscontrano specialmente (ma non solo) lungo i tratti a meandri del corso d’acqua, dove si ha una accentuata erosione lungo la sponda esterna e una concomitante sedimentazione all’interno della curva che origina le barre di meandro. Essendo caratterizzato da pendenze molto modeste, i sedimenti sono piuttosto fini. In generale nei corsi d’acqua privi di opere di regimazione idraulica e interessati da forti portate, il fenomeno sopra descritto raggiunge la sua massima espressione evolutiva con il tipico taglio dei meandri stessi. Ragion per cui nel corso dei secoli, lungo il corso del Morla sono state realizzate opere di difesa spondale come muri a secco ecc, che necessitano ora di adeguate opere di manutenzione e ristrutturazione per poter continuare a svolgere la loro funzione.


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I processi morfogenetici naturali e di pedogenesi hanno dei tempi molto lunghi di realizzazione che rischiano di essere completamente cancellati da scelte pianificatorie poco attente. Le aree del Parco Agricolo a Sud di Bergamo assumono una importanza strategica se si analizzano le stesse in un contesto più ampio e analizzando la vera funzione ecologica che possono svolgere a livello provinciale. Ad esempio rappresentano un’ampia zona di ricarica della falda freatica: trattandosi di aree agricole non permeabilizzate, svolgono un importante funzione nel ciclo delle acque, la cui importanza diventa una “ricchezza” da valorizzare in un contesto sempre più antropizzato. L’intricato sistema di rogge con alvei ancora in terra o comunque in materiale semipermeabile (ciottoli e lastre) oltre a svolgere la funzione propria irrigua, consente una ottimale gestione delle acque meteoriche, consentendo allo stesso tempo la ricarica della falda freatica. La funzione idraulica delle rogge è attualmente in una condizione di equlibrio limite con il sistema urbanizzato che gli sta a monte e che vi riversa le acque meteoriche, non più disperse nel sottosuolo. Pertanto qualsiasi trasformazione d’uso di queste aree agricole, come altre aree agricole ancora presenti nell’hiterland potrebbe portare ad un forte disequilibrio nel ciclo delle acque, in partciolar modo nella gestione delle acque meteoriche, mettendo in crisi i paesi subito a valle e implicando ingenti investimenti in opere idrauliche per risolvere tali problemi. Ad esempio per risolvere i problemi di allagamenti che avvenivano a Castel Rozzone e Brignano è stata realizzata la Gronda Sud, un’opera idraulica costata decine di milioni di euro e progettata qualche decennio fa, sulla scorta dei dati pluviometrici e delle portate critiche di allora. Negli utlimi anni si è registrato un incremento degli eventi meteorici intensi molto brevi che nell’arco di 30 minuti fanno registrare precipitazioni di 70-80 mm. Questo dato rapportato ad una superficie di 100.000 m2 che è la superficie media dei centri commerciali realizzati

negli ultimi anni attorno a Bergamo, comporta di dover smaltire in mezz’ora un volume di acqua di circa 7.000 m3. Pertanto la conservazione di queste aree agricole è un investimento dal punto di vista ecologico, paesaggistico ma soprattutto un investimento nella prevenzione della gestione del rischio idrogeologico. Al contrario se ciò non dovesse avvenire nel breve tempo la collettività dovrà accolarsi i costi per la realizzazione di nuove opere idrauliche per la gestione delle acque meteoriche. Non investire nella conservazione delle aree agricole in senso generale, trovando anche forme di agevolazioni per sostenere tali pratiche, vuol dire abbandonarle alla speculazione edilizia, ma che in altre zone della provincia di Bergamo si manifestano sotto altre iniziative. Ad esempio nella zona della bassa pianura bergamasca, da un po’ di anni vengono proposti agli agricoltori interventi di miglioramento fondario mediante le bonifiche agricole che nella maggior parte dei casi celano vere e proprie piccole cave di sabbia e ghiaia e successive discariche di materiale inerte se non peggio, andando a compormettere dal punto di vista agronomico dei terreni che sono classificati tra i più produttivi della nostra provincia, come è evidente nell’immagine seguente, dove si vede che il terreno di sinistra interessato da tali interventi è diventato un terreno incoltivabile acquitrinoso, dove un trattore a quattro ruote motrici rischia di impantanarsi e non cresce neanche un filo d’erba.

Bibliografia AA.VV., 1999, Carta geologica della Provincia di Bergamo. FERLINGHETTI R. (a cura di), 2007, Il torrente Morla. Caratteri - valori - prospettive, Quaderni, 16, University Press, Sestante, Bergamo. DI FIDIO M., 2007, I muri a secco, vol. 3 collana quaderni della scuola d’ingegneria naturalistica. ERSAL, 1992, I suoli dell’Hinterland Bergamasco. REGIONE LOMBARDIA, 2001, Acque sotterranee in Lombardia, gestione sostenibile di una risorsa.


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MARIO DI FIDIO*

LO SGUARDO DELL’INGEGNERE IDRAULICO Plurifunzionalità del reticolo idrografico della pianura. Caratteristiche, criticità, riqualificazione

1. LA RETE IDROGRAFICA DELLA PIANURA: UN SISTEMA COMPLESSO E INTEGRATO

La riqualificazione ambientale del territorio trova le sue linee di forza nella rete dei corsi d’acqua. Ciò è tanto più vero in una realtà come quella della Grande Bergamo e dell’alta pianura bergamasca, intensamente urbanizzata e – nello stesso tempo attraversata da una fitta rete di corsi d’acqua naturali e artificiali, attorno ai quali tendono a coagularsi le iniziative (parchi regionali e locali, reti ecologiche, ecc.). La figura 1 evidenzia il ruolo di tutto rilievo svolto nella Bergamasca, accanto a fiumi e torrenti, dalla rete dei canali, in larga misura risalente al Medioevo e al Rinascimento, spesso con funzioni promiscue (irrigazione e scolo delle campagne); essi non soltanto caratterizzano gli spazi aperti, ma anche i centri abitati storici. Se ci limitassimo a considerare soltanto le funzioni ambientali e storico-culturali della rete dei corsi d’acqua bergamaschi commetteremmo un errore simmetrico rispetto a quello del recente passato, quando l’attenzione si è concentrata su altre funzioni, dimenticando quelle che ora attirano la nostra attenzione. La plurifunzionalità dei corsi d’acqua comporta la ricerca di strategie integrate, ovviamente più complesse, ma anche più vitali e ricche d’opportunità. Immaginiamo di fare un salto indietro nel tempo di 40 anni. Qual’era il rapporto tra i Bergamaschi e la rete idrografica locale, quali le criticità attorno al 1970? Sostanzialmente erano tre, ma quasi tutti ne vedevano solo due: l’inquinamento e l’esondazione delle acque; sfuggiva ai più che il processo di sviluppo economico e trasformazione del territorio stava consumando in modo pesante il patrimonio naturale, paesistico e storico-culturale. È utile ricostruire per sommi capi questa storia, per comprendere meglio i problemi del presente e fare le scelte più opportune per il futuro.

2. UNA RASSEGNA STORICA DELLE PRINCIPALI CRITICITÀ DELLA RETE IDROGRAFICA

2.1 L’inquinamento: un problema oggi sotto controllo I più anziani ricordano lo stato terrificante, durato per decenni, dei piccoli corsi d’acqua bergamaschi, come il Morla, ridotti a fognature a cielo aperto da scarichi civili e industriali non trattati, venendo anche a mancare i tradizionali sistemi dei pozzi neri. Questa situazione aveva indotto nella popolazione un’immagine negativa di torrenti e rogge, che sembravano un problema da rimuovere, mediante copertura, come testimoniano le lettere di numerosi cittadini alle autorità dell’epoca (vedi la pubblicazione “ Il consorzio di bonifica bergamasco e la sua storia”, 2005). Solo dopo l’entrata in funzione dei depuratori, lentamente la sensibilità collettiva evolve e ritorna un’immagine positiva dei corsi d’acqua, come componente dell’identità storica e risorsa da ricuperare e valorizzare. A grandi linee, oggi il sistema giuridico, organizzativo e tecnico per la tutela delle acque dall’inquinamento appare abbastanza affidabile, anche se deve essere migliorato. L’eliminazione della maggior parte degli scarichi diretti nei corsi d’acqua (escluse le maggiori industrie, dotate di impianti autonomi di trattamento) e il loro convogliamento nei depuratori centrali facilita il controllo. Gli impianti di depurazione possono essere facilmente adeguati. Un ruolo essenziale è svolto dalla tariffa del servizio idrico integrato, che consente di coprire integralmente anche le spese per le fognature e la depurazione, mentre fino al 1976 (legge Merli) solo l’acquedotto era soggetto a tariffa. Complessivamente si tratta di una storia di successo, che ha avuto per protagonisti soprattutto i Comuni; bene o male, siamo riusciti ad allinearci

* Dipartimento di Ingegneria Agraria Università degli Studi di Milano.


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MARIO DI FIDIO Fig. 1. La rete dei corsi d’acqua naturali e dei canali, che attraversa la pianura bergamasca. (da Consorzio di bonifica della Media Pianura Bergamasca)

all’Europa ma ora non basta più, perchè 11 anni fa l’Unione europea ha avviato una fase più avanzata d’interventi, che dopo il risanamento delle acque si propone la riqualificazione naturale e ambientale degli alvei e delle sponde dei corsi d’acqua (v. la Direttiva - Quadro sulle acque 2000/60/CE). L’Italia

appare molto arretrata di fronte a questi nuovi impegni, che richiamano in prevalenza la responsabilità delle istituzioni di livello superiore (Stato, Autorità di bacino, Regioni, Consorzi di bonifica). Di seguito cercheremo di evidenziare le principali criticità alle radici di questo ritardo.

Figg. 2 e 3. Le fotografie testimoniano il forte inquinamento dei corsi d’acqua bergamaschi fino agli anni ’80 del secolo scorso: a sinistra il partitore tra la Roggia Bolgare e la Roggia Gorlaga a Carobbio degli Angeli (1965); a destra il fiume Cherio a monte della traversa della Roggia Bolgare a Gorlago, durante un’operazione di spurgo (1979). Lo spettrale colore biancastro delle acque è dovuto agli scarichi dei residui e scarti di lavorazione delle industrie marmifere.


LO SGUARDO DELL’INGEGNERE IDRAULICO

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Figg. 4 e 5. Nel periodo del massimo inquinamento, molti corsi d’acqua naturali e artificiali della Bergamasca sono stati coperti, con gravi perdite del patrimonio naturale e storico-culturale e problemi di manutenzione, a causa delle difficoltà di pulizia. A sinistra il torrente Morla a Bergamo, lungo via Madonna della Neve (1960), a destra la Roggia Curna lungo via Negri (1960), prima della copertura.

2.2. Le esondazioni: un problema di cui potremmo perdere il controllo Un altro problema angoscioso, storicamente contemporaneo dell’inquinamento, erano le periodiche esondazioni dei corsi d’acqua, su ampie superfici della pianura bergamasca. Si pensi che, nel bacino del Morla, dal luglio 1976 all’ottobre 1977, i Comuni di Ponteranica, Sorisole, Torre Boldone, Bergamo, Azzano San Paolo, Zanica, Orio al Serio, Comunnuovo, Spirano, Brignano e Pagazzano subirono ben 19 allagamenti. Anche questo era l’effetto di uno sviluppo urbano impetuoso, che moltiplicava le superfici impermeabili e con esse le portate scolanti dal bacino idrografico nella rete dei corsi d’acqua naturali e artificiali, facendo saltare equilibri secolari, senza una programmazione preventiva, che consentisse di adeguare tempestivamente la capacità di deflusso della rete. I Bergamaschi hanno avuto comunque il merito di risolvere in larga misura con le proprie forze il problema della difesa idraulica del territorio, mediante la costruzione di canali scaricatori, affidata al Consorzio di bonifica della Media Pianura Bergamasca, con la partecipazione della proprietà fondiaria: un caso unico nel panorama regionale. I soggetti, che partecipano al beneficio idraulico, contribuiscono alle spese di manutenzione e ammortamento: un sistema logicamente poco gradito dagli interessati, ma singolarmente all’avanguardia, perché corrisponde al principio del federalismo fiscale; è prevedibile che in avvenire esso sarà sempre più diffuso, anche perché con l’enorme debito pubblico non ci sono più risorse dello Stato. Grazie a queste opere, fortunatamente l’emergenza idraulica appare oggi sotto controllo, ma dob-

Fig. 6. Il cantiere dello Scolmatore del T. Morla all’altezza di via Gasperini (Bergamo), fotografato nel 1989, evidenzia l’imponenza di un’opera idraulica, che difende la pianura bergamasca dalle inondazioni.

biamo chiederci fino a che punto il sistema possa reggere nel medio-lungo periodo; la situazione appare più critica rispetto a quella dell’inquinamento. Va precisato che gli interventi non possono garantire la sicurezza assoluta del territorio, ma soltanto un intervallo ragionevolmente lungo tra i singoli episodi d’insufficienza della rete idrografica. Negli anni scorsi la capacità di deflusso della rete stessa è stata potenziata attraverso le varie opere idrauliche costruite dal Consorzio di bonifica, ritrovando un equilibrio con le portate defluenti dal bacino in tempo di pioggia, ma è un fatto che queste ultime continuano ad aumentare, poiché sono generate dalle superfici impermeabilizzate dall’urbanizzazione, che certamente non si è fermata. In questo campo è illuminante l’esperienza della Grande Milano, che si è sviluppata in anticipo rispetto alla Grande Bergamo: all’inizio l’eccesso del-


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le portate da smaltire, provenienti dall’Alto Milanese, è stato assorbito dal Canale Scolmatore delle piene a Nord Ovest di Milano, che interseca l’Olona, il Seveso e i torrenti delle Groane ed è stato ultimato prima delle opere idrauliche bergamasche (circa 40 anni fa), ma oggi è già insufficiente; di conseguenza, le esondazioni del Seveso sono tornate ad essere un incubo per i quartieri settentrionali di Milano. Potrebbe essere anche il destino della Bergamasca, se non si opera in anticipo per tenere sotto controllo la dinamica delle portate pluviali. In sostanza, è un problema di buon governo del territorio. Si rifletta che da tempo esistono gli strumenti tecnici per verificare lo stato attuale di sufficienza della rete idrografica bergamasca, tratto per tratto, e le probabili evoluzioni nel tempo, adottando tempestivamente i rimedi necessari: si devono prevedere nuovi scaricatori o sono preferibili vasche di pioggia o, meglio ancora, nuove reti di fognatura urbana, che consentano di trattenere sul posto, in forma capillare, le acque pluviali (mediante percolazione, tetti rinverditi, riuso in reti duali)? Tra queste diverse misure c’è la stessa differenza che corre tra la cura e la prevenzione delle malattie del territorio. In ogni caso, la decisione peggiore e più costosa è far finta che il problema non esiste, intervenendo in ritardo, dopo danni ripetuti al territorio e alle popolazioni. Oggi di questo problema dovrebbero occuparsi istituzioni lontane (Autorità di bacino, AIPO, Regione), ma ne hanno il tempo e la volontà? Sarebbe necessaria un’autorità idraulica bergamasca, che possa coordinare gli interventi di tutti gli attori coinvolti.

Fig. 7. Le principali opere realizzate per la difesa idraulica del territorio bergamasco dal Consorzio di bonifica.

2.3 L’erosione della sostanza storica delle rogge bergamasche Sono ormai quasi 20 anni che non solo nella Bergamasca, ma in tutta la Lombardia ed anche a livello nazionale, si è affermato il valore storico – culturale, paesistico e naturalistico degli antichi canali irrigui, di cui la nostra regione vanta un indubbio primato europeo. Si sono moltiplicate le iniziative per valorizzare adeguatamente questo patrimonio; le più significative sono quelle maturate all’interno dello stesso mondo della bonifica, che hanno trovato espressione nella nuova normativa regionale: si parla di una nuova fase storica della bonifica a servizio dell’ambiente. È il momento dei bilanci: dobbiamo chiederci quanto concretamente è stato fatto in questi anni per bloccare il processo inesorabile, che porta alla progressiva distruzione del patrimonio storico, se non per ricuperare situazioni di degrado. La verità è sotto gli occhi di tutti: basta percorrere, durante il periodo delle asciutte, le rive delle rogge storiche, col fondo in terra e le sponde rivestite da materiali tradizionali (ciottoli di fiume, pietre o mattoni). Si può così contemplare la situazione precaria di molti rivestimenti che, nei tratti scoscesi, sono stati ripresi e rattoppati con calcestruzzo; anche molti manufatti speciali, a partire da quelli di attraversamento, sono ormai di fattura totalmente moderna. Molti tratti sono stati completamente trasformati o addirittura coperti. Dobbiamo chiederci quali sono i motivi profondi di questo degrado apparentemente inarrestabile, e chi ne è veramente responsabile. Il problema è complesso e per comprenderlo dobbiamo partire dalla funzione primaria di questi canali, che è quella irrigua. La figura 11 illustra la ripartizione dei bacini irrigui della pianura bergamasca: gli impianti strutturalmente più moderni sono quelli pluvioirrigui del sottobacino dell’Oglio, servito dall’impianto di Telgate e dell’Isola bergamasca, irrigata con acque dell’Adda; tutti gli altri bacini utilizzano rogge storiche, che derivano dal Serio, dal Brembo, dal Cherio e dall’Oglio, i cui corpi d’acqua sono stati in parte integrati con acque nuove dell’Adda. È evidente che le reti più moderne, con condotti interrati in pressione per la pluvioirrigazione, non hanno alcuna funzione idraulica, per la difesa del territorio dalle inondazioni, né paesistica o naturalistica, ma unicamente una funzione economica, integrata nei bilanci aziendali dell’agricoltura (salvo che questa spesso ha anche una funzione ambientale!). La maggior parte dei canali a cielo aperto, invece,


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Fig. 8. Un mondo antico in via di scomparsa; la fotografia del 1960 mostra un’associazione di rogge alberate, che costituivano un suggestivo nodo idraulico nel comprensorio della Roggia Borgogna: la R. Pedrenga (a destra) alimentava la R. Roncaglia (al centro) e la R. Seriola dei Prati (a sinistra). Gli alvei erano in terra, i manufatti in pietra.

Figg. 9 e 10. Il processo storico di deterioramento qualitativo delle rogge bergamasche: a sinistra la Roggia Morla di Campagnola e Orio (1959-1985), a destra un tratto della Roggia Morlana in Comune di Bergamo (1960-1998).


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MARIO DI FIDIO Fig. 11. I bacini irrigui della pianura bergamasca: solo due (impianto di Telgate e Isola bergamasca) praticano la forma moderna della pluvioirrigazione tubata; tutti gli altri utilizzano la rete storica delle rogge, che è stata ammodernata, ma continua a svolgere importanti funzioni idrauliche e ambientali.

svolge funzioni promiscue, ossia irrigue, idrauliche e ambientali. Il problema di fondo è che i servizi resi al territorio (quindi alla società nel suo complesso) devono essere onorati da un adeguato compenso; gli economisti amano dire che non ci sono pasti gratuiti. Il problema è che, più o meno consapevolmente, la società lombarda continua a chiedere servizi ambientali gratuiti ad un’agricoltura moderna, che non è più in grado di assicurarli come un tempo, perchè deve stare sul mercato e aumentare la produttività. Diciamolo francamente: se non ci fosse il peso della storia, che le ha consegnato la gestione delle vecchie reti idrauliche (peraltro in gran parte formalmente appartenenti al demanio regionale), oggi l’irrigazione in Lombardia sarebbe totalmente di tipo tubato, con condotte in pressione, come nell’Italia centro-meridionale, dove prima dell’unità nazionale l’irrigazione era quasi assente. Smettiamo dunque di stracciarci le vesti (lo dico agli ambientalisti, di cui peraltro faccio parte), di fronte alla presunta insensibilità ambientale del mondo agricolo e dei consorzi di bonifica e chiediamoci piuttosto che cosa possiamo fare per cambiare concretamente la situazione. Rispetto ad altre province, la Bergamasca ha un vantaggio: pur con molte difficoltà, il Consorzio di bonifica è già riuscito ad affermare il principio che il beneficio idraulico delle rogge interessa tutto il territorio e non i soli utenti agricoli; pertanto le relative spese devono essere ripartite tra tutti gli utenti – contribuenti: è la famosa cartella esattoriale, che arriva anche ai proprietari di case, con comprensibile ma ingiustificato fastidio degli stessi. Si rifletta che il beneficio reale apportato dal sistema delle rogge,

per la difesa del territorio bergamasco dalle inondazioni, è enorme: ma la gente se ne accorgerebbe solo se esse all’improvviso scomparissero. Bisogna spiegarglielo. Possiamo ora immaginare che lo stesso meccanismo fiscale sia applicato anche per coprire le spese di conservazione del patrimonio culturale e ambientale delle rogge bergamasche. Ho detto possiamo e non dobbiamo, nel senso che è una libera scelta della società; l’unico obbligo è quello di portarla alla discussione in modo serio e responsabile, senza nascondere la vera natura dei problemi. Se ci stanno veramente a cuore questi valori, se pensiamo che la rete delle rogge storiche potrà dare un contributo importante alla riqualificazione del territorio bergamasco, anche come tutela dell’identità locale e della qualità della vita e come promozione di uno sviluppo più equilibrato, allora dobbiamo accettare di pagare gli oneri conseguenti. Altre strade non esistono: i trasferimenti dello Stato ormai sono alquanto ridotti anche in settori giudicati più importanti per la collettività. Rimane da risolvere un problema giuridico: la soluzione prospettata configura un beneficio ambientale dei canali, che deve essere riconosciuto dal legislatore nazionale, mediante una riforma del R.D. 215/1933, accanto a quelli irriguo e idraulico, che sono già codificati, pena l’impossibilità di imposte specifiche da parte della normativa regionale (in virtù di un principio costituzionale). Il fatto che le Regioni abbiano da anni aggiornato la loro normativa sulla bonifica, aprendo in teoria una nuova fase ambientale, ma lasciandola di fatto senza risorse dedicate, per il mancato coordinamento con il legislatore nazionale, la dice lunga sull’incisività della riforma stessa.


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2.5 Le carenze organizzative delle autorità idrauliche La riqualificazione del reticolo idrografico naturale e artificiale, come prevista dalla Direttiva Quadro europea sule acque, è un programma complesso, con tanti attori pubblici e privati, che dovrebbe essere seguito con continuità nel tempo da un’autorità idraulica locale, ossia bergamasca, la quale oggi purtroppo non esiste. Come possiamo pensare che autorità lontane, come la Regione, l’AIPO e l’Autorità di bacino, che già faticano nell’ordinaria amministrazione, si possano assumere anche questo compito? Una sintetica ricostruzione storica agevola la comprensione delle criticità organizzative. Nell’anno di nascita delle Regioni a statuto ordinario (1970), esce uno straordinario documento, redatto da uomini che hanno servito lo Stato in posizioni eminenti della scienza e della pubblica amministrazione: la relazione della Commissione De Marchi per la sistemazione idraulica e la difesa del suolo, che fotografia la situazione organizzativa italiana ed è ricca di consigli per migliorarla. Questo dovrebbe essere il nostro riferimento storico, per capire se oggi la situazione è migliorata o peggiorata. All’epoca l’Amministrazione delle acque faceva capo ad una specie di condominio (sul modello francese) tra i Ministeri dei Lavori Pubblici e dell’Agricoltura e delle Foreste, i quali contavano su una robusta rete di Uffici provinciali o paraprovinciali: Uffici del Genio Civile, Ispettorati provinciali dell’Agricoltura, Ispettorati compartimentali delle foreste, con numerose stazioni a livello locale, come i caselli idraulici e la stazioni forestali. Grande importanza aveva il Servizio idrografico nazionale, fondato da Giulio De Marchi subito dopo la 1ª guerra mondiale e presente capillarmente in tutto il Paese. In ogni Provincia, per i problemi delle acque e della difesa del suolo, operava un Comitato di coordinamento tra gli Uffici periferici dei due Ministeri. Inoltre gli Uffici provinciali avevano un coordinamento regionale (Provveditorati alle OO.PP, Ispettorati regionali all’Agricoltura e alle Foreste). Infine, è

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vero che non esistevano su tutto il territorio nazionale le Autorità di bacino, ma nelle province venete dal 1907 e nel bacino del Po dal 1956 operavano i Magistrati alle Acque, con funzioni molto simili. Dobbiamo confrontare l’assetto attuale con questa organizzazione tecnica, frutto di un secolo di impegno dello Stato unitario, che De Marchi (il quale proveniva dal Genio Civile) riteneva sostanzialmente valida e suggeriva di potenziare, rimediando ai segnali di decadenza già presenti, con una riforma normativa e amministrativa. Aggiungasi che in Lombardia la tradizione dell’amministrazione idraulica è ancora più antica, perché in precedenza operava già una struttura efficiente, come quella del Servizio Acque e Strade del Regno Lombardo – Veneto annesso all’Impero austriaco (da cui provengono illustri idraulici come Elia Lombardini e il bergamasco Pietro Paleocapa) e prima ancora il Servizio Acque e Strade della Repubblica Cisalpina, poi Italiana e Regno d’Italia del periodo napoleonico, diretto da un altro illustre idraulico bergamasco, Antonio Tadini, per non parlare dell’organizzazione della Repubblica veneta, che aveva un esponente di spicco nel bresciano Bernardino Zendrini. Dunque che fine ha fatto questa eredità storica? Al posto del Magistrato del Po, oggi troviamo l’Autorità di bacino del Po, che raccoglie dati ed elabora programmi e l’AIPO (Agenzia interregionale per il fiume Po), che esercita le funzioni di polizia idraulica ed esegue gli interventi di sistemazione, con uffici decentrati: Alessandria e Torino, Cremona, Mantova, Milano e Pavia, Reggio Emilia, Parma e Piacenza, Modena e Ferrara, Rovigo. La figura 12 evidenzia che gli Uffici stessi sono dislocati in prevalenza lungo il fiume Po, dove si concentrano l’attenzione e gli interessi dell’AIPO; si noti che questo era anche il modo operativo del vecchio Magistrato del Po. Il posto dei vecchi Uffici statali di coordinamento regionale è stato assunto dagli Uffici regionali centrali. Diamo pure il voto massimo a tutti questi nuovi soggetti istituzionali, che operano su vasti territori, continuando l’attività dei precedenti Uffici statali ed Fig. 12. Gli Uffici periferici dell’AIPO sono dislocati in prevalenza attorno al fiume Po: “una ritirata strategica” che la dice lunga sulle carenze di presidio della rete idrografica. Prima della riforma regionale, a Bergamo erano attivi tre Uffici tecnici specializzati (Genio Civile, Ispettorato all’Agricoltura e Ispettorato alle Foreste), che per i problemi idraulici operavano in forma coordinata.


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Fig. 14. Scaricatori di piena di fognature urbane fortemente impattanti sul quadro paesistico ed il bilancio idrico del piccolo corso d’acqua ricettore.

Fig. 13. Tratto di torrente incassato e pesantemente compromesso nell’attraversamento di un centro abitato. Le costruzioni incombenti limitano la possibilità di riqualificazione.

Alcuni esempi dello stato di abbandono di molti piccoli corsi d’acqua, da parte dell’Autorità formalmente competente per la polizia idraulica (le foto si riferiscono al Torrente Grandone, nell’Isola Bergamasca, 2005).

ai loro piani e programmi strategici (per es. il Piano di assetto idrogeologico dell’Autorità di bacino o il Piano di Tutela ed Uso delle acque della Regione). La nostra attenzione si deve concentrare sulle vecchie strutture provinciali, a presidio della rete idrografica e purtroppo non le troviamo più. Le competenze giuridiche sono migrate altrove, su soggetti che, o non sono presenti sul territorio con strutture decentrate (come l’AIPO) o, se sono presenti, sono spesso privi di Uffici tecnici specializzati e dedicati, come le Comunità montane, che gestiscono gli interventi idraulico – forestali, o i Comuni ai quali è stato affidato il reticolo idrico minore. Alle Province sono affidati il controllo dell’inquinamento e le concessioni di derivazione. Ma è razionale questa dispersione delle competenze relative al reticolo idrografico lombardo? Parliamoci con franchezza: se tornassero Giulio De Marchi, Giulio Supino, Ardito Desio e gli altri membri della Commissione per la difesa del suolo, si metterebbero le mani nei capelli. Va rilevato che storicamente in Europa il modello delle strutture tecniche di dimensioni provinciali o paraprovinciali, coordinate da un’istituzione centrale, ha dimostrato di essere il più efficiente per le funzioni operative, grazie alla maggior specializzazione del personale e alla distribuzione più razionale delle risorse umane e strumentali sul territorio. Nessuno Stato ordinato può fare a meno di queste strutture: la Francia ha i Servizi dello Stato decentrati presso i Dipartimenti; in Germania, che è uno Stato federale, le Province sono raggruppamenti di Uffici dipendenti dai Länder. Qui non è questione di centralismo o di federalismo: il problema è che non siamo un Paese serio. Gli Uffici ereditati dalla storia si riformano, come fanno da sempre francesi e tedeschi, ma non si distruggono, come abbiamo fatto noi negli ultimi 40 anni.

In Lombardia, la mancanza di un presidio a livello provinciale, fa sì che i piccoli e medi corsi d’acqua naturali siano – di fatto – abbandonati a se stessi, come è evidente per chi si avventura in escursioni lungo le sponde (vedi le figure 13 e 14). Ma se la polizia idraulica e l’ordinaria manutenzione sono così trascurate dall’Autorità competente, come si può pensare che essa sia in grado di avviare piani complessi di riqualificazione, conformi alla Direttiva – quadro europea sulle acque? Il divario con la Germania è ormai gigantesco. Basti pensare che questo Paese ha assicurato da anni la classificazione ecologica di tutti i corsi d’acqua (con il sistema federale LAWA, perfezionato dai singoli Länder), anche di piccole dimensioni ed è in grado di misurare gli effetti nel tempo (migliorativi o peggiorativi) degli interventi particolareggiati sul territorio, attraverso una ventina di parametri, che vengono monitorati dagli uffici provinciali-circondariali. Nel suo Piano di Tutela e uso delle Acque (PTUA), la Regione Lombardia si è limitata a classificare i grandi corsi d’acqua, per lunghe tratte: è un sistema che risulta assai poco operativo e, di fatto, evade la Direttiva comunitaria, a causa dell’incapacità organizzativa. Ciò è confermato dal fatto che le poche e isolate iniziative in atto sono dovute prevalentemente alla buona volontà di enti locali (per esempio l’organizzazione di PLIS attorno ai piccoli e medi corsi d’acqua, come avviene anche nella Bergamasca). Ritorna la domanda: vogliamo diventare un Paese serio? In questo panorama scoraggiante, si deve riconoscere che la gestione ordinaria della rete idrografica artificiale, costituita dai canali irrigui e di bonifica, è più efficiente, a prescindere dai gravi problemi in precedenza discussi. Il Consorzio di bonifica della Media Pianura Bergamasca è nato nel 1955 e progressivamente ha integrato in una struttura centrale


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Fig. 15. Il comprensorio di bonifica della media pianura bergamasca ha una dimensione paraprovinciale, in grado di assicurare livelli adeguati di efficienza tecnica e di presidio del territorio.

la gestione delle rogge storiche, in precedenza facente capo a Comuni come Bergamo e Treviglio, a casati nobiliari come Giovanelli e Visconti, ad istituti ecclesiastici e di beneficenza, come il Luogo Pio della Pietà, alle antiche Compagnie delle acque, alcune delle quali sono ancora in vita, con compiti limitati. Questi soggetti avevano un forte radicamento sul territorio, ma una dimensione troppo piccola; il Consorzio di bonifica, grazie alla sua dimensione paraprovinciale, realizza livelli adeguati di efficienza tecnica e accettabili di presidio del territorio. Esso potrebbe dunque essere valorizzato nel quadro di un programma serio di riqualificazione del reticolo idrografico.

3. NUOVI STRUMENTI PER LA RIQUALIFICAZIONE DELLA RETE IDROGRAFICA

L’illustrazione delle principali criticità della rete idrografica evidenzia problemi, soprattutto di carattere organizzativo, che superano le competenze degli enti locali e ne limitano le possibilità d’intervento. Esistono peraltro possibilità di surroga parziale, che dipendono soprattutto dalla volontà d’impegno delle due istituzioni bergamasche potenzialmente più importanti in questo settore, ossia la Provincia e il Consorzio di bonifica. Di seguito sono fornite in-

dicazioni sintetiche su alcune iniziative, che potrebbero essere adottate in tempi brevi nell’area bergamasca, per ricuperare, almeno in parte, il ritardo nell’attuazione della Direttiva - Quadro sulle acque 2000/60/CE. Per i dettagli, si rinvia alla pubblicazione di M. Di Fidio - G.B. Bischetti Riqualificazione ambientale delle reti idrografiche minori (Hoepli, 2008) ed al Programma di riqualificazione naturale e ambientale del T. Grandone (2006), elaborato dalla Provincia di Bergamo e dal Consorzio di bonifica. 3.1 L’organizzazione per gestire il programma di riqualificazione L’analisi critica condotta al precedente punto 2.5 sulle carenze organizzative indica che il problema principale è la mancanza di strutture dedicate al governo del sistema idrografico a livello provinciale. Esso potrà essere affrontato nel modo più razionale dopo la prevista soppressione delle Province, studiando il nuovo assetto da attribuire ai loro Uffici con legge regionale. Personalmente penso che questa sia una grossa occasione per rimediare agli errori del passato, ricostituendo in forme nuove Uffici tecnici provinciali, dipendenti dalla Regione, che potremmo chiamare “Genio civile, rurale, forestale ed ambientale”, eredi delle vecchie competenze, integrate da nuove, di carattere ambientale, con un’ido-


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nea formazione specialistica. Questa struttura potrebbe occuparsi anche della gestione tecnica dei parchi regionali e locali d’interesse sovracomunale. Le risorse necessarie si ricavano dalle economie legate alla soppressione dei vecchi enti. A questo riguardo, interessante, anche per i legami storici con l’Italia, appare la recente riforma della Francia, la quale nel 2009 ha realizzato la fusione tra due Corpi dalle antiche tradizioni, che in italiano potremmo chiamare Genio civile (Ingénieurs des Ponts et Chaussées = IPC) e rispettivamente Genio rurale e forestale (Ingénieurs du Génie Rural, des Eaux et des Forêts = GREF). Essi oggi costituiscono il nuovo Corpo degli Ingegneri di Ponti, Acque e Foreste (IPEF = Corps des Ingénieurs des Ponts, des Eaux et des Forêts). In attesa che siano sciolti complessi nodi politico-istituzionali, sembra opportuno puntare, nel breve periodo, su un’organizzazione provvisoria e sperimentale per la riqualificazione della rete idrografica bergamasca, in conformità alla Direttiva – Quadro sulle acque. La Provincia e il Consorzio di bonifica

potrebbero realizzare una specifica intesa con la Regione, che riprenda e generalizzi per l’intero territorio di pianura, con un’organizzazione permanente ma in forme più snelle, il programma già avviato nel 2006 per il Torrente Grandone (Isola bergamasca), d’intesa con i Comuni interessati. Anche alla luce di questa esperienza, l’approccio dovrebbe partire da una base conoscitiva, da assicurare in tempi brevi a tutto il territorio e da un minimo di adempimenti comuni, da integrare nella pianificazione territoriale ed urbanistica e nel piano di bonifica, che rientrano nell’ambito delle competenze proprie degli enti locali. Su queste basi, potrebbero innestarsi progetti più avanzati, nelle situazioni più mature. 3.2 Il monitoraggio naturale e ambientale della rete idrografica La prima misura da adottare è il monitoraggio naturale e ambientale della rete idrografica bergamasca, per valutare il deficit attuale di qualità strutturale, rispetto al modello di riferimento e poter atFig. 16. I parametri utilizzati in Germania per l’indice di qualità strutturale dei corsi d’acqua LAWA, raggruppati per unità funzionali e settori morfologici. (da Di Fidio - Bischetti, Hoepli 2008)


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tuare in modo razionale gli interventi di riqualificazione necessari. Se anche non esiste, al momento, la possibilità di realizzare interventi di riqualificazione su un certo tronco di un corso d’acqua, il monitoraggio periodico consentirebbe almeno di valutare gli effetti, sulla qualità del detto tronco, degli interventi di trasformazione in atto sul territorio e non è poco, per chi deve prendere decisioni, misurarsi con un indice di qualità che diminuisce o aumenta. In questo senso, l’indice stesso potrebbe essere concepito come uno strumento di pianificazione, ossia integrato nel piano territoriale di coordinamento provinciale, con l’obbligo, per i Comuni, di verificare gli effetti dei rispettivi piani di governo del territorio, compensando l’eventuale diminuzione di alcuni parametri con l’aumento di altri, in modo tale da evitare ulteriori processi di degrado della rete idrografica. Si ricorda che la Direttiva europea inquadra nelle sue linee generali il monitoraggio, distinguendo due grandi categorie: da una parte i corpi idrici naturali, che devono raggiungere uno stato ecologico buono e dall’altra i corpi idrici fortemente modificati o artificiali, che devono raggiungere un potenziale ecologico buono. Nel caso dei canali rurali, il potenziale ecologico massimo è un modello teorico, da definire facendo riferimento da una parte alla tipologia di corso d’acqua naturale più simile e dall’altra alla necessaria salvaguardia degli usi dei canali stessi (nel caso delle rogge bergamasche irrigazione e colatura), i quali non devono subire effetti negativi significativi. Gli Stati sono liberi di adottare i sistemi di monitoraggio che ritengono più opportuni. Non è questa, evidentemente, la sede per entrare in un tema tecnicamente complesso. Si scelga un metodo adeguato di monitoraggio dell’alveo, delle sponde e del territorio circostante e lo si applichi rapidamente all’intera rete idrografica, con alcune avvertenze: il metodo può essere semplificato nel numero dei parametri da controllare, ma per essere operativo deve monitorare anche i piccoli corsi d’acqua (in Germania la larghezza minima è fissata in 0,5 m) e piccoli tronchi (in Germania 100 m); infine i parametri scelti devono misurare non solo le componenti naturali, ma anche quelle d’origine artificiale, sempre numerose nella prassi, anche per i corsi d’acqua naturali (vedasi per confronto la figura 16, che rappresenta il sistema di monitoraggio tedesco). 3.3 Riordino delle concessioni di polizia idraulica Molti pensano che la riqualificazione dei corsi d’acqua comporti progetti costosi per la pubblica

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amministrazione: un lusso data la crisi attuale, pertanto da rinviare a data da destinarsi. Pochi riflettono che, nei Paesi meglio organizzati, il punto di partenza è un altro, ossia le attività ordinarie di polizia idraulica e di manutenzione, su cui fare leva. Accenniamo alle prime, che sono a costo zero per la pubblica amministrazione, incluse le spese istruttorie, essendo tutto a carico dei concessionari. Le condizioni di abbandono di molti corsi d’acqua hanno generato una situazione di grave disordine. La legge prevede che tutti gli interventi (attraversamenti, sistemazioni spondali, recinzioni, scarichi, ecc.) siano oggetto di specifica concessione temporanea, a titolo oneroso e con condizioni e prescrizioni. Molti interventi sono del tutto abusivi, altri non rispettano le prescrizioni, altri ancora sono obsoleti con riferimento ai criteri che hanno ispirato le concessioni, le quali peraltro sono a termine o possono essere revocate. Come già detto, l’ideale sarebbe ricostituire un’autorità competente a livello provinciale (un nuovo Genio civile - rurale - ambientale), che metta ordine, utilizzando lo strumento della polizia idraulica per attuare, almeno in parte, un programma organico di riqualificazione dei corsi d’acqua, che faccia parte della sua missione: quella di aumentare l’indice di qualità strutturale. In attesa, si può ripiegare su un obiettivo più modesto, delegando il compito istruttorio, per alcune parti del territorio dove esistono programmi di riqualificazione dei corsi d’acqua, alla Provincia o ad altri soggetti interessati (per es. Parchi regionali o PLIS). L’autorità formalmente competente per la polizia idraulica dovrebbe solo mettere la firma finale. Per esempio, nel caso di un Parco fluviale, al termine di queste operazioni, si materializza un doppio flusso di risorse, provenienti dai soggetti intestatari delle concessioni stesse e dedicate al progetto di riqualificazione: • I concessionari eseguono, a loro cura e spese, gli interventi progettati per la demolizione o la riqualificazione e s’impegnano alla manutenzione, secondo le tipologie e sotto la vigilanza del Parco. • L’Autorità competente per la polizia idraulica assegna al Parco l’introito dei canoni annui di concessione, a fronte delle sue prestazioni d’assistenza e controllo, codificate con apposita circolare regionale. Per i canali, le competenze di polizia idraulica fanno già capo al Consorzio di bonifica, il quale potrebbe impegnarsi ad adottare il medesimo approccio di revisione delle concessioni in atto, per riqualificare almeno le Rogge più importanti.


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Con la consueta franchezza, non possiamo nasconderci che in questo settore non esiste soltanto un problema organizzativo, ma anche e soprattutto la riluttanza delle autorità competenti nel far fronte agli interessi (di fatto coalizzati) di una moltitudine di concessionari grandi e piccoli, privati e pubblici. Torna la domanda: vogliamo diventare un Paese serio? 3.4 Gestione sostenibile delle acque pluviali nelle aree urbanizzate Abbiamo già accennato a sistemi fortemente innovativi per la realizzazione delle fognature urbane, da porre in atto in alternativa o ad integrazione di altri sistemi per la prevenzione delle inondazioni, nelle aree con forte tasso di urbanizzazione. Va rilevato che tali sistemi risultano utili anche per la riqualificazione di molti piccoli e medi corsi d’acqua; essi, infatti, consentono di prevenire la crescita abnorme delle portate in tempo di pioggia, che spesso supera largamente la capacità di deflusso naturale ed è una delle cause più importanti di interventi artificiali sull’alveo, per aumentare la suddetta capacità. Il tema è stato ampiamente trattato sotto il profilo tecnico nel Corso d’ingegneria naturalistica, organizzato la scorsa primavera dai Collegi degli ingegneri, architetti, agronomi e geologi della Provincia di Bergamo, al quale si rinvia. La Provincia di Bergamo, nel 2005, ha diramato una circolare ai Comuni, promuovendo l’adozione di sistemi alternativi per la gestione sostenibile delle acque pluviali. Si può dunque ipotizzare che tali sistemi siano resi obbligatori, nei Comuni con determinate caratteristiche e limitatamente alle nuove urbanizzazioni, attraverso specifiche norme del piano territoriale di coordinamento provinciale.

Fig. 17. Associazione tra vari sistemi tecnici di gestione decentrata delle acque pluviali, correlati alla permeabilità del suolo ed alla disponibilità di superfici. (da Di Fidio - Bischetti, Hoepli 2008)

3.5 L’Ecoconto a servizio della riqualificazione spondale L’Ecoconto è uno strumento con valenza generale, largamente utilizzato in Germania, che potrebbe, mediante alcuni adattamenti della pianificazione territoriale e urbanistica, essere introdotto anche in Lombardia, con la possibilità di utilizzare le risorse rese disponibili a livello comunale per finanziare programmi organici di riqualificazione di superfici di scarsa qualità o degradate, incluse le sponde dei corsi d’acqua al di là dell’area demaniale. L’utilità di questo strumento appare evidente: nella situazione drammatica in cui si trova oggi la finanza pubblica italiana, le risorse disponibili per i corsi d’acqua attraverso i trasferimenti statali non saranno neppure sufficienti per le attività ordinarie. Occorre dunque attivare nuovi flussi di risorse dedicate, cercandole sul territorio. In questo caso, il protagonista è il Comune. Il meccanismo è stato concepito dal legislatore federale tedesco, per assicurare ai Comuni flussi cospicui di risorse, collegati a progetti organici di riqualificazione del territorio, ed ha generato una molteplicità di schemi operativi, sperimentati concretamente, per le varie forme di piani e progetti e facilmente trasferibili alla realtà italiana. A titolo d’esempio, si veda, per i piani urbanistici, il modello Baviera, applicato con modifiche dal Parco delle Orobie bergamasche, a titolo sperimentale (Linee – guida per la qualificazione ecologica dei piani di governo del territorio, 2007). Secondo la legge tedesca, i responsabili degli interventi soggetti alla disciplina: • Sono innanzi tutto tenuti a prevenire, con idonee misure (Vermeidungsmassnahmen), le compromissioni evitabili alla natura ed al paesaggio. • Devono – nei limiti del possibile – compensare le compromissioni inevitabili, con misure tali da assicurare il ripristino dell’equilibrio naturale e del quadro paesaggistico nello stesso sito danneggiato dall’intervento (Ausgleichsmassnahmen) ed infine, in subordine. • Devono compensare in forma equivalente le compromissioni inevitabili residuali, mediante misure di risarcimento compensativo, che riqualificano l’equilibrio naturale e il quadro paesaggistico in altri siti (Ersatzmassnahmen). È logico che, nell’economia del singolo intervento, siano prioritarie le misure di primo e secondo rango, ma la nostra attenzione si deve concentrare su quelle del terzo rango. Si noti che, per la maggior parte degli interventi, è impossibile compensare i danni inevitabili, ripristinando totalmente l’equili-


LO SGUARDO DELL’INGEGNERE IDRAULICO

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Fig. 18. Struttura dell’Ecoconto (sinistra) ed esempio di calcolo per il conferimento e lo storno di superfici (destra). (da Di Fidio - Bischetti, Hoepli 2008)

brio naturale e il quadro paesistico a livello locale e si deve quindi ricorrere a misure di risarcimento compensativo in altri luoghi. A questo punto si attiva l’Ecoconto, che convoglia le relative risorse su progetti organici di riqualificazione del territorio, già predisposti dai Comuni e loro consorzi. Immaginiamo di trasferire questo sistema ad una realtà come quella di un Parco regionale fluviale (o un PLIS, ecc.). Il Parco organizza e gestisce, in forma consortile, l’Ecoconto, concernente le operazioni che riguardano il suo territorio e le aree adiacenti dei Comuni interessati; nel bilancio dell’Ecoconto entrano quindi le risorse di risarcimento compensa-

tivo, provenienti non soltanto dai processi di pianificazione e controllo amministrativo di competenza dei Comuni, ma anche da quelli facenti capo ad altre Autorità (per es. riguardanti strade e ferrovie, cave, ecc). Ovviamente tali risorse devono essere integralmente utilizzate per opere di riqualificazione del territorio, certificate da un’autorità superiore (per es. la Provincia, mediante l’Ecocatasto) e distinte da quelle realizzate con altri fondi. In attesa di provvedimenti normativi regionali, si può concepire una forma provvisoria di introduzione dell’Ecoconto su scala provinciale, attraverso il piano territoriale di coordinamento della Provincia.



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Un approccio di psicologia ambientale MENTE E PAESAGGIO TRA ARTE E CULTURA Riconoscere la relazione estetica specie umana-paesaggio

1. PAESAGGI IMMAGINATI Un compito specifico di natura transdisciplinare, oggi. È lo sviluppo di un pensiero del finito, capace di valorizzare le scienze della contingenza storica (Gould, 1989) e le scienze del riconoscimento (Edelman, 1995). I problemi e le questioni emergenti del nostro tempo richiamano l’assunzione del vincolo della finitudine come fonte di effettive possibilità. L’idea di paesaggio, infatti, è figlia di un pensiero del finito. Un pensiero del finito non è per noi consueto ed esige l’attivazione di un’attenzione di second’ordine. Il paesaggio è scoperta che data da poco tempo; siamo infanti simbolici e giovane è, rispetto ai tempi dell’evoluzione, la nostra capacità di accorgerci di noi stessi e della nostra collocazione nel mondo: ci vuole una simbolizzazione dello spazio e dell’ambiente naturale di vita per riconoscere il paesaggio. Noi riconosciamo per selezione e definizione. Solo la definizione di un limite consente il riconoscimento. La finitudine dello spazio, delle risorse e del territorio sono esperienze troppo recenti. Una delle loro prime manifestazioni è un sentimento dei luoghi che chiamiamo paesaggio, di cui alfine ci accorgiamo. Quell’attenzione dipende da una nostra capacità naturale. Investiamo la nostra attenzione ad un certo livello attivando in particolare i nostri lobi frontali, e generiamo un break-down, un’interruzione dell’universo di senso consolidato e naturalizzato. In quei casi emergono idee di particolare e drastica discontinuità. L’idea di paesaggio, appunto, è particolarmente discontinua. È frutto di un’elaborazione della presa di distanza dall’appartenenza tacita alla natura e, quindi, una costruzione “artificiale”, fatta ad arte, dagli esseri umani, nelle relazioni situate in una cultura e in un contesto. Il paesaggio emerge dalle narrazioni dell’ambiente e dello spazio, narrazioni scritte o figurate, che da un certo momento in avanti cominciano ad affermarsi * Università degli Studi di Bergamo.

come espressione dell’accorgerci del mondo. Accorgersi di qualcosa vuol dire definirla e implica, almeno in una certa misura, un disincanto nei suoi confronti. Quel disincanto è associato alla malinconia per la perdita dell’incanto, appunto, della tacita appartenenza che rendeva compiuta la presenza nello spazio e nel tempo. Divenire umani è stato un lungo e continuo processo di riconoscimento. Abbiamo riconosciuto la morte con l’invenzione del rituale della sepoltura. Ci siamo accorti del rapporto tra l’accoppiamento sessuale, la gravidanza e la nascita con la sedentarietà e la simbolizzazione che hanno consentito di collegare due eventi distanti nel tempo, grazie al fatto che erano divenuti vicini nello spazio. Riconosciamo il paesaggio quando cominciamo a narrarcelo, descrivendo la natura da cui ci distanziamo, tra distinzione e sentimento di perdita. Ci accorgiamo a quel punto che il paesaggio è il nostro spazio di vita, la condizione per essere quello che siamo tra memoria e futuro, ma si tratta di una conquista difficile.

2. MENTE, MENTALITÀ E INNOVAZIONE Quanto più una nuova idea è discontinua e radicale, tanto più in alto si colloca la soglia della sua accettazione. L’idea di paesaggio è giovane. Dura da quando abbiamo cominciato ad accorgerci di noi e dei nostri limiti. Non è bastato l’avvento della competenza simbolica: attribuire senso vuol dire appartenere a quel dominio di senso. Ri-conoscere il paesaggio vuol dire sentirne la possibile assenza, la probabile mancanza. Solo a quel punto il paesaggio, come peculiare immaginazione del mondo, risuona in noi. Noi tutti, del resto, entriamo in scena nel mondo come “risuonatori”. Apprendiamo da chi ci precede e generiamo a nostra volta apprendimenti, in una infinita circolarità ricorsiva che dura oltre la vita


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di ognuno. Nella maggior parte dei casi ad agire non siamo noi ma dei sistemi relazionali generanti. Le unità d’informazione culturale in grado di diffondersi e di essere replicate con dei lievi o meno lievi errori di copie riguardano il modo in cui le menti relazionali umane generano e riproducono cultura. La generazione e diffusione di cultura produce allo stesso tempo persistenze che quando si consolidano possono divenire resistenze all’innovazione, nelle mentalità e nei comportamenti. Mettendo in risonanza tra noi gli esiti del riconoscimento di quanto emerge, in termini d’informazione e conoscenza, dalla elaborazione della distanza e della mancanza conseguente, effetti del distacco dall’ambiente di cui eravamo fino a un ceto punto tacitamente partecipi, abbiamo creato il concetto stesso di paesaggio. Non abbiamo ancora creato delle pratiche appropriate ed estese per una sua tutela, un suo governo e una sua gestione efficaci. Non solo non abbiamo una teoria e una prassi innovative del paesaggio all’altezza della sua funzione cruciale per la vivibilità, ma l’innovazione richiesta è talmente radicale e profonda da porre non poche difficoltà di accettazione. Le scelte e le azioni di governance e educazione per favorire l’accettazione dell’innovazione necessaria risultano complesse e impegnative allo stesso tempo.

3. UN CASO EMBLEMATICO La contingenza creatasi tra le scelte della Provincia Autonoma di Trento, Assessorato Urbanistica ed Enti Locali, che ha posto il paesaggio al centro della ridefinizione delle politiche territoriali e della governance, e l’accreditamento delle Dolomiti come patrimonio dell’umanità da parte dell’Unesco, può essere l’occasione per sviluppare un laboratorio sperimentale in grado di verificare i vincoli e le possibilità nell’accettazione sociale di un’innovazione di ampia portata. Una simile innovazione ha i caratteri di un problema globale e controverso, quindi non lineare e perciò tale da non ammettere una sola soluzione. Essa si situa, inoltre, al punto di interconnessione tra processi socio-cognitivi, mentalità e ambiente, tra mindscape e landscape, e proprio sul rapporto tra mente, mentalità e innovazione riguardo al paesaggio si sviluppa questo breve contributo. L’ipotesi su cui si basa è che esistano diverse velocità e durate e non poche contraddizioni intervenienti, tra gli atti anticipatori dell’amministrazione pubblica che fissa le regole, le mentalità e le culture che dovrebbero recepire quelle regole e i comportamenti effettivi degli individui e dei gruppi nelle reti delle relazioni sociali. Nelle dinamiche tra quelle diffe-

renze si genera di fatto l’evoluzione effettiva degli orientamenti e delle scelte e la possibilità stessa di produrre cambiamento orientato e innovazione. Non sarà possibile realizzare gli intenti riformisti senza porre mano alla comprensione prima e all’azione dopo, per favorire una inedita cultura del paesaggio.

4. SPECIE UMANA, LIMITI E PAESAGGI “Da molto tempo si sa bene che l’uomo non comincia con la libertà ma con il limite e con la linea dell’invalicabile”, scrive Michel Foucault. È solo elaborando il limite che si para innanzi a noi, che ci riconosciamo. Così come è solo scoprendo il limite della nostra appartenenza naturale e tacita ad un contesto, sperimentando cioè distanza e mancanza, che creiamo l’artificiale del paesaggio, una simbolizzazione dell’ambiente “fatta ad arte”, come esito dell’elaborazione della distanza. Il tempo da quando sappiamo di iniziare con il limite, misurandoci con esso come con una sponda che ci rinvia un’immagine plausibile ancorchè autogenerata di noi, evidentemente non è ancora bastato per accedere ad una visione e ad una cultura di noi stessi capace di generare comportamenti appropriati all’evidente insostenibilità del nostro modo di vivere e del nostro modello di sviluppo. Non ce l’abbiamo fatta finora a iniziare a comportarci in modo diverso. La domanda difficile è: che cosa deve succedere per accorgerci che non possiamo proseguire così e per iniziare effettivamente a comportarci diversamente? L’accettazione di idee discontinue sull’ambiente di vita e il paesaggio è resa urgente e necessaria dal cambiamento rapido dei contesti: quell’urgenza complica le cose all’inverosimile, in quanto l’ansia che genera pare non aiutare a cambiare idea. Basti per tutte le questioni la difficoltà a dare un significato positivo all’idea di limite. “Limite” rimane tuttora una parola “negativa” nel nostro linguaggio e richiama quello che non si può fare, una privazione, un handicap, un ostacolo alla libera scelta. Non ce la facciamo ancora ad affermare l’idea che non vi è alcuna possibilità senza limite. Non riconosciamo ancora le potenzialità generative che il limite contiene mentre definisce un effettivo spazio di azione: se la vita non fosse limitata non ci accorgeremmo della sua bellezza e vivere bene non vuol dire negare la finitudine della vita, cosa che condanna alla disperazione certa, ma abitare bene il tempo disponibile, sapendo che è limitato. La specie umana è di fronte ad una svolta: per la prima volta può definire il proprio spazio di vita e di azione, ma per farlo deve riconoscersi parte


MENTE E PAESAGGIO TRA ARTE E CULTURA

del tutto e riconoscere il limite come valore. Il paesaggio è una cartina di tornasole dei vincoli e delle possibilità di questa ri-figurazione.

5. LIFE-SPACE E PAESAGGI Il paesaggio è la principale risorsa per la vivibilità del pianeta Terra da parte degli esseri umani e si colloca al punto d’incontro tra modelli mentali e comportamenti quotidiani. Il paesaggio non come stilema o cartolina ritagliata per scopi promozionali e commerciali ma come spazio di vita e come luogo della cultura, della distinzione, dell’applicazione di scelte oculate di governo, d’integrazione di qualità tra risorse ambientali e insediamenti umani. Per comprendere il paesaggio, punto di partenza di una riflessione adeguata deve essere ed è la domanda: che cosa intendiamo per vivibilità? Si tratta di un concetto che indica situazioni nuove con cui non abbiamo dimestichezza o ne abbiamo una superata. Noi tutti sappiamo che cosa significa affermare che una certa situazione è invivibile. Con quella espressione ci siamo riferiti nel tempo a diversi tipi di problemi in grado di rendere insopportabile una relazione, un ambiente, un’organizzazione. Oggi invivibile può significare irrespirabile, se ci riferiamo all’aria; nocivo o incommestibile o non potabile se parliamo di cibo e di acqua; inguardabile o inaccessibile se parliamo di paesaggio e territorio. La vivibilità riguarda perciò, sempre più, la nostra responsabilità relativa alle scelte che facciamo nel rapporto con l’ambiente in cui viviamo. Qui emergono alcuni importanti problemi, quasi tutti connessi alla nostra difficoltà a cambiare idea e, soprattutto, a cambiare comportamenti e stili di vita. Perché quei cambiamenti sono così urgenti e necessari? Lo sono perché la vivibilità è cambiata, e lo ha fatto in pochissimo tempo, il tempo di due o tre generazioni. Chi di noi ha più di cinquant’anni ricorderà che da piccoli non capitava mai di chiedersi: di che qualità è l’aria che respiro oggi? Oppure: ma l’acqua che sto bevendo contiene dei fattori nocivi? E cosa c’è nel cibo che sto mangiando? Di più era sempre meglio e tutto era stato creato per essere a nostra disposizione, in quanto esseri umani. Dagli scettici ai più sensibili, oggi, ognuno sa che quella vivibilità centrata sull’uso indiscriminato della natura non ha futuro. O vivremo con la natura e non contro di essa, o non vivremo affatto. Solo che accettare di far parte del tutto e, soprattutto, cambiare idea e comportamenti è molto difficile. I sentimenti che emergono richiamano subito la rinuncia, la perdita, la paura di tornare indietro, l’abbassamento del livello di quello

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che chiamiamo benessere. Poca attenzione rivolgiamo, di solito, ai vantaggi che possono derivarci dal riconoscere i limiti necessari di un certo modello di sviluppo. Si tratta di vantaggi che oggi sono effettivamente decisivi per la qualità della vita e per pensare a un futuro nostro e dei nostri figli. Quei vantaggi si possono ricondurre a tre parole chiave: conoscenza, paesaggio e tecnologie, il modello “Conpa-tec”. Si tratta di un modello che combina le possibilità di apprendimento e di cambiamento attraverso la conoscenza, con la centralità del paesaggio come spazio di vita e di promozione della qualità della vita per i residenti e gli ospiti, con il ruolo cruciale delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Lo scopo è lo sviluppo di un’economia e una società compatibili con una vivibilità sostenibile, in grado di rappresentare opportunità preferibili. Se si combinano in modo compatibile conoscenza, paesaggio e tecnologie avanzate, la vivibilità nei luoghi può divenire più elevata socialmente. Quali sono gli assi portanti di questa possibilità? Il primo asse riguarda l’intensificazione del rapporto tra conoscenza e innovazione. Le risorse disponibili possono divenire distintive e caratterizzare economia e società solo se la loro elaborazione si arricchisce di know-how. Si tratta di uno dei punti più critici. Il secondo asse riguarda il rapporto tra tecnologia e accessibilità. Un’accessibilità leggera e capace di connettere il locale al globale senza snaturarlo e omologarlo è possibile. Si tratta di elaborare un’accezione estesa e profonda dell’accessibilità che si combini con decisi investimenti in crescita culturale ed incremento della conoscenza posseduta e investita nelle comunità locali, riducendo l’impatto delle tradizionali modalità di accessibilità fisiche. Il terzo asse è quello del rapporto tra paesaggio e vivibilità. Il paesaggio è stato vissuto come un’esternalità, disponibile e attraente, da valorizzare per venderlo. Si tratta di riconoscere che è prima di tutto un patrimonio delle comunità residenti, dal punto di vista mentale, storico e culturale e, quindi, uno spazio di vita. Una risorsa unica e distintiva che eleva la qualità della vita e la rende attraente per chi ci nasce e chi la frequenta. Il paesaggio diviene in tal modo luogo dell’incontro, sede di una vivibilità distintiva e patrimonio inimitabile per il presente e il futuro.

6. CONTINGENZE MOLTEPLICI La ri-figurazione dell’idea di paesaggio si confronta con il fatto che le mentalità sono di lunga durata. La porta del cambiamento di mentalità è stretta e, come scrive Robert Musil ne L’uomo senza


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qualità: “Chi voglia varcare senza inconvenienti una porta stretta deve tener presente il fatto che gli stipiti sono duri”. Per affermare un pensiero del finito e cambiare idea sul paesaggio sono perciò necessari sia un senso di realtà, come il postulato precedente di Musil, sia un senso della possibilità. Lo stesso Musil, infatti, afferma: “Ma se il senso della realtà esiste e nessuno può mettere in dubbio che la sua esistenza sia giustificata, allora ci deve essere anche qualcosa che chiameremo senso della possibilità”. Lo sviluppo di un pensiero del finito e di una cultura del paesaggio come spazio per vivere esige una educazione al senso del possibile. Nell’idea di paesaggio si condensano e sedimentano più strati e confluiscono più dimensioni: il paesaggio diviene in una contingenza molteplice, figurandosi nelle dinamiche della mente di chi lo crea, lo osserva, lo vive. Per cogliere l’idea di paesaggio, al punto di confluenza di mentalità, pratiche, rappresentazioni, regole, proiezioni progettuali, ci vorrebbe la vis narrativa auspicata di recente da un’importante scrittrice come Christa Wolf: “Mi piacerebbe scrivere secondo le dinamiche della mente. Nella mente accadono contemporaneamente le cose più diverse, ma purtroppo la scrittura è necessariamente lineare. Vorrei un testo simile ad un tessuto, una trama in cui i fili si sovrappongono e si intersecano in modo da formare un motivo che non nasca da un solo filo” (Der Spiegel, la Repubblica, 21 luglio 2010). Il paesaggio, come la mente, è il “luogo” dove accadono contemporaneamente le cose più diverse. Si crea un circuito tra mente e paesaggio che tende alla naturalizzazione e la maggior parte delle persone, immerse in quel circuito, tende a riconoscerne i problemi e i vincoli quando sono cresciuti al limite dell’irreversibilità. La mentalità che ne deriva tende a porsi come un sistema chiuso che si ritiene invulnerabile. La durata delle mentalità diviene così uno dei principali vincoli al cambiamento e all’innovazione.

7. IMMAGINAZIONE E MONDI POSSIBILI Analizzare come prende forma e si consolida una mentalità vuol dire fare opera di traduzione. Vuol dire riportare in altra lingua il processo che, divenuto tacito, si cela nella trama del contesto mostrandosi ineluttabile. Vuol dire, insomma, in una certa misura espiare il consolidato, rassicurante e solido, delle convinzioni dominanti. Vuol dire, finalmente, cercare di comprendere come la mente relazionale umana costruisce i propri mondi. Solo in quel modo sarà forse possibile cercare di individuare vincoli e possibilità di apprendimento e innovazione riguardo

a quei mondi. La mentalità relativa al paesaggio, quella che ne sostiene i modi di concepirlo e di agirlo, esige un approccio inedito e innovativo, per cercare di studiarla e comprenderla. Se si può, come si dovrebbe, cercare di mettere da parte l’antica distinzione cartesiana tra corpo e mente, che si è presa gioco non solo della gente comune per tanti anni, può divenire possibile lavorare ad un “modello continuità/innovazione” capace di dare conto dei processi micro e macro che sostengono azioni e decisioni centrate sull’attore, quando si tratti di paesaggio, spazi di vita e vivibilità. Come la lunga durata e l’inerzia si combinano con la discontinuità e l’innovazione nei modi di pensare, vivere e agire il paesaggio, diviene la questione da studiare e il tema di questo contributo. A differenza degli organismi primitivi noi esseri umani siamo creature attive più che reattive. Come sostiene Elkhonon Goldberg: “Probabilmente la transizione del comportamento da una modalità prevalentemente reattiva a una modalità prevalentemente attiva rappresenta il tema centrale dell’evoluzione del sistema nervoso. Noi siamo in grado di formarci degli obiettivi, obiettivi che sono la nostra visione del futuro. Poi agiamo attenendoci ad essi. Tuttavia, affinchè possano guidare costantemente il nostro comportamento, queste immagini mentali del futuro devono diventare un contenuto della nostra memoria: ecco quindi che si formano i ‘ricordi del futuro’ ”(The New Executive Brain, Frontal Lobes in a Complex World, by Elkonon Goldberg, 2009).

8. METAMORFOSI DEL PAESAGGIO Sono i nostri paesaggi mentali del futuro o i nostri “ricordi del futuro” riguardanti il paesaggio a incidere in maniera decisiva nel nostro modo effettivo di vivere il paesaggio e di agire in esso. I nostri comportamenti sono guidati dal decision making centrato sull’attore: è lì che si esprime la nostra generatività e prendono forma e sostanza le nostre azioni. Il livello a cui rivolgersi con l’analisi e con l’azione, soprattutto educativa e narrativa è proprio quello della genesi delle idee, degli orientamenti e delle azioni. Si tratta di creare le condizioni perché il nostro desiderio combinatorio che tende a mettere insieme le diverse componenti delle idee circolanti e a ricondurle alla consuetudine, sia raggiunto da idee discontinue volte alla trasformazione di una rappresentazione del paesaggio come contorno e sfondo verso una concezione attiva del paesaggio come spazio di vita, creato dall’immaginazione e dall’azione degli esseri umani in relazione. Per certi aspetti è il


MENTE E PAESAGGIO TRA ARTE E CULTURA

contrario del vero, sostenere che per conoscere un territorio bisogna viverci. Vivere nel proprio ambiente, conoscerlo, significa anche, in una certa misura darlo per scontato. L’idea di paesaggio come spazio di vita implica che ci si accorga del proprio ambiente, del proprio luogo e degli altri luoghi, non come contorni della sostanza della vita, ma come la sostanza stessa che, in base alla nostra appartenenza tacita di utilizzatori senza condizioni, semplicemente ignoriamo. O ignoriamo quell’ambiente mentre lo usiamo in modo spontaneo e incondizionato, o lo trasformiamo in icona per scopi commerciali. Per rifigurare i nostri paesaggi mentali del futuro, come condizione di nuove prassi, bisogna intervenire nel codice genetico delle idee e della cultura vigente intorno al paesaggio. Si tratta cioè di evolvere le nostre idee di paesaggio da un’appartenenza tacita e inconsapevole a una conoscenza critica volta alla tutela e al governo. Questo primo passaggio è in una certa misura, seppur limitata, già in atto. A diversi livelli una certa sensibilità riguardo all’ambiente, al territorio, alla finitudine delle risorse e all’attenzione al paesaggio è già in atto. Dà vita nella maggior parte dei casi a normative o stralci di regole; ad accorgimenti tecnici che spesso si traducono in stilemi; alla sezionatura fotografica per produrre “cartoline” commerciali; alle relazioni formali richieste dalla norma con cui necessariamente si accompagnano i progetti; all’ideologia iperconservativa che mira di solito a tutelare solo il proprio giardino o cortile. Un passaggio evolutivo discontinuo e probabilmente decisivo, in grado di favorire l’emergere di paesaggi mentali del futuro e di prassi appropriate per il governo, la tutela e la vivibilità, ci sarà con il riconoscimento, la percezione e la fruizione estetica del paesaggio. La cognizione umana è, per sua natura, in grado di guardare avanti, di prendere l’iniziativa attivamente: queste facoltà cognitive dipendono dai lobi frontali e dalle loro proprietà emergenti nell’accoppiamento con il mondo. I lobi frontali conferiscono a noi esseri umani l’abilità di crearsi modelli neurali delle cose, quale prerequisito per far sì che quelle cose accadano, modelli di ciò che non esiste ancora ma che noi vogliamo portare in essere. Creiamo modelli mentali di futuro, anche riguardanti il paesaggio, solo come riconfigurazione delle esperienze precedenti. Si tratta perciò di riconoscere le rappresentazioni interne e le condizioni del loro formarsi e riformarsi, e di acquisire le capacità di manipolare e trasformare quei modelli. Un paesaggio non esiste pronto per l’uso né nell’ambiente naturale, né nella mente dell’osservatore. Per esistere, un paesaggio deve poter essere immaginato. Proprio la sua re-immagimnazione è il compito

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principale che ci attende. Lo sviluppo di un pensiero del finito e l’emergere di paesaggi mentali del futuro sono due aspetti dello stesso processo da cui può scaturire l’inedito riconoscimento del paesaggio come luogo di vita, oggetto e soggetto di un legame estetico, condizione della vivibilità per noi sulla terra.

9. PAESAGGIO E VIVIBILITÀ Abbiamo un compito davanti a noi che allo stesso tempo può essere una via per uscire dalla crisi: assumerci la responsabilità di far parte del tutto in cui viviamo, riconoscendo che la natura e il paesaggio di cui siamo parte non sono un’esternalità o un’opzione. Ciò vuol dire cercare di passare dalla concezione del paesaggio come risorsa da vendere al paesaggio come spazio per vivere. Quel che si impone in questa transizione di mentalità, di paradigma disciplinare e di teoria è una profonda trasformazione, una decisa innovazione che ponga al centro, al posto dell’esteriorità cosmetica, l’estetica. Sì, proprio l’estetica, che non indica il lato esteriore delle cose ma la scelta responsabile che ognuno fa di guardare le cose del mondo e vivere il legame con esse in un modo o in un altro. Il paesaggio può essere un rigeneratore di valori collettivi, in ragione di una profonda modificazione delle scelte sul governo, sulla progettazione e sulla cultura del paesaggio. Lo spazio per vivere è quello in cui nasciamo e costruiamo i nostri ordini mentali, quello in cui distendiamo il nostro sguardo o in cui ci disorientiamo per gli eccessi di manipolazione che vi abbiamo prodotto. Esiste perciò un filo diretto fra paesaggio naturale e paesaggio mentale e per questo possiamo dire che noi siamo naturalmente culturali o, come ha sostenuto Giorgio Prodi, naturalculturali (Prodi, 1991). Certo gli ostacoli a cambiare idea sono tanti e non facilmente superabili, ma dovrebbe esservi qualche possibilità in più in territori che una certa attenzione alla natura e al paesaggio hanno mostrato di averla. Proprio i sistemi locali in cui viviamo possono avere maggiori opportunità di fare un salto di qualità, connettendo spazi di vita, paesaggio e forme di economia in un nuovo orizzonte di vivibilità. Così come la parola in noi umani, animali parlanti, fa da ponte tra l’orizzonte del reale e l’orizzonte mentale, allo stesso modo il paesaggio fa da ponte tra noi e il mondo, presidia alla nostra coevoluzione e al nostro accoppiamento strutturale con il mondo. Per ciò stesso il paesaggio è ad un tempo dentro noi e intorno a noi, è un margine di connessione tra il nostro mondo interno e il nostro mondo esterno. Un bam-


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bino che nasce elabora il proprio mondo interno e la sua eleganza o la sua mortificazione in ragione del paesaggio mentale che si costruisce e può costruirsi. Bisognerebbe partire da questo punto per ripensare gli spazi di vita e considerare che la loro bellezza e la loro funzionalità non sono due cose diverse, ma una cosa sola. Potremmo finalmente correggere alcune delle storture prodotte fin qui e innovare verso la vivibilità e l’estetica i luoghi in cui viviamo.

10. TEMPO E VIVIBILITÀ È probabile che sia il nostro rapporto con il tempo una delle ragioni che non ci fa iniziare ad agire concretamente e diversamente a proposito del clima, dell’ambiente, della vivibilità e del paesaggio, presenti e futuri. Così come è accaduto per la crisi economica, una delle cause dei nostri problemi è la nostra concentrazione sull’immediato presente o, detta in altri termini, la nostra incapacità a guardare oltre l’esistente. La crisi economico-finanziaria in corso è, tra l’altro, causata dal fatto che il capitalismo di risparmio orientato a saper attendere nel tempo i benefici, è divenuto principalmente capitalismo di consumo per poi divenire negli ultimi anni capitalismo di debito. Così il sistema è collassato. Per le risorse, il territorio, il clima, l’acqua, il paesaggio, tendiamo ad avere lo stesso atteggiamento. Questo fa del problema della vivibilità prima di tutto un problema cognitivo. Anche il problema del paesaggio parte da questa constatazione. Certamente gli aspetti economici, urbanistici e territoriali sono decisivi per affrontare il presente, ma lo sono in quanto sempre mediati dalle nostre convinzioni, dalla nostra mentalità e dalle nostre abitudini, in una parola dalla nostra cognizione. Ecco quindi la centralità dei fattori cognitivi. Solo agendo sugli aspetti cognitivi possiamo cercare di ricondurre a una misura sopportabile, sostenibile o appropriata la nostra presenza e la nostra partecipazione agli spazi di vita di cui facciamo parte. Se ci chiediamo quale vita vivranno le prossime generazioni di cittadini delle società libere e democratiche ci stiamo ponendo una prospettiva temporale che non sembra essere quella che predomina oggi. È proprio quella prospettiva che dovremmo cercare di affermare. Allora

è evidente che si pone un problema di cognizione e comunicazione. Se gli effetti del cambiamento climatico sono dimostrati scientificamente, perché nessuno sottolinea i vantaggi di uno stile di vita meno dipendente dagli idrocarburi e la necessità di un’integrazione appropriata fra presenza umana e ambienti di vita? Secondo ogni analisi l’interesse per i problemi di questo tipo cresce di giorno in giorno ma solo pochi si sforzano davvero di cambiare concretamente qualcosa. È la tipica situazione di stallo in ogni cambiamento globale e controverso. Si sa che in quei casi le questioni più vincolanti sono cognitive. Non si tratta solo di cambiare idea ma di cambiare le proprie idee più consolidate e, soprattutto, la prospettiva temporale dei problemi. In questo senso il livello più adatto per fare qualcosa è quello locale, mentre è auspicabile che accordi internazionali adeguati vengano adottati. A quegli accordi è necessario però far corrispondere un’incisiva azione locale che agisca a livello di cognizione e mentalità attraverso la comunicazione. È probabile che vi sia chi ancora teme che fare sul serio sul più serio dei problemi incida negativamente sui consensi. Ebbene, vi sono segni evidenti che la questione è matura e attende un clic. Chi per prima lo farà scattare potrebbe ritrovarsi un anticipatore del futuro e trarne pure i vantaggi.

Bibliografia EDELMAN G.M., 1995, Sulla materia della mente, Adelphi, Milano. GOLDBERG E., 2010, La sinfonia del cervello, Ponte alle grazie, Milano. GOULD S.J., 1990, La vita meravigliosa, Feltrinelli, Milano. JOUXTEL P., 2010, Memetica, Bollati Boringhieri, Torino. MORELLI U., 2010, Mente e bellezza. Arte, creatività, innovazione, Umberto Allemandi & C., Torino. MORELLI U., 2011, Mente e paesaggio, Bollati Boringhieri, Torino. PRODI G., 1991, L’individuo e la sua firma, Il Mulino, Bologna. VENTURI FERRIOLO M., 2009, Percepire paesaggi. La potenza dello sguardo, Bollati Boringhieri, Torino.


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ANNA MARIA TESTAVERDE*

SPETTACOLARIZZARE LO SPAZIO URBANO: LA RAPPRESENTAZIONE DEI SOGNI, TRA STORIA E CONTEMPORANEO

Non è solo la forza trascinante dei modelli a dare il tono alla teatralizzazione del vivere d’oggi. Legate alla compattazione socioculturale sono ad esempio le grandi manifestazioni collettive, le rappresentazioni offerte dagli spettacoli sportivi, musicali o anche politiche che si svolgono all’aperto, nelle piazze, negli stadi: spettacolo nello spettacolo, con il quale le masse esprimono tutta la potenza dell’aggregazione, che si esalta alla vista di sé, alla coscienza della forza che, se concordemente intese, possono scatenare le idee, le scelte estetiche, le convinzioni politiche, le rivoluzioni più sconvolgenti, gli asservimenti più disastrosi (TURRI, 1998).

Non è certo casuale che la riflessione sugli effetti della ‘teatralizzazione del vivere d’oggi’ appartenga ad Eugenio Turri, lo studioso che ha felicemente proposto la metafora del ‘teatro’ per interpretare il paesaggio in cui viviamo. Metafora di per sé molto potente ed efficace perché il teatro è la prima forma di rappresentazione-mediata della realtà, ma anche un ‘sistema’ di occupazione dello spazio attraverso l’azione stessa. Lo spazio della messinscena è tuttavia potenziale, ipotetico e virtuale perché si crea allorquando al suo intermo si ricostruisce la rappresentazione della realtà. Ed è proprio lo spettatore a compiere con un atto immaginativo lo spazio percepito, costruendo un dialogo tra lo spazio fisico materiale e lo spazio concettuale, ovvero rappresentato (ARNHEIM, 1974). Questa concezione, traslata sul concetto di paesaggio, sottintende un duplice modo di rapportarsi, sia come attori protagonisti che agiscono e trasformano, imprimendo il segno del proprio passaggio, sia come osservatori-spettatori che devono guardare e capire il significato del loro operato nel territorio (GOFFMANN, 1969). Da queste premesse è lo stesso Turri a suggerire una necessaria “educazione a vedere” estesa all’intera società, che senta il paesaggio come manifestazione di sé, della propria cultura, del proprio modo di rapportarsi con gli spazi di vita. * Università degli Studi di Bergamo.

Educazione alla quale tutti gli sguardi (dal geografo allo storico del teatro appunto) devono partecipare con l’impegno di aiutare a fare crescere l’attenzione verso questo grande scenario, interpretandone i cambiamenti e i mutati rapporti (ZUMTHOR, 1995). D’altra parte, come indaga uno studio in proposito, poiché il paesaggio può essere considerato sia come «luogo di convergenza interdisciplinare» che come «luogo dei sentieri che si biforcano», può essere l’oggetto di interesse per una molteplicità di approcci disciplinari (dalla geografia, all’antropologia, all’architettura, alla storia) che propongono la propria “idea di paesaggio” (GAMBINO, 2000). Pertanto la pertinenza metodologica del linguaggio dello storico del teatro/spettacolo esprime un approccio di indagine che sembra appartenergli fin dall’etimologia del lemma. Perché se l’etimologia ha un valore significante, allora è legittimo affermare che “fare la storia dello spettacolo” sta a indicare la messa in pratica e l’esecuzione di un compito, una finalità: quella appunto dello spectare, ovvero del “guardare”. Verbo che guarda caso è all’origine della storia della struttura stessa dell’edificio teatrale, perché intimamente derivante dal termine greco theaomai che rinvia ad un rapporto strutturale dello spazio funzionalizzato allo sguardo, uno sguardo che vede e interpreta sul palcoscenico e dà valore a quello che immediatamente riconosce come a sé appartenente (DE MARINIS, 2008). Pertanto lo sguardo dello storico del teatro indaga anche il fenomeno della spettacolarizzazione del paesaggio, sia nel passato storico che nel presente contemporaneo. Si interessa a interpretare i messaggi, intesi come manifestazioni culturali della comunità, a decodificare l’immagine fittizia proposta, quella re-inventata che lascia margine al sogno e all’evasione progettuale. Storicamente il processo di spettacolarizzazione del territorio si esprime attraverso due declinazioni, inscindibili e dialoganti:


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– Sistema di comunicazione che riguarda la diffusione di forme di teatro (inteso come esibizione, performance, evento) all’aria aperta, utilizzate per funzionalizzare gli spazi, rinnovarli, per fare in modo che la comunità esprima attraverso di essi un modo di riappropriarsi di un’identità perduta, sia mentale che reale, ovvero recuperando il senso di appartenenza al proprio territorio. – Sistema di trasformazione materiale finalizzata alla stupefazione, all’evasione onirica e sperimentale pur temporanea dello spazio, delle architetture, dei monumenti. Un vero e proprio processo di costruzione di scenari artificiali predisposti in quell’ampio palcoscenico che è il paesaggio in cui ci rapportiamo e che già di per sé si configura con i segni del nostro passaggio. Tuttavia, in entrambe le interpretazioni, il rapporto spettacolo-territorio rappresenta una sorta di manifesto visivo che comunica la cultura, la storia, la politica di chi lo produce. Dal punto di vista esclusivamente storico è noto che i canoni estetici ed ideologici sui quali si è modellata qualsiasi imago urbis sono interpretabili attraverso le immagini figurative che hanno tradotto, nella pittura e nella cartografia, un modo di guardare e di pensare il paesaggio da parte dei contemporanei (LE GOFF, 1982). Gli spazi urbani prescelti si trasformarono in stereotipi carichi di valenze simboliche secondo le intenzionalità culturali e politiche; destinati poi a essere i luoghi deputati dello spettacolo cittadino, essi rappresentarono per lungo tempo i punti focali del rituale pubblico, condizionato da varianti spaziali, fino a divenire rappresentazioni iconografiche della città che hanno permeato la memoria collettiva e costruito l’immagine identificatoria della città (FONTANA 1972; TESTAVERDE, 1996a). È esemplare il caso della città di Siena dove l’uso della Piazza del Campo per uno spettacolo ha portato a identificare la città stessa con quella piazza e con quella manifestazione, ne ha definito l’identità della collettività e simbolicamente rappresentato “il comune sentire” della cittadinanza (TESTAVERDE, 2008b) (fig. 1). Ma anche l’iconografia di Piazza Vecchia a Bergamo trova nel simbolico personaggio di Arlecchino un forte richiamo di identità culturale (fig. 2). Anche nel passato la rappresentazione del paesaggio, soprattutto quello urbano, acquisiva poi valenze ancor più complesse e criptiche quando la messinscena della realtà veniva alterata intenzionalmente, nel momento in cui l’evento storico e politico si manifestava con rituali collettivi (processioni, visite illustri, ambascerie). Un’immagine fittizia, irreale e onirica, veniva allora ri-costruita da architetti scenografi e offerta allo sguardo del pubblico degli ospiti e

Fig. 1. Siena, Piazza del Campo.

Fig. 2. Bergamo, Piazza Vecchia e Arlecchino.

dei cittadini stessi. Gli interventi di cosmesi e di arredo spettacolare dello spazio divennero sperimentazioni determinanti nel tempo diverso e privilegiato della celebrazione festiva, momento in cui la società (o per meglio dire la sua committenza culturale e politica) evocava la sua proiezione ideale (TESTAVERDE, 2008c) (fig. 3). In questo tempo rituale, secondo le felici espressioni del Turri, è avvenuto un “cambio di recitazione”:


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Fig. 3. Roma, Apparato effimero in Piazza di Spagna.

accanto alle sacre rappresentazioni, ecco le manifestazioni laiche, spettacolari, il palio, il gioco della palla, le esibizioni dei giocolieri e le esibizioni mondane dell’aristocrazia cittadina. Ma allora è l’intera città a diventare teatro, una città sempre più concepita in forme architettoniche spettacolari, secondo disegni e prospettive utopiche, proprie di un uomo che realizza nell’ordine urbano le proprie aspirazioni ideali (…) al cospetto di una natura immota, impenetrabile, si risponde con l’allestimento prima di tutto, cioè con la creazione di un paesaggio-teatro, inteso come scenario costruito, al fine di creare illusioni, che è la forma massima di teatralizzazione (TURRI, 1998).

Il tempo della festa rappresentava dunque un’occasione di autoconvocazione e celebrazione del gruppo sociale che produceva specializzazioni di “tecnici apparatori’’, artisti incaricati di elaborare un sistema di comunicazione ideologico e visivamente coinvolgente, mettendo il proprio estro a servizio di progetti pur temporanei e illusori. Architettura, pittura, scultura, pirotecnia, meccanica, idraulica erano gli strumenti linguistici che aiutavano a costruire il sistema. Il tempo della festa collettiva dunque ha contribuito a creare nella storia un rapporto di tipo identitario. La questione nel mondo contemporaneo è

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tuttavia assai più complessa, tanto che provocatoriamente possiamo affermare che la quotidianità viene oggi viene vissuta come performance continua, dove il recupero di forme di ritualità tradizionali (le rievocazioni, le feste storiche così come le sagre paesane) o l’invenzione di manifestazioni che esprimono forme di presunta identità economica, sociale,culturale hanno portato a travalicare il rapporto dialettico tra la città-campagna,dilagandosi dagli spazi urbani, a quelli periferici e di confine, fino a coinvolgere luoghi atipici, paesaggi e località delle campagne. Paolo Zenoni, che si è occupato della questione, definisce la “teatralizzazione paesaggistica” come espressione di ‘territorialità’, intendendo con questo termine il ‘segreto del territorio’, ovvero la natura autentica della collettività che lo promuove e che attraverso esso esprime il senso comune dell’appartenenza (ZENONI, 2003). Fenomeno dunque che si declina secondo comuni esigenze e che esprime la necessità di costruire tra la comunità e il suo contesto (urbano e non) un rapporto sul principio dell’incontro, dell’aggregazione della gente in spazi nei quali si riconosce, sente di poter vivere la quotidianità e ne vuole esprimerne i valori. E che pertanto talvolta si inventa la riqualificazione di inusuali spazi. Dunque la spettacolarizzazione del territorio può essere interpretata come risposta all’esigenza di riappropriarsi del paesaggio e come mezzo di ricostruzione/recupero di identità (MAGNAGHI, 2005). Se affrontiamo il problema da questo punto di vista, possiamo allora ripercorrere la storia del secolo XX come epoca in cui ad un certo momento la rimozione del tempo festivo, il disuso nel condividere i momenti di spettacolo collettivo, in città come in un paese, hanno proceduto paralleli ad una perdita di identità che si è tradotta nel linguaggio urbanistico, in situazioni liminari anonimi, ripetitivi a-storici. A fronte dunque di un’urbanizzazione e allo svuotamento dei paesi, delle campagne, il Novecento ha assistito ad una perdita di identità delle tradizioni e della ritualità: La scomparsa del tempo sacro si riflette anche nello sciogliersi di quella rete di relazioni sociali che segnava il corso dell’anno in occasione delle feste: dove ci si sollevava dalle preoccupazioni quotidiane per vivere in una dimensione di “comunione”. Scomparsa ben testimoniata dalla disintegrazione delle feste tradizionali (…) Una volta invece le feste permettevano ai partecipanti di vivere contemporaneamente “da spettatori e creatori” (ZENONI, 2003).

Penso di non sbagliare nel ricordare e affermare come siano stati i decenni post bellici (’50-’60) a


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esprimere, realmente e simbolicamente, il desiderio di città, se così si può dire, determinando un’urbanizzazione della campagna, che si è riflessa in una lenta e sotterranea ‘perdita della memoria identitaria’ e che in concomitanza con la pianificazione degli architetti, urbanisti, ha prodotta una situazione di generale degrado che oggi vede campagna e città assemblate in un spazio misto, ibrido, senza anima, quell’anima che invece hanno sempre avuto. È la fine dell’identità dei luoghi, tutti uguali ovunque, secondo quel processo che è stato definito di «deterritorializzazione»: un processo senza ritorno che costituisce la regola insediativa dell’urbanizzazione contemporanea,sia della città industriale, sia, soprattutto, della città postindustriale, attraverso la zonizzazione funzionale prima, e poi il trasferimento nell’iperspazio, nel ciberspazio, di molte delle relazioni e delle funzioni simboliche e materiali della comunicazione (MAGNAGHI, 2003).

Questo fenomeno ha portato la comunità a non riconoscere più quali siano gli spazi comuni come luogo di aggregazione e di condivisione di sentimenti, di idee, rimuovendo/abolendo/facendo perdere significato di riflesso al tempo della festa nelle sue forme: feste patronali, carnevali etc.: La fine del tempo sacro e della festa innescano un processo di desertificazione sociale di cui una manifestazione evidente è il disordine urbanistico delle nostre città, oppure il falso ordine di quartieri architettonicamente concepiti prescindendo dalle esigenze dei loro abitanti:vere fabbriche di malessere, luoghi dove non è solo irriconoscibile al funzione simbolica degli edifici (…) ma addirittura il loro valore funzionale (ZENONI, 2003)

Certamente l’urbanizzazione del territorio, la costruzione satellitare di piccole città autonome, ha destrutturato il senso di appartenenza agli spazi, la città come il paese non sono più vissuti nel tempo sospensorio della festa come spazio per rappresentarsi: sono scenari di una perdita. Perdita che non poteva poi non essere sofferta, quando lo svuotamento dei centri storici ad esempio o viceversa l’agglomerazione continua dei paesi alla città, ha evidentemente portato ad un disorientamento della comunità che nuovamente, a partire dagli anni Settanta, in opposizione ad un simile scenario urbanistico, ha avvertito la necessità di fruire la strada e la piazza come espressione di collettività, ricercando l’identità perduta attraverso il recupero del teatro stesso. Nell’ottica della storia del teatro, a partire dagli anni Settanta del Novecento, si è recuperato allora, a livello europeo, ‘il fare teatro’ come nelle origini,

ovvero all’aperto, che ha di conseguenza portato a recuperare gli spazi soprattutto quelli urbani, ma anche quelli abbandonati rurali. Negli anni Settanta, non a caso definiti ‘anni saltimbanchi’, l’Europa ha assistito alla rinascita del fenomeno del “teatro di strada” (STRATTA, 2008), considerato da Giuliano Scabia, Il teatro nello spazio degli scontri (SCABIA, 1973). Può considerarsi una vera e propria pratica sociale le cui forme si relazionano con la plasticità, la scenografia degli spazi urbani, ma anche linguistica perché ha recuperato forme popolari e folkloristiche (fig. 4). L’interesse per questo tipo di teatro è stato condizionante per fare tornare a rivivere la città perché ha fatto riscoprire ai giovani attori e registi la strada, il territorio, alla ricerca di luoghi e tempi di un perduto senso dello spettacolo: è l’apertura di una nuova fase che dura ancora oggi e che definiremmo ‘messa in scena urbana’, ovvero la maturazione di un processo macroscopico di ‘teatralizzazione del territorio’ che, partendo dai linguaggi del teatro di strada, dal suo rapporto con la gente e la monumentalità, utilizza anche la scenografia, la pirotecnica, gli effetti speciali come linguaggio, facendogli vivere un prolungato tempo di festa permanente. Nel mondo contemporaneo, dalla città storica al territorio circostante, emerge un principio che sembra dunque essere diventato un dovere civico, l’unico forse modo per aggregare, creare il senso della comunità e rinnovare anche o rilanciare aree periferiche, giardini, parchi, piazze, paesi: tornare a teatralizzare per rifunzionalizzare e re-inventare nuovi spazi comunitari. La proposta di utilizzare poi anonimi luoghi come nuovi scenari di nascenti comunità, creando una nuova immagine alla comunità, è un processo che si esprime sia con il recupero o la progettazione di nuove forme spettacolari, sia con l’arredo urbanistico. Mirato essenzialmente all’economia del turismo e del mercato il contemporaneo ha creato un conti-

Fig. 4. Certaldo, Festival del teatro di strada.


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Fig. 5. Bergamo, Sfilata di mezza quaresima.

Fig. 6. Bergamo, Sfilata di Sant’Alessandro.

nuum permanente, costantemente impegnato nell’allestimento di momenti spettacolari di esibizione che creano relazione e dialogo tra la città, la sua periferia e il territorio. Nelle aree urbane si è trattato di necessità di rifondare il rapporto con il pubblico, nel desiderio di riappropriarsi e di fare rivivere i centri storici, molti dei quali negli anni erano stati lasciati al degrado. La gente avverte infatti il bisogno di tornare in centro, soprattutto per dare un senso al vivere quotidiano e concentra in quell’area riservata i momenti più intensi dei riti collettivi che possono essere anche quelli di natura commerciale oppure di condivisione di esperienze sociale, ma anche di eventi civili, che esprimono visivamente sentimenti e partecipazioni della comunità. Si pensi ad esempio alla vera ‘esplosione’ dei tanti carnevali, tornati a rivivere in molte città italiane (Bergamo) (fig. 5) e agli affollatissimi concerti (Roma, piazza San Giovanni per la celebrazione del primo maggio). La ricerca del senso della territorialità, recuperato attraverso eventi di festa e di spettacolarizzazione degli spazi, si estende comunque anche alle aree limitrofe e di confine del centro storico, alle periferie dei quartieri. Il momento festivo è avvertito come temporaneo, ma nel contempo occasione di stimolo permanente al cambiamento, per dare identità e rifunzionalizzare le aree intermedie, meno conosciute e più anonime, anche esteticamente più degradate, vissute quotidianamente dalla comunità. Ecco allora che parrocchie, oratori, associazioni di volontariato, circoscrizioni di quartiere, circoli ricreativi, gruppi privati inventano ex novo occasioni di incontro e di integrazione, occasioni per fare trasformare sconosciuti spazi quotidiani Le sopravvivenze folkloriche e popolari attualmente si esprimono in feste patronali recuperate dopo decenni di oblio (legate al ciclo dell’anno, processioni religiose, palii), alternandosi con la re-invenzione ex novo di ‘tradizioni spettacolari’ (feste medievali, rievocazioni storiche) (fig. 6).

Oltre a queste forme nuove, sono progettate ‘feste agricole’, costruite per valorizzare l’identità locale dei paesi e delle vallate, divenendo un prezioso mezzo di scambio di idee nell’intera comunità che, al di là dell’obiettivo strettamente ludico-sociale, rappresentano occasioni per la promozione dell’immagine delle principali attività economiche (si pensi alle sagre e le feste dell’uva, delle castagne, del lancio del cacio) così come le feste simbolico-religiose (la festa dei buoi, degli asini, delle spighe). A fronte dell’intensa rinascita dell’uso degli spazi in funzione di diversificate forme di cerimonie ed eventi, di tradizione o innovative, nuovi sono anche i sistemi di trasformazione materiale dello scenariopaesaggio. Se un tempo cartone, legno, pittura erano gli strumenti e i mezzi attraverso i quali si intervenivano sull’architettura e sullo spazio urbano per trasformare temporaneamente il paesaggio in tempo della festa, costruendo un rapporto illusorio tra città storica e il sogno, la stretta relazione tra arti visive e l’architettura e urbanistica si esprime ad esempio, in forme di stupefazione e attrazione visiva, mediante l’uso delle video installazioni interattive che progettano, sviluppano ambienti visivi unici e funzionali agli spazi, valorizzando e inventando nuovi ambienti. Il fenomeno è ad esempio oggetto di progetti multidisciplinari che coinvolgono istituzioni di livello universitario. Si veda ad esempio il DeDEPA projectc (Designing Dynamic Enviroments for the Performin Arts), sostenuto dal Dipartimento di Architettura dell’Università di Cambridge (http://www.arct.cam.ac.uk/dedepa/DeDEPA.html) (SHORT, BARRETT, 2011). Assistiamo a un vero e proprio show della metamorfosi che rende verosimile l’illusione e l’evasione onirica e provoca effetti di intenso coinvolgimento emotivo. Illuminazione, suoni, videoinstallazioni conquistano gli spazi e li trasformano, con espedienti utilizzati ormai ad ampia scala. Tra le tante applicazioni al paesaggio e all’architettura, mi limito a ricordare gli effetti e la qualità


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Nella spettacolarizzazione del paesaggio contemporaneo, il mapping rappresenta dunque uno dei più sintomatici e curiosi strumenti per vivere e interpretare lo spazio urbano: una performance in cui è la metamorfosi visiva, onirica e virtuale del paesaggio a farsi puro e coinvolgente spettacolo (fig. 9).

Bibliografia

Fig. 7. Rocca maletestiana. Apparati Effimeri.

Fig. 8. Apparati Effimeri. Botanique.

potenziale di intervento sul paesaggio di una tecnica digitale di elaborazione in tre dimensioni grazie alla quale, ibridando diverse discipline (video, scenografia, light design, street graphic art) le architetture diventano sia schermi attivi per le proiezioni video che i soggetti delle stesse: il mapping 3D. Il sistema aiuta a modificare, a cambiare le percezioni che abbiamo dell’architettura ma anche del paesaggio, creando nuove e strette relazioni tra lo spazio urbano e lo spettatore (figg. 7-8). E non è certamente casuale che da pochi anni un collettivo di video artisti di Bologna abbia acquisito la denominazione di Apparati Effimeri per indirizzare la propria creatività allo studio interpretativo dei luoghi, realizzando proiezioni in 3D su architetture e spazi: il collettivo Apparati Effimeri riflette sull’estetica cinque-seicentesca della teatralità e della festa, riproducendo il semplice gesto simbolico di ‘portare il proiettore fuori’, nello spazio pubblico (…) il lavoro del collettivo bolognese che crea ‘apparati effimeri’ di luce, nasce dall’esigenza di attualizzare un medium/modus di intendere la festa e lo spazio urbano proveniente dal passato. La scelta del nome palesa la posizione estetica e concettuale che gli artisti hanno verso la tradizione degli apparati effimeri (www.ospiteingrato.org/notizie/Mapping.html).

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IL PAESAGGIO TRA DESCRIZIONE E EVOCAZIONE Lettura e interpretazione dei luoghi attraverso l’iconografia; il caso di Bergamo

Nel corso dell’800 ‘il concetto di paesaggio si muta da concetto estetico in concetto scientifico, passa dal sapere pittorico e poetico alla descrizione geognostica del mondo’1: a partire dall’invenzione della litografia2 e in seguito della fotografia cambiano in quegli anni di grandi rivoluzioni sia gli strumenti e le tecniche di riproduzione dell’immagine, sia gli oggetti, i punti di vista, le atmosfere e le suggestioni che il soggetto paesistico avevano suggerito in precedenza agli artisti. L’istanza cognitiva nella rappresentazione dell’ambiente è presente fin dalle prime testimonianze di epoca neolitica: la pittura murale del VII livello dell’insediamento di Çatal Hoyuk, risalente al 6.200 a.C., ne è un’esemplare testimonianza (fig. 1). Considerata la più antica mappa del mondo e la prima rappresentazione di un paesaggio, è stata ritrovata nel sito archeologico dell’Anatolia centrale analizza-

to dalla sociologia urbana e dagli storici della città come modello dimostrativo e fisicamente documentato del passaggio dalla forma del villaggio a quella di insediamento urbano. In primo piano è visibile l’agglomerato dell’abitato privo di trama viaria, riconoscibile nell’accostamento e ripetizione del tipo abitativo visto dall’alto, in cui sono evidenti le cavità accessibili attraverso scale; al di sopra, in posizione dominante e in vista frontale, si innalza un monte a due cime con l’immagine di un’eruzione vulcanica, con colata di lava e nuvole di fumo e cenere. Il riferimento locale è perfetto, perché all’estremità orientale della piana di Konya si scorge l’unico vulcano a due cime dell’Anatolia centrale, l’Hasan Dag, attivo fino al secondo millennio d.C. L’immagine dipinta sul muro ha sicuramente una funzione magico-votiva: una preghiera, perché il vulcano non scateni la sua ira e

Fig. 1. Pittura murale, VII livello dell’insediamento di Çatal Hoyuk, 6.200 a.C. * GAMeC Bergamo. 1 In F. FARINELLI, L’arguzia del paesaggio, Casabella n. 575-576 , Milano 1991, p. 12. 2 La tecnica litotografica viene messa a punto alla fine del ’700 e consente la stampa in molte copie di un disegno realizzato attraverso il segno grafico. Il principio si basa sull’utilizzo di un supporto di pietra – carbonato di calcio che è capace di assorbire sia il grasso sia l’acqua – su cui si tracciano i segni con inchiostri grassi e si trattano le parti non disegnate con acido nitrico. La matrice viene mantenuta costantemente bagnata. L’acqua manterrà pulite le parti bianche del lavoro respingendo l’inchiostro da stampa che invece attaccherà solo sulle parti grasse del lavoro. La stampa avviene per contatto, facendo scorrere in ‘pressione’ sulla pietra un foglio di carta da stampa, nel quale si imprimerà l’inchiostro della matrice come nelle altre tecniche a stampa.


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distrugga con un’eruzione il villaggio, ma anche un ringraziamento per tutta l’ossidiana che il vulcano ha fornito agli abitanti di Çatal Huyuk, permettendo loro di arricchirsi con il commercio di questo materiale. La potenza evocativa e la forza comunicante dell’immagine offrono spunti di interpretazione sui valori e i significati che lo spazio e la geologia avevano per la popolazione di quei luoghi, ma la sintesi e l’efficacia descrittiva svolgono anche un compito di carattere documentario proto-scientifico. Bisognerà giungere alla modernità affinché l’approccio alla rappresentazione dei luoghi sciolga l’ambiguità che l’ha caratterizzata nei secoli e si precisi da una parte come disciplina scientifica nella topografia, e dall’altra come ambito espressivo autonomo nella pittura post-impressionista. La ricerca di Paul Cézanne, in particolare, sembra essere determinante in tal senso. Negli ultimi anni della sua vita il pittore del Midi sarà quasi ossessionato dal paesaggio che era abituato a vedere da bambino: quello della Montaigne Sainte-Victoire3, di cui il pittore ci lascia più esemplari, ogni volta diversi e sempre più sintetici (fig. 2). Sorprendentemente analogo al graffito neolitico di Çatal Houyuk, il paesaggio di Cézanne non è né sfondo, né evocazione, né simbolo: è spessore e luminosità, profondità pura in cui l’aria e il cielo assumono gli stessi colori degli alberi e della case e viceversa. Non si tratta più di una descrizione, bensì di un lavoro analitico sulla struttura della visione: alla descrizione realistica Cèzanne sostituisce la ricerca costruttiva attraverso il colore, di cui il paesaggio è uno dei possibili pre-testi. L’opera di Cézanne rappresenta il punto di arrivo nella storia di un genere pittorico il cui obiettivo era la riconciliazione dell’uomo con la natura attraverso la sua rappresentazione, ma è insieme la ripartenza per gli artisti ricercatori del ’900. Il paesaggio, che appare protagonista nell’eccezionale ambiente nilotico del mosaico di Palestrina4 di età ellenistico-alessandrina, nella storia della cul3

Fig. 2. Paul Cézanne, Montagne Sainte-Victoire, olio su tela, 1904-06, 66X81,5 cm., Zurigo, collezione privata.

tura figurativa occidentale segue i destini della rappresentazione dello spazio. Pressoché assente nell’arte alto-medioevale, diviene dapprima ‘fondale’, spazio entro cui l’agire umano si compie, assumendo poi autonomia rappresentativa a partire dal tardo ’4005. Nel secolo della Nuova Scienza la pittura di paesaggio, ancorché considerata minore6; si afferma come genere, confermando le due direttrici di ricerca che caratterizzano il percorso espressivo del tempo, il classicismo e il realismo. Claude Lorraine e Nicolas Poussin, a partire dall’esperienze romane dei Carracci, corrisponderanno all’affermarsi dell’assolutismo creando il modello perfetto e idealizzato del paesaggio classicista, dove ogni elemento è misura, controllo e proporzione. Più libero e ‘borghese’ sarà invece il paesaggio dei pittori olandesi: aperto e disponibile agli usi che un’economia dinamica può attribuirgli; campagna e boschi, villaggi e città sono i soggetti di una pittura che registra la possibilità di un sempre più ampio accesso alla rappresentatività della classe mercantile che si fa rappresentare nel ritratto e ritrae con realistico orgoglio il paesaggio che ha saputo realizzare. A partire dal XVIII secolo il genere assume una

CÉZANNE, Montagne Sainte-Victoire, olio su tela, 1904-06, 66x81,5 cm., Zurigo, collezione privata. Una delle immagini più suggestive della pittura antica è il cosiddetto Mosaico di Palestrina, risalente al III sec. a.C. Di ricercata fattura tecnica e grande ricchezza cromatica, il mosaico raffigura una serie di scene che si svolgono lungo un fiume in piena in cui è possibile riconoscere il Nilo e il suo habitat: animali esotici, palmizi, imbarcazioni con la tipica prua rialzata. Nella complessa composizione si possono riconoscere le due estremità del Nilo, verso l’Etiopia e verso il Mediterraneo, e i segni identificativi e tipici del paesaggio costruito: città fortificate, porti, templi e personaggi in abiti egizi. 5 Si veda a questo proposito il disegno del giovane Leonardo da Vinci, Paesaggio con fiume o Paesaggio della Valdarno del 1473, da molti considerato come il primo esempio di rappresentazione autonoma del paesaggio della storia della pittura italiana. L’immagine rappresenta un paesaggio delineato dai suoi elementi strutturali: rilievi collinari e montuosi, scansione del territorio agricolo, boschi e paludi, un borgo costruito, cui si affiancano gli aspetti mutevoli dei fenomeni naturali, dall’acqua sorgiva alla presenza del vento. 6 La concezione della pittura di paesaggio come genere gregario, rispetto alle più alte rappresentazioni del quadro di storia e del ritratto, deriva dall’estetica neoclassica attraverso le letture dei suoi massimi rappresentanti quali Quatremère de Quincy, Mengs, Milizia e Cicognara. 4


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Fig. 3. J.P. Foresti, Supplementum Chronicarum, Benalii, Venezia, 1486, Biblioteca Nazionale Braidense, Milano.

Fig. 4. Pierre Mortier, Bergame, ville des venitiens dans le Bergamasque, 1704, Biblioteca civica, Bergamo.

sempre più marcata relazione con i caratteri socioeconomici di un mondo in rapida trasformazione: alla rappresentazione del paesaggio geografico e rurale si affianca la veduta urbana, e accanto alla pittura si sviluppa una vasta produzione di incisioni, forma e tecnica più agile ed economica, di facile reperibilità ed immediatezza7, anche in versione di illustrazione dei testi a stampa la cui diffusione sarà fenomeno rilevante nel corso dell’Ottocento. Anche le vedute di Bergamo pubblicate nel corso del XIX secolo sono legate per lo più alle edizioni di album, guide, almanacchi e di opere corografiche per la consultazione di viaggi in Italia. Esse si caratterizzano da un lato come documenti di cronaca locale, arricchiti spesso a margine da brevi annotazioni didascaliche, dall’altro come topoi visivi, deputati al riconoscimento immediato dei nodi più emblematici della città. Le prime immagini della città di Bergamo risalgono però all’epoca medioevale e quattrocentesca, dapprima in supporti numismatici, poi in incisioni xilografiche, in dipinti, come fondali di soggetti religiosi e storici8, e in disegni di natura documentaria e illustrativa. È il caso dell’immagine tratta dal Supplementum

Chronicarum di J.P. Foresti del 14869, in cui sono riconoscibili alcuni elementi specifici della città – le cinte murarie, la rocca –, assimilati però alle icone simboliche dell’urbano: le mura, il cui tracciamento è ‘regolarizzato’, la gerarchia dei capisaldi urbani, le emergenze monumentali, la densità dell’edificato (fig. 3). Seguiranno nel corso del ’500 rappresentazioni di prevalente interesse militare, talvolta caratterizzate anche da accurate rappresentazioni dell’orografia dell’intorno territoriale, che confluiranno nelle piante prospettiche di Francesco Valegio (1590 ca) e di Pietro Bertelli (1599) dove appare l’immagine della città vista dall’alto cinta dai bastioni veneti. La rappresentazione tridimensionale dei manufatti edilizi in città e delle alberature nella campagna descrivono in modo indicativo, ma già riconoscibile, sia i contorni della forma urbis che i connotati produttivi e orografici del territorio che diventano gli archetipi dell’immagine della città proposta dagli Atlanti del XVII secolo, dove sempre più peso viene dato alla presenza dei borghi e agli insediamenti urbani sviluppatisi verso la pianura10 (fig. 4). La prima mappa catastale della città viene realizzata tra il 1810 e il 1811 sotto la guida dell’ingegne-

7 Si tratta delle antenate delle più moderne cartoline, la cui produzione è alimentata in Italia dal Grand Tour, cui si deve anche la fortuna e la diffusione del Vedutismo, celebre soprattutto nelle opere dei grandi veneti, da Canaletto al Bellotto al Guardi. 8 Tra i dipinti in cui appare la città di Bergamo ricordiamo gli affreschi del Romanino nel castello colleonesco di Malpaga: Le milizie di Bartolomeo Colleoni alla difesa di Bergamo contro il Piccinino e La visita di Re Cristiano di Danimarca, 1525 ca., in cui è visibile la città nella sua orografia prima della costruzione delle mura venete; più tarde le due opere di Enea Salmeggia, La decollazione di S. Alessandro, conservata all’Accademia Carrara di Bergamo, e La Madonna col Bambino, del Convento di S. Grata, in cui la città appare, ancorché riconoscilbile nei suoi elementi specifici, in una visione atemporale e modellizzata nell’immagine densa e compatta di un abitato che evoca i valori simbolici della coesione e della concordia civile. 9 FORESTI, Supplementum Chronicarum, Benalii, Venezia, 1486, Biblioteca Nazionale Braidense, Milano. 10 È il caso delle piante prospettiche di Giovanni Macherio (1660 ca.), di Stefano Mozzi Scolari (1680), e dell’incisione di Pierre Mortier (1704), in cui addirittura il disegno del nucleo urbano antico è schematizzato nei soli tracciati viari, mentre si sofferma sulla visione prospettica dei borghi e sui dettagli delle coltivazioni e dei disegni del territorio agricolo.


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MANUELA BANDINI Fig. 5. G. Manzini, Pianta della città e dei borghi esterni di Bergamo dedicata alla città medesima, 1816, Biblioteca civica, Bergamo.

re architetto Giuseppe Manzini, estensore nel 1816 della celebre ‘Pianta della città e dei borghi esterni di Bergamo dedicata alla città medesima’ (fig. 5): è questo il primo esempio di moderna cartografia in ambito bergamasco che sposta la rappresentazione del territorio dalla sfera documentaria a quella scientifica, sancendo la definitiva separazione nell’iconografia urbana tra topografia e produzione grafico-pittorica. Le molteplici rappresentazioni litografiche e pittoriche della città nell’800 focalizzeranno infatti la loro attenzione non più sulla forma urbis, ma sui monumenti storici della città: la piazza Vecchia (fig. 6), la Cappella Colleoni e il Duomo, le porte e le mura urbane, l’Ateneo, accanto alle parti nuove della città, come l’apertura della nuova barriera delle

Grazie (fig. 7) o i progetti per l’area della Fiera e il rifacimento del Teatro Riccardi, ora Donizetti11. In modo complementare, emerge la necessità di rappresentare visivamente i luoghi più apprezzabili del territorio della provincia, cui contribuiscono sia opere pittoriche di carattere illustrativo, come quelle di Marco Gozzi12, che l’evocativa e sentimentale pittura romantica del Piccio, il cui colorismo di stampo veneto tinge di ‘brume’ e stempera gli orizzonti, soprattutto degli ambienti fluviali. Se le immagini del Gozzi sono ancora legate alla tradizione figurativa del neoclassicismo, anche se moderne e attuali nella scelta dei soggetti come nel caso delle tele sul Ponte di Cassano (fig. 8), la resa pittorica del Piccio è invece fatta di velature e trasparenze, di trapassi cromatici lievi, che sostituiscono con pen-

11 Supporti indispensabili per tale diffusione del repertorio cittadino e provinciale, oltre ad incisioni sciolte e circolanti nel mercato antiquario, sono sicuramente le pubblicazioni di guide turistiche o di album di vedute. In particolare: Viaggi in Italia, ovvero descrizione geografica, storica, pittorica, statistica, postale e commerciale dell’Italia di Francesco Gandini, opera stampata a Cremona presso Luigi de Micheli dal 1833 al 1836 in nove volumi; L’Italia descritta e dipinta con le sue isole a cura di D.B., pubblicata in 150 fascicoli a Torino presso Giuseppe Pomba e Co. tra gli anni 1837 e il 1838; i due volumi de La Lombardia pittoresca o disegni di ciò che la Lombardia chiude di più interessante per le arti la storia la natura 20, stampati dagli editori Fortunato Stella e figli (cui succederà il genero Andrea Ubicini) dal 1836 al 1841, corredati di tavole litografiche eseguite da Giuseppe Elena e di testi scritti da Michele Sartorio e Cesare Cantù. 12 Nato a S. Giovanni Bianco nel 1759, muore a Bergamo nel 1839. A seguito dell’annessione del territorio lombardo del 1814 e della pensione percepita dal I.R. Governo austriaco a parziale risarcimento della mancata nomina all’Accademia di Brera, ha l’obbligo di eseguire ogni anno almeno un dipinto il cui soggetto viene scelto dalle autorità, che è prevalentemente un soggetto paesistico, con riferimenti infrastrutturali , come è il caso del Ponte di Cassano, più volte raffigurato dallo stesso Gozzi.


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Fig. 7. Bergamo, Città alta vista da Porta Nuova, cartolina, Raccolta Lucchetti, Bergamo. Fig. 6. G. Berlendis, Veduta della piazza vecchia con il Palazzo della Ragione, 1836, Biblioteca civica, Bergamo.

Fig. 8. Marco Gozzi, Il ponte di Cassano, 1816, olio su tela, olio su tela, cm 57x78, Milano, Pinacoteca di Brera.

nellate nervose e vivaci la precisione del disegno (fig. 9). Giovanni Carnovali è l’ultimo dei pittori lombardi “della realtà” capace di esprimere la rapidità con cui le immagini esterne vengono percepite dall’occhio e trasmesse alla coscienza, sia che si tratti di paesaggi che di ritratti degli esponenti della borghesia e dell’aristocrazia del Lombardo-Veneto: le argute fisionomie dei suoi personaggi diventano in tal senso veri e propri ‘iconemi’ del paesaggio sociale

Fig. 9. Giovanni Carnovali, il Piccio, Lungo l’Adda, 1859, olio su tela, cm. 72x109, Bergamo, Accademia Carrara.

della provincia bergamasca, capaci di restituire intensamente i caratteri tipici degli abitanti di un luogo, come accade nel ritratto della Contessa Anastasia Spini13, sua mecenate e protettrice (fig. 10). A distanza di centocinquanta anni, è ancora una nobildonna di casa Spini a far riflettere l’artista fotografo Mario Cresci14 sulla relazione complessa tra i luoghi e le immagini. Nelle installazioni del lavoro Sottotraccia/ Bergamo. Immagini della Città e del suo territorio del 2009, Cresci ha realizzato opere

13 Sorella di Andrea Spini e appartenente alla prima famiglia mecenate del Piccio, la contessa Anastasia era personaggio noto a Bergamo per la sua bizzarria (fu interdetta per prodigalità). Questo ritratto è un singolare incrocio di eredità culturali, la presentazione “alla Moroni” con la splendida natura morta fuori epoca del servizio in argento, e istanze più moderne quali il brusco naturalismo del “carattere” e l’approccio al personaggio tra l’affettuoso e l’ironico, attraverso i dettagli della presa di tabacco e della cuffietta che compone il tricolore e forse allude per contrasto alla sicura fede austriacante della dama (Accademia Carrara, Bergamo, 1838). 14 Mario Cresci (Chiavari, 1942), design e foografo, è tra i primi artisti della generazione degli anni ’60-70 ad avviare in Italia una sperimentazione eclettica nell’ambito della fotografia, svincolata dalla funzione meramente descrittiva della realtà e trasformata in mezzo di cui l’uomo dispone per comunicare, in dialogo aperto con gli altri mezzi espressivi, dal disegno al cinema, all’installazione e al design. Docente di comunicazione visiva e fotografia all’I.E.D., al Politecnico di Milano, all’Ecole d’Arts Appliqués di Vevey, alla NABA, fino all’Accademia di Brera, dove ancora oggi insegna; ha inoltre diretto l’Accademia Carrara di Bergamo, organizzando eventi culturali in collaborazione con GAMeC. Ha esposto in manifestazioni e sedi di livello internazionale, ricevendo premi e riconoscimenti.


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Fig. 11. Mario Cresci, dalla serie Fuori tempo - Giovan Battista Moroni, Pace Rivola Spini, nobile, 1570. 2008, stampa digitale ai pigmenti su carta cotone fine-art.

Fig. 10. Giovanni Carnovali, Ritratto della contessa Anastasia Spini, 1838, Accademia Carrara, Bergamo.

fotografiche che esplorano sottilmente le stratificazioni culturali della città entrando nel tessuto artistico, storico e scientifico del territorio, da cui ha estratto raffinati collegamenti visivi capaci di restituire una più intensa conoscenza dei luoghi. La serie di nove ritratti (Fuori tempo) sono ottenuti da macroingrandimenti avvicinando il mezzo fotografico ad alcuni dipinti realizzati da maestri del passato: una sorta di ritratto nel ritratto che provoca un interessante cortocircuito fra l’opera dipinta, l’autore che la fotografa e coloro che osservano il personaggio dopo questo mutamento visivo. È così che il Ritratto della gentildonna Pace Rivola Spini (1570) di Giovan Battista Moroni, si anima di una nuova vita assumendo un dinamismo espressivo inaspettato (fig. 11).

L’attenzione di Cresci si è poi spostata sulla visione ingrandita di particolari marmorei fotografati alle cave di Zandobbio (Niente è stabile), da cui provengono i materiali utilizzati per i monumenti del centro storico di Bergamo: cinque totem fotografici alti due metri sono stati realizzati combinando elementi ripetuti e ruotati sulla superficie verticale dell’immagine (fig. 12). Sono figurazioni che ingigantiscono la materia, la rivelano nella sua essenza geologica e ne esaltano insieme gli effetti plastici della lavorazione. Il lavoro di Cresci non è lontano dall’opera di Mario Sironi per il Palazzo delle Poste di Bergamo15. All’interno del nuovo edificio pubblico, nella Saletta dei Telegrammi si trovano i due teleri realizzati da Mario Sironi che sviluppano il tema del lavoro, caro alla propaganda fascista, considerato “cardine della società moderna, fattore di progresso e di crescita civile, ... e elemento della dignità dell’individuo”16 ma anche talmente radicato nell’etica della popolazione bergamasca da poter essere una sua icona.

15 L’interesse per questo edificio, realizzato dall’arch. Angiolo Mazzoni tra il 1930 e il ’32, è connesso sia alla sua localizzazione, prossima alle sistemazioni del centro cittadino realizzate dall’arch. Marcello Piacentini nel corso degli anni ’20, sia alla sperimentazione del rapporto tra le arti e l’architettura di cui è ricco il dibattito di quegli anni in Italia e che qui si concreta in modo esemplare nell’intervento di Mario Sironi per la Sala dei Telegrammi. 16 FAGONE V., MARGOZZI M., Sironi. Il lavoro e l’arte, Newton Cultura, Roma, 1997, Catalogo della mostra, Bergamo, 10 luglio 14 settembre 1997.


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Figg. 12-13. M. Cresci, Niente è stabile, in Sottotraccia | Bergamo. Immagini della Città e del suo territorio, 2009.

Iniziati nel 1931, ma collocati nella loro sede solo nel 1934, i due grandi dipinti (m. 3,50 x 3,50) sono dedicati ad attività fondamentali dell’economia italiana dell’epoca, L’Architettura o Il lavoro in città e l’Agricoltura o Il lavoro nei campi. I due soggetti risultano particolarmente pertinenti se riferiti alla situazione bergamasca, con una bassa pianura tradizionalmente legata al settore primario, lo sviluppo industriale nelle valli ed i cantieri aperti in città per le trasformazioni urbanistiche del centro cittadino degli anni trenta. II trattamento dei temi da parte di Sironi è fortemente simbolico: per L’Agricoltura in un sintetico e semplificato paesaggio alpino, al centro della scena

un agricoltore è intento a vangare, mentre sulla destra un pastore di spalle osserva la scena e, ai margini del dipinto, siede una donna con il bambino. I toni terrosi e cupi dei personaggi chiamati a rappresentare il mondo rurale, contrastano con le bianche vesti delle due figure femminili allegoriche che completano la scena: la donna che porta sul capo il cesto di frutta, simbolo dell’Abbondanza, e la diafana divinità protettrice del lavoro agricolo sul lato sinistro. L’acquedotto in secondo piano, al centro della scena, elimina ogni compiacimento bucolico e rimanda all’attività costruttiva dell’uomo, tema dell’altro dipinto, l’Architettura o Il lavoro in città17, dove i veri monumenti sono i corpi dei lavoratori

17 Rimosse nel 1972 dalla loro sede originaria per un restauro, le tele furono trasferite nel 1973 a Milano e in seguito a Roma. I due teleri hanno potuto essere visti nuovamente a Bergamo solo per la mostra Sironi. Il lavoro e l’arte, tenuta nella Sala dei Giuristi del Palazzo della Ragione nell’estate 1997.


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Fig. 14. M. Sironi, L’Architettura, 1933 olio su tela, 350x350, Bergamo, Palazzo delle Poste, sala dei Telegrammi.

Fig. 15. M. Sironi, L’Agricoltura, 1933 olio su tela, 350x350, Bergamo, Palazzo delle Poste, sala dei Telegrammi.

che campeggiano in primo piano su uno sfondo di archetipi spaziali in costruzione, evidente allusione ai cantieri ancora in corso del centro cittadino, ma anche alla grande tradizione edilizia dell’ambiente lavorativo bergamasco. Entrambi i teleri affrontano il tema in una prospettiva universalistica e coerente all’ideologia dei tempi, ma l’ambientazione e le atmosfere scelte da Sironi ci restituiscono una delle più alte sintesi figu-

rative del paesaggio bergamasco: nell’Agricoltura profili montani rocciosi, valli profonde e colline degradandi sono il fondale dell’operosità di contadini vigorosi, di pastori schivi e di donne feconde e silenti; nel Lavoro in città la laboriosità umana dà vita ad un paesaggio di architetture non eclatanti, ma solide e accoglienti, che incarnano visivamente, con una carica semantica ancora oggi riconoscibile, il genius loci del territorio e la sua vera e profonda anima.


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LO SGUARDO ETNOGRAFICO SUI LUOGHI Il caso della Mappa di Comunità dell’Ecomuseo Val San Martino

PREMESSA Le trasformazioni dei contesti territoriali come cura (o incuria) degli uomini e delle donne per i luoghi in comune (e in senso lato per i beni in comune) diventano occasione per riflettere sulla convivenza, gli stili di vita, il benessere. Lo sguardo etnografico sui luoghi si propone di osservare e restituire possibili rappresentazioni, e interpretazioni, di ciò che vi accade. In particolare, la metodologia di “mappatura culturale” dei luoghi si preoccupa di valorizzare le pratiche di significazione, la possibilità ed il ruolo che ciascuno può giocare nell’abitare, nel partecipare alle trasformazioni, nel mettere in campo la propria peculiare lettura ed interpretazione per confrontarla e condividerla con altri. L’antropologia ecologica immagina infatti l’individuo come un nodo in una rete di relazioni, e non come il ricettacolo passivo di una serie di credenzeidee-valori. Queste relazioni non sono necessariamente solo relazioni di tipo sociale, intellettuale o simbolico ma sono anche, anzi in primo luogo, relazioni di tipo pratico e percettivo, di “educazione dell’attenzione”, ovvero di apprendistato in un ambiente risonante che si struttura attorno a ritmi e forme, come danze di movimenti abili. Questa danza delle forme avviene in un contesto dato dal vivere in un certo luogo e dall’essere coinvolti in una serie di attività. Questo nostro intrecciare forme, come l’abitare, continua tutta la vita (GRASSENI, 2009).

COS’È UN ECOMUSEO Il termine Ecomuseo nasce nella seconda metà degli anni ’60 del secolo scorso nel contesto del movimento francese di “Nuova Museologia”. Molte ra-

pide trasformazioni stavano modificando il ruolo culturale e sociale della tradizionale metodologia di conservazione dei beni artistici, etnografici, storici e naturali in luoghi chiusi o protetti, e separati dai luoghi e dalle collettività di riferimento: se ne cercò, da allora, una fruizione partecipata. Moltissime definizioni sono state proposte in quarant’anni di diffusione planetaria di un’idea che non è mai diventata un modello, proprio per via del suo carattere concretamente locale ma concettualmente globale: “Ecomuseo” sembra avere anticipato e poi rilanciato l’invito ad “agire locale e pensare globale” che pervade l’Agenda 21, il Programma d’azione delle Nazioni Unite per il XXI secolo (1992). Tra quelle proposte, trovo interessante ripercorrere una delle più famose ed originali definizioni di Georges-Henri Rivière, uno dei padri fondatori dell’ecomuseologia, nella quale viene messa in luce la vocazione strumentale dell’ecomuseo, sia sul piano concettuale sia su quella della governance: Un ecomuseo è uno strumento che una istituzione e una popolazione concepiscono, costruiscono e governano insieme. L’istituzione con gli esperti, i servizi e le risorse che mette a disposizione. La popolazione sulla base delle sue aspirazioni, delle sue conoscenze, delle sue capacità di approccio (RIVIÈRE, 1976)

La questione centrale messa in luce da Rivière, riguarda il senso del dispositivo ecomuseale, prima ancora che questo si formalizzi in una istituzione riconoscibile, così come sta succedendo in Italia1. La sottolineatura del carattere strumentale e processuale dell’ecomuseo consente di coglierne le valenze pedagogiche e di interrogarsi sul metodo e

* Comitato scientifico dell’Ecomuseo della Val San Martino. 1 Si veda il quadro tracciato da Alberto Garlandini, “Ecomusei e musei per la valorizzazione del patrimonio culturale immateriale. Nuovi istituti culturali per nuove missioni” (in particolare pp. 25-27) in GRASSENI, C. (2010) (a cura di), Ecomuseologie, Pratiche e interpretazioni del patrimonio locale, Quaderni del CE.R.CO. 6, Guaraldi, Rimini.


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sul merito: innanzitutto, le attività ecomuseali potrebbero essere considerate pratiche di accompagnamento di soggetti diversi in contesti di problematica trasformazione della società e del territorio come quelli attuali? In situazioni di potenziale conflitto, di difficoltà di comprensione nell’uso dei linguaggi, ma anche nell’uso dei luoghi, l’ecomuseo può porsi l’obiettivo di essere strumento per la consegna di significati tra generazioni o tra nuovi e vecchi abitanti, con un lavoro sulle radici e sulle memorie che provengono da tempi e da luoghi diversi? Da luoghi fisici, non necessariamente lontani, e anche sempre più spesso da collocazioni socio-culturali estranee, straniere tra loro. Come è possibile rispettare e valorizzare le nuove appartenenze? Con quali modalità e strumenti si possono cogliere e mettere in relazione le tracce del passato e quelle del presente? L’Ecomuseo può accogliere e sostenere percorsi di cittadinanza attiva che contribuiscano a delineare in responsabilità il proprio modo di abitare e di essere ospiti più consapevoli nel proprio (provvisorio) territorio? Su questi temi è d’obbligo il riferimento a Hugues de Varine2 e alla sua riflessione sull’ecomuseo come processo che consente alle comunità locali di reinterpretare il patrimonio culturale, alla ricerca di una specifica declinazione locale e sostenibile di sviluppo. L’ecomuseo, particolarmente in Lombardia, ha un’impronta sussidiaria che si traduce anche nell’apertura a processi istitutivi bottom up tali per cui le funzioni di ricerca, conservazione e valorizzazione del patrimonio dovrebbero rispondere a bisogni, domande e progetti esistenti. Osservando la Rete ecomusei lombardi, mi sembra di poter dire che gli ecomusei che hanno provato a sostenere il ruolo di infrastrutturazione immateriale3 del territorio hanno proposto buone pratiche per cogliere le peculiarità dei soggetti attivi sul territorio riconoscendo loro il ruolo di esperti locali, per valorizzare le reti esistenti e farne sistema, per rendere esplicito il processo di costruzione culturale dei luoghi e per realizzarne una rappresentazione condivisa anche, eventualmente, in termini promozionali. (Si veda, ad esempio, il caso dell’Ecomuseo Urbano Metropolitano Milano Nord4 o quello della Valle Taleggio in GRASSENI, 2009). Un processo quanto più possibile evidente, che dichiari i punti di vista assunti, anche diversi e dia-

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letticamente contrapposti perché sviluppati in differenti storie di vita, e richieda, o almeno accolga, ampia partecipazione, riservando ruolo e compiti di sussidiarietà agli enti locali che sostengono interattivamente gli ecomusei: cittadino/a – gruppo – ecomuseo – ente territoriale. Il rischio è quello di moltiplicare i passaggi ed aumentare la distanza tra il primo e l’ultimo termine della sequenza; l’opportunità sta invece nel rendere la sequenza così densa di significati da rendere duraturo e rappresentabile il coinvolgimento con il proprio territorio: mappare una comunità è un processo che dà corpo a questa sequenza, grazie ad un lavoro la cui ricaduta sul territorio si può misurare valutando le policy prodotte dagli enti territoriali di riferimento. Uno snodo critico fondamentale sta nel chiedersi se la partecipazione dei singoli e dei gruppi possa trovare, oggi, sostenibilità nella riscoperta di una cultura emozionale, appunto, dei luoghi e delle relazioni. Restaurare (materialmente), reinterpretare (praticamente) o addirittura reinventare (culturalmente) luoghi del proprio territorio e/o relazioni del proprio contesto di vita comporta un coinvolgimento affettivo che è prerequisito per il dispiegarsi di una piena cittadinanza. Per una lunga stagione si è pensato – nel sindacato, nell’associazionismo, nei partiti “solidaristi” – secondo la logica dell’equità, della giusta redistribuzione delle risorse e delle opportunità. Si è lavorato per precisare i termini della giustizia sociale e i diritti da assicurare ai più fragili, e agli ‘oppressi’. C’era appunto, decisiva e centrale, una “questione sociale”. Era un mondo nel quale ci si leggeva all’interno di appartenenze e identità sociali, culturali e nazionali definite. Oggi non solo lo scenario (sociale, economico, ma anche culturale e tecnologico) è profondamente cambiato, ma ciò che va colto con preoccupazione e, soprattutto, con attenzione è una “questione” che non è soltanto sociale quanto, come dicevamo, attinente alla stessa condizione umana, e alla natura – prima che alla forma – del legame tra le persone. La logica di equità è insufficiente, oltre che sotto l’attacco della cultura meritocratica e mercatista. Uno spazio comune di convivenza, spazio di riconoscimento e di responsabile cura, forse è possibile oggi solo a partire da una logica di sovrabbondanza, quella che prevede economia di dono e gratuità (…). La logica dell’equità non ha la forza di spin-

Per una sintesi, si veda: JALLA, Hugues de Varine, l’uomo che inventò gli ecomusei in DE VARINE (2005). GARLANDINI, ALBERTO, 19 marzo 2010, Seminario di presentazione del Quaderno del CE.R.CO. Ecomuseologie, Pratiche e interpretazioni del patrimonio locale, cit., Università degli Studi di Bergamo. 4 MICCOLI e NEGRO in GRASSENI, C. (2010). 3


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gere verso l’“anticipo” di forme di socialità, economia, incontro e servizio, nelle quali l’esposizione e la fiducia avvicinino e generino spazi per le persone, anche quelle normalmente fragili e mediamente vulnerabili. A maggior ragione per chi scivola in situazioni complesse e pesanti (LIZZOLA, 2010).

Dentro tale logica di sovrabbondanza stanno il coinvolgimento affettivo e la cura come attribuzione di senso ai luoghi, anzi alla propria identità praticata nei luoghi. Veniamo ora ad una trattazione generale del progetto di Mappa di comunità dell’Ecomuseo Valle San Martino, nel quale abbiamo ricercato e sperimentato alcune risposte agli interrogativi sopra delineati.

ECOMUSEO VAL SAN MARTINO L’Ecomuseo Val San Martino interessa una popolazione di circa 35.000 abitanti (2001) e si estende sul territorio di nove Comuni (64,2 Kmq) situati tra le province di Bergamo e Lecco, tra la sponda orientale del Fiume Adda e la cresta spartiacque che lo divide dalla Valle Imagna: Vercurago e Calolziocorte (a maggiore densità abitativa, ormai prolungamento della città di Lecco), Erve, Carenno, Torre de Busi, Monte Marenzo, Caprino Bergamasco, Cisano Bergamasco, Pontida. Dal punto di vista urbanistico, ci troviamo di fronte ad una situazione composita che rappresenta efficacemente alcune caratteristiche dell’intera Regione: una elevata qualità naturalistica che si va riducendo alla fascia montana (ambienti boscati che si diradano in quota), alla fascia collinare ancora coltivata e ad alcune zone umide lungo il corso dell’Adda e dei suoi affluenti; la presenza costante dell’acqua, nel territorio e nell’immaginario degli abitanti; la trasformazione dei centri di fondo valle in un’unica fascia abitata di tipo periurbano che propone le problematiche legate alla governance della densità e dell’eterogeneità degli insediamenti: in questo contesto assume particolare rilevanza (anche nella percezione degli abitanti) la questione della mobilità. Spostarsi (per lavorare, per studiare, per fare sport, per turismo…) viene ormai percepito come carattere di modernità i cui costi si pagano in termini di tempo personale (incrementa il tempo pro die impiegato per muoversi) ed in termini economici, sia individuali che collettivi (forte dipendenza dall’auto privata, pochi investimenti sul trasporto pubblico, scarse competenze individuali di spostamento alternativo, dispendio energetico, aumento del rischio e della spesa sanitaria).

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Dal punto di vista storico-architettonico e artistico, il territorio è punteggiato da opere rilevanti, non tutte note o sufficientemente valorizzate. La Giunta regionale lombarda ha riconosciuto l’Ecomuseo della Valle San Martino con d.g.r. n. VIII/7873 del 30 luglio 2008, sulla base dei requisiti minimi individuati con specifica deliberazione della Giunta stessa nel febbraio 2008. Dal 2007 al 2010, le attività dell’Ecomuseo si sono concentrate soprattutto sulla documentazione e valorizzazione del patrimonio storico della Valle attraverso periodiche pubblicazioni a tema; sul censimento di gruppi e associazioni presenti sul territorio; sulla promozione di eventi presso le emergenze ecomuseali (in gran parte luoghi di rilevanza storico-architettonica). L’attenzione del Comitato Scientifico dell’Ecomuseo al coinvolgimento attivo degli abitanti si è tradotta in prima istanza nella predisposizione di un corso di formazione per operatori ecomuseali (2009). Grazie agli incoraggianti risultati, è stato possibile investire risorse e competenze esperte nell’impegnativo progetto, cofinanziato da Regione Lombardia: “Mappa di Comunità della Val San Martino: valorizzazione della cultura e delle tradizioni locali ai fini ambientali, paesaggistici, culturali, turistici ed economici”. MAPPA DI COMUNITÀ DELL’ECOMUSEO VAL SAN MARTINO: VALORIZZAZIONE DELLA CULTURA E DELLE TRADIZIONI LOCALI AI FINI AMBIENTALI, PAESAGGISTICI, CULTURALI, TURISTICI ED ECONOMICI

Una mappa di comunità non è necessariamente una carta geografica, è piuttosto un progetto di mappatura culturale di un paesaggio e dei luoghi che lo costituiscono, del senso che le pratiche di chi li abita attribuiscono loro, delle risorse immateriali del territorio. È uno strumento di lavoro che implica processi di selezione che dipendono fortemente da scelte soggettive: Non esiste dunque una sola mappa possibile per una certa comunità. Teoricamente ne esiste più d’una. Questo spiega perché l’approccio talvolta utilizzato in ambito accademico (per esempio interviste in profondità, sulla base delle quali una èquipe di studiosi disegna la mappa) parte da presupposti diversi dai nostri, parte cioè dal presupposto che esista una sola mappa per un luogo, che esista la mappa “giusta”. […] Qui la partecipazione è importante perché diversamente le scelte sarebbero fatte solo da pochi o da qualcuno esterno alla comunità (MAGGI, 2008).


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Diverse discipline hanno adottato simili strumenti di indagine: le mappe percettive in psicologia, la cartografia partecipata (anche con modalità di geoblog) in geografia e nell’analisi territoriale finalizzata alla progettazione urbanistica o alla stesura di bilanci partecipati. L’accesso pubblico ai processi di mappatura, facilitato attraverso la promozione di mostre, eventi, tavoli di lavoro, blog e social network, moltiplica le occasioni di comunicazione tra cittadini, anche non esperti, e autorità locali e sovralocali intenzionate ad avviare procedure di ascolto attivo, oltre che di comunicazione istituzionale. Un esempio di tale metodologia in Regione Lombardia potrebbe (avrebbe potuto) essere rappresentato dall’iter di progettazione urbanistica previsto per i PGT (Piani di governo del territorio). Istituiti con Legge Regionale 11 marzo 2005, n. 12 “Legge per il governo del territorio”, i nuovi strumenti di pianificazione territoriale dovrebbero essere caratterizzati da (art. 2 comma 5): a) la pubblicità e la trasparenza delle attività che conducono alla formazione degli strumenti; b) la partecipazione diffusa dei cittadini e delle loro associazioni; c) la possibile integrazione dei contenuti della pianificazione da parte dei privati;

In poche righe, le parole chiave “pubblicità”, “trasparenza”, “partecipazione”, “integrazione” hanno connotato il PGT come occasione/obbligo di prendere atto delle forme di partecipazione espresse dalla popolazione. Si potrebbero, quindi, mettere in atto modalità di rappresentazione partecipata del territorio, che consentano ai cittadini di prendere parola, per poi confluire nelle verifiche tecniche e nella progettazione esperta degli architetti, con ruolo di mediatori culturali. In realtà, la progettazione urbanistica è rimasta, per il momento, ancorata a modalità di lavoro abbastanza tradizionali che conservano una distribuzione del potere di parola e di elaborazione culturale gerarchica e tutt’altro che diffusa. Gli Ecomusei lombardi, in coerenza con la loro legge istitutiva, potrebbero proporsi anche in questo settore come strumenti di lavoro collettivi: megafoni per la voce

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di cittadini e di associazioni territoriali, collettori di informazioni per gli enti locali. Negli ecomusei italiani, le mappe di comunità furono inizialmente introdotte dal Laboratorio Ecomusei della Regione Piemonte come strumenti di partecipazione e di progettazione mutuati dalla metodologia innovativa, semplice e concreta, delle Parish Maps messe a punto nell’ambito di Common Ground, un progetto e insieme un’associazione fondata negli anni 1980 da Sue Clifford5 in Gran Bretagna. Le mappe culturali “non sono fatte per orientarsi in senso spaziale ma per sottolineare punti di vista”6, e sguardi molteplici: proprio per attivare tale metodologia partecipativa e polifonica, il Comitato scientifico dell’Ecomuseo VSM ha rilanciato uno dei pre-progetti impostati durante il corso per operatori ecomuseali del 2009: lo studio preliminare per una mappa culturale della Valle San Martino in forma di mazzo di carte da gioco. Dopo la fase di approfondimento metodologico e organizzativo curata dal Comitato scientifico dell’Ecomuseo7, il progetto è stato presentato ai rappresentanti delle istituzioni e delle associazioni dei nove comuni della Valle. Sono stati illustrati gli obiettivi del progetto, la metodologia partecipativa del gruppo di lavoro, il prototipo di alcune carte studiate nel pre-progetto. Agli amministratori e agli altri presenti sono state richieste indicazioni di eventi e segnalazioni di occasioni adatte alla presentazione del progetto alla popolazione, per la conoscenza reciproca di Ecomuseo e cittadinanza. L’avvio della fase operativa vera e propria ha comportato la verifica dei contatti con le istituzioni e le associazioni del territorio e la costituzione del gruppo di lavoro. Nelle prime riunioni si è lavorato sulla preparazione delle uscite sul territorio: una per comune, più tre eventi speciali, in questa fase di raccolta di racconti, bisogni, idee, testimonianze. I materiali approntati sono stati: materiale illustrativo sull’Ecomuseo Valle San Martino e sue pubblicazioni; cartografia di base (ortofotografia e carta tecnica regionale); questionario e materiale per il gioco cartografico; materiale di allestimento del gazebo (fotografie, cartografia aggiuntiva, materiale da disegno…).

Si veda il sito dell’associazione: http://www.commonground.org.uk/. MURTAS in GRASSENI, 2009, p. 134. 7 Ne facevano parte: il Coordinatore dell’EVSM, Gianluigi Daccò (museologo e medievista), Fabio Bonaiti (medievista e storico locale), Franco Carenini (esperto locale patrimonio culturale materiale e immateriale), Cristina Grasseni (antropologa e docente universitaria), Gabriele Rinaldi (naturalista, botanico, Direttore Giardino Botanico di Villa de Ponti e dell’Orto botanico di Bergamo), Giovanna Virgilio (storica dell’arte e docente universitaria). Da http://www.ecomuseovsm.it/organi.html. 6


LO SGUARDO ETNOGRAFICO SUI LUOGHI

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Il questionario.

Cartografia di valle annotata.

La strutturazione del questionario ha richiesto agli intervistati la descrizione del proprio paese, o della valle, dal punto di vista territoriale, quindi con riferimento ai luoghi, ma anche dal punto di vista culturale, degli usi, di particolari caratteristiche rimaste nella memoria delle persone. Nel gazebo dell’Ecomuseo, abbiamo provato ad imbastire una prima rappresentazione cartografica con un gioco: abbiamo equiparato ogni domanda del questionario ad una faccina (emoticon) e quindi abbiamo chiesto di posizionare sulla cartografia predisposta gli emoticon relativi alle risposte più rilevanti per ciascuno, magari annotandoli con qualche osservazione. L’ascolto attivo durante le interviste al gazebo, l’osservazione delle interazioni intorno alla cartografia annotata e la successiva lettura e tabulazione dei questionari sono gli elementi raccolti per testimoniare il processo di rappresentazione collettiva del territorio, dentro una cornice metodologica partecipata. L’idea stessa di mappa di comunità, spiegata e condivisa davanti ai materiali esposti nel gazebo, si è prestata alla sottolineatura dell’esistenza di un patrimonio territoriale diffuso. Attraverso una fase di aggregazione e catalogazione dei dati per Comune, luogo, ricorrenza, il gruppo ha stilato un elenco delle immagini (prevalentemente di luoghi, ma anche di caratteri comuni della Valle: i quattro assi del mazzo di carte milanesi) da inserire nel layout delle carte da gioco. La fase di interpretazione dei dati da parte del gruppo di lavoro ha reso evidenti alcune criticità metodologiche e deontologiche.

Innanzitutto, il conteggio e la classificazione delle risposte non ha potuto esaurirsi nella valutazione quantitativa dei luoghi nominati. Il gruppo si è trovato a discutere sulla densità delle risposte raccolte, e ha anche dovuto fare i conti con i diversi punti di vista e le diverse appartenenze dei ricercatori/interpretatori: diverse, ma non lontane, provenienze territoriali; diverse appartenenze generazionali; diverse competenze professionali; diverse aspettative nei confronti della ricerca e dei suoi possibili esiti. In particolare, mi sembra importante mettere in evidenza che l’utilizzo di una metodologia partecipata comporta il fatto che le esperienze dei ricercatori, segnatamente degli operatori ecomuseali, siano mescolate con quelle del gruppo allargato dei mappatori già prima dell’incontro sul campo. La soggettività è stata, dunque, elemento dominante e qualificante della ricerca perché è emersa dalla concretezza di una metodologia situata e da strumenti verificabili (il questionario, le interviste). Infatti, tale circolarità di esperienze ha costituito nel gruppo una feconda occasione di comprensione del campo di ricerca, utile per cogliere riferimenti locali e, come ha detto un’operatrice ecomuseale, per “sentire il polso” (flusso, ritmo, vitalità) della popolazione. Grazie all’attenzione della Coordinatrice del progetto, Cristina Grasseni, per l’applicazione di un metodo rigorosamente etnografico, è stato possibile fare interagire, anche nei conflitti, i diversi punti di vista e conciliare i criteri di scelta per arrivare ad un manufatto finale sufficientemente rappresentativo e aperto a integrazioni (da inserire sul sito,


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LOREDANA POLI Racconto di luoghi davanti alla cartografia (Calolziocorte).

La “cassetta degli attrezzi” per il gioco cartografico.

che si presta ad essere luogo di divulgazione e di informazione continuamente aggiornabile) e a implementazioni (per esempio, la trasmissione agli amministratori locali di valutazioni, preoccupazioni, suggerimenti scaturiti durante la compilazione partecipata dei questionari).

CONCLUSIONI Nella formazione degli adulti, così come nelle attività didattiche, l’ecomuseo può assumere l’educazione alla cittadinanza attiva come offerta permanente di competenze (non tanto cognitive, quanto emotive, relazionali, comunicative) finalizzate alla partecipazione: rendere ben evidente questo “se-

gnavia” nella costruzione dei progetti ecomuseali può evitare di considerare riduttivamente gli stessi processi di partecipazione come passaggi formali ineludibili, perché previsti dalla norma regionale. I processi di mappatura culturale potrebbero inserirsi efficacemente anche sullo snodo della comunicazione tra cittadino ed istituzioni locali poiché l’attivazione di percorsi partecipativi esplicitamente finalizzati alla rappresentazione intenzionale del proprio territorio comporta una raccolta di informazioni rilevanti per l’amministrazione che volesse coglierne aspetti non immediatamente visibili, o in fieri, o di natura immateriale. Nel caso dell’esperienza della Valle San Martino, durante il lavoro di mappatura l’Ecomuseo ha raccolto segnalazioni e pareri sullo stato dei luoghi nei


LO SGUARDO ETNOGRAFICO SUI LUOGHI

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di monitoraggio dell’esito di tali segnalazioni o promuovere progetti di coinvolgimento e attivazione di cittadini e associazioni interessati, con il sostegno dell’ente locale.

Bibliografia

Cartografia annotata: Monte Marenzo.

diversi comuni, su potenzialità ed usi auspicabilmente diversi del territorio: sia in termini di maggior tutela che di nuove possibili attività. Le singole amministrazioni comunali potranno essere informate in merito a tali risultanze e l’Ecomuseo potrebbe avviare, grazie agli operatori ecomuseali, una attività

BONESIO L., 2007, Paesaggio, identità e comunità tra locale e globale, Diabasis, Reggio Emilia. http://geofilosofia.it. BONESIO L., MICOTTI L. (a cura di), 2008, Paesaggio: l’anima dei luoghi, Diabasis, Reggio Emilia. DE VARINE H., 2005, Le radici del futuro. Il patrimonio culturale al servizio dello sviluppo locale, Clueb, Bologna. GEERZ C., 1987, Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna. GRASSENI C., 2009, Luoghi Comuni. Antropologia dei luoghi e pratiche della visione, Lubrina, Bergamo. LIZZOLA I., 2010, ”Partecipare la vita comune - Una nuova immaginazione per generare democrazia e vita comune” in Animazione sociale, 246, pp. 12-22. MAGGI M., 2008, “Perché si fanno le mappe di comunità?”, Relazione svolta nell’ambito dei seminari di formazione previsti dal progetto “Mappa di comunità” ad Ospedaletto (Gemona del Friuli), aprile. MARANO F., 2008, Camera etnografica. Storie e teorie di antropologia visuale, Franco Angeli. Milano. REMOTTI F., 2001, Contro l’identità, Laterza, Roma-Bari. RIVIÈRE G.H., 1976, “Un écomusée, ce n’est pas un musée comme les autres” in CRACAP Informations, nn. 2-3, p. 15. RONZON F., 2008, Sul campo. Breve guida alla ricerca etnografica, Meltemi, Roma. SIGNORELLI A., 1996, Antropologia urbana. Introduzione alla ricerca in Italia, Guerini, Milano.

Mappa di Comunità: progetto dell’Ecomuseo Val San Martino - Comunità Montana Lario Orientale Valle San Martino. Contributo Regione Lombardia. Coordinamento scientifico: Cristina Grasseni, Università degli Studi di Bergamo. Segreteria del progetto e coordinamento gruppo di lavoro: Angelica Galli. Gruppo di lavoro: Laura Accorsi, Flavia Albani, Oscar Biffi, Alessia Crippa, Silvana Dolli, Angelica Galli, Silvia Galliani, Gian Pietro Gandolfi, Jacopo Gelmi, Laura Grasseni, Daniela Montani, Gabriella Sangallo, Loredana Poli, Rosanna Ratti, Laura Valsecchi. Progetto scuola: Loredana Poli. Durata intervento: maggio 2010 - giugno 2011. Il progetto Mappa di comunità dell’Ecomuseo Valle San Martino si trova pubblicato in: http://www.ecomuseovsm.it/home-mappa-di-comunita.html



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SERGIO SOTTOCORNOLA*

CRESCITA DEL COSTRUITO E DECRESCITA DELLA CURA DEL TERRITORIO

Occupandoci di governo del territorio e dell’ambiente, nei giorni del collasso dei suoli e delle reti idrografiche di tante parti di questa nostra Italia, non possiamo non prendere avvio da questi processi di decadimento, giunti a tal punto di criticità da provocare direttamente la perdita di decine di vite umane. Ma anche quando questa tragica soglia non è raggiunta, si generano costi ingenti per la collettività, in termini economici e di salute pubblica, per costose opere idrauliche (scolmatori; vasche di laminazione, etc.), bonifiche ambientali (cromo, atrazina, etc., nelle falde acquifere); perdita di valore e futuro per le attività agricole; impoverimento, quando non cancellazione, di paesaggi. Processi e fatti talmente reiterarti ormai da produrre, insieme a sgomento e indignazione, germi di una fatalistica rassegnazione. Ma alla categoria del fato non appartengono, tanto per esemplificare: – i 15.000 kmq di terreno agricolo persi, in Italia, solo negli ultimi dieci anni (due terzi dei quali per l’edificazione); – l’incuria e l’abbandono di tanti non quantificati spazi rurali; – la drastica riduzione e cementificazione di alvei fluviali, compresi quelli a maggior rischio; – l’assenza di investimenti e di progettualità pubbliche adeguate. Un quadro che il poeta Zanzotto così ci restituisce: a metà del secolo scorso, la tragedia dei campi di sterminio; oggi, lo sterminio dei campi”

BORDI URBANI E TRASFORMAZIONI URBANE E TERRITORIALI

Il tema dei bordi urbani, opportunamente proposto da ICONEMI 2011, rinvia al più generale

* Ingegnere, Ordine degli Ingegneri della Provincia di Bergamo.

contesto delle profonde trasformazioni territoriali e delle realtà urbane oggi e di quelle specifiche di Bergamo: al tempo stesso al centro e ai bordi di vaste trasformazioni metropolitane, da cui si teme di essere travolti, e insieme, ignorati o, peggio, strumentalmente partecipi, nell’ottica effimera dell’occasionale ed estesa occupazione del territorio, per lo più a profitto privato e costi pubblici, anziché in quella, più impegnativa, degli ammodernamenti e degli investimenti che si facciano carico di un futuro durevole. Questioni che coinvolgono tutte le componenti sociali, culturali, economiche, politiche, religiose, della comunità della “polis”, (o di quello che ne rimane), in cui specifiche potenzialità o debolezze, evoluzioni o involuzioni, si riflettono, in buona misura, sulla collettività nel suo insieme. Le preoccupazioni circa la debolezza di iniziativa, le lacune di decisionalità, le ristrette disponibilità economiche, frequentemente lamentate, rinviano alla questione di come si possano individuare obiettivi prioritari credibili, durevoli, condivisi, nonché modi e tempi per perseguirli, assegnando anche ai principi di partecipazione, di responsabilità, di competenza tutto il rilievo che meritano. Questioni, quindi, di merito e di metodo, tra loro strettamente correlate. Che devono fare i conti anche con l’aleatorietà di cicli amministrativi segmentati, a rischio di corto respiro, di obiettivi “strategici” enunciati e pianificati solo teoricamente, ma di fatto poi in stallo, quando non in progressivo arretramento. Dentro questo quadro, in cui il concetto stesso di città assume contorni incerti, i bordi periurbani, occupano il fronte stesso di trasformazioni carenti di quadri di riferimento adeguati, sospesi tra plurivalenze auspicabili (anche e soprattutto di tipo agroambientale), nonvalenze diffuse e plusvalen-


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ze per pochi privilegiati, patendo progressive omologazioni, fatte di perdita di identità, di valori storico ambientali, di vivibilità, e concomitanti diseconomie risultanti da processi di trasformazione a prevalente profitto privato e costo pubblico. Processi che tendono ottusamente a reiterarsi anche quando non più in grado di supportare un ciclo economico con prospettive di qualche durabilità. Questa fase che oggi viviamo, per altro, appare sempre più come una transizione, in cui cominciamo ad essere consapevoli del vecchio che dovremmo abbandonare, ma senza sufficienti elementi di chiarezza e determinazione circa il nuovo che ci aspetta, da costruire, che risponda alle diffuse e crescenti criticità, al nostro crescente spread ambientale. Anche il territorio intorno a Bergamo è sempre più connotato da bordi sfrangiati, incerti e spesso casuali, come casuale e illogica risulta ormai essere la stessa ripartizione amministrativa che dovrebbe governarli. Al processo di estesa e intensiva edificazione che ha configurato nei decenni scorsi la accorpata e massiccia “espansione” quantitativa del tessuto urbano, ha fatto seguito un venir meno della stessa presenza di parte dei bordi urbani, accompagnato da una crescente indeterminazione di quelli residui, da un loro sfrangiarsi dentro la citata promiscuità amministrativa. Non si insisterà mai abbastanza sui danni di una contraddizione, ormai insostenibile, tra la necessità di una scala sovracomunale, entro cui collocare le questioni urbanistiche di rilievo, e il persistere, nell’assenza/presenza di una istituzione quale quella della Provincia, di strutture ed una prassi amministrative che fanno riferimento ai propri confini comunali, che non hanno ormai più corrispondenza con una realtà di infrastrutture ed insediamenti assolutamente interrelata. Una sindrome da chiusura nel proprio particulare che, per tanti radicati motivi, continua ad affliggere una conurbazione come quella di Bergamo e il suo Hinterland, deprivandola di sinergie e gravandola dei guasti di un individualismo disordinato e alla fine autolesionistico. Questo presunto municipalismo genera di fatto una extraterritorialità connotata dalla crescita a dismisura di megastrutture commerciali e di servizio, dall’incrociarsi di grandi opere infrastrutturali della mobilità, in una logica dettata più da iniziative proprietarie che da una congruenza complessiva, con lo spazio agricolo e ambientale a far da cuscinetto territoriale in attesa non più tanto ormai di una “espansione” urbana, quanto piuttosto del prossimo grande botto urbanistico. Questo comporta, insieme ad un ulteriore consu-

mo del già ridotto suolo non edificato, sprechi e danni supplementari (anche in termini di costi paesaggistico/ambientali e di depotenziamento delle attività agricole), in assenza di adeguate forme di monitoraggio e controllo degli effetti indotti da questa tendenza al “gigantismo occasionale” e in presenza di un crescere della capacità di pressione che lo supporta. A fronte di questo smagliarsi del concetto stesso di città, va in sofferenza lo stesso maggior nucleo identitario della medesima, quello rappresentato dal tessuto storico, che rischia a sua volta il depauperamento demografico e di ruolo, essendo le sue funzioni storiche sempre più in dismissione, riallocate nelle megastrutture del grande blob, dagli sterminati parcheggi, o compresse dalla monocultura degli imponenti interventi di nuova edilizia abitativa nei comparti urbani dove sono state dismesse le attività produttive, in un contesto già criticamente carente di infrastrutturazione urbana e parametri di vivibilità. La Città di Bergamo necessiterebbe, per rivitalizzare effettivamente il suo ruolo storico di capoluogo, di una diversificazione di questi processi di trasformazioni interni al tessuto urbano esistente, anche creando incentivi e premialità per luoghi di attività e produzioni, cultura e lavoro, innovativi e compatibili, con un coinvolgimento del mondo economico, culturale e imprenditoriale, a partire, auspicabilmente, da occasioni storiche quali quelle rappresentate dalle dismissioni degli attuali Ospedali Riuniti e della caserma Montelungo. Andando oltre il modello unico Piano integrato = Nuove residenze + Supermercato, superando una logica da “speculazione edilizia”, espressione di una presunta imprenditorialità, non al passo con i tempi, che alla fine porta, oltre al depauperamento del tessuto urbano e sociale, anche all’affossamento di se stessa. Tornando al tema specifico posto, sarebbe auspicabile che l’idea/progetto per Bergamo, recepita nel vigente PGT comunale, delle cosiddette Stanze Verdi, della loro connessione, nonché del Parco Agricolo/ecologico di iniziativa intercomunale, fosse anche l’occasione per avviare contestualmente una ampia ricognizione/progetto dei bordi urbani, a partire da una analitica rilevazione ed interpretazione dello stato di fatto. Immettendo quindi, in modo esteso e coordinato, spunti propositivi e progettuali volti alla ricucitura ed alla ricomposizione delle smagliature e degli sfridi che connotano quegli ambiti, instaurando o ricostituendo le relazioni tra l’abitare e le attività, tra pubblico e privato, tra spazi urbani e spazi agroambientali.


CRESCITA DEL COSTRUITO E DECRESCITA DELLA CURA DEL TERRITORIO

Creando anche incentivazioni per chi intendesse operare in questa direzione, anche con interventi edilizi mirati, a dimensione medio/piccola, funzionali a questa ricomposizione e rivolti ad una imprenditoria e ad una utenza, abitativa o di attività, non tarata su interventi a grande scala. In diretta relazione con l’obiettivo sopra espresso, andrebbe costruita una effettiva politica, progettualmente ed economicamente supportata e scadenzata, riguardante il sistema agroambientale nel suo insieme, come asse principale di una politica per la vivibilità, la qualità ambientale, la stessa identità territoriale, (senza la quale anche le citate apprezzabili istanze del PGT, quali Stanze Verdi e Parco Agricolo, rischiano di essere velleitarie e sostanzialmente elusive, esposte ai quattro venti del Grande Intervento di turno). Su questi temi la città Capoluogo potrebbe anche porsi come Capofila di una politica per l’intero Hinterland, cercando anche di onorare con originalità e in modo congruo il tema della Expo 2015, che, ricordiamolo, si interroga appunto sul rapporto cibo, ambiente, territorio. Le criticità circa gli assetti ambientali e territoriali sopra richiamate, nonché gli stessi spunti propositivi sopra espressi, rinvierebbero ad una ricerca più ampia sul concatenarsi delle ragioni che le hanno prodotte, a partire dal porsi alcuni interrogativi, quali: – chi ha tratto danno o profitto da questo bilancio, che si presenta oggi complessivamente deficitario sia sotto il profilo ambientale che economico? – quali sono i livelli di responsabilità coinvolti? – qual è la adeguatezza dei livelli istituzionali ed amministrativi? – quale il livello delle competenze e delle sensibilità, anche professionali? – quali le opzioni alternative praticabili? – qual è, in merito, lo “spread” italiano rispetto ai paesi europei evoluti? – quanto incide, in Italia, il livello di consapevolezza e di etica pubblica, il principio di responsabilità anche individuale? – che ruolo ha potuto o voluto giocare l’informazione e la pressione dell’opinione pubblica? – qual è, su tali questioni, il livello di compartecipazione sociale alla progettualità, alle decisioni, alla condivisione di costi e benefici? Ognuno di questi interrogativi meriterebbe una adeguata analisi, e altrettanto le relazioni tra loro sottese. Gli incontri di Iconemi hanno proposto significativi contributi di riflessione: dagli assetti idrogeologici ed idraulici, al riconoscimento delle maglie sto-

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rico/paesaggistiche; dal ruolo degli spazi e delle attività agricole e loro fruizione aperta e diversificata, alla percezione identitaria dei luoghi ed ai processi partecipativi etc.

PROCESSI PARTECIPATIVI NEL GOVERNO DEL TERRITORIO E DEL PAESAGGIO

L’arco esteso dei contributi sopra citati attesta di per se un dato in tutta evidenza, anche se non sempre se ne traggono le conseguenze: questi temi esigono di essere affrontati ed approfonditi con la massima sinergia, con la necessaria compartecipazione, tra tutti gli attori che possono contribuirvi: da chi riveste ruoli sociopolitici, a chi è titolare di competenze disciplinari e professionali, a tutti coloro, associazioni od individui, che svolgono azione di cittadinanza attiva. In questo Urban Center, luogo deputato alla informazione partecipata, vorrei proporre alcuni brevi spunti di riflessione sul ruolo dei processi partecipativi ed il loro ruolo; questione, per altro, che interessa, trasversalmente, anche tutte le altre. Potrebbe esser già essere significativo un semplice elenco/riscontro della estesa gamma delle forme e dei momenti della partecipazione: – partecipare e senso di appartenenza; – partecipare e tutela attiva di valori condivisi; – partecipare e processi informativi/cognitivi; – partecipare e competenze disciplinari; – partecipare e competenze dei vari ambiti e livelli istituzionali; – partecipare e qualità progettuale di una tutela attiva; – partecipare e processi decisionali circa una progettualità di tutela attiva; – partecipare e cittadinanza attiva; – partecipare e processi decisionali delle sedi istituzionali (il local community empowerment dell’esperienza anglosassone); – partecipare e sostenibilità (durabilità) delle trasformazioni; – partecipare e monitoraggio/gestione delle trasformazioni. Attivare le diverse istanze partecipative significa anche coglierne le reciprocità: partecipare comporta, in particolare, lo stabilire delle relazioni. Le auspicabili interazioni, ad es. tra chi è titolare di competenze/ conoscenze disciplinari e professionali (architetti, ingegneri, agronomi e forestali, paesaggisti, geologi, naturalisti, geografi, etc.), non solo arricchiscono la qualità e la pertinenza complessiva


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dei loro specifici apporti, ma conseguono anche un supplemento di stimolo in ordine alla cittadinanza attiva, ai fattori motivazionali dei decisori. Una partecipazione evoluta va attivata dall’inizio del processo decisionale in quanto utile sia per mettere a fuoco sia giusti obiettivi che adeguate soluzioni, essendo appunto un buon progetto una buona risposta ad una buona domanda, collegando competenze e vissuti, eredità del passato e prospettive future. Se, per ben progettare, si deve assumere una estesa conoscenza del territorio, è altrettanto vero, per converso, che lo stesso progettare rappresenta una importante momento di conoscenza del territorio, che si acquisisce, in certo modo proprio ”mettendolo alla prova”. Per quanto attiene in particolare l’apporto partecipativo ai processi decisionali che si sviluppano nelle sedi istituzionali, vengono sollevate obiezione del tipo: compete agli “eletti il diritto/dovere di decidere, altrimenti verrebbero meno al “mandato” loro affidato dai cittadini elettori, dal cosiddetto “popolo sovrano”, che giudicherà (?) il loro operato, al successivo turno elettorale. Si può discutere su questa obiezione. In ogni caso può essere agevolmente superata, nella forma e nella sostanza: coloro che si candidano a “rappresentare” i concittadini esprimano l’impegno ad adoperarsi perché questi possano prendere attivamente e consapevolmente parte ai processi progettuali e decisionali che riguardano il loro territorio. Anche questo impegno verrebbe quindi a far parte del loro “mandato”, costituendo per altro elemento di giudizio da parte dei cittadini elettori. Per altro, gli stessi indirizzi normativi vigenti (regionali, nazionali, comunitari) prevedono che, nel governo delle trasformazioni del territorio, dell’ambiente, del paesaggio, si debbano adottare modalità partecipative: non sono indicazioni astratte, o populiste, ma il riconoscimento di quanto una partecipazione effettiva, consapevole ed evoluta, sia una delle principali risorse per buone e durabili politiche e progetti territoriali e ambientali. Questa partecipazione dovrebbe quindi, in particolare, essere incentivata dagli stessi attori istituzionali e professionali, che di essa dovrebbero valersi. Per un riscontro concreto di quanto sopra affermato vorrei, concludendo, citare alcuni significativi esempi di partecipazione e cittadinanza attiva (scu-

sandomi con coloro che avrò dimenticato) che hanno interessato la realtà di Bergamo e Hinterland, con apporti ed esiti che non possono non essere valutati, in larga misura, costruttivi e propositivi: – azioni di tutela e valorizzazione dell’ex Convento e del paesaggio di Astino; – iniziative del Comitato per il Parco Agricolo Ecologico (PAE); – gruppi di partecipazione per la mobilità sicura (Monterosso, Longuelo, Colognola, San Tomaso, Boccaleone, Campagnola, Borgo Palazzo etc.); – Comitato dei residenti per la rivitalizzazione di via Quarenghi; – Comitato di Longuelo per la qualità progettuale del nuovo parco Lochis; – Comitato di via Rampinelli per la dismissione ex Molini Moretti; – Comitato di Valtesse per le operazioni di dismissione SACE; – Comitato di Santa Lucia, per la dismissione di ex ENEL e comparto Ospedali Riuniti; – Comitato per gli orti di via San Tommaso; – in ambito Hinterland, l’iniziativa, positivamente conclusa dopo tanti anni di impegno, a supporto del mantenimento degli spazi agricoli periurbani interessati dalla attività della Cooperativa agricola e sociale Aretè di Torre Bordone, riconosciuta come esperienza esemplare a livello nazionale. Si può quindi concludere, credo, che la crescita qualitativa di Bergamo, della Grande Bergamo, è tutt’altro che questione dipendente, come alcuni superficialmente affermano, anche da impedimenti esercitati da gruppi di partecipazione dal basso. Avremmo già da tempo superato le remore che ci affliggono, che, come possiamo credo concordare, sono invece da cercare altrove, ed in particolare, come detto, nelle carenze di sinergia, compartecipazione e corresponsabilizzazione dei soggetti in gioco (ai vari livelli di responsabilità e ruolo), quando non addirittura nella latitanza di tali fattori. Carenze cui è urgentemente necessario porre rimedio, per una ecologia del territorio e delle stesse forme di esercizio della democrazia, ed anche delle professionalità. Lo stesso Urban Center, sviluppando quanto realizzato con le lodevoli iniziative di Iconemi, potrebbe svolgere in merito un ruolo significativo, di connessione delle esperienze e dei vari approcci ai temi sopra richiamati.


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NORME E PROFESSIONE NELLA PIANIFICAZIONE DEL PAESAGGIO

Iconemi è una delle poche virtuose iniziative a Bergamo che ci permette di ragionare sulle trasformazioni del paesaggio provinciale senza vincoli di appartenenza. L’Ordine degli Architetti PPC della Provincia di Bergamo è onorata di sostenere questa iniziativa che ogni anno si arricchisce di nuovi spunti di riflessione sui metodi e sui processi delle trasformazioni e sugli “altri sguardi” del paesaggio. ICONEMI in questi due anni ha consentito di riflettere, insieme ai cittadini, sulla consapevolezza della proprietà comune del paesaggio, inteso come luogo della sedimentazione della memoria collettiva, ossia riflessioni sul diritto di partecipare alle decisioni che modificano il paesaggio esercitando un diritto comune prevalente sui diritti privati della proprietà dei terreni oggetto delle trasformazioni. Quando mi hanno chiesto di partecipare a questa meravigliosa iniziativa in rappresentanza dell’Ordine degli Architetti di Bergamo, alla conferenza con il titolo “lo sguardo dell’urbanista - il governo del paesaggio: strumenti e regole, competenze e partecipazione”, mi è sembrato chiaro che all’Ordine degli Architetti ci eravamo dimenticati degli urbanisti, avendo soltanto incluso nella nostra lunga dicitura di ordine, i pianificatori, i paesaggisti e i conservatori, ma nulla avevamo stabilito sugli urbanisti. La figura professionale è stata riconosciuta dal nuovo ordinamento delle professioni, introdotta con il DPR 328 del 2001 che ha modificato l’Ordine degli Architetti e lo ha rinominato in Ordine degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori, in verità sarebbe più esattamente Pianificatore Urbanista. Probabilmente qualcuno ha pensato con l’introduzione del citato DPR che inserendo il termine pianificatore era più inclusivo, lasciando fuori il termine dell’urbanista, che era una definizione più classica ed identificava quasi esclusivamente il pianificatore della “URBE” (la città o più in generale l’insediamento umano) ed il suo sviluppo.

Ancora più singolare è stata l’introduzione di altre due categorie di architetti con questo DPR 328, i paesaggisti ed i conservatori, che hanno probabilmente colmato un vuoto di competenze, creando però una ambiguità. Non saprei se un paesaggista si occupi di pianificazione del paesaggio, non essendo un pianificatore e molto meno se un conservatore si potrebbe occupare della pianificazione di un intervento trasformativo in ambito urbano, poiché anche lui, non sarebbe un pianificatore. Non sono nemmeno certo, se con l’introduzione di questa riforma dell’ordinamento, un vecchio architetto o un vecchio urbanista possano occuparsi di conservazione, pianificazione o paesaggio, senza essere accusati di avere superato le loro competenze, nella realtà, sembrerebbe che non corrono questo rischio. Questa semplice riflessione sul termine dell’urbanista o dell’urbanistica, indica che molto probabilmente con l’allargamento dell’ambito di interesse professionale dell’urbanista oltre alla città, interesse che si è esteso al territorio più vasto, fino al “paesaggio non modificato dall’uomo”, ha consentito di includere nuove professionalità nei processi di pianificazione delle trasformazioni del paesaggio “in senso lato”, un tempo terreno di caccia riservato ad architetti e caso mai ad ingegneri. Sembra una riflessione farneticante… ma dopo 10 anni dalla introduzione del nuovo ordinamento, sarebbe una riflessione necessaria. Quello che attualmente mi pare chiaro è che troppe persone o troppe figure professionali si occupano della regolamentazione degli strumenti di trasformazione del paesaggio e pochi si occupano del paesaggio, ossia della produzione di manufatti, spazi o segni territoriali che appartengano a questi luoghi che esprimono la sedimentazione della memoria collettiva. La frammentazione specialistica della nostra professione sta producendo un’infinità di regole e vin-

* Architetto, Ordine degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Bergamo.


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CARLOS DE CARVALHO

coli, ma non produce il risultato atteso dai cittadini e ha fatto perdere le tracce di una parte essenziale del nostro mestiere, sia dell’urbanista che dell’architetto (arkhi-capo della tekton-tecnica), ossia la figura professionale che progetta e fa eseguire con le migliori tecniche possibili le trasformazioni del territorio o dei fabbricati, con una visione condivisa dai cittadini che abitano quei luoghi. La condivisione delle proposte di pianificazione, più prosaicamente declinata nel linguaggio del nostro mestiere come Urbanistica Partecipata, infatti, ha rivelato fino ad ora, l’inadeguatezza degli strumenti urbanistici nella difficile azione operativa e concettuale della condivisione con i cittadini delle strategie di trasformazioni dei loro territori. Molto probabilmente l’urbanistica essendo nata come disciplina che si occupa della regolamentazione e della pianificazione dei territori, difficilmente potrà essere conciliabile con la condivisione di una visione comune del territorio, schiacciata tra le necessità presenti degli operatori economici e la gestione delle continue emergenze dei processi di modifiche urbane, molte volte iniziati da altri in modo autonomo all’interno delle normative preesistenti. Nel nostro territorio dopo la “giungla senza norme” siamo attualmente nella “giungla delle norme”. I processi di trasformazione sono diventati lunghi, complessi e frammentari, sostenuti dalla continua variazione delle norme di riferimento e dal continuo cambio dei responsabili delle procedure, smarrendo nel percorso, il filo conduttore del concetto urbano che aveva consentito la trasformazione di quei luoghi. Attualmente le trasformazioni dei territori sorgono quasi sempre, come delle sorprese, sia per chi ci abita, sia per gli amministratori politici locali che dovrebbero governarle, la maggiore parte delle volte non si riesce neanche ad individuare chi aveva autorizzato in precedenza le modifiche di quei luo-

ghi. In alcuni casi, sembra ancora più difficile individuare chi dovrebbe portare le istanze dei cittadini nei luoghi preposti per le decisioni del governo del territorio, in modo da garantire la più ampia conoscenza e partecipazione nei processi di costruzione di un piano. In verità le leggi europee, come la direttiva 42/2001 impone ai piani di un certo rilievo territoriale la procedura di VAS (Valutazione Ambientale Strategica), prevedendo il coinvolgimento della comunità locale nell’analisi del territorio e nella definizione dei relativi vincoli; inoltre la direttiva 35/2003 sancisce la necessità di attivare processi di partecipazione territoriale per le decisioni urbanistiche. Sembrerebbe, ad un occhio distratto, che tutte le procedure di tutela sono già previste nella legislazione e quindi dovrebbero essere soltanto applicate. Invece l’unico problema reale è che l’urbanistica partecipata mal si concilia con la democrazia rappresentativa: sarebbe necessario applicare l’urbanistica partecipata con un sistema di democrazia partecipata, dove il cittadino consapevole decide direttamente del suo futuro, approvando o respingendo direttamente le iniziative di trasformazione urbana, come già succede in paesi come la Svizzera o la Germania, o con sistemi altrettanto democratici di iniziative concorsuali, che permettono di confrontare diverse soluzioni per un stesso problema urbano e consentono la massima trasparenza, informazione e divulgazione pubblica dei processi di trasformazione del territorio. Per approdare a questi sistemi innovativi di gestione del paesaggio nel nostro territorio, sono essenziali la formazione critica dei cittadini e la volontà politica dei loro rappresentanti. ICONEMI è senza dubbio uno dei migliori strumenti per la divulgazione e discussione dei nuovi metodi di conoscenza del territorio e delle relative politiche di gestione.


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LO SGUARDO DELL’URBANISTA: Il progetto di Cintura Verde nel nuovo PGT di Bergamo

INTRODUZIONE

L’APPROCCIO AL PAESAGGIO NEL PGT DI BERGAMO

Il Piano di Governo del territorio di Bergamo (PGT) assegna al progetto della Cintura Verde la concreta attuazione, nel disegno del Piano, del potenziamento del sistema ambientale e il generale miglioramento delle connessioni, della fruibilità e qualità degli spazi aperti della città. Un vero e proprio progetto ambientale che integra, collega, ricuce ed amplifica le speciali condizioni dei “vuoti urbani” per ottenere risultati altamente qualitativi e facilmente misurabili a favore della qualità del vivere e per rispondere in modo adeguato alla richiesta di spazi aperti per lo sport il tempo libero, all’interno di un sistema integrato di connessioni ambientali ed ecologiche che danno forma allo spazio aperto e ripensano il rapporto tra la città e il suo sistema urbano. Un progetto ambientale, di scala territoriale, che intende altresì promuovere un’attuazione della multifunzionalità dell’attività agricola finalizzata al miglioramento del paesaggio rurale e alla sua fruizione turistica, garantendo la funzionalità dei percorsi pubblici e di uso pubblico e delle relative attrezzature aperte di corredo: il territorio rurale è chiamato ad affiancare alla tradizionale produzione di tipo alimentare anche la “produzione” di servizi di interesse pubblico, in virtù degli aspetti paesaggistici, ambientali, culturali, storici, naturalistici che è in grado di esprimere.

“… il paesaggio, se sul piano delle analisi può essere considerato un tema tra i molti che il piano deve trattare, è invece presente verticalmente nelle determinazioni del piano, siano esse scelte localizzative, indicazioni progettuali, disposizioni normative, programmi di intervento o altro. Nulla di ciò che il piano produce è estraneo alla dimensione paesistica. Ciò sancisce la reciproca centralità del paesaggio nel piano e del piano nelle vicende del paesaggio”1. Nel PGT l’approccio al paesaggio2 e all’ambiente vuole porsi in modo adeguato alle sue stesse caratteristiche evolutive, pertanto non ha voluto limitarsi a misure vincolistiche e di mero divieto, ma ha cercato di restituire indicazioni e orientamenti nell’intento di svolgere un ruolo attivo in riferimento alle necessarie azioni di conservazione, potenziamento, riqualificazione e gestione delle sue componenti riproducibili, molte delle quali strettamente dipendenti dalla presenza umana. L’attribuzione di valore alle tipologie di paesaggio operata in sede di Piano è orientata dunque a scegliere in positivo le migliori opportunità per una conservazione sostenibile, anche in riferimento all’interesse socio-economico del territorio e dei suoi abitanti, mediante adeguati processi di pianificazione e di progetto3. Entro tale valore e significato vanno comprese le modalità di governo delle trasformazioni specificate nel Documento di Piano nei vari livelli di approfon-

* Comune di Bergamo. 1 Regione Lombardia, “Criteri attuativi L.R. 12/05 per il Governo del Territorio. Modalità per la pianificazione comunale”, “Allegato A) Contenuti Paesaggistici del PGT”, BURL n. 20 Edizione Speciale del 19 maggio 2006, Milano, p. 4. 2 Documento di Piano - relazione di piano DP0 cap. 3.2.3 - ll progetto del sistema ambientale e della Cintura Verde. 3 Il territorio nel PGT è inteso come sistema complesso, come luogo e prodotto della stratificazione della vita di una comunità e dell’ecosistema in cui essa è inserita, letto nelle sue valenze tridimensionali, a geometria variabile, secondo forme di organizzazione spaziale basate su logiche relazionali di tipo reticolare e sistemico, che considera il territorio comunale nella sua totalità e complessità, come parte che è in relazione con un sistema che deve contribuire a governare. Agire in modo sistemico significa considerare il territorio comunale principalmente nelle sue relazioni, significa abolire le contrapposizioni tra spazio urbano e spazio non urbano, appianando l’inconciliabile dicotomia tra i due ambiti, ripensandone le configurazioni spaziali e ridisegnando i tessuti periurbani.


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dimento, dalle letture critiche del /i paesaggi di riferimento, che si ritrovano negli elaborati interpretativi specialistici, alla rappresentazione degli obiettivi complessivi a carattere paesistico ambientale descritti nei singoli Ambiti Strategici4, sino a giungere all’esplicitazione dei cosiddetti schemi e criteri insediativi degli Ambiti di Trasformazione5, che svolgono il puntuale ruolo di una comune messa a fuoco dei caratteri qualitativi irrinunciabili che devono innervare le proposte di trasformazione del territorio. Questo costituisce la base per successivi approfondimenti da condursi su scale di maggior dettaglio e riferiti a tutti gli ambiti paesaggistici di interesse locale, approfondimenti che a loro volta implementeranno il complesso delle conoscenze, attraverso un percorso che auspichiamo possa consentire esiti di elevato livello qualitativo, partecipativo e culturale. In continuità con l’approccio del PRG SecchiGandolfi, anche il PGT è fondato sull’esigenza di andare a rileggere siti e contesti, di decostruirli e reinterpretarli attribuendo ai loro messaggi e linguaggi, spesso dimenticati, l’importanza di strumenti in forza dei quali ristabilire legami complessi tra gli abitanti, l’ambiente e i luoghi, gli spazi ed i tempi della città contemporanea6.

IL SISTEMA AMBIENTALE: IL PROGETTO DELLA CINTURA VERDE Le azioni paesaggistico-ambientali che il Documento di Piano propone si possono riferire a due categorie principali: il progetto del verde e del sistema ambientale urbano7 e le strategie e le azioni orientate alla promozione della qualità dello spazio antropizzato e naturale e degli ambiti di carattere storico e rurale.

La proposta progettuale per il sistema ambientale del PGT propone infatti il tema del verde con diverse declinazioni: – luogo attrezzato e fruibile, legato ad attività di gioco, sport e tempo libero: rientrano qui le tre grandi “stanze verdi” previsti nella fascia più esterna del territorio, ma anche i giardini individuati della parte centrale della città; – elemento di riequilibrio ambientale ed ecologico, per mitigare i fenomeni di inquinamento, per consentire lo sviluppo della biodiversità animale e vegetale, per attutire i rumori e gli impatti negativi delle infrastrutture della mobilità; – luogo dell’agricoltura, attività importante nelle politiche di salvaguardia e tutela del territorio, attraverso nuovi modelli di sviluppo agro-ambientale attenti alle specificità locali e alla salute dei cittadini (fig. 1). Il Piano dei Servizi persegue pertanto l’obiettivo della costruzione del Sistema ambientale attraverso la realizzazione non solo di spazi a verde fruibile e attrezzato, ma anche di spazi a verde avente valore ecologico, di connessione e di mitigazione ambientale8. Vengono infatti identificati come servizio (con la denominazione di “servizio ambientale”) le attività di miglioramento, manutenzione, gestione e implementazione delle varie tipologie di verde: tali interventi, anche qualora effettuati su aree private, contribuiscono infatti al miglioramento e all’implementazione della rete ecologica a scala urbana e alle opere di mitigazione e compensazione degli impatti delle infrastrutture esistenti e di progetto sul sistema ambientale urbano nel suo complesso (fig. 2). La cintura verde è un progetto ambientale che integra, collega, ricuce e valorizza i “vuoti urbani” della città a sud andandosi a saldare ad est con il

4 Gli Ambiti Strategici, nella costruzione del Documento di Piano, rappresentano quelle parti di territorio in cui si concentrano le risposte e le azioni volte a perseguire gli obiettivi strategici delineati. 5 Si tratta di parti di città obsolete o non più in grado di svolgere un ruolo adeguato per il generale funzionamento del sistema urbano per le quali il Piano prevede radicali cambiamenti, sia nelle forme fisiche, sia per gli usi che il nuovo ruolo assegnato chiamerà ad interpretare 6 “Il riconoscimento entro la città ed il territorio di parti, cioè di differenze e specificità, corrisponde al momento nel quale il nostro sguardo comincia (……….) a separare dallo sfondo oggetti rilevanti che riconosce e nomina come diversi. (……….) Ciò che dobbiamo fare è distinguere e nominare le differenti parti in base ai loro soli caratteri visibili, morfologici appunto; obbligarci alla descrizione, evitare di utilizzare termini che siano già essi stessi una spiegazione come città medioevale,rinascimentale, ottocentesca; come quartiere residenziale od industriale, bianco o nero, ricco o povero, borghese od operaio; come centro o periferia”. Secchi Bernardo, Urbanistica n. 82, Una nuova forma di piano, Febbraio 1986. 7 Il Documento di Piano è organizzato in base agli obiettivi strategici, agli indirizzi, alle politiche e alle azioni individuate dal PGT per i tre fondamentali sistemi urbani di riferimento: il sistema infrastrutturale, il sistema ambientale e il sistema insediativo. I primi due rappresentano gli elementi strutturali, di lunga durata, le due reti che condizionano la trasformazione della città e ne rendono possibile lo sviluppo in termini di qualità urbana e sostenibilità ambientale, costituendo l’armatura su cui il piano intende costruire il nuovo assetto urbano; il terzo è concepito quale ambito di costruzione della qualità urbana, attraverso il riconoscimento dei caratteri morfologici dei tessuti urbani e dei connotati tipologici, funzionali e paesistici del costruito e degli spazi aperti. 8 Piano dei servizi - Apparato Normativo - PS0b - Titolo II - Capo V - Il progetto dei servizi - art 18.10 - Verde (V).


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Fig. 1. PGT - Schema strategico - Sistema ambientale.

colle Canto e la Maresana, ad ovest con il promontorio della Benaglia e i Colli di Città Alta. Gli ambiti interessati dal PLIS (Parco Locale di Interesse Sovracomunale) si collocano nella “cintura sud” di Bergamo, in continuità col progetto ambientale della “Cintura Verde”, definito dal Piano di Governo del Territorio del Comune di Bergamo. Tale cintura avvolge da est a ovest la mezzaluna

meridionale del corpo urbano andandosi a saldare ad est con il colle Canto e la Maresana, ad ovest con il promontorio della Benaglia e i Colli di Città Alta, veri e capaci serbatoi di naturalità. Nel suo percorso da est ad ovest, il progetto ambientale della cintura verde intercetta, integra e porta a coerenza diversi fatti ambientali, insediativi e infrastrutturali importanti.


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Fig. 2. PGT - Sistema del verde - Classificazione e tipologie.


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Fig. 3. PGT - Gli elementi della cintura verde.

In particolare il progetto della cintura verde si compone del parco lineare e delle Stanze Verdi9

ambioentali e a manutenzione campestre, con una fruizione degli spazi aperti di tipo rurale.

Il parco lineare Il parco è costituito da un sistema di parchi pubblici urbani e di aree con valenza ecologica e ambientale (cunei verdi, varchi ecologici, fasce filtro) di particolare interesse naturalistico, connesse in un disegno lineare anche attraverso la creazione di una rete di percorsi ciclopedonali, e per favorire contestualmente la fruizione turistica e ambientale del territorio rurale perturbano.

La Stanza verde Parco della Martinella Si prevede la realizzazione di un grande parco naturale a vocazione ecologica caratterizzato dalla presenza del Torrente Gardellone, con una vegetazione di sponda di particolare interesse naturalistico, con fruizione degli spazi aperti di tipo ludico-ricreativo.

La Stanza Verde Parco della Trucca Si prevede la realizzazione di un grande parco a vocazione naturalistica caratterizzato da aree a verde estensive, dai connotati prevalentemente agro9

La stanza verde di Porta sud A nord un grande parco urbano, caratterizzato da spazi verdi fruibili per attività di tipo ludico – ricreativo – sportivo, di relazione con il contesto urbano, compenetrato con il Campus scolastico e gli spazi verdi aperti a vocazione fruitiva e nuovi giardini (fig. 3).

Piano dei servizi - Apparato Normativo - PS0b - Titolo II - Capo V - Il progetto dei servizi - art. 18.10.7 - Cintura Verde (V6).


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IL PLIS - PARCO LOCALE DI INTERESSE SOVRACOMUNALE “PARCO AGRICOLO ECOLOGICO” DI BERGAMO E STEZZANO Il PGT, come già evidenziato, individua e attribuisce grande importanza alle aree agricole presenti sul territorio, classificandole e cercando di proporre soluzioni utili alla salvaguardia delle attività agricole esistenti e al potenziamento della funzione di aree a valenza naturalistico-ambientale10. Le aree agricole presenti sul territorio comunale sono riconducibili a due ambiti di riferimento: l’ambito delle aree agricole di collina, caratterizzato principalmente dai terreni presenti nel Parco Regionale dei Colli di Bergamo, e quello delle aree agricole di pianura, localizzate prevalentemente ai margini a sud dell’edificato (fig. 4). È evidente come la parte più consistente delle aree agricole di pianura sia di fatto quella interessata dal PLIS, proprio perché l’Amministrazione, attraverso questo progetto, intende tutelare e valorizzare questo tipo di aree, che negli anni passati hanno subito più di altre forti pressioni edificatorie11. Facendo riferimento al concetto di “servizio ambientale” indicato precedentemente, si intende orientare il comportamento delle aziende agricole alla produzione di servizi per l’ambiente affinché un pagamento equo e paragonabile al reddito agricolo venga loro riconosciuto per le nuove produzioni di tipo ambientale, dando così luogo all’evolversi di un’agricoltura veramente multifunzionale e al servizio di altri settori di interesse pubblico che ne richiedono il lavoro. Il progetto del Parco Agricolo Ecologico rappresenta l’esito del lavoro attivato congiuntamente da tre enti territoriali (la Provincia, il Comune di Bergamo e il Comune di Stezzano) con l’obiettivo di focalizzare i convergenti interessi nell’azione di governo e valorizzazione di una parte peculiare del territorio intercomunale che si colloca tra il margine meridionale degli insediamenti di Bergamo, il Comune di Stezzano e il Comune di Azzano San Paolo. Il Parco, infatti, comprende un sistema territoriale ampio: margini urbani, corridoi infrastrutturali ed ampie aree libere. Questa complessa rete di relazio10

ni sviluppa le sue sinergie all’interno dell’ambito settentrionale della pianura bergamasca, delimitata ad Est dal fiume Serio e ad Ovest dal Brembo e dall’Adda. L’ambito all’interno del quale si svilupperà il Parco è caratterizzato dalla presenza di intense ed importanti relazioni che coinvolgono i sistemi insediativi urbani e le aree “libere” che, per le loro caratteristiche strutturali e morfologiche, sono interessate da fenomeni di decadimento da parte delle funzioni economiche, ambientali o sociali che le cingono. Questi eventi, a causa dello stretto contatto che si è venuto a creare tra gli spazi interstiziali della pianura e dei lembi di contatto con l’edificato, hanno destrutturato la primaria funzione agricola che lo connotava fino al recente passato. L’accelerazione dei fenomeni di trasformazione del territorio registrati a partire dall’ultimo ventennio, la recente attivazione di processi ripianificatori, sia a livello provinciale che locale, ha dato rilievo all’esigenza, alimentata anche dalla cittadinanza e dalle associazioni, di affrontare il tema della valorizzazione di tali ambiti. Il fine che ci si propone con l’attivazione di questi processi virtuosi di pianificazione concertata è quello di scongiurare il declassamento a mere “pause inedificate” delle aree intercluse tra poli insediativi e corridoi infrastrutturali. Le strategie comuni sottese sono: – difesa, conservazione, tutela del patrimonio del verde esistente, della biodiversità vegetale e animale e del sistema idrografico; – riqualificazione e potenziamento del sistema dei grandi parchi urbani; – valorizzazione e potenziamento delle connessioni di verde della rete ecologica alla scala locale; – riqualificazione e la valorizzazione delle aree e delle attività agricole esistenti sia riguardo agli aspetti produttivi (ad esempio filiere corte e metodi di coltivazione eco-compatibili) sia riguardo a quelli ambientali, paesaggistici, socio-culturali. Lo strumento per dare concreta attuazione al Parco Agricolo Ecologico è il Parco Locale di Interesse Sovracomunale (PLIS) recentemente riconosciuto12, ha avuto avvio grazie all’attivazione del Tavolo Interistituzionale tra la Provincia di Bergamo, il

In riferimento alle aree destinate all’agricoltura il Piano delle Regole deve assicurare un coerente disegno pianificatorio, anche sotto l’aspetto della sostenibilità complessiva della programmazione territoriale comunale. Il Piano delle Regole riconosce all’agricoltura anche il ruolo di matrice di paesaggio e ne individua gli elementi e i manufatti antropici da preservare e valorizzare verso una loro maggiore fruibilità. 11 Piano dei servizi - Apparato Normativo - PS0b - Titolo II - Capo V - Il progetto dei servizi - art 18.10.8 - Parco agro-ambientale (V8). 12 Il PLIS, denominato “Parco Agricolo Ecologico”, è stato riconosciuto con del. GP del 20.06.2011 n. 292 Reg. Del. e successiva pubblicazione sul BURL del 16.11.2011. In seguito all’avvenuto riconoscimento sono state determinate le modalità di pianificazione e di gestione del PLIS con Det. Dirig. Della Provincia di BG n. 2422 Reg. Det. del 6.09.2011.


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Fig. 4. PGT - Ambiti agricoli.

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Fig. 5. Connessioni e relazioni a scala sovra locale.

Fig. 6. CittĂ -Campagna: incontro


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Comune di Bergamo e il Comune di Stezzano. Sussidiario all’azione degli enti territoriali è stato l’apporto del Comitato per il Parco Agricolo che ha permesso di valutare il progetto anche in relazione alle ricadute ecologico-sociali. I connotati agricoli del Parco assumono significato per la presenza di numerose aziende agricole ancora in attività, che danno un significato produttivo e divengono occasione di valorizzazione per l’intero territorio. Fra gli obiettivi del Parco vi è il coinvolgimento diretto nella gestione e nella promozione dello stesso. L’area del Parco Agricolo Ecologico possiede una particolare valenza ambientale e paesaggistica: costituisce una spina verde di penetrazione che, in un contesto densamente urbanizzato e infrastrutturato, garantisce continuità degli spazi aperti dalla pianura fin dentro il tessuto della città. Rispetto al sistema delle aree protette l’area si connette a sud con il “PLIS del Morla e delle rogge”, già riconosciuto ed attivato, a nord con il sistema orografico dei colli attraverso lo sperone della Benaglia avamposto del Parco Regionale dei Colli di Bergamo, il Parco del nuovo ospedale di Bergamo, i sistemi verdi di connessione tra quest’ultimo e il Parco Ovest. Verso ovest il rapporto con il PLIS del Basso Brembo risulta aperto, pur con qualche elemento di frammentazione, attraverso il corridoio posto tra gli abitati di Dalmine e di Treviolo. Infine, il rapporto con il Parco Regionale del Serio, agganciato dal “PLIS del Morla e delle Rogge” all’altezza di Zanica, è rafforzabile grazie alla connessione con gli intorni dell’area dello scalo aeroportuale di Orio al Serio, oggetto di programmi di potenziamento della dotazione verde da parte dell’Ente Regionale ERSAF13. Uno sguardo a scala più ampia ci permette di percepire immediatamente la vocazione intercomunale del progetto di questo PLIS e la sua importante funzione di “spina verde” fra i tessuti ormai altamente urbanizzati dell’area periurbana di Bergamo. Fondamentali sono anche le connessioni che si vengono a creare tra diversi sistemi ambientali, dai par13

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chi lineari urbani agli altri PLIS esistenti, al Parco Regionale dei Colli di Bergamo, fino ai Parchi Fluviali del Serio e del Brembo. Proprio in questo senso che il PLIS gioca un ruolo di primo piano all’interno del progetto di messa a sistema della rete ecologica provinciale (fig. 5).

DALLE STRATEGIE ALLE AZIONI Il Piano dei servizi e lo strumento per dare concreta attuazione al progetto ambientale del piano: attraverso gli ambiti di trasformazione per i quali si propone l’attuazione del modello perequativo14, si provvederà ad acquisire, attrezzare e valorizzare le aree della “Cintura Verde” e dei grandi parchi per rispondere in modo adeguato alla richiesta di spazi aperti per lo sport il tempo libero, all’interno di un sistema integrato di connessioni ambientali ed ecologiche che danno forma allo spazio aperto e rimodulano il rapporto tra la città e il suo sistema urbano. Nell’attuazione di questo progetto di ampio respiro (sia spaziale che temporale), il Piano dei Servizi rappresenta dunque lo strumento determinante per restituire al Piano la capacità di programmazione di scelte coerenti e funzionali al governo del territorio, per la realizzazione concreta di nuovi spazi urbani di qualità (non solo ambientale) (fig. 6). Con queste finalità, in coerenza con le previsioni del Documento di Piano, la sinergia con il Piano Triennale delle Opere Pubbliche diventa in questo senso condizione necessaria e indispensabile, al fine di non disperdere le sempre più esigue risorse disponibili (in termini di investimento). La fattibilità economica dei progetti e la realizzazione della Città Pubblica, così come dichiarata nei documenti strategici e di indirizzo approvati dall’Amministrazione e condivisi con la città nel processo partecipativo, viene quindi garantita dall’integrazione tra questi strumenti di pianificazione, programmazione e attuazione. Questo a significare quale nuovo e importantissimo ruolo può assumere, anche nell’attuale contesto

ERSAF - Ente Regionale per i Servizi all’Agricoltura e alle Foreste. La compensazione perequativa è un nuovo strumento introdotto dal Piano di Bergamo per garantire la concreta attuazione delle scelte progettuali: si tratta di un modello strategico-compensativo, applicato alla realizzazione degli obiettivi strategici di valenza pubblica ed integrato da modalità compensative derivanti dall’attuazione degli Ambiti di Trasformazione. Il modello proposto di compensazione perequativa è fondato sulla cessione compensativa gratuita delle aree che generano diritti edificatori virtuali (chiamate aree di decollo) alle quali viene applicato l’indice di edificabilità trasferibile negli Ambiti di Trasformazione (chiamate aree di atterraggio) ai quali è indicata l’attivazione di tale meccanismo quale condizione necessaria per l’attivazione della trasformazione prevista. La quota di aree cedute gratuitamente sarà destinata al recupero dei servizi pregressi per l’intera città (registrati dal quadro dell’offerta pregressa e da quello dei bisogni elaborati dal Piano dei Servizi) e al soddisfacimento di altre necessità pubbliche, emergenti dalle indicazioni di tale strumento. 14


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di incertezza economica globale, la capacità di gestione del Piano urbanistico e, soprattutto, la costruzione dei processi di attuazione delle scelte strategiche individuate negli strumenti di governo della città e del territorio: un ruolo di indirizzo e di coordinamento, oltre che una importantissima funzione di controllo (di coerenza e qualità) nell’attuazione dei progetti di intervento derivanti da tali scelte strategiche. E infine, ultimo ma senza dubbio più concretamente verificabile, un ruolo di responsabilizzazione dei livelli istituzionali (e non) nel governo dei processi di trasformazione urbana e territoriale, allo scopo di ottimizzare al meglio le (poche) risorse oggi disponibili per restituire competitività e qualità di vita alla realtà urbana in cui viviamo, tutti, ogni giorno.

Bibliografia Bergamo il Piano di Governo del Territorio, dicembre 2010. http://territorio.comune.bergamo.it/PGTapprovato

AA.VV., Il PGT di Bergamo, Urbanistica n. 144, INU Edizioni, Roma 2010. Con contributi di: GIORGIO CAVAGNIS, GIANLUCA DELLA MEA, MARINA ZAMBIANCHI, Strategie e progetti urbani per uno sviluppo sostenibile; VALTER GROSSI, Bergamo città europea; ANDREA PEZZOTTA, Un nuovo piano per Bergamo; BRUNO GABRIELLI, Dai vuoti urbani al progetto ambientale della Cintura Verde; AURELIO GALFETTI, Il consulente architettonico nell’elaborazione dei nuovi strumenti di pianificazione comunale; GIORGIO CAVAGNIS, Sostenibilità ambientale e attuazione degli interventi; SILVIA PERGAMI, Standard qualitativo e premialità; FORTUNATO PAGANO, Scelte perequative e compensative al servizio della pianificazione; SILVIA PERGAMI, Elementi di innovazione nel Piano delle Regole del PGT di Bergamo; ANDREA CALDIROLI, Elaborazioni e gestione del PGT: alcune riflessioni operative; MARINA ZAMBIANCHI, Il progetto della nuova città pubblica: dai bisogni alle azioni; GIANLUCA DELLA MEA, Residenza e nuovi abitanti: una strategia per l’abitare; SERENA TRUSSARDI, Indicatori e monitoraggio nell’attuazione degli interventi; MARINA ZAMBIANCHI, Comunicazione e partecipazione nel processo di costruzione del PGT; SILVIA PERGAMI, ALESSANDRO SANTORO, L’esperienza dell’Ufficio di Piano.



Finito di stampare nel mese di settembre 2012


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