Università degli Studi di Bergamo - Centro Studi sul Territorio “Lelio Pagani”
QUADERNI 31
ICONEMI alla scoperta dei paesaggi bergamaschi
2019 CIAM: Comunità, Impegno, Ambiente, Mondo Idee di territorio 70 anni dopo
BERGAMO UNIVERSITY PRESS
sestante edizioni
Università degli Studi di Bergamo - Centro Studi sul Territorio “Lelio Pagani”
QUADERNI 31
2019 CIAM: Comunità, Impegno, Ambiente, Mondo Idee di territorio 70 anni dopo
a cura di Fulvio Adobati, Maria Claudia Peretti, Marina Zambianchi
BERGAMO UNIVERSITY PRESS
sestante edizioni
Con il contributo
Comune di Bergamo
Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Bergamo
Ordine degli Ingegneri della Provincia di Bergamo
Iconemi è un’iniziativa promossa dal Comune di Bergamo con il Centro Studi sul territorio Lelio Pagani dell’Università di Bergamo. Ideazione: Maria Claudia Peretti Coordinamento generale: Marina Zambianchi Coordinamento scientifico: Fulvio Adobati Organizzazione e segreteria: Renata Gritti Progetto grafico: Francesca Perani Enterprice Sviluppo web: Studioand
© 2020, Bergamo University Press Collana fondata da Lelio Pagani, diretta da Emanuela Casti ICONEMI 2019. 2019 CIAM: COMUNITÀ, IMPEGNO, AMBIENTE, MONDO. IDEE DI TERRITORIO 70 ANNI DOPO a cura di Fulvio Adobati, Maria Claudia Peretti, Marina Zambianchi p. 96 - cm. 21x29,7 ISBN – 978-88-6642-353-9
www.iconemi.it
F In copertina: Immagine di Francesca Perani. Tutta la documentazione delle edizioni di Iconemi è rintracciabile nel sito www.iconemi.it: ogni anno vengono prodotti gli atti dei cicli di conferenze, sia in forma cartacea che in forma digitale. La distribuzione/consultazione è gratuita.
INDICE
Introduzione ....................................................................................................................................
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MARIA CLAUDIA PERETTI 2019 – CIAM: Comunità, Impegno, Ambiente, Mondo. Idee di Territorio 70 anni dopo il Congresso di Bergamo del 1949 ..............................................
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FULVIO ADOBATI Fuori dallla comfort zone ................................................................................................................
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CARLO SALONE Oltre le retoriche del degrado e del decoro: esperienze di riuso adattivo nella città contemporanea ...................................................................................
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GIOVANNI SEMI Appunti sulla nuova forma delle disuguaglianze urbane post Covid ............................................
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MATTEO COLLEONI - GRETA SCOLARI Mobilità e accessibilità nelle città contemporanee .........................................................................
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MARGHERITA CISANI Oltre distanze e accessibilità: incontri e frizioni tra paesaggi e movimento .................................
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RENATA GRITTI Comunità e Identità: tra ‘bene comune’ e ‘appartenenza’ .............................................................
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JOHNNY DOTTI Comunità e Identità – Bergamo .....................................................................................................
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FEDERICA BURINI Superare le forme di frammentazione urbana: processi partecipativi e mapping dinamici per il recupero dei bisogni degli abitanti ......................................................
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DANIELE MEZZAPELLE Interno-esterno, sopra-sotto, dentro-fuori. Partizioni e spazi dialogici del Moderno ..................
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ALESSANDRO COPPOLA La città delle piccole sovranità .......................................................................................................
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FRANCESCO MAZZUCOTELLI L’araba fenice: ricostruzioni ed eterotopie in Libano ....................................................................
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EMANUELE GARDA Un nuovo ruolo per gli spazi urbani sottoutilizzati tra sottrazioni e permeabilità .......................
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L’archivio di Iconemi ......................................................................................................................
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Introduzione
Iconemi nasce come attività dell’Urban Center, con l’obiettivo di creare un dibattito attivo e fertile tra i diversi codici di lettura, verso una percezione allargata e condivisa, basata sulla consapevolezza della complessità dei paesaggi contemporanei. Nasce dalla passione per il paesaggio, con l’intento di incrociare e mettere a confronto sguardi diversi e pluridisciplinari. E nasce come cooperazione tra il Comune – l’ente che governa e amministra la città – e l’Università – l’ente che insegna i saperi e prepara le nuove generazioni. Dal 2010 Iconemi si ripete annualmente: quella del 2019 è stata la decima edizione. Nel corso di 10 anni,ogni ciclo è stato dedicato a un tema monografico scelto per la sua attualità: per 10 anni Iconemi ha costruito un calendario di incontri gratuiti e aperti a tutti, tenuti da esperti di varie discipline che si sono incontrati a Bergamo, portando le loro esperienze e i loro contenuti da studiosi e da operatori del territorio. Ogni volta dentro Iconemi il locale ha incontrato il globale: la facilità di costruire reti è uno dei grandi vantaggi di questa fase storica. Possiamo collegarci e capire esperienze geograficamente distantissime, prendendo il meglio del mondo per farne una sintesi nostra. La distanza non è più geografica, è tra codici, tra specialismi: in questo senso possono esserci abissi profondi che separano gli abitanti della stessa città. Servono momenti di sintesi, di incontro e conoscenza delle differenze: servono momenti di approfondimento e di rispetto della complessità. Servono piazze fisiche e virtuali dove sia possibile capire il punto di vista degli altri, entrandoci dentro in un clima di rispetto e di arricchimento reciproco. Iconemi, per 10 anni, è stata una di queste piazze. I temi affrontati nelle diverse edizioni sono stati i seguenti:
2010
Quali sono i punti notevoli della nostra città e della nostra provincia? Quali sono gli elementi, i nodi, le situazioni nelle quali si concentra e riassume il genius loci del nostro paesaggio? Cosa mostreremmo a un viandante di passaggio alla ricerca di bellezza e incontri memorabili? Accanto alle bellezze già riconosciute e celebrate, ai luoghi ormai’comuni’ quali sono i paesaggi inediti, ancora non messi a fuoco, ancora da scoprire?
2011
Città – Campagna. Incontro o scontro? Dove inizia e dove finisce la campagna? Qual è il limite tra il luogo dove abitiamo e il territorio non edificato? Quali sono gli elementi che caratterizzano il paesaggio al confine dei centri urbani? I temi da valorizzare, quelli da aggiungere e quelli da eliminare? Esiste ancora questo confine?
2012
Paesaggi della sostenibilità. Come i nuovi bisogni, le nuove tecnologie e le nuove energie trasformano i luoghi e il nostro modo di viverci e di concepirli.
2013
Nuovi paesaggi verso smart city. La città sensoriale, partecipativa, ecologica.
2014
Alimentare i paesaggi/ i paesaggi dell’alimentazione. Nuovi sguardi verso Expo 2015.
2015
Paesaggi abitati. Prove di città e di cittadinanza. Agricoltura per la rigenerazione sociale e territoriale.
2016
Paesaggi della creatività. L’arte pubblica per la rigenerazione sociale e territoriale.
2017
Eventi: la città nella dimensione del transitorio. Effimero e permanenze nei paesaggi contemporanei.
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2018 2019
INTRODUZIONE
Luoghi: la città che è, la città che sarà. Riflessioni tra cronaca e storia. CIAM – Comunità Impegno Ambiente Mondo. Idee di territorio 70 anni dopo. Tutta la documentazione delle edizioni di Iconemi
è rintracciabile nel sito www.iconemi.it: ogni anno vengono prodotti gli atti dei cicli di conferenze, sia in forma cartacea che in forma digitale. La distribuzione/consultazione è gratuita.
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MARIA CLAUDIA PERETTI
2019 – CIAM: COMUNITÀ, IMPEGNO, AMBIENTE, MONDO. IDEE DI TERRITORIO 70 ANNI DOPO IL CONGRESSO DI BERGAMO DEL 1949
Settant’anni fa, tra il 23 e il 31 luglio, Bergamo – unica città italiana ad averlo fatto – ha ospitato una comunità internazionale di architetti per discutere di territorio e di città. Era la VII° edizione del CIAM (Congrès Internationaux d’Architecture Moderne), la settima tappa di un percorso iniziato nel 1928 a La Sarraz, messo in moto da un’avanguardia ristretta di architetti-pensatori spinti dal bisogno di incontrarsi per rinnovare la loro disciplina, sollecitata dalle trasformazioni profonde che in quegli anni stavano avvenendo. (1) Con l’orgoglio del proprio ruolo, in un mondo squassato dalla tragedia delle due guerre mondiali, i CIAM si proponevano di progettare ‘la modernità’, sottolineando l’importanza e la centralità dell’urbanistica e dell’architettura nella soluzione dei problemi sociali. L’idea di fondo era quella del progresso come cammino in avanti verso un futuro migliore, della modernità non come dogma assoluto e immodificabile, ma come progetto che richiede una continua interpretazione e riattualizzazione: prima dello scioglimento avvenuto nel 1959, i partecipanti alle 11 edizioni dei CIAM misero a punto un corpus di ragionamenti che, nei decenni del secondo dopoguerra, sarebbe diventato un riferimento imprescindibile nel modo di pensare al territorio. Alcuni temi individuano l’eredità dei CIAM intorno a cui le consapevolezze maturate nei pochi anni che ci separano dalla fine di questa esperienza, ci invitano maggiormente a riflettere. Li riassumo di seguito: 1. La convinzione che lo spazio sia tendenzialmente isotropo ed omogeneo, ovunque e in tutte le direzioni e per questo assoggettabile a un ordine assoluto e universale astratto dalla specificità dei luoghi e soprattutto dalla complessità della stratificazione storica, fatta di sovrapposizioni e di
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ibridazioni, incompatibile con le esigenze e i ritmi della città industriale e della civiltà delle macchine: in altre parole la concezione del territorio come entità misurabile e organizzabile attraverso parametri quantitativi e geometrici. (2) L’idea che la città sia fatta di funzioni catalogabili: abitare, lavorare, circolare, svagarsi (3) e che queste funzioni possano essere separate, con l’obiettivo di eliminare i conflitti che la loro sovrapposizione genera. La centralità dello standard come strumento per regolare i rapporti tra le parti di un sistema territoriale, con l’obiettivo di mantenere un equilibrio tra bisogni e interessi che spesso non solo non convergono, ma confliggono, consentendo una convivenza plurale di soggetti differenti. Attraverso lo standard il concetto di interesse pubblico ha assunto nella città moderna del secondo dopoguerra, una forma oggettiva traducibile mediante un calcolo quantitativo in metri quadrati, metri cubi, numero di piani... L’idea ( riassunta nella famosa icona lecorbuseriana del modulor ) che non solo lo spazio, ma anche gli abitanti siano riconducibili a tipizzazioni stereometriche e a codificazioni universali dei loro bisogni e dei loro desideri: l’enunciato “o architettura o rivoluzione”(4) ben esprime la convinzione di poter controllare la polis prevenendo i conflitti sociali con una città ordinata e ben organizzata dal punto di vista fisico e geometrico. L’idea che l’architettura possa esprimersi attraverso una lingua internazionale e transfrontaliera, un esperanto globale capace di superare gli idiomi locali e le loro differenze: la ricerca di un linguaggio universale è alla base della Grille utilizzata nel CIAM del 1949 a Bergamo (5), cioè di uno strumento finalizzato a definire contemporaneamente le modalità di presentazione e i contenuti del progetto urbano, il ‘come’ e il ‘cosa’ comunicare, verifica e guida metodologica per inquadrare i vari aspetti di una disciplina – analisi,
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MARIA CLAUDIA PERETTI
sintesi, rappresentazione. La Grille riassume lo sforzo enorme fatto dai CIAM per rifondare nel suo complesso il pensiero sulla città, la sua sintassi, i suoi codici e le sue convenzioni. Intorno a questi assunti su cui si è fondata l’elaborazione dei CIAM siamo in grado, nel presente, di formulare ragionamenti divergenti, misurati sulla verifica degli esiti che sono derivati dalla loro applicazione effettiva, anche attraverso le frequenti banalizzazioni e distorsioni che hanno caratterizzato le prassi attuative diffuse negli anni del grande boom edilizio. Tra le divergenze più evidenti emerge l’attuale consapevolezza che quando si parla di territorio ci si riferisce a uno spazio anisotropo, tutt’altro che omogeneo, ma ricco di peculiarità determinate dall’interazione nel tempo e con cicli imprevedibili di geografia e di storia. La crescita esponenziale che negli ultimi due decenni hanno avuto la cultura del patrimonio storico e quella del paesaggio, intrecciata con l’affermarsi della coscienza ecologica generata dalla crisi ambientale, testimonia di una nuova sensibilità indirizzata a mantenere e proteggere le differenze piuttosto che ad estrarre una tipicità astratta e universale. Il buon progetto territoriale contemporaneo si pone l’obiettivo di tutelare le specificità dei luoghi: si configura come processo multidisciplinare di indagine e conoscenza approfondita finalizzato al rispetto delle identità paesaggistiche, ambientali e sociali, in un’idea di territorio in cui la componente immateriale è determinante almeno quanto quella materiale. (6) Sul tema delle funzioni urbane c’è stata una profonda ridiscussione dell’assunto che si possano separare e classificare: sono infatti evidenti gli esiti negativi dei decenni di funzionalismo rigido che hanno portato alla creazione dei quartieri dormitorio e dei centri terziari disabitati, entro un modello di sviluppo sbilanciato e asimmetrico. Il tema della mixitè è diventato un mantra inevitabile quando si progetta oggi la trasformazione urbana cercando di prevenire il fallimento socio-economico dei nuovi insediamenti. È un tema complicato intorno al quale si stanno sperimentando approcci anche molto diversi tra di loro: – per esempio quello di progettare accuratamente la mixitè attraverso una regia pubblica molto forte capace di controllare e imporre la miscela migliore delle funzioni all’interno delle nuove città e in particolare dei loro piani terra; il progetto di Hafencity ad Amburgo è tra gli esempi più significativi di questo approccio. (7)
– o quello invece di liberalizzare il più possibile gli usi, eliminando i lacci e i laccioli che vincolano la libertà delle trasformazioni d’uso imposta dalle logiche cangianti del mercato e delle sue trasformazioni sempre più veloci e imprevedibili: anche la città di Bergamo, per fronteggiare lo svuotamento del centro urbano, con la variante n. 10 al PGT è andata nella direzione di una maggiore liberalizzazione delle destinazioni d’uso dei piani terra. (8) Controllo forte da una parte, esercitato con forme di gestione dei singoli processi trasformativi nell’arco del tempo; liberalizzazione dall’altra, con la riduzione e l’alleggerimento delle ingerenze burocratiche che condizionano gli assestamenti continui delle città. Tra i due estremi, diverse forme intermedie. Anche sul tema dello standard (9) c’è stato un salto concettuale molto forte, che ha portato via via negli ultimi due decenni all’introduzione del concetto di standard qualitativo, cioè da misurare e individuare non a priori, in modo automatico e sempre uguale, ma di volta in volta, in funzione di un concetto di interesse pubblico che si sposta molto rapidamente e di una lettura molto più attenta delle specificità e delle differenze che caratterizzano il territorio. Usando le categorie dell’industria della moda, è lo spostamento dal prèt-à-porter alla sartoria su misura, calzata su corpi peculiari; usando le categorie della linguistica è lo spostamento dall’esperanto globalizzato al dialetto localizzato. Il passaggio da un approccio quantitativo ad uno qualitativo accompagna il passaggio dalle politiche dell’espansione, finalizzate alla crescita per allargamento e aggiunta, alle politiche della rigenerazione, mirate sull’obiettivo di migliorare ciò che già esiste. Di certo, nella pianificazione basata sugli standard quantitativi dei decenni della grande crescita, ci sono almeno due distorsioni che hanno contribuito alla negatività dei pessimi risultati ampiamente diffusi: – La prima è quella della monetizzazione che, da possibilità utilizzabile soltanto in pochi casi, è diventata invece un’ applicazione costante, che ha alimentato la concezione del territorio come ‘fabbrica’ di moneta da cui attingere risorse per il funzionamento della macchina pubblica nel suo complesso; – La seconda, strettamente collegata, è quella che ha portato alla prassi di barattare una risorsa preziosa e non rinnovabile come il suolo agricolo e in generale inedificato in cambio di denaro: dal concetto iniziale e per molti versi progressista del: “tu priva-
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to puoi costruire per il tuo interesse singolo se in cambio dai un contributo per realizzare la città pubblica” al concetto capovolto: “per realizzare la città pubblica, c’è bisogno che tu privato costruisca per il tuo interesse singolo”. Lo strumento dello standard si è così trasformato in un grimaldello nefasto che, entro una visione di orizzonti brevi, legati all’arco temporale del lustro amministrativo e alla debolezza gestionale di enti locali spesso disarmati dal punto di vista delle capacità di visione allargata ha contribuito a distruggere un valore non riproducibile da cui dipende il futuro. E ancora: entro questi meccanismi attuativi lo spazio pubblico ha perso il ruolo di ‘matrice fondativa’ di una città intesa come organismo unitario, per diventare un insieme di frammenti residuali di una città intesa come sommatoria di particolarismi e singolarità. L’introduzione dello standard qualitativo accompagna lo spostamento dell’idea di pianificazione verso l’idea di programmazione in cui diventa prioritario dimostrare la sostenibilità complessiva delle risorse in campo: dal ‘piano’ inteso come forma rigida e atemporale degli scenari possibili, al ‘programma’ inteso come gestione di un processo specifico in un arco di tempo definito. La rigenerazione urbana è discrezionale, agile, strategica. Emerge forte un’altra differenza tra la città contemporanea e la città dei CIAM ed è la nuova centralità assunta dagli abitanti come soggetti attivi delle politiche territoriali. Cresciuto in parallelo all’evidenza della crisi che stiamo attraversando, ambientale, economica e sociale, il tema della ‘partecipazione’ attraversa tutti gli altri, sollecitando il ridisegno in profondità dei sistemi di rappresentanza e intermediazione della polis. Affrontarlo vuol dire interrogarsi su questioni che il modello di sviluppo nel quale siamo immersi ha ampiamente rimosso negli ultimi decenni, sulla trasformazione antropologica degli stili di vita, sui diritti di cittadinanza, sul senso del coabitare il proprio ecosistema e, contemporaneamente, l’insieme di tutti gli altri, il pianeta. Dalla Conferenza di Rio (1992) in poi con l’istituzione delle Agende 21, tutti gli atti, i protocolli, le carte che sono state prodotte a livello internazionale ed europeo, (a partire dalla Convenzione europea del Paesaggio e dalla Convenzione di Faro) assumono tra i pilastri fondativi di un modello di sviluppo sostenibile, la partecipazione attiva di chi abita den-
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tro gli ambienti e dentro i paesaggi e abitandoci esercita quotidianamente nel bene e nel male la propria percezione e la propria azione trasformativa. Partecipazione è uno strumento fondamentale per poter attuare, da qualsiasi punto lo si affronti, il progetto della resilienza, ovvero della capacità di intraprendere quei processi adattativi che consentono alle comunità di riorganizzarsi per superare le difficoltà dovute a fattori di cambiamento traumatico e urgente. Parlare di partecipazione vuol dire fare in modo che chi abita un luogo possa capire, possa avere gli elementi per mettere a punto un’ opinione consapevole, possa sentirsi parte attiva di una comunità, esprimere i suoi bisogni e i suoi desideri, le sue proposte, insomma possa appartenere alla dimensione della cittadinanza attiva, togliendosi da quella passiva e frustrante del modulor tipizzato portatore di bisogni e desideri uniformi. Tutto ciò pretende un cambiamento sostanziale dei ruoli e delle modalità attraverso cui il progetto territoriale ha preso forma negli ultimi decenni: – l’architetto/a non disegna più oggetti, ma processi, non è un demiurgo/a che impone una sua visione, ma il/la componente di un team multidisclinare che partorisce visioni collettive capaci di attivare dinamiche sociali e ambientali intergenerazionali. – le amministrazioni non svolgono più un ruolo di verifica formale e quantitativa: attuano nuove modalità di informazione, coinvolgimento, comunicazione, regia dei processi. La pianificazione del territorio si appoggia a percorsi continui di ascolto e di scambio. – i cittadini devono farsi carico di una nuova cultura della cittadinanza attiva, capace di superare la polverizzazione degli interessi e delle prospettive individuali, in una logica di comprensione delle differenze e di cooperazione. È una sfida complicatissima: nello studio condotto nel 2018 dall’Università Bicocca di Milano per analizzare i rapporti tra vulnerabilità sociale e resilienza in Regione Lombardia, tra gli indicatori che misurano la capacità di un sistema sociale di fare fronte ai fattori di rischio dei territori vengono evidenziati l’età e il livello di istruzione delle popolazioni. In sintesi, popolazioni vecchie e con basso livello di scolarizzazione sono molto più in difficoltà nel fornire risposte resilienti ai problemi posti dalla crisi in corso. (10) C’è quindi un conflitto pesante tra l’andamento di trends per invertire i quali servono politiche di lungo periodo (demografia, tasso di scolarizzazione) e fenomeni come i cambiamenti climatici, che invece pretendono soluzioni urgenti, in tempi molto brevi.
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MARIA CLAUDIA PERETTI
Fig. 1. Graffiti per la contestazione del G20 ad Amburgo.
Siamo a una soglia storica che ci richiede uno sforzo di ridefinizione generale del pensiero e della progettualità. Radicale come fu quello dei CIAM quando, decenni fa, si posero l’obiettivo di riprogettare la modernità. Ancora più pressante, perché il riequilibrio degli habitat non è un’opzione tra le altre, è l’unica possibile. Rispetto al CIAM è necessario elaborare un nuovo glossario per raccontare e pensare il territorio contemporaneo (11): la nuova narrazione deve esprimere la cultura della complessità in linea con le attuali certezze scientifiche, da un modello deterministico, galileiano e antropocentrico basato sul mito della prevedibilità e del controllo totale, a un modello che accetti la contingenza, l’imprevedibile, la singolarità e il caos come fattori che agiscono in maniera determinante negli esiti della realtà. I fenomeni di trasformazione territoriale che attraversano il mondo contemporaneo, pur con forti differenze tra un punto e l’altro del pianeta, evidenziano caratteristiche comuni: aldilà delle declinazioni specifiche e dei filtri e contrappesi che i singoli contesti sociopolitici riescono ( spesso faticosamente) a mettere in atto, il capitalismo globalizzato agisce con logiche e meccanismi che stanno mettendo radicalmente in discussione equilibri fondamentali per la sopravvivenza degli ecosistemi abitati e di quelli naturali. (12) Rispetto alle nuove forme drammatiche di povertà e diseguaglianza e ai brutali processi di ‘espul-
sione’ sociale e ambientale (Sassen 2014) messi in atto dalle ‘formazioni predatorie’ (ib. ) che agiscono nel mercato globalizzato è urgente e indifferibile costruire argini e rimedi forti. C’è un filo velenoso che collega l’impoverimento dei ceti medi dei paesi ricchi, la cacciata dei contadini dalle loro terre accaparrate per l’estrazione di materie prime nei paesi poveri, i campi rifugiati che li confinano a milioni, le pratiche minerarie che, dalla Russia agli Stati Uniti all’Africa, stanno distruggendo interi ecosistemi: quello che è importante evidenziare è che il territorio, le sue politiche e le sue forme non sono affatto sfondi neutri rispetto all’attuazione di questi fenomeni, bensì sono gli assi portanti delle nuove forme di squilibrio insostenibile. Le domande a cui dobbiamo fornire risposta sono molte. Come riequilibrare il rapporto tra i pochi centri urbani sempre più attrattivi e le porzioni sempre più estese di territori marginalizzati? Come ridisegnare il confine tra ISTITUZIONI e CITTADINI, tra governanti e governati, tra chi sta dentro e chi sta fuori, tra chi sta in alto e chi sta in basso ? Come accogliere le pressanti istanze di PARTECIPAZIONE e di AUTORGANIZZAZIONE, trasformando l’attitudine al conflitto tra individualismi (che distrugge e blocca) in progettualità costruttiva? Come è cambiata l’idea di ‘ACCESSIBILITÀ’ negli ultimi decenni?
2019 – CIAM: COMUNITÀ, IMPEGNO, AMBIENTE, MONDO
Rispetto alla rivoluzione degli stili di vita, dall’HAVING al BEEING al DOING? Rispetto alle nuove distanze tra generazioni? E alle nuove forme di ANALFABETISMO funzionale? Come si è trasformata la richiesta di SERVIZI e come sta evolvendo il concetto di WELFARE? Come ridisegnare il welfare rispetto alle evidenze del TREND DEMOGRAFICO e alla riduzione crescente delle RISORSE PUBBLICHE? Come rispondere al fallimento del modello dell’alloggio ‘condominiale’ e al fenomeno della solitudine urbana? Quale forme dare all’abitare inteso come sistema di relazioni umane, come ‘COMUNITÀ di DESTINO’? Come lo spazio concretizza, nel bene e nel male, le OPPORTUNITÀ e i DIRITTI di chi abita il territorio contemporaneo? Quali sono i nuovi contenuti dell’INTERESSE PUBBLICO? Quali sono le ETEROTOPIE della contemporaneità, i suoi CONTROSPAZI? Dai CIAM dovremmo ereditare il metodo: ‘congresso’ significa ‘camminare insieme’. Per capire il presente è necessario unire gli sforzi e i saperi. Alleanza e cooperazione diventano concetti ineludibili entro un’idea di territorio come sistema di vasi comunicanti in cui ogni punto partecipa all’equilibrio complessivo del sistema. Alleanza e cooperazione tra beni comuni e interesse privato, tra cittadini e istituzioni, tra enti che governano, tra ricerca e finalità sociali, tra tecnologia e ecologia. Dai CIAM dovremmo soprattutto raccogliere la fiducia nella progettualità, indispensabile per arginare le derive irrazionali, le paure che paralizzano, i massimalismi che riportano ai periodi oscuri di un’umanità che speravamo di esserci lasciati alle spalle: e ribadire con forza che i problemi giganteschi nei quali i nostri territori sono immersi, possono e devono essere affrontati attraverso la cooperazione delle migliori competenze.
NOTE (1). Il CIAM del 1949 è stato discusso nel corso del 2019, in occasione del settantennale, attraverso numerose iniziative organizzate dall’Ordine Architetti di Bergamo in collaborazione con L’Università agli Studi di Bergamo e con il Po-
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litecnico di Milano. Per l’occasione è stata sistematizzata la documentazione esistente raccolta in un sito consultabile a cura di Pierre Alain Croset, Politecnico di Milano, DAStU. http://www.ciam2019.it/archivio-CIAM-1949/ Un buon resoconto di tutti i CIAM si trova in: Sacchi, N. (1998) ‘I Congressi Internazionali di Architettura Moderna 1928-1959’, Volume edito dalla Consulta Regionale Lombarda Le Corbusier esprime il suo pensiero sull’ urbanistica in termini di rifondazione radicale. L’obiettivo è quello di liberarsi dalla gabbia di un modo di pensare ed operare sedimentato su una realtà che non c’è più, per rintracciare un punto zero da cui ripartire secondo logiche nuove che, attraverso la mediazione positiva della tecnica, possano reinterpretare il rapporto tra uomo e natura. Il CIAM del 1949 avviene dopo quasi un trentennio di elaborazioni attraverso cui Le Corbusier, che è sempre stato un grande comunicatore, rende evidente i contenuti del suo pensiero sulla città moderna. Nel 1946 pubblica ‘Manière de penser l’urbanisme’ leggendo il quale è possibile ripercorrere le idee e i ragionamenti che stanno alla base dei suoi piani più importanti come quello di ‘Une ville contemporaine di tre milioni di abitanti’ (1922); il ‘Plan Voisin’ per Parigi (1925); la ‘Ville Radieuse’ (1930). La città funzionale è il tema principale del IV CIAM di Atene del 1933: la Carta d’Atene, che forse è il più importante lascito dei congressi, viene abbozzata in quell’occasione, ma poi pubblicata soltanto nel 1943 a Parigi. È il titolo del capitolo terminale del libro di Le Corbusier ‘Verso un’architettura’ pubblicato nel 1923. In merito alla Griglia del VII Ciam rimando alla lettura del mio scritto: Peretti, M.C. La Griglia del VII CIAM. Come e cosa comunicare, weArch, sezione Scritti, 19 settembre 2019, https://www.wearch.eu/la-griglia-del-vii-ciamcome-e-cosa-comunicare/ Sull’importanza delle identità locali, esemplare è la Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore dell’eredità culturale (cultural heritage) più nota come Convenzione di Faro, dal nome della città portoghese dove è stata emanata il 27 ottobre 2005. Nel testo si legge: “l’eredità culturale è un insieme di risorse ereditate dal passato che le popolazioni identificano, indipendentemente da chi ne detenga la proprietà, come riflesso ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni, in
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MARIA CLAUDIA PERETTI
continua evoluzione” “una comunità di eredità è costituita da un insieme di persone che attribuisce valore ad aspetti specifici dell’eredità culturale, e che desidera, nel quadro di un’azione pubblica, sostenerli e trasmetterli alle generazioni future” (art. 2); Del cultural heritage fanno parte “tutte le forme di eredità culturale in Europa che costituiscono, nel loro insieme, una fonte condivisa di ricordo, comprensione, identità, coesione e creatività” (art. 3), ….. “chiunque; da solo o collettivamente; ha diritto a trarre beneficio dall’eredità culturale e a contribuire al suo arricchimento”…. perché “l’esercizio del diritto all’eredità culturale può essere soggetto soltanto a quelle limitazioni che sono necessarie in una società democratica, per la protezione dell’interesse pubblico e degli altrui diritti e libertà” (art. 4). (7). Per informazioni sullo sviluppo di Hafencity vedi: https://www.hafencity.com/ sito promosso dalla città di Amburgo per la comunicazione del processo di costruzione della nuova città. Mazzoleni, C. Amburgo, Hafencity, Rinnovamento della città e governo urbano, https://www.milomb.camcom.it/c/document_library/get_file?uuid=e3216bf5-1726-4315b5b3-674e99a75ad3&groupId=10157 (8). È significativo analizzare il glossario utilizzato nell’ambito della Variante 10 del PGT di Bergamo. Nel capitolo dedicato alla “Valorizzazione del sistema commerciale” viene introdotto il tema dell’Indifferenza funzionale dei piani terra con la possibilità per le Piccole Strutture di Vendita di passare da una funzione all’altra senza aggravi di tipo procedurale e/o economi-
co e senza la necessità di reperire gli standard a parcheggio pubblico. Importante è l’assunzione del tema dei piani terra e del loro funzionamento come tema portante della qualità dello spazio pubblico e in generale della vivibilità urbana. Viene promosso e incentivato il ‘mix funzionale’ così come viene estesa la classificazione delle attività commerciali, includendo molte declinazioni nuove. Viene pure interrotto il binomio commercio/standard a parcheggio: anche le Grandi Strutture di Vendita potranno essere insediate nelle aree centrali senza l’obbligo di reperimento dello standard a parcheggio, ma soltanto in zone pedonalizzate. (9). Nell’istituzione degli standard urbanistici in Italia, il testo normativo di riferimento è il Decreto Ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444 (10). Azzimonti,O.L., Colleoni,M., De Amicis, M. Frigerio, I. (2018) “Vulnerabilità sociale e resilienza in Regione Lombardia. Una proposta metodologica per una nuova gestione del rischio sismico”(p. 53-60), in Iconemi, quaderno 30 Bergamo University Press, Sestante edizioni. (11). Peretti, M.C., ‘Le parole della città: il lemmario della partecipazione’in weArch, sezione Territorio,26 gennaio 2019, https://www.wearch.eu/ le-parole-della-citta-il-lemmario-della-partecipazione/ (12). Particolarmente significativa è l’analisi di Saskia Sassen in Sassen, S. (2014) Expulsions: Brutality and Complexity in the Global Economy, trad. it. (2015) Espulsioni. Brutalità e complessità nell’economia globale, ed Il Mulino Bologna
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FULVIO ADOBATI
FUORI DALLA COMFORT ZONE1
La necessità di edificare uno statuto della disciplina (adeguato al tempo), questione fondativa dei CIAM e al centro del dibattito del CIAM di Bergamo, appare ancora oggi una questione chiave. Quale rimando ai contenuti fondativi della disciplina urbanistica e al suo essere, pare efficace riprendere la sintetica e lucida definizione di Luigi Piccinato: “lo studio generale delle condizioni, delle manifestazioni e delle necessità di vita e di sviluppo di una città”. (Piccinato, 1987, p. 13) Come noto, il dibattito urbanistico proprio del Movimento Moderno muove dalla fiducia nei mezzi della tecnica per risolvere i problemi delle città, nella consapevolezza di essere alle soglie di grandi trasformazioni dettate dall’evoluzione tecnologica. In questa logica segnata da uno spirito positivista, di piena fiducia nella possibilità di costruire un modello fondato su una razionalità di progetto, si edifica un approccio previsionale e predittivo, legato a una forte idealità: la città come utopia da realizzare, secondo diversi modelli di città ideale, orizzontale o verticale, con attenzione agli equilibri tra verde e costruito o tutta tesa alla massima efficienza della macchina territoriale. Fiducia nella costruzione di regole efficaci d’uso dello spazio, e assunzione della “Griglia” quale forma di collocazione dei contenuti e degli strumenti disciplinari, che si proietta in una griglia calata sul territorio dai modelli spaziali di formazione delle città nel territorio. Ancora, emerge un discorso sulla città quasi da disegno sul foglio bianco, riponendo a lato del grande progetto di riforma dell’architetturaurbanistica moderna le trame del tessuto insediato storico. Atteggiamento culturale dettato non da mancanza di considerazione del patrimonio storico, ma da una sua collocazione non centrale nei temi di discussione.
Se nei contenuti tecnici la pianificazione urbanistica si è molto trasformata, vanno segnalate parti importanti che, notoriamente sancite nella ‘Carta di Atene’ (e acquisite nell’ordinamento normativo nazionale italiano con la pionieristica Legge Urbanistica 1150 del 1942) si sono rivelate decisamente durature: la nota suddivisione della città per le funzioni dell’abitare, lavorare, circolare e ricreare il corpo e lo spirito ha informato i piani regolatori del tempo dello sviluppo urbano fino a qualche anno fa (e ancora resistono altrove e in parte anche qui, almeno nella razionalità di pensiero di alcuni). Evidente qui un cambiamento di direzione sostanziale rispetto alla mixité delle funzioni e alla dimensione temporale degli usi oggi ampiamente assunte quali ingredienti necessari per offrire qualità dell’abitare ai contesti urbani. La razionalità, perfettamente integrata con il pensiero CIAM, del sistema dei piani a cascata su livelli istituzionaliterritoriali diversi, restituisce una fissità della scena assunta dall’urbanistica del tempo che oggi fa i conti con una pluri e inter-scalarità nelle pratiche urbane, e con geografie mutevoli dei processi territoriali. La necessità di rinnovare la disciplina e il suo strumento principe, il piano, è quanto mai forte e attuale. Il tempo dello sviluppo economico e della crescita insediativa (per il nostro Paese dal secondo dopoguerra) ha tradotto il dettato del CIAM confezionando rigide regole spaziali e standard quantitativi. Tale dispositivo ha funzionato e tutto sommato guidato in modo efficace lo sviluppo territoriale (non tanto negli esiti quanto nell’idoneità della strumentazione urbanistica) fino agli anni Ottanta; poi per qualche decennio – in assenza di opzioni altre – il piano rigido ha manifestato la sua inadeguatezza trasformandosi, per citare Luigi Mazza, in “eccesso di ambizioni che ha prodotto altrettante delusioni” (Mazza, 2011, p.261). Certo si è affermata una cultura pragmatica, per le grandi realtà
1 Il presente contributo muove dai contenuti dell’intervista rilasciata dall’autore e curata da M.C. Peretti, pubblicata in ARK n. 28, dicembre 2018, “Progettare la modernità. L’eredità dei CIAM”.
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urbane, di “città per progetti”, in assenza però di un palinsesto teorico e metodologico che ne aprisse gli orizzonti alla gestione del territorio tutto. Recuperare le tensioni ideali del CIAM significa ripartire dalla consapevolezza della natura stessa dell’urbanistica, come scrive Gabriele Pasqui: “qualunque riflessione sulle forme di regolazione dell’urbanistica deve quindi misurare la propria compatibilità con una stratificazione di interessi, di poteri, di rendite (finanziarie e simboliche) che ‘sono’ la città, nella sua costituzione materiale (…) (Pasqui, 2017, p. 102) L’affermazione della pianificazione strategica dagli anni Novanta del secolo scorso ha rappresentato la volontà di ricondurre a un palinsesto unitario le cellule di trasformazione urbana, ubicate sempre più dentro piuttosto che intorno al corpo dell’urbano; l’esperienza di attualizzare così lo strumento cardine della disciplina, il piano, con il Piano Strategico, ha prodotto esiti di interesse (specie nella maturazione di consapevolezza nella costruzione di scenari e nel riconoscimento/definizione di traiettorie-politiche territoriali), ma certo non ha restituito alla disciplina capacità piena di disegnare sul territorio dinamiche di trasformazione socio-economica sempre più veloci e repentine. L’impegno del praticare urbanistica pare di fronte alla sfida dell’uscire da una comfort zone, fatta di “certezze ipotetiche” rinnovate con parole d’ordine emergenti. La pianificazione urbana in questa chiave risiede nella capacità di cogliere le energie che il processo di costruzione di un piano urbanistico sollecita e genera, e farne disegno socio-spaziale; il planner riflessivo lavora nello spazio di intelligenza dell’azione, ne coglie i tratti distintivi e li colloca plasticamente entro regole normative e professionali. Learning by doing che assurge a Planning by doing, secondo Jan Gehl (Gehl 2016). Il planning by doing di Jan Gehl ha evidentemente molto a che fare con il prezioso, e ormai ampiamente acquisito nel dibattito scientifico, insegnamento di Schön (1983); il pensiero pratico di Schön prendendo apertamente le distanze dalla tradizionale razionalità tecnica, fondata sulla capacità di formulare una tipizzazione dei problemi e delle risposte (problem solving), assume il valore della conoscenza nell’azione e nell’esperienza che si fa base teorica (learning by doing); ogni esperienza riproduce assunti teorici distinti, da mettere alla prova in nuove situazioni, che vanno a comporre il bagaglio culturale del “professionista riflessivo”. Professionista capace di adattare le risposte tecniche alla evoluzione del percorso attuativo piuttosto che determinato pervicacemente a ricondurre le scelte a modelli teorici stabili e prestabiliti.
Un efficace affresco della situazione contemporanea è riassunto nelle parole di Patrizia Gabellini: “l’urbanistica è pienamente coinvolta, anzi squassata dalla mutazione in atto: alla progressiva frantumazione dei modi di fare collaudati si accompagna una seria difficoltà a metterne in discussione i principi in relazione a una nuova interpretazione di quel che succede nella città e nei territori (…)” (Gabellini, 2018, p. 11) Mutazione che ci pone di fronte al dilemma classico: innovare o soccombere. Impegno all’innovazione che, nei CIAM, muove da un’apertura e da una partecipazione internazionale, capace di accogliere intelligenze e fare dialogare visioni diverse; impegno a innovare l’urbanistica che, per stare ai nostri giorni, non sta tanto nella capacità di produzione di parole d’ordine, in questi anni prolifica (parole che si affermano e che rischiano di consumarsi in breve tempo: smart, resilienza, rigenerazione, transizione, …), ma nel recupero di una idealità forte e di una fiducia nel futuro e nell’intelligenza umana.
Fig. 1. Immagine tratta dal film The Square, 2017, diretto da Ruben Östlund, Sony Pictures).
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Gabellini P., (2018) Le mutazioni dell’urbanistica. Principi, tecniche, competenze, Carocci, Roma Gehl J., (2016) Planning by doing. How small, citizenpowered projects inform lar-ge planning decisions, Gehl Studio San Francisco. Mazza L. (2011), Governo del territorio e pianificazione spaziale, in Dematteis G., (ed), “Le grandi città italiane. Società e territori da ricomporre”, Marsilio, Venezia, pp. 261-316. Pasqui G., (2017) Urbanistica oggi, Donzelli, Roma. Piccinato L., (1988-1941) La Progettazione Urbanistica – La città come organismo (a cura di G. Astengo), Marsilio, Venezia. Schön D., (1983), The Reflective Practitioner, How Professionals Think In Action, Basic Books, New York.
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CARLO SALONE
OLTRE LE RETORICHE DEL DEGRADO E DEL DECORO: ESPERIENZE DI RIUSO ADATTIVO NELLA CITTÀ CONTEMPORANEA1
1. INTRODUZIONE In questo articolo si presentano in estrema sintesi i risultati di un lavoro di ricerca condotto da un gruppo di lavoro interdisciplinare nel corso del 2019 sulle condizioni economiche, istituzionali e regolative che consentono – o, al contrario, rendono difficile – la realizzazione di progetti di riuso adattivo in aree urbane caratterizzate da processi di abbandono funzionale e decadimento materiale (Lami, 2020). Parliamo intenzionalmente di riuso adattivo e non di rigenerazione urbana non soltanto perché quest’ultimo termine rinvia a un’ampia casistica di esperienze pluridecennali eterogenee e difficilmente riconducibili a schemi teorico-interpretativi unitari (Leary e McCarthy, 2013) e spesso raccontate in termini apologetici, ma soprattutto perché ci sembra rilevante, in questa fasi di perdurante “urbanistica di austerità” (Coletti et al., 2020), sottolineare la rilevanza pratica e simbolica di progetti di rifunzionalizzazione/riqualificazione che richiedono bassi investimenti finanziari, ma mobilitano in modo significativo il capitale culturale e umano presente nella società urbana. Con tutta evidenza, mentre le risorse pubbliche locali continuano a soffrire dei tagli ai bilanci imposte dalle regole finanziarie nazionali ed europee, la società civile, i movimenti, le associazioni e l’imprenditoria sociale cercano e sperimentano nuove forme di azione nel campo del riuso urbano, finalizzato ad attività di produzione ‘leggera’, alla fornitura del welfare locale e di servizi culturali spesso in parti della città neglette o di oggetto di stigma sociale. L’esperienza italiana mostra con disarmante chiarezza come le condizioni ‘istituzionali’ tradizionali – le norme tecniche e urbanistiche alla scala locale e nazionale, le prassi amministrative e burocratiche, le attitudini mentali dei decisori pubblici –
rappresentino spesso più un ostacolo che un elemento facilitatore per lo sviluppo di pratiche di riuso adattivo, pur in un contesto nazionale in cui abbondano spazi inutilizzati e iniziative ‘dal basso’ potenzialmente innovative (Campagnoli, 2014). Attraverso alcuni casi che si ritengono emblematici, si metteranno in luce gli aspetti ricorrenti di un approccio ‘minimalista’ ma assai diffuso e ‘interstiziale’ nel panorama italiano internazionale che testimonia la validità del riuso del patrimonio immobiliare esistente in termini di efficacia, di sostenibilità economico-finanziaria e di capacità di generare valore sociale e culturale. Le esperienze qui presentate e discusse sono state selezionate sulla base di criteri di distribuzione geografica, anche se la casistica dei progetti è più numerosa al Nord, e per la loro capacità di restituire soprattutto la varietà e la ricchezza delle iniziative di riuso adattivo e di auto-organizzazione imprenditoriale.
2. I CASI DI STUDIO ‘IN PILLOLE’ Factory Grisù Via Mario Poledrelli 21 Ferrara Factory Grisù è un consorzio di imprese dei settori culturali e creativi che gestisce l’ex caserma dei vigili del fuoco di Ferrara, nel quartiere Giardino, di proprietà della Provincia, in comodato d’uso al Comune. Obiettivo principale dell’operazione, oltre allo sviluppo delle aziende insediate, è il recupero della caserma attraverso l’investimento delle singole realtà che la occupano, le quali, non pagando un affitto, si fanno carico dei lavori di ristrutturazione e adeguamento degli spazi occupati.
1 L’articolo si basa essenzialmente sul capitolo “Governance, Economic Sustainability and Socio-spatial Relationships” di Sara Bonini Baraldi e Carlo Salone, contenuto in Lami (2020), all’interno del quale è possibile trovare una disamina dettagliata dei casi discussi.
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Fig. 1. Grisù, Ferrara: planimetria generale.
Farm Cultural Park Cortile Bentivegna – Sette Cortili, Favara (AG) Farm Cultural Park è un centro culturale indipendente privato nato nel 2010 a Favara per rispondere al degrado del centro storico, con l’obiettivo di riqualificare l’area attraverso arte e cultura e migliorarne la qualità della vita.
Farm è composta da una serie di edifici collegati, denominati Sette Cortili, che ospitano spazi espositivi, residenze, installazioni artistiche e una scuola di architettura per bambini. Officine Zero via Umberto Partini 20, Roma Oz Officine Zero è un’area industriale occupata illegalmente, ex RSI, che ospita una multifactory (laboratori artigianali), uno spazio eventi e spazi di coworking. Obiettivo principale dell’operazione è dare vita a un’esperienza di economia circolare e alternativa, che al contempo rivitalizzi il quartiere di Casalbertone. Attualmente sta vivendo una fase di transizione dovuta all’interesse dell’acquisto dell’area da parte del Gruppo BNL.
Fig. 2. Farm Cultural Park, Favara (AG): uno dei cortili riqualificati.
Fig. 3. OfficineZero, Casalbertone, Roma: foto aerea.
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Fig. 4. Toobox, Torino: assonometria generale.
TOOLBOX via Agostino da Montefeltro 2 Torino Toolbox è uno spazio di coworking e nasce da un’idea di Aurelio Balestra, ex manager della GB Sportelli, azienda che nel 2008 ha lasciato le strutture dell’ex OSI – Ghia. I lavori di riallestimento delle strutture avvengono tra il 2009 e il 2010, anno dell’apertura degli spazi di coworking. La struttura ospita l’Officina Arduino e il primo Fablab in Italia, oltre a numerosi uffici e postazioni di lavoro a disposizione di professionisti di vari settori.
ExFadda Via Brindisi 133 San Vito dei Normanni (BR) Situato a San Vito dei Normanni, l’ex stabilimento enologico Dentice di Fasso, ExFadda, è un contenitore che, grazie al programma Bollenti Spiriti della Regione Puglia e alla Sandei s.r.l., è stato ripensato come spazio polifunzionale in cui la comunità crea una nuova prospettiva per il territorio e per chi lo abita. Il progetto è riconosciuto come un’operazione di responsabilità sociale di impresa in cui, a partire dall’autocostruzione per il recupero dello spazio, si sperimenta la costruzione di una comunità di giovani attivi nella dimensione civica e sociale.
Fig. 5. Ex Fadda, San Vito dei Normanni (BR): il corpo centrale.
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CAOS - Centro Arti Opificio Siri Viale Luigi Campofregoso 98 Terni CAOS è un centro di produzione e fruizione delle arti, ideato e allestito dal Comune di Terni insieme a Coop Centro Italia, nell’ambito del recupero dell’intera area ex SIRI (44.000 mq). È gestito da una ATI (costituita da Indisciplinarte, Civita, Sistema museo, le cooperative Actl e Alis, Silvana editoriale; ) dal 2009 al 2014, e fino al 2019. Attualmente sta vivendo una fase di transizione legata al cambio dell’amministrazione comunale.
Fig. 6. CAOS, Terni: foto aerea.
3. L’INTERPRETAZIONE DEI CASI Tralasciando le considerazioni in ordine alle caratteristiche architettoniche e urbane dei manufatti e alla loro valorizzazione di mercato (su questi punti rinvio a Lami, 2020), focalizzerò la mia attenzione su tre aspetti principali: 1) genesi, governance e organizzazione; 2) modello di business e sostenibilità; 3) impatti sul territorio. 3.1. Genesi, governance e organizzazione La prima osservazione riguarda la spinta sperimentale e, di conseguenza, la natura evolutiva dei progetti analizzati: si tratta di progetti ‘emergenti’, non pianificati, che scaturiscono dall’urgenza di dare risposta a bisogni concreti, di carattere individuale o collettivo, attraverso una mobilitazione di risorse immateriali e materiali che appare non come l’esito di un insieme di azioni pianificate ma che, in quasi tutte le esperienze, si presenta piuttosto come un processo che avanza per tentativi e riaggiustamenti. Qui non sembra determinante l’influenza di un modello organizzativo o imprenditoriale predefinito, quanto l’esigenza sorgiva di mettere in moto un meccanismo in grado di produrre degli effetti nella direzione voluta, un modello che emerge dal fare (Mintzberg, 1988), secondo un processo di significazione ex post.
Mentre nel caso d’interventi di rigenerazione a larga scala la sequenza convenzionale delle iniziative di riuso prevede in genere l’adozione di logiche negoziali tra proponenti privati e amministrazioni pubbliche e la definizione di modalità d’intervento disegnate entro quadri normativi articolati, casi come quelli da noi studiati ‘rompono’ l’ordine tradizionale per muoversi lungo percorsi non lineari e in uno spazio intermedio tra mercato e non-profit, anche se prima o poi tendono ad assumere un approccio che potremmo definire, con Lindblom (1959), di ‘incrementalismo sconnesso’. In altri termini, possiamo affermare che in queste iniziative le azioni non si sviluppano secondo criteri di razionalità sinottica e di programmazione razional-comprensiva, ma seguono il corso degli eventi e imparano dagli errori, modificando e migliorando incrementalmente il tiro rispetto agli obiettivi, che a loro volta mutano gradualmente nel corso del lavoro. Grisù nasce a Ferrara su impulso di un’”associazione di associazioni” a vocazione culturale, che si fanno interpreti dell’esigenza collettiva di prendersi cura di un bene pubblico abbandonato, un’ex caserma dei pompieri che viene concessa a titolo gratuito tramite contratto di sub comodato d’uso da parte della provincia. Le figure di spicco in questa prima fase sono un folto gruppo di artisti che dedicano creatività ed entusiasmo al recupero del bene, ma le cui variegate energie trovano poi nel tempo una difficile sintesi. Dopo una prima fase di sperimentazione l’esperienza cambia rapidamente pelle, trasformandosi in un consorzio d’imprese sotto la guida di una leadership individuale forte, rappresentata dall’attuale presidente. Il disegno esplicito è quello di dare vita a una “factory creativa” attraverso la partecipazione a un bando regionale che stanzia una somma non trascurabile per consentire all’operazione di prendere il via. Il consorzio è guidato da un’Assemblea dei soci e da un Direttivo eletto all’interno della compagine sociale, coadiuvato in tempi più recenti da un Direttore tecnico stipendiato. I membri del Direttivo ricevono un piccolo rimborso spese e si suddividono i compiti sulla base di un modello informale, mentre il consorzio – nel rispetto di un’etica del lavoro esplicita – non ammette al proprio interno la presenza del volontariato. L’organizzazione informale dei lavori del Direttivo non sembra tuttavia nel tempo garantire la necessaria professionalità. Man mano che l’iniziativa si consolida e allarga la propria presenza fisica all’interno dell’area, la vocazione si sposta progressivamente verso l’attività d’impresa, ma
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conservando una visione ampia del ruolo del consorzio come promotore di un processo di rigenerazione urbana e non solo di rilancio economico di un bene pubblico recuperato. In questa evoluzione pro-business, non disgiunta da valenze di trasformazione spaziale, un ruolo non irrilevante viene giocato dall’amministrazione municipale di Ferrara, che mette a punto soluzioni normative ad hoc e sostiene il progetto come avamposto per una ricucitura delle relazioni tra il quartiere e il centro della città. Molto diversa è la parabola seguita da Farm a Favara, dove la molla che mette in moto il meccanismo di riuso è costituita dalla presenza di un capitale privato cospicuo, non interessato precipuamente ad un ritorno economico dell’investimento e animato da un forte impegno sociale. Le buone relazioni derivanti dalla posizione sociale dei promotori si traducono in una rilevante capacità di coinvolgimento di soggetti esterni al contesto locale. È un modello “familiare”, chiaramente orientato da valori morali molto forti e al centro di un network di relazioni extra-locali che apportano contenuti e collaborazioni dall’esterno, sempre più importanti man mano che l’esperienza progredisce. Il funzionamento è quello tradizionale dell’associazione al cui interno operano una decina di dipendenti stipendiati – non tutti a tempo pieno – e un certo numero di stagisti. In un’ottica più squisitamente imprenditoriale si colloca invece Toolbox, nato dal fallimento di una grande impresa operante nel settore dell’abbigliamento e dalla volontà di mettere a reddito un edificio industriale da parte di uno degli ex proprietari della società, il cui patrimonio azionario era stato liquidato proprio attraverso il trasferimento della proprietà del bene. Qui gioca una funzione determinante l’elemento della dimensione: le economie di scala e di scopo garantite dall’allargarsi della rete degli aderenti al progetto – freelance e imprese che affittano i locali – producono rendimenti crescenti che favoriscono un’ulteriore espansione dell’esperienza. L’organizzazione è affidata a un gruppo relativamente ristretto di persone, tra le quali spiccano l’amministratore, che è stato anche l’ideatore dell’iniziativa, e alcune persone che si occupano della segreteria amministrativa (contratti e aspetti economici), della manutenzione, del community management e della comunicazione. Sotto il profilo giuridico, Toolbox è una società a responsabilità limitata con un unico socio, il proprietario, che è anche presidente, mentre l’amministratore sperimenta i formati innovativi e gestisce il progetto.
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Diametralmente opposto al precedente è il caso romano di Officine Zero (OZ). Questo rappresenta l’unico progetto veramente collettivo, reso possibile da una occasione ‘in negativo’: la chiusura di un’azienda di manutenzione treni e la susseguente iniziativa di protesta e resistenza da parte di alcuni attivisti ed ex-dipendenti che ne occupano gli impianti, decisi a non consentirne la vendita e la trasformazione funzionale. Intorno a questo nucleo di ‘resistenza industriale’ si sviluppano riflessioni politiche sul tema del lavoro salariato industriale e di quello autonomo, legato alla produzione immateriale, e si attivano alcune linee di produzione legate al riuso e al riciclo. La sua governance si struttura secondo una duplice linea: una linea informale, affidata a Officine Zero, e un’altra legalmente costituita, Zero off. Il funzionamento è semplice: tutti coloro che portano la propria attività all’interno fanno parte del progetto Officine Zero, che è un collettivo informale, ma non tutti fanno parte di Zero off, che è invece un’associazione. OZ funziona attraverso un’assemblea a cadenza variabile la cui partecipazione è consigliata a tutti coloro che orbitano intorno al centro e in cui si affronta ogni tipo di argomento. Non c’è alcun direttivo con funzioni esecutive, ma ci sono le assemblee di comparto (dedicate alle diverse attività settoriali) e le assemblee di progetto su questioni più specifiche. Zero off rappresenta invece l’estensione formale di OZ, serve come struttura legale per poter stipulare contratti o avere incarichi dall’esterno (es. laboratori nelle scuole) e poter fare contratti, ricevere donazioni ecc. L’esperienza di CAOS a Terni rappresenta un’ulteriore variante: essa è di fatto basata su una triplice partnership costituita dalla pubblica amministrazione (il Comune di Terni), da un’impresa privata for profit (la Coop) e altri privati – profit e non profit – impegnati nel campo delle attività culturali e/o sociali (associazione temporanea d’imprese). Un ruolo fondamentale è esercitato dall’associazione Indisciplinarte, che costituisce la guida progettuale dell’iniziativa. Si tratta del caso in cui il settore pubblico è più direttamente coinvolto sia come soggetto investitore sia come soggetto che sostiene economicamente la gestione delle spese correnti. ExFadda a San Vito dei Normanni (BR) è l’ultima esperienza analizzata. Si tratta dell’unico progetto che si trova già in una seconda fase generazionale: dopo che l’iniziatore e originale “leader” del progetto ha passato la mano ad alcuni giovani, anche la gestione complessiva dell’iniziativa è radicalmente cambiata. L’articolazione del modello di governance comprende il Comune di San Vito, la so-
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cietà di comunicazione e marketing Sandei e la cooperativa Qualcuno di diverso. Sandei ha avuto in concessione dal Comune la sede dell’ex stabilimento enologico a titolo gratuito, girato poi in subconcessione alla cooperativa per la gestione tutti gli spazi ad eccezione del ristorante. La struttura decisionale della cooperativa è di tipo ‘orizzontale-assembleare’, e in questa forma gestisce anche altre attività, di cui la più rilevante è un’azienda agricola di 50 ettari, ottenuta in concessione gratuita e lavorata a olivo e vigna. Questo è l’unica esperienza in cui il soggetto giuridico prevalente – la cooperativa – funge sia da coordinatore di iniziative terze e di gestore del progetto nel suo insieme, sia da ideatore e realizzatore diretto di progetti e iniziative di innovazione sociale e urbana. 3.2. Il modello di business e la sostenibilità economica La riflessione sul modello di business implica la comprensione di “how an organization creates, delivers and captures value” (Baden Fuller e Morgan, 2010). In senso tradizionale, si tratta cioè di comprendere l’unicità del valore creato dalle singole iniziative – la loro missione, o anche la loro “value proposition” – e come questa si declina in attività per vari segmenti di consumatori che generano costi da un lato e ricavi dall’altro. L’idea è quella della ricerca della sostenibilità, ossia della capacità di perdurare nel tempo attraverso la capacità creare un valore riconosciuto e percepito come tale, in grado cioè di generare ed attrarre risorse almeno pari a quelle consumate. In questa prospettiva, un primo spunto di riflessione dalle iniziative analizzate è quello relativo al tipo di valore creato. Ciò che emerge da tutte le iniziative è – in ultima analisi – non tanto la definizione di un valore unico, quanto una stratificazione di valori molteplici, una sorta di “mix di valori” che il più delle volte risponde contemporaneamente ad esigenze sia strettamente produttive che sociali e, a volte, culturali. Ciò che varia è piuttosto il peso relativo della componente produttiva rispetto alle altre. In Grisù, Toolbox e in qualche modo anche Officine Oz ed ExFadda è la componente produttiva quella principale – unita però ad una forte spinta all’innovazione sociale – mentre in Farm e CAOS la missione principale è quella culturale affiancata da un’importante dimensione sociale e di rigenerazione urbana. È questo del mix di valori una componente fondamentale del business model delle iniziative analizzate che si riflette fortemente sulla definizione
dei fruitori dell’iniziativa e sul tipo di attività realizzate, nonché sulle economie generate/consumate. La dimensione discriminante in questo senso è quella che distingue tra beneficiari “interni” e beneficiari “esterni”. Nelle iniziative con finalità più prettamente produttive i beneficiari primi dell’iniziativa sono infatti coloro che occupano gli spazi e, di conseguenza, partecipano attivamente al progetto anche in termini di governance e di organizzazione. Si pensi a Grisù, Officine Zero, Toolbox, ed ExFadda: se è vero che lo spazio è aperto alla cittadinanza attraverso iniziative pubbliche (a volte a pagamento, altre a titolo gratuito) o di affitto temporaneo a soggetti terzi, è anche vero che lo scopo principale del progetto è quello di rendere possibili e sostenere i soggetti che promuovono l’iniziativa e/o che occupano a vario titolo l’edificio in questione. Certo, le forme ed il tipo di coinvolgimento sono diverse: in Toolbox e in qualche misura anche in Ex Fadda la governance è accentrata, e i soggetti residenti sono meri “affittuari”, mentre per Grisù e officine OZ la governance è partecipata (nella forma del consorzio o del collettivo). Ma in tutti i casi sono proprio i contributi dei singoli membri del collettivo (Officine Zero), consorziati (Grisù) o affittuari (Toolbox) che generano la quota principale di risorse in entrata (solo in Ex Fadda il tentativo apparente è quello di sostenere le attività della cooperativa anche attraverso un’attività commerciale in senso stretto quale la gestione del bar). Sarebbe però errato considerare non rilevante la finalità sociale: l’impatto sul territorio, l’apertura al quartiere e alla cittadinanza, l’impegno sociale e l’offerta ad un pubblico più ampio, comunque presente anche nel caso più strettamente imprenditoriale in analisi (Toolbox), si pone come elemento di legittimazione fondamentale, senza il quale la sostenibilità del progetto verrebbe messa seriamente in discussione. È cioè in qualche modo la presenza di beneficiari esterni adò4l progetto – fonti di risorse economiche trascurabili o secondarie – che ne legittimano la componente interna, che invece genera le entrate principali. E ciò senza nulla togliere all’”onestà” del progetto in sé: non si vuole cioè affermare che l’impegno sociale sia strumentale – o peggio ancora strumentalizzato – per altri fini, ma che è componente fondamentale e imprescindibile di un modello di business basato sulla compresenza di valori molteplici. Lo stesso vale in qualche modo anche per quelle attività più prettamente culturali. Si prenda il caso di FARM: è indubbio che senza l’importante ritorno sulla città – anche economico, relativo alle diverse attività commerciali (b&b, ristoranti etc) – difficilmente la sostenibilità complessiva
OLTRE LE RETORICHE DEL DEGRADO E DEL DECORO
del progetto sarebbe garantita, nel senso che la legittimazione ad agire passa anche attraverso il ritorno economico e di immagine di una città intera. Così come l’interesse collettivo è ciò che – nel caso di progetto sviluppato su un bene di proprietà pubblica – garantisce l’accessibilità a una risorsa primaria, cioè la disponibilità degli spazi a costi agevolati, o comunque – nel caso di progetto su un bene di proprietà privata – un atteggiamento da parte del decisore pubblico via via sempre più collaborativo. È quindi una sostenibilità che va intesa in senso lato, con componenti economiche endogene ed esogene, ed una dimensione di riconoscimento e legittimazione importante. Ecco che forse la dimensione della sostenibilità, anche economica, va guardata all’interno di confini più ampi di quelli meramente organizzativi, non tanto nei termini di impatto generato, ma di definizione delle condizioni di esistenza e di sopravvivenza nel lungo periodo delle organizzazioni stesse. Certo la dinamica costi/ricavi in senso stretto ha comunque un valore importante che va riconosciuto, monitorato ed adeguatamente indirizzato, pena la non sopravvivenza dell’iniziativa. In questo senso emerge chiaramente l’attenzione al contenimento dei costi piuttosto che all’incremento dei ricavi. Tutte le esperienze analizzate, ad eccezione parziale di CAOS, fondano infatti la propria attività su un’economia del riuso, del riciclo, del fai da te, del lavoro volontario (quest’ultimo escludendo Grisù), con uno sforzo creativo funzionale alla generazione di valore a basso costo con modalità e capacità inimmaginabili in situazioni classiche di mercato o di intervento pubblico diretto. Sono tutte realtà molto snelle, con pochissimi dipendenti (in generale, meno di 10) o nessuno (OZ). Anche in quei progetti che presentano una dimensione economica piuttosto elevata in termini di investimento (Farm, Toolbox, ExFadda) la parte di spesa corrente è piuttosto ridotta (sotto i 200.000 euro). È un elemento in forte coerenza con l’identità propria delle iniziative analizzate, dove la condivisione di esperienze, risorse e competenze, unitamente alla rimessa in valore di risorse infrastrutturali abbandonate, diventa un punto chiave non solo per la nascita e lo sviluppo delle iniziative ma anche per la sperimentazione di un nuovo modello economico e sociale – in linea con la filosofia dei beni comuni, della sharing economy e della social innovation – basato su valori altri rispetto a quelli neo-liberisti o di welfare state classici. Anche in questo caso, CAOS fa da “gruppo di controllo”: per quanto gli sforzi del partner non profit (Indisciplinate) siano animati dalla stessa energia delle altre iniziative analizzate,
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il progetto nel suo insieme è quello che movimenta maggiori investimenti e risorse correnti sia in assoluto che parte dell’ente locale. In ogni caso, Caos è l’unico caso in cui un accordo con il Comune prevede un finanziamento della gestione da parte di quest’ultimo, mentre gli altri progetti analizzati non hanno contributi annuali ma solo eventualmente su bandi e progetti specifici, comunque molto contenuti, rilevando una costante tensione all’autosufficienza (raggiunta completamente solo nel caso di Toolbox). Cosa permette dunque a risorse e sforzi collettivi di convergere positivamente in una visione d’insieme? Quali sono le competenze e le risorse chiave, oltre alla disponibilità materiale di un manufatto, che rendono possibile la generazione di valore a basso costo? Nell’insieme delle iniziative analizzate un filo rosso è dato dalla presenza di una leadership ‘carismatica’ forte, un soggetto visionario in grado di stimolare, raccogliere ed indirizzare i contributi collettivi verso una direzione comune. L’unico progetto veramente collettivo in senso stretto è Officine Zero: il caso senza dubbio più estremo tra quelli analizzati, una specie di Idra – benevola – a più teste in cui una di queste può anche essere tagliata ma viene subito rigenerata, dove tutti sono importanti ma nessuno è indispensabile. Anche qui però, e solo apparentemente in contraddizione con il tipo di iniziativa in oggetto, l’elemento imprenditoriale è dirimente. Siamo infatti in tutti casi di fronte ad iniziative fortemente imprenditoriali, intese nel senso della presenza di una elevata predisposizione al rischio, di investimento di capitali e risorse proprie, della messa in gioco di una importante forza creativa e innovativa: una sorta di nuova imprenditorialità civile che si pone al di fuori delle logiche di mercato e che caratterizza una nuova forma di cittadinanza post-politica (Salone et al. 2017). In questa logica, le relazioni sono importanti, e lo sono a più livelli: nell’attivare e stimolare l’iniziativa dei singoli, dei volontari, dei soci; nel gestire i delicati rapporti con le amministrazioni pubbliche; nel portare attenzione risorse e competenze da fuori; nel confronto tra pari. È – quella degli imprenditori sociali – una sorta di comunità di pratiche con logiche e valori simili, una comunità tutto sommato ristretta, caratterizzata da valori simili ma anche da luoghi reali e virtuali di incontro specifici, non solo e non tanto a livello locale quanto piuttosto a livello nazionale e in parte internazionale. Più in generale, si punta quindi ad un’economia basata sulle relazioni, in cui il vero chiave è quello dell’attivazione dell’altro tramite il sé, e del sé tramite l’altro.
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La vera sfida relativa alla sostenibilità dunque non è (sol)tanto quella di generare ricavi sufficienti alla copertura dei costi, quanto quella di continuare ad attivare il proprio e l’altrui sforzo in una qualche direzione comune. Direzione che può, anzi deve, cambiare, anzi proprio perché prima o poi mutano o dovranno necessariamente mutare i fattori chiave endogeni (la composizione del collettivo, il leader) oltre che quelli esogeni (la giunta, le condizioni del bando, e via dicendo). I diversi percorsi di sviluppo testimoniano quindi la ricerca di un delicato equilibrio tra aderenza al progetto originario e capacità di trasformazione, con la necessità di un approccio resiliente in cui unico elemento costante è la mancanza di certezze. Da tutte le iniziative esaminate emerge chiaro il tentativo di innovare su modelli tradizionali: nel caso romano di OZ attraverso l’acquisizione del nuovo spazio alternativo alla localizzazione originaria, che implica un ripensamento della missione stessa del progetto e una radicale ridefinizione dell’organigramma; in quello di ExFadda con l’introduzione dell’attività agricola; in quello, ancora, di FARM attraverso la reinvenzione della società per azioni, proponendosi anche strutturalmente come un’impresa di comunità (Mori e Sforzi, 2019). Certo, resta da dimostrare la sostenibilità nel lungo periodo. Quello che invece traspare con evidenza è che l’apparente semplicità delle situazioni analizzate a tavolino rivela una pluralità di elementi eterogenei che rende molto più complessa l’interpretazione. Questo è molto chiaro se si osserva la forma la forma giuridica. Molti di questi progetti hanno contemporaneamente una duplice natura: srl e associazione (CAOS, FARM), collettivo e associazione (OZ), società srl e cooperativa (ExFadda). Uno sdoppiamento che sembra funzionale alla ricerca di formule innovative e di soluzioni creative sia economiche che normative. Allo stato attuale, il quadro giuridico comuqnue non offre soluzioni prêt-à-porter, e questo è un aspetto che dovrà essere adeguatamente sviluppato in futuro con l’apporto della cultura giuridica. 3.3. Le relazioni socio-spaziali generate: dal rapporto con lo spazio urbano e i suoi attori alle relazioni sovralocali Allo stato attuale delle conoscenze emerse dall’indagine sul campo risulta piuttosto arduo definire uno o più schemi generali che descrivano il comportamento spaziale delle organizzazioni e gli effetti delle loro attività sullo spazio, inteso sia con riferimento al contesto locale sia rispetto alle reti sovralocali attivate. Possiamo tutt’al più indicare alcuni
tratti specifici emersi dalle interviste e dall’osservazione sul campo, provando a suggerire possibili percorsi e scenari evolutivi a partire dalla situazione di fatto. I primi due tratti riguardano il rapporto con il ‘locale’ e quello con le reti sovralocali, mentre il terzo concerne il rapporto con il potere locale e le sue logiche. Il riscatto del ‘locale’ come innesco dell’azione Il rapporto con il contesto urbano può essere letto in due modi. Il primo, quello più immediato, ma anche più ‘banale’, ha a che fare con l’uso che queste organizzazioni fanno del materiale urbano: manufatti industriali abbandonati, patrimonio residenziale vuoto e degradato, immobili pubblici privati di funzione, tutti questi elementi fisici della scena urbana vengono reimmessi in un circuito di valorizzazione che appare in primo luogo come un processo di reinvestimento culturale e sociale ed eventualmente, in una fase più matura, di valorizzazione economica. Il secondo modo riguarda le relazioni sociospaziali che innervano in modo più o meno robusto il contesto locale ma si possono estendere anche a scale ‘superiori’. In realtà, come si dirà più sotto, le scale d’azione si mescolano in una dimensione fluida in cui quasi tutti gli attori si muovono dal locale al translocale secondo comportamenti spaziali che sono oggi piuttosto comuni e che modificano il ruolo delle stesse architetture intorno alle quali questi progetti di dipanano, secondo il principio della spatial agency così come definito da Awan et al. (2011): manufatti edilizi che non sono soltanto oggetti materiali soggetti a regole d’uso e a metodi d’intervento, ma s’inseriscono in reti socialmente radicate e producono conseguenze che vanno al di là delle architetture stesse, rendendole ‘protagoniste’ di processi trasformativi insieme agli attori sociali che le reimmettono nel circuito d’uso con intenti ‘politici’ (usando questo termine in senso lato). In effetti, quasi tutte le esperienze testimoniano un esordio essenzialmente legato all’emergere di progetti finalizzati a dare risposte a esigenze insoddisfatte dall’offerta locale di servizi culturali, sociali e professionali: dall’associazionismo culturale alla base della costituzione del Consorzio Grisù a Ferrara all’impegno nell’animazione culturale di FARM a Favara, dalla riqualificazione fisica e funzionale degli ex stabilimenti industriali ternani in cui prende corpo CAOS alla militanza antagonista del collettivo di Officine Zero a Roma, sino all’imprenditoria sociale dei protagonisti del recupero dell’ExFadda, tutte queste esperienze muovono da impulsi locali
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per seguire poi una traiettoria che vede un allargamento delle reti di collaborazione verso l’esterno. L’unica eccezione sembra essere quella di Toolbox che, forse in ragione della sua natura più squisitamente imprenditoriale, non sembra mai fortemente vincolata da relazioni forti con il contesto. Anche sotto il profilo delle dichiarazioni di principio, il rapporto col locale si staglia con molta chiarezza, salvo poi essere contraddetto da difficoltà che insorgono con parte della comunità che non riconosce la natura ‘radicata’ delle esperienze (a Terni come a Ferrara), oppure nei confronti degli interlocutori pubblici che le avvertono come politicamente connotate (di nuovo a Terni e a Ferrara). Verso un ampliamento della scala delle relazioni spaziali Il consolidamento e la maturazione delle iniziative porta con sé un’estensione delle reti di cooperazione a scala almeno regionale, per ragioni di espansione delle attività d’impresa – ricerca di nuovi clienti, associazione con altri soggetti per poter essere competitivi e partecipare a bandi pubblici con la forza necessaria (Grisù a Ferrara), ampliare le collaborazioni per arricchire l’offerta culturale e sprovincializzare l’atmosfera locale (FARM a Favara, dove le relazioni a scala nazionale e internazionale riguardano le attività di formazione, che coinvolgono il Politecnico di Milano e gli artisti stranieri che vengono chiamati in residenza). Anche nel caso di ExFadda l’impegno nella rivitalizzazione della scena locale secondo i principi dell’impresa sociale e dell’economia civile, di cui i promotori dell’iniziativa sono convinti assertori, si articola secondo schemi relazionali via via più complessi nel tempo e nello spazio, coinvolgendo soggetti esterni al contesto locale e allacciando contatti con una rete di organizzazioni che agiscono con modalità e finalità analoghe in luoghi anche lontani. Questo aspetto evolutivo emerge anche dall’esperienza più informale di Officine Zero a Roma, i cui militanti occupano la sede dell’impresa con l’intento di ‘restare’ e di ‘resistere’ per contribuire al riscatto di Casal Bertone e – addirittura – di Roma Est, ma devono fare i conti con l’irrompere di interessi globali con i quali ingaggiano un negoziato che rompe gli schemi classici dell’antagonismo localista. Il rapporto con il potere locale Le relazioni che queste esperienze intrattengono con il settore pubblico sono di varia natura: dal confronto collaborativo o conflittuale con i poteri locali al ricorso a finanziamenti erogati da istituzioni pubbliche, all’inserimento in reti di scambio di cono-
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scenza e di expertise guidate dal pubblico, le forme delle relazioni possono cambiare in modo sostanziale e configurarsi secondo schemi assai diversi tra loro. In generale possiamo affermare che non emerge un comportamento dominante, quanto una fluidità dell’interazione in cui molto dipende dall’atteggiamento delle amministrazioni locali. In effetti, se si osservano i rapporti allacciati con il potere locale strettamente inteso (essenzialmente le amministrazioni comunali), in alcuni casi la collaborazione è la cifra dominante sin dall’inizio dell’esperienza (Grisù a Ferrara ed ExFadda a San Vito), mentre in altre situazioni i comuni si dimostrano in un primo momento indifferenti od ostili ma poi sono in qualche modo costretti a seguire il processo con maggiore attenzione (OZ a Roma e Farm a Favara), e in altre ancora le amministrazioni sono tra i soggetti promotori, ma poi misconoscono l’iniziativa per ragioni essenzialmente legate ad avvicendamenti politici nel governo locale. L’esperienza di Grisù a Ferrara mostra, peraltro, come anche una condotta prevalentemente collaborativa possa essere comunque periodicamente minata dalla rigidità della burocrazia, che induce a ricercare spesso soluzioni ad hoc entro la legalità ma con ampi margini di ‘creatività amministrativa’ che consentono di superare difficoltà normative, il che risulta possibile solo grazie alla presenza di amministratori e tecnici ‘illuminati’. A Favara, invece, l’amministrazione comunale è dapprima del tutto indifferente, poi si dimostra addirittura ostile, contestando a Farm l’occupazione illegale di suolo pubblico in occasione della posa di un’installazione artistica all’interno di un cortile del centro storico della cittadina. In seguito all’avvio di incontri per dirimere la questione, il Comune comprende la rilevanza positiva del progetto per lo sviluppo del tessuto commerciale e dell’offerta alberghiera nel centro storico e ne dichiara il pubblico interesse, ma in termini concreti non organizza alcuna azione di sostegno. L’esperienza romana di Officine Zero è senz’altro la più difforme e, per certi versi, estrema: inizialmente l’amministrazione comunale e il municipio che ha giurisdizione su Casal Bertone non volevano essere coinvolti perché la proprietà del bene occupato è privata. Il rifiuto di prendere una scelta politica da parte dell’Amministrazione viene stigmatizzata dagli occupanti, che premono allora sulla Regione, all’interno della quale potevano contare su amministratori più sensibili, perché assuma un ruolo di intermediazione nella trattativa tra Officine zero e la proprietà dell’area, Paribas – Banca Nazionale del Lavoro. La Regione, benché non
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competente dal punto di vista del contenzioso urbanistico, accetta questo ruolo e, alla lunga, trascina con sé anche il Comune, che pure aveva notificato nel 2018 lo sfratto agli occupanti. Qui l’aspetto di maggior interesse è rappresentato dal riconoscimento del ruolo di interlocutori non da parte dell’amministrazione, che, anzi, mantiene una ‘distanza di sicurezza’ dalle rivendicazioni dei soggetti sociali, ma da parte della proprietà, un attore internazionale della finanza globale che dimostra una dimestichezza con la gestione del conflitto molto maggiore di quella – praticamente nulla – del potere pubblico locale. Il legame con il pubblico appare invece sostanziale e costitutivo per CAOS a Terni, dove un leader politico, ‘illuminato’ assessore della Giunta Comunale, trova soluzioni ‘creative’ all’interno del quadro normativo e finanziario vigente. Il bando per il finanziamento viene scritto con pertinenza, adattandosi alla perfezione alle esigenze e al programma culturale dei proponenti. Il secondo bando di cui l’associazione ha potuto fruire è invece esito dell’azione dell’amministrazione successiva, un esito decisamente meno felice, sia in termini di contenuti sia in termini di risorse stanziate. La situazione si è ulteriormente complicata per il recente cambio di amministrazione a scala comunale, che non garantisce la sopravvivenza del progetto. La vicenda delle’ExFadda mostra, infine, un modello di cooperazione ancora diverso: la collaborazione con il potere locale garantisce non soltanto una notevole continuità alle iniziative e un progressivo allargamento delle attività, ma contempla addirittura la co-progettazione delle politiche pubbliche: infatti, all’avvio dei lavori per la definizione delle linee-guida per la rigenerazione urbana di alcune parti della città di San Vito dei Normanni, la Giunta ha voluto integrare i rappresentanti di ExFadda all’interno del gruppo di lavoro, composto anche da soggetti esperti esterni alla realtà locale.
4. CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE In conclusione di questa breve analisi è possibile sviluppare alcune riflessioni relative alla proprietà dei beni in oggetto, verificando se e come questa differenzi i casi in termini di governance, forma giuridica e organizzazione da un lato, missione, modello di business e sostenibilità dall’altro. Dei sei casi analizzati, tre insistono su edifici di proprietà pubblica (Grisù a Favara, Caos a Terni e ExFadda e San Vito dei Normanni), e tre su beni di proprietà priva-
ta (Farm a Favara, Toolbox a Torino e Officine Oz a Roma). Si tratta di una scelta ex ante dei ricercatori, avvenuta per garantire una certa diversificazione dei casi; ciononostante, alcune riflessioni utili possono forse essere avanzate. Per quanto riguarda il primo aspetto – relazione tra proprietà del bene e scelte di governance – il legame appare piuttosto chiaro, per quanto diversificato. Nel caso di Grisù a Ferrara ad esempio, la scelta del consorzio di imprese (a discapito della precedente associazione) è dettata dall’esigenza obbligata di rispondere al bando pubblico indetto dalla regione per la realizzazione della Factory creativa. Caos è l’esempio più emblematico di iniziativa ad indirizzo pubblico, con la creazione di una partnership pubblico-privata formata ad hoc. Ex Fadda è invece il caso più complesso, dove il legame tra proprietà del bene e forma giuridica del soggetto gestore, nonché assetto di governance, è meno evidente: da un iniziale coinvolgimento di un soggetto for profit (Sandei s.r.l), ad un subappalto della gestione ad una cooperativa sociale di tipo B (“Qualcuno di diverso”). In ogni caso, sono tutte e tre realtà nate tramite lo strumento del bando, e quindi con i vincoli da questo posto a livello formale. Più interessante la genesi: nonostante la proprietà pubblica del bene, sia Grisù che ExFadda nascono prevalentemente dal basso e dall’iniziativa di soggetti privati (un gruppo non formalmente costituito di artisti e cittadini nel primo caso, il responsabile di una società di comunicazione e un project manager nel secondo caso). Nonostante ciò, non si può certo dire che il pubblico sia assente dal processo di sviluppo e definizione dei contenuti progettuali: sia l’attuale identità di Grisù (incubatore e acceleratore di attività produttive legate alle industrie culturali e creative), che quella di ExFadda (innovazione sociale e rigenerazione urbana), ma lo stesso si può certo dire per CAOS (centro di produzione culturale), sono infatti il risultato di un dialogo continuo tra pubblico e privato al fine trovare una sintesi tra interessi almeno parzialmente convergenti. La proprietà pubblica del bene non è però in nessun modo garanzia di impegno dal punto di vista economico dell’amministrazione locale: sia exFadda che Grisù infatti – al di là di un investimento iniziale, ma comunque minimo, per la ristrutturazione del manufatto – non ricevono finanziamenti stabili dall’amministrazione pubblica. L’unico caso in cui il contributo pubblico è stato di fondamentale rilevanza sia per l’investimento infrastrutturale che per la gestione corrente è quello di CAOS. Un elemento importante, se si considera la fragilità delle relazioni con le amministrazioni loca-
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li: apparentemente la realtà più “blindata”, CAOS è invece quella più fragile, quella cioè che più facilmente piò essere messa in crisi da elementi esogeni (un’amministrazione ostile, una congiuntura economica locale negativa, un cambio di priorità nelle politiche locali). Se si osservano i tre beni a proprietà privata ciò che emerge a prima vista è l’estrema eterogeneità delle iniziative analizzate: un’impresa for profit di tipo imprenditoriale nel caso di Toolbox, un progetto familiare a scopo sociale nel caso di Farm, un progetto collettivo e politico nel caso di Officine Zero. Nei primi due casi – e nonostante le diverse soluzioni trovate dal punto di vista giuridico – proprietà e soggetto gestore di fatto coincidono. Siamo cioè di fronte ad un progetto univoco, realizzato su un bene di proprietà del soggetto stesso che dà origine all’iniziativa. Che poi il bene sia di proprietà di un fondo di investimenti, e il progetto gestito da un’associazione o da una società con personalità giuridica distinta, è di fatto elemento secondario. Da ciò discente un coinvolgimento totale e diretto del proprietario del bene sia nella definizione e sviluppo del progetto, che nell’investimento necessario alla sua realizzazione e alla sua gestione. In entrambi i casi infatti lo sforzo economico è evidente sia nella fase iniziale di acquisto e ristrutturazione degli spazi, sia nel supporto alla gestione corrente, perlomeno fino ad una messa a regime delle attività (raggiunta solo nel caso di Toolbox). Nel caso di Officine Oz invece, proprietà e soggetto gestore si pongono agli antipodi: siamo infatti di fronte ad un atto di occupazione forzata di un bene di proprietà privata. È chiaro che in questo caso nessun sostegno economico è garantito dalla proprietà. Non è però vero che la proprietà del bene non influisce per contrappasso sulla sua forma di gestione e sul suo modello di business: laddove nessuno dei soggetti attivi è proprietario, la forza che si antepone a quella del proprietario sta proprio nella definizione di una governance e di un modello di sostenibilità che si basa su una forma orizzontale e partecipata su scala medio-larga degli occupanti. In estrema sintesi: la proprietà del bene sembra essere sempre elemento in qualche modo rilevante relativamente alle scelte di governance e ai contenuti progettuali delle iniziative analizzate. Essa sembra però essere garanzia di un sostegno economico solo laddove proprietà e soggetto gestore coincidono (Toolbox, Farm e Caos); in tutti gli altri casi il legame tra proprietà e responsabilità economica si affievolisce notevolmente (Grisù ed Ex
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Fadda) fino a sparire del tutto (Officine Zero). È questo un elemento forte che emerge dai nostri casi e che non può non porre interessanti interrogativi sulla delicata (in)coerenza dei modelli di business sviluppati e sulla loro sostenibilità di lungo periodo. Da un lato – e il discorso ha senso soprattutto per i beni a proprietà pubblica – si potrebbe affermare che o si lascia ampia libertà di definizione progettuale e di azione, delegando a questo punto anche la responsabilità economica del progetto, o si vincola il progetto in termini giuridici e di contenuto, sobbarcandosi anche, o almeno in parte, gli eventuali oneri e onori economici che ne derivano. E in effetti forse la libertà di sperimentazione “fuori dalle regole” sotto diversi punti di vista di questi progetti è dovuta proprio all’assenza di fondi pubblici, che si portano con sé tutta una serie di vincoli e di irrigidimenti che nei casi analizzati sono tutto sommato ancora limitati. D’altro canto però, quanto i vincoli posti siano sufficientemente “flessibili”, e quanto i soggetti che promuovono queste iniziative abbiano effettivamente forze e le capacità e energie tali da camminare sulle proprie gambe sono domande ancora aperte. È certo in ogni caso che il legame tra libertà decisionale e responsabilità economica è elemento importante – in parte nodo vincente – delle iniziative private, e su cui anche i policy makers dovrebbero adeguatamente riflettere.
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APPUNTI SULLA NUOVA FORMA DELLE DISUGUAGLIANZE URBANE POST COVID*
La situazione di crisi che stiamo vivendo ci pone diversi interrogativi su quale sarà la forma urbana post covid, quali le relazioni sociali e umane che osserveremo e, più in generale, come sarà la vita urbana. la tentazione di molte persone e di molti autori in questo momento, è quella di pensare che la pandemia rappresenti un momento di cesura, taglio, interruzione netta tra tutto quello che è accaduto fino a febbraio 2020 e quello che accadrà in un difficile-dadeterminare “dopo”. Ci sono molti dubbi sul fatto che la discontinuità sarà radicale e, ad ogni modo, è ragionevole pensare che non si ripartirà da una tabula rasa ma viceversa da uno scenario che è sia storico (e da storicizzare) sia spaziale (e da spazializzare). Con questo intendo che le vicende del passato e i loro effetti a livello spaziale e trans-scalare non vengono affatto cancellati dalla pandemia ma in certi casi accelerati, mentre in altri casi profondamente perturbati. Partendo dunque dalla consapevolezza che il passato non viene cancellato ma continua ad agire nel presente e a costituire pezzi di futuro, possiamo provare intanto a fissare alcuni elementi di questo passato e poi successivamente sperare di contribuire a una prefigurazione ragionevole di quello che sarà.
IL MONDO URBANO CHE ABBIAMO EREDITATO Sembra che due elementi siano centrali nel mondo che abbiamo ereditato fino a qui: da un lato quella che Brenner e altri hanno denominato “urbanizzazione planetaria” e cioè l’estensione di infrastrutture e logiche del tardo capitalismo su tutta la superficie del pianeta (Brenner e Schmid 2013; Brenner 2018). La logica che mi sembra racconti meglio la diffusione dell’urbanizzazione planetaria è quella che Sassen ha raccontato molto bene nel suo
libro Espulsioni e che si basa sulle “formazioni predatorie”, cioè degli assemblaggi di attori diversi, come gli Stati e le corporations globali, tenuti assieme da strumenti finanziari (Sassen 2014). Il secondo elemento che mi preme segnalare riguarda le modalità operative delle formazioni predatorie e in particolare il nesso tra strumenti finanziari (e logiche di finanziarizzazione) e i meccanismi e pratiche di estrazione del valore, che sia rendita fondiaria oppure risorse naturale. Se vogliamo dirla in maniera più semplice, questi ultimi 20 anni ci hanno illustrato in tante forme diverse come il rapporto tra uomo, società e ambiente si sia sempre di più articolato in pratiche di estrazione: Cittadini che hanno disperato bisogno di reddito per potersi sentire legittimamente integrati e che, per questo, affittano sé stessi e le proprie proprietà per ottenere un salario che, una volta, derivava invece da rapporti di lavoro (Boltanski e Chiapello 1999); Cittadini che abitano sempre di più in contesti urbani il cui mantenimento organizzativo è nuovamente legato agli imperativi di estrazione e di concorrenza tra territori (Boltanski e Esquerre 2017). Cittadini le cui pratiche di vita e consumo, a casa loro ma anche in trasferta quando diventano turisti, si orientano più verso l’estrazione di esperienze che non verso la produzione di nuove forme di vita assieme. Se guardiamo alle geografie e agli scenari urbani che erano operanti fino a febbraio 2020, queste erano caratterizzate da fenomeni che abbiamo imparato a conoscere molto bene, come la gentrification, la stigmatizzazione territoriale verso quegli spazi con pochi margini di estrazione, è più in generale a forme di segregazione diverse per composizione di classe, etnica e razziale (Arbaci 2019). Anche i più critici fra noi si erano in qualche maniera abituati a
* Questo testo è stato scritto nel mese di Aprile 2020, in piena fase acuta della pandemia, e risente dunque temporalmente ed emotivamente delle condizioni contestuali.
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uno scenario di Apartheid soft, spesso mascherato dalla cortina fumogena della meritocrazia e delle colpe individuali, e da un diffuso darwinismo sociale, in cui era diventato pressoché impossibile mettere in discussione la naturalità e la normalità delle disuguaglianze sociali. All’interno di ogni società nazionale i repertori di legittimità e illegittimità sono diversi ma se guardiamo il profilo sociale di vincenti e perdenti grossomodo troviamo le stesse figure. Se guardo al mio paese, l’Italia, vi era una diffusa accettazione dell’immobilità sociale relativa e anche assoluta, così come era pressoché impossibile articolare un dibattito pubblico sulla rendita, sulle proprietà, su tutte quelle dotazioni che per definizioni truccano le regole del gioco e consentono a (relativamente) pochi di partire largamente avvantaggiati. E così, era “naturale” che qualcuno fosse nato con due tre quattro appartamenti di famiglia, magari nei centri storici delle più belle città turistiche italiane, come era “naturale” che gli abitanti dei quartieri popolari di Milano, Napoli o Palermo si “meritassero” di vivere in zone senza infrastrutture, servizi e dove lo Stato appariva unicamente in divisa o nella veste di assistente sociale. Spesso i primi erano anche quelli che, come se il celebre romanzo distopico di Young sull’ascesa della meritocrazia si fosse realizzato veramente (Young 1958; Celarent 2009), parlavano di cosmopolitismo, democrazia, rivoluzione digitale, accusando i secondi di essere analfabeti, incivili e reazionari. Questo è a parer mio il mondo che ci siamo lasciati alle spalle nel febbraio del 2020. Un mondo dunque confortevole per alcuni ma drammatico per la maggioranza, in cui gli scenari futuri erano tutt’altro che rassicuranti. Se poi guardo alle cronache ecologiche del mio paese fino a questo famoso febbraio, sarebbe difficile e anche pericoloso dimenticare che in vaste aree del territorio nazionale ci eravamo abituati a convivere con siccità, interrotta da brevi e violenti fenomeni di inondazione, con percentuali di polveri sottili e inquinanti nell’aria gravemente pericolose e ciò nonostante perduranti per diverse settimane, se non mesi, e con la presenza di negazionisti climatici o di pragmatisti del tipo TINA (There is No Alternative), questi ultimi soprattutto tra le fila degli industriali. E poi arriva la pandemia. Lasciando a climatologi, virologi e altri esperti il difficile compito di dirci quali sono le interazioni tra uomo e ambiente che spiegano la diffusione e la penetrazione del covid-19, possiamo però provare a individuare alcune linee di tensione ereditate dal passato e attorno alle quali si costruirà il futuro.
Per il tipo di competenze e di interessi personali sviluppati negli ultimi anni proverò a dire qualcosa sulla gentrification e sugli spazi pubblici.
IL FUTURO DELLA GENTRIFICATION Il dibattito sulla gentrification é ormai maturo sia in Francia che in Italia e dunque non è necessario riassumerlo (Chabrol et. Al. 2016; Semi 2015). Forse vale la pena ricordare però, che rispetto a tutte le tradizioni e definizioni di gentrification del passato, negli ultimi due anni si stava diffondendo una tesi secondo la quale l’ultima ondata di gentrification sarebbe stata caratterizzata dalla finanziarizzazione e dall’ economia del turismo e dunque esemplificata dal fenomeno degli affitti a breve termine che tutti identificano nella piattaforma americana Airbnb. Questa tesi, portata avanti da Aalbers e molti altri (Cocola-Gant 2016; Aalbers 2019), ci diceva che la nuova frontiera di espulsione e di disuguaglianza spaziale stava avvenendo nel mondo degli affitti e in particolare i nuovi perdenti erano tutte quelle famiglie più o meno stanziali che avevano però bisogno di una continuità abitativa superiore alla settimana. L’industria del turismo e l’impressionante accelerazione dell’uso temporaneo della città avevano sottratto case ai residenti, reso ancora più rigido il mercato dell’affitto, facendone aumentare i prezzi e costringendo molte famiglie ad allontanarsi sempre di più dalle zone col maggior margine di estrazione. Questa forma di gentrification si somma a tutte le precedenti e sarebbe stata dunque solo un ultimo stadio di un lungo processo, per molte città addirittura secolare, di allontanamento delle classi popolari verso le aree meno favorite di contesti fortemente urbanizzati. Se questo scenario è credibile, e a seconda dei contesti può esserlo di più o di meno, tra la fine del febbraio 2020 è il momento in cui scrivo queste righe, il mondo degli alloggi temporanei per turisti è stato spazzato via. Voli cancellati, frontiere chiuse, popolazioni rese immobili, si sono tradotti in appartamenti vuoti e un’intera nicchia economica distrutta da un giorno all’altro. Cosa dobbiamo pensare di questa tempesta? Si discute da settimane se il virus sia o meno democratico, ma certamente gli effetti che sta provocando non lo sono. Se guardiamo infatti al mondo delle piattaforme abitative e agli effetti in corso in questi momenti, possiamo evidenziare una cosa banale ma importante: la piattaforma in sé, che si chiami Airbnb o Booking, pur avendo subito un duro colpo è per sua natura molto resistente; ha costi fissi mol-
APPUNTI SULLA NUOVA FORMA DELLE DISUGUAGLIANZE URBANE POST COVID
to bassi, un numero limitato di dipendenti, una grandissima capacità di reazione tale per cui tra marzo e Aprile 2020 un colosso come Airbnb ha già potuto contare su due aumenti di capitale trovati rapidamente sul mercato internazionale. La piattaforma, in piena pandemia, non lascia ma anzi raddoppia. Diverso il discorso sul fronte dei proprietari, dove i grandi proprietari corporate hanno tutti gli strumenti legali e finanziari per assorbire il colpo, diversamente dal proprietario individuale che sta fronteggiando la tempesta sprovvisto di mezzi (Semi e Tonetta 2019, 2020). Se cambiamo scala e ci spostiamo dall’appartamento ormai vuoto al quartiere o alla città, l’effetto è fortemente ambivalente. Certo, le aree di pregio scoprono il silenzio e la natura, ma anche l’assenza di esseri umani in quartieri la cui unica funzione negli ultimi anni era solo quella di servire turisti che soggiornavano al massimo 3 notti. E non è affatto chiaro cosa accadrà nei prossimi due anni, quando verosimilmente la pesante recessione in cui siamo già immersi si tradurrà in uno shock di liquidità che necessariamente impedirà la rinascita del turismo nella forma in cui l’abbiamo conosciuto sino ad oggi. Si potrebbe pensare, con un po’ di ottimismo, che tutto questo stock abitativo tornerà sul mercato residenziale tradizionale; ma la crisi di liquidità non riguarderà solo il turista bensì anche il residente (che sono poi spesso la stessa persona) e non è dunque chiaro chi potrà permettersi di pagare quella affitto nel quartiere turistico ma senza turisti. Sarà dunque probabile che le disuguaglianze sociali e spaziali che abbiamo ereditato dal passato verranno per certi versi congelate, nelle aree più ricche, e per certi altri ulteriormente accelerate in quelle più povere.
IL FUTURO DELLO SPAZIO PUBBLICO Negli ultimi due decenni vi è stato un ritorno di interesse sul tema dello spazio pubblico, spinto dai desideri e dalle ansie che il neoliberismo ha portato in città. Lo spazio pubblico, per come era concepito fino a febbraio 2020, era per dirla con Sorkin (1992) o Mitchell (2003) principalmente un luogo aperto ad attività di consumo conviviali e non conflittuali, quanto di più distante dunque dalla teoria sullo spazio pubblico elaborata dalla filosofia politica e dalla teoria sociale novecentesca (Habermas, Arendt, Sennett, Calhoun). Lo spazio pubblico di cui tutti parlavano era insomma quello delle piazze, con i bar e i ristoranti all’aperto, quello dei waterfronts rigenerati, quello dei parchi attrezzati per attività al-
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l’aperto (quello dei centri commerciali, anche se molto diffuso, era già in crisi prima del Covid). Si trattava di un vasto territorio della città dove architetti e designer urbani hanno dettato legge, immaginando territori conviviali, smart, talvolta sostenibili, sicuramente esteticamente molto ricercati (Semi e Bolzoni 2000). Si potrebbe parlare a lungo delle sperimentazioni politiche che su questi spazi pubblici si sono generate, come nel caso dei POPS (Privately Owned Public Space), quei territori di proprietà privata come le piazze davanti a centri culturali che offrono servizi pubblici come panchine o alberi, è più in generale di quegli accordi neoliberali dove attori privati si sostituivano a quelli pubblici nella gestione e sfruttamento di questi spazi; si pensi, ad esempio, ai Business Improvement Districts, ovvero quei contratti di gestione di spazi pubblici dove l’attore pubblico attribuisce per un determinato tempo le funzioni di raccolte delle imposte, controllo poliziesco e igiene a unioni di proprietari (Zukin 2009). La logica organizzativa che stava dietro a questi spazi era che la loro funzione principale risiedesse in forme di consumo legittime e pacificate, molto controllate da un tipo di enforcement soprattutto intersoggettivo: un po’ come nelle ricette di buon senso di Jane Jacobs (2000), il controllo sociale era demandato soprattutto alla buona educazione di consumatori civili. Questo ci consente di capire facilmente quali fossero gli espulsi di questo modello di vita urbana: Homeless, tossicodipendenti, Rom, popolazioni immigrate povere, attivisti e tutti coloro i quali non fossero in grado di consumare adeguatamente. Talvolta questa logica è sfuggita di mano, come nel caso dei diffusi fenomeni di movida e di tutti i conflitti locali che hanno generato in buona parte delle città europee, oppure come nel caso dei conflitti tra gli assembramenti all’aperto di turisti e le popolazioni locali rimaste asserragliate in casa. Ad ogni modo, questo spazio pubblico funzionava e aveva successo proprio perché le persone potevano stare assieme in grandi numeri: l’assembramento di persone è stato uno dei mezzi di estrazione urbana più efficaci degli ultimi decenni. Si capisce dunque come il mondo post covid, dove la vicinanza fisica tra le persone è almeno temporaneamente il nemico numero uno, metta radicalmente in crisi questo tipo di spazio pubblico. Non è possibile adesso dire per quanto tempo, né capire se le soluzioni che si discutono in queste ore avranno realmente successo (penso in particolare a tutti i rendering che mostrano persone che amabilmente bevono da sole un calice di vino a distanza le
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GIOVANNI SEMI
une dalle altre di almeno 2 metri), però è certo che assisteremo a un radicale ripensamento di questi territori. SCENARI Come nel caso esaminato in precedenza, che riguardava il rapporto tra i cittadini e l’abitare, possiamo chiederci se staremo meglio e in particolare se la nostra vita urbana sarà migliore qualitativamente. Utilizzando la stessa logica usata in precedenza, attenta cioè alle disuguaglianze sociali e in particolare alla relazione tra avvantaggiati e svantaggiati, tra cittadini legittimi e cittadini illegittimi, è possibile che almeno in un primo periodo lo spazio pubblico neoliberale torni ad essere più simile a quello che abbiamo conosciuto nel corso del Novecento, più aperto cioè alle diversità degli usi e anche al conflitto sociale. Certamente sarà meno pacificato di quando fu occupato dalle progressive privatizzazioni dei caffè o dei ristoranti. Se sia un bene o un male lo lascio decidere al lettore di questo testo, però sarà probabilmente più democratico. Un’altra strada, questa molto meno democratica, che verrà probabilmente intrapresa riguarda però una delle economie che trovava sbocco fisico proprio nello spazio pubblico e aperto: l’offerta commerciale e in particolare la ristorazione. Questo mondo, più spesso denominato come mondo del food premeva sullo spazio pubblico neoliberale attraverso appunto la cosiddetta foodification, la gentrification del cibo. Si tratta di un settore molto dinamico e popolato da una grande varietà di attori che si sono talvolta improvvisati degli chef e hanno lottato duramente per margini economici sempre più ristretti: un vero e proprio mercato caratterizzato da scarsa innovazione e moltissima concorrenza. Mercato che, al pari di quello degli affitti a breve termine, è crollato negli ultimi due mesi. In Italia, non diversamente da molti altri paesi occidentali, questo settore era anche legato alla logistica delle piattaforme che si occupavano di distribuzione attraverso ciclisti/rider come Glovo, Foodora, JustEat e altri. Ancora una volta le piattaforme si sono dimostrate, e sono state rese tali dagli interventi politici, più flessibili e resistenti e almeno in Italia hanno continuato ad operare pure in presenza di un lockdown molto duro. Lo scenario post covid vedrà questi attori economici sicuramente protagonisti e sicuramente molto più di prima: saranno probabilmente loro a tenere in vita quei ristoranti la cui clientela non potrà rinunciare a del cibo messicano o cinese a qualsiasi ora. Anche in questo caso ci saranno degli sconfitti e saranno soprattutto i ristoranti tradiziona-
li, quelli che erano rimasti in città, e il cui prodotto e clientela non passano attraverso il filtro della piattaforma. Dopo una fase dunque in cui il ristorante tradizionale aveva dovuto lottare contro quello cosmopolita o quello alla moda, è probabile che questo grande protagonista della cultura urbana occidentale, al pari del caffè, dovrà affrontare la sfida più grande e forse finale. CONCLUSIONE In sintesi dunque, mi sembra che la pandemia stia agendo come acceleratore e come soluzione di una serie di conflitti che erano già visibili nei decenni passati. Si tratta di conflitti organizzativi all’interno del capitalismo, dove le piattaforme, alcune più che altre, sostituiranno tradizionali filiere distributive e forniranno servizi in molti mercati. Si tratta di una trasformazione che non colpirà semplicemente le città, anche se nelle città sarà più visibile, ma che agirà lungo l’urbanizzazione planetaria. Sempre in questi giorni molti commentatori sostengono che questa crisi metterà uno stop alla globalizzazione. Io non credo. Penso che a fianco di dinamiche nazionaliste, anch’esse già visibili negli ultimi vent’anni, assisteremo a nuove accelerazioni globali, in particolare grazie all’operato delle piattaforme. La logica di fondo del capitalismo é intatta e la sua logica predatoria non viene messa in discussione, però è probabile che molte delle forme che aveva assunto nel tardo Novecento siano destinate a mutare. Ci sarà molto lavoro da fare per le scienze sociali, ma ancora di più per gli attivisti e tutti quelli che credono che questo momento rappresenti anche un’opportunità di ripensamento radicale del mondo che abbiamo ereditato. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Aalbers, M. B. (2019). Introduction to the forum: From third to fifth wave gentrification. Tijdschrift voor economische en sociale geografie, 110(1), 1-11. Arbaci, S. (2019). Paradoxes of segregation: Housing systems, welfare regimes and ethnic residential change in Southern European cities. John Wiley & Sons. Boltanski, L., & Chiapello, E. (1999). Le nouvel esprit du capitalisme. Paris: Gallimard. Boltanski, L. & Esquerre, A. (2017). Enrichissement. Une critique de la marchandise. Paris: Gallimard.
APPUNTI SULLA NUOVA FORMA DELLE DISUGUAGLIANZE URBANE POST COVID
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MOBILITÀ E ACCESSIBILITÀ NELLE CITTÀ CONTEMPORANEE
Per le scienze sociali la mobilità spaziale, più che una caratteristica dei luoghi attraversati da flussi, è una proprietà dei soggetti che rinvia a dimensioni sia socio-demografiche e psico-cognitive sia comportamentali. In tal senso gli spostamenti fisici e il modo in cui si verificano, la dimensione comportamentale della mobilità, sono sempre l’espressione delle caratteristiche degli individui che, a loro volta, rimandano sia a proprietà socio-demografiche sia psico-cognitive. Le prime comprendono le tradizionali variabili che strutturano il profilo socio-demografico di una persona. Le caratteristiche psico-cognitive riguardano invece il sistema complesso delle conoscenze, competenze, abilità e attitudini che sottostanno e danno forma agli spostamenti fisici. Benché nella letteratura sui trasporti i termini mobilità e accessibilità siano utilizzati in modo intercambiabile, essi si riferiscono a concetti differenti. La mobilità rappresenta la capacità di un individuo, o di un oggetto, di compiere spostamenti nello spazio mentre l’accessibilità identifica la caratteristica di chi o di ciò che è accessibile. Entrambi i concetti riguardano proprietà, ma mentre la mobilità è una caratteristica che un soggetto o un oggetto possiede in sé, l’accessibilità rinvia anche alle caratteristiche di altri attori, configurandosi come una proprietà relazionale (Colleoni, 2012). Mentre gli studi e le ricerche sulla mobilità descrivono le caratteristiche degli spostamenti sul territorio, quelli sull’accessibilità ne analizzano le potenzialità in termini di possibilità di accesso ai luoghi e ai servizi ritenuti rilevanti per soddisfare i bisogni degli attori sociali (Hansen, 1959). Il riferimento ai concetti di potenzialità di accesso, di soddisfazione dei bisogni così come a quello di rilevanza di luoghi e servizi dà agli studi sull’accessibilità una connotazione valutativa che normalmente quelli sulla mobilità non possiedono. In altri termini, conoscere la mobilità di un attore non consente di dire nulla in tema di accessibilità se, prima, non viene chiarita la rilevanza che possiedono il luogo o il servizio al quale egli vuole accede-
re rispetto sia al contesto sociale sia alle caratteristiche del soggetto stesso. Poiché, ancora, il riferimento alla rilevanza sociale rinvia ad un valore, si comprende il motivo per cui gli studi sull’accessibilità rientrino nell’alveo della più estesa categoria degli studi sull’equità sociale. Si spiega in tal senso la tendenza di alcuni autori contemporanei ad includere l’inaccessibilità alle risorse del territorio tra i più importanti fattori di disuguaglianza sociale (Lucas, Grosvenor e Simpson, 2001; Nuvolati, 2002; Lucas, 2004; Cass, Shove e Urry, 2005; Le Breton, 2005; Balducci et al., 2008; Bergamaschi, Colleoni e Martinelli, 2009). Per lo stesso motivo, si capisce anche perché le politiche di sostegno alla mobilità e all’accessibilità urbana rappresentino oggi un settore di intervento pubblico sempre più importante al fine di contrastare i fenomeni di segregazione territoriale e di esclusione sociale. Tali politiche condividono l’assunto che l’esclusione sociale consiste non solo nella mancanza di opportunità ma nella difficoltà di accedere a tali opportunità (Preston e Rajé, 2007) e nella, conseguente, presenza di barriere che rendono difficoltoso o impossibile per le persone partecipare nella società o ottenere un decente standard di vita (SEU, 2003).
1. RISORSE TERRITORIALI E ACCESSIBILITÀ L’accessibilità, abbiamo premesso, è la proprietà che hanno alcuni oggetti di essere raggiunti e usufruiti, laddove l’utilizzo del termine oggetto, di elevata generalità, è motivato dal fatto che la letteratura tematica ha declinato il referente dell’accessibilità in vario modo. Nei primi studi teorici ed empirici prevaleva una lettura funzionalista che portava a dedicare attenzione all’accessibilità dei soli insediamenti umani di tipo urbano. Agli inizi del secolo passato l’opera di Hurd introdusse il riferimento al principio di accessibilità che verrà poi approfondito nei decenni successivi con attenzione all’organizza-
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zione dello spazio urbano e alla competizione tra le diverse attività per assicurarsi localizzazioni più vantaggiose (Camagni, 1993). Il modello delle località centrali proposto da Christaller negli anni trenta è una delle più note applicazioni teoriche ed operative dell’approccio funzionalista (Christaller, 1933). Esso afferma che le località possiedono un differente grado di centralità in relazione all’importanza dei beni e dei servizi che esse offrono. La rinuncia a raggiungere un bene o servizio sarà, poi, la scelta obbligata nel caso in cui i vantaggi del suo consumo risultino inferiori ai costi, causando situazioni connotate da disuguaglianza di accesso. Negli studi successivi alla Seconda guerra mondiale l’oggetto di riferimento dell’accessibilità si estende ai servizi di welfare in primo luogo e quelli ricreativi in seguito. Potervi accedere diviene il segno distintivo di un più evoluto statuto di cittadinanza in cui conta non solo l’accesso ai luoghi del lavoro e del consumo ma anche a quelli del benessere. Agli inizi degli anni settanta Ingram dà un contributo sostanziale al metodo di ricerca sull’accessibilità scegliendo i luoghi, anziché i servizi, come unità di analisi (Ingram, 1971). La scelta è motivata dalla costatazione che nelle città contemporanee i luoghi in interazione sono aumentati comprendendo, oltre alle abitazioni, ai luoghi del lavoro e del commercio, anche quelli del leisure e i luoghi di connessione spaziale (aree di sosta, spazi verdi e stazioni). Da questo momento i luoghi, intesi come sistemi di attività localizzate, diventano l’oggetto di analisi degli studi sull’accessibilità e in tale direzione si muove la proposta di alcuni autori di sostituire il termine servizio con altri più adeguati a tener conto dell’interazione tra funzioni e luoghi delle attività. Il termine opportunity proposto inizialmente da Kwan nel 1999 e ripreso da Dijst nel 2001 è quello che meglio risponde a questa finalità (Kwan, 1999; Dijst, 2001). Esso identifica non solo un servizio ma anche un bene collettivo territoriale – come un parco, una piazza o un’opera pubblica e monumentale – il cui accesso consente agli attori di soddisfare oltre alle necessità elementari anche quelle più complesse associate ai bisogni di identità, di relazione e di partecipazione. Diversi studi si sono interrogati sul fatto se le aree periferiche e peri-urbane, tradizionalmente più povere di servizi di alto rango, presentino anche meno opportunità e di peggiore qualità rispetto ai centri urbani. I risultati non sono univoci, tuttavia molti studi mettono in evidenza il fatto che l’espansione della superficie costruita e, la conseguente, dispersione degli insediamenti che ha interessato le aree urbane negli ultimi decenni hanno avuto l’esito di uniformare ter-
ritori che rimangono, però, sostanzialmente disomogenei dal punto di vista della dotazione di servizi, infrastrutture e, più in generale, di risorse. A ciò si è cercato di porre rimedio attraverso interventi e strumenti di pianificazione territoriale animati dall’obiettivo comune di contrapporre alla dispersione degli insediamenti una crescita intelligente della città (smart growth), in cui la localizzazione degli insediamenti residenziali e dei servizi ne facilitasse l’accessibilità, in particolare, con modalità sostenibili dal punto di vista sia ambientale sia sociale (Benfield et al., 2001). A partire dagli inizi del nuovo secolo, negli Stati Uniti le politiche di uso del territorio hanno cercato di migliorare l’accesso alle opportunities riducendo la distanza tra i servizi, favorendo l’uso misto del territorio e incrementando la qualità estetica dello spazio pubblico e il suo livello di attrattività (Handy, 2002). In Italia, invece, la pianificazione del territorio è stata amministrata con diversi strumenti di governo, in particolare i Piani dei servizi che fanno capo alle amministrazioni comunali e che rispondono alla finalità di realizzare attrezzature e servizi pubblici e di interesse pubblico secondo un disegno di razionale distribuzione sul territorio e nel rispetto dei principi di equità, fruibilità e accessibilità.
2. MOBILITÀ E MODALITÀ DI ACCESSO L’accessibilità ai servizi viene normalmente indagata rilevando i profili di mobilità degli attori, laddove l’espressione profilo rinvia alla combinazione di più dimensioni, i tempi, i modi, la distanza e la finalità degli spostamenti. Le ricerche e le statistiche internazionali dedicano normalmente attenzione ai tempi impiegati per raggiungere i servizi fondamentali con le diverse modalità di spostamento. La preferenza per i tempi anziché per le distanze è giustificata dal fatto che il territorio non è né uniforme né omogeneo, con la conseguenza che distanze uguali da un identico attrattore possano comportare tempi di accesso molto diversi. Poiché non tutti possiedono un’automobile o abitano in località servite dai mezzi di trasporto pubblico, le misure temporali di accesso sono, innanzitutto, calcolate con attenzione agli spostamenti a piedi. Espressa con il termine micro-mobilità (o mobilità attiva), la mobilità pedonale è comunemente considerata un presupposto del principio di abitabilità, intesa nell’accezione proposta da Urry come la condizione che facilita la compresenza e l’interazione faccia a faccia degli individui nello spazio (Urry, 2002). Il tempo di accesso a piedi alle opportunities è sempre più considerato
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oggetto di interesse anche dagli studi nordamericani e australiani sulla sostenibilità e la qualità della vita urbana. Con attenzione al tema della sostenibilità, negli Stati Uniti l‘International City/County Management Association, in collaborazione con la Divisione del Governo per lo sviluppo, la comunità e l’ambiente, coordina gli interventi per lo sviluppo urbano sostenibile ed elabora un programma di macro azioni, una delle quali diretta a creare comunità pedonali (walkable communities, Icma, 2011). Appartengono invece agli approcci più recenti al tema della qualità della vita, gli studi delle università nordamericane e australiane che utilizzano il concetto di pedonalità (walkability) per descrivere il livello di accessibilità e di qualità della vita nei quartieri urbani (Cervero e Kockelman, 1997; Handy et al., 2002; Krizek 2003; Levine et al., 2005). Sempre con attenzione al tema della qualità della vita e agli studi empirici sulla mobilità pedonale, vanno menzionati anche i lavori realizzati dall’architetto danese Gehl in diverse metropoli del mondo1. Si tratta, in generale, di progetti finalizzati a migliorare la qualità dei quartieri, o di specifiche aree urbane, che presuppongono la realizzazione di indagini conoscitive fatte in collaborazione con le amministrazioni e le università locali. Va, infine, ricordato che il tema della pedonalità e della sua relazione con l’accessibilità, originariamente avviato dagli studi anglosassoni, ha trovato applicazione anche in Italia in particolare nelle ricerche del Laboratorio CeSCAm (Studi per la città amica) dell’Università di Brescia (Busi, 2001; 2006) e, più di recente, nell’ultimo Rapporto dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA) (ISPRA, 2017). A questo proposito, una recente indagine sull’accessibilità ai punti vendita alimentari degli anziani milanesi ha proposto un indice per conoscere il diverso livello di pedonalità dei quartieri cittadini e le sue conseguenze sugli stili di mobilità delle persone indagate (Colleoni, Caiello e Daconto, 2017; Daconto, 2017). Ne è risultato che, come da attese, il livello di pedonalità di Milano diminuisce all’aumentare della distanza dal centro e che, sebbene la maggioranza delle persone anziane consideri buona o ottima la vicinanza a piedi dei punti di offerta, un 10% circa ritiene critica la facilità e il piacere negli spostamenti a piedi. Nelle pagine precedenti abbiamo osservato che i piani comunali dei servizi forniscono indicazioni affinché il numero, il tipo e la distribuzione territoriale dei servizi risponda a principi di equità, fruibilità
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www.gehlarchitects.dk.
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e accessibilità. In assenza di indicazioni ministeriali sono però diversi gli indicatori e i valori soglia proposti dai singoli piani per conoscere il livello di accessibilità pedonale ai servizi. La maggioranza dei piani adottano indicatori temporali, in altri casi, invece, vengono utilizzati indicatori spaziali. Vi sono, infine, Piani dei servizi che propongono misure di accessibilità diverse a seconda della scala di riferimento dei servizi. Oltre al Piano dei servizi anche il Piano territoriale degli orari della città (PTO) affronta l’argomento dell’accessibilità pedonale all’interno del tema più generale della gestione dei tempi urbani. Questo piano condivide l’assunto che il tempo rappresenti una dimensione prioritaria dell’accessibilità, oltre che un tema urbanistico in ragione dei diversi usi della città e del territorio (Zedda, 2009). A differenza degli altri strumenti di pianificazione, però, esso propone una gestione coordinata degli orari di apertura e chiusura dei servizi che tenga conto dei nuovi ritmi e della compresenza di diverse popolazioni urbane (Nuvolati, 2002; Mareggi, 2011). Finora si è parlato di accessibilità e mobilità pedonale, dedicando attenzione ai contenuti e agli esiti degli studi empirici e degli strumenti di pianificazione nazionale di settore. L’accessibilità è stata però molto studiata anche in riferimento alla presenza e alle caratteristiche del servizio di trasporto pubblico. Diversi autori sono concordi nell’includere la mancanza o la carenza di trasporto pubblico tra i fattori che, riducendo le opportunità di interazione, contribuiscono ad aumentare l’esclusione sociale, in particolare, dei soggetti più deboli (Currie et al, 2009; Litman, 2009; Stanley e Vella-Brodrick, 2009; Currie, 2010). Abbiamo fatto cenno, nelle pagine precedenti, agli studi empirici anglosassoni sui tempi di accesso a piedi alle fermate dei mezzi di trasporto pubblico. Nel 2010 il Dipartimento per i trasporti del Regno Unito ha proposto una misura di accessibilità ai punti del sistema di trasporto pubblico denominato PTAL (Public Transport Accessibility Levels) e basato sui tempi di accesso a piedi alle fermate e alle stazioni e sulla frequenza di disponibilità dei servizi (Department for Transport, 2010). Similmente al Regno Unito, anche le amministrazioni di diversi Stati del continente australiano adottano misure di accessibilità del trasporto pubblico centrate sul principio di prossimità spazio-temporale. Alla fine degli anni novanta, Murrey ha coordinato un gruppo di ricerca dell’Università di Queensland con l’obiettivo di valutare le misure di accesso
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al trasporto pubblico adottate nella regione del South East Queensland (Murrey et al., 1998). Lo studio ha messo in evidenza il fatto che piuttosto che adottare obiettivi di accessibilità elevati e non raggiungibili, sia necessario estendere il servizio solo nelle aree abitate dalle popolazioni più svantaggiate. Poiché estendere la rete del trasporto pubblico comporta costi molto elevati, lo studio di Murray suggerisce di adottare soluzioni nuove e creative come l’inclusione nella rete del trasporto pubblico di punti di accesso multi-modali personalizzati. Dedicando attenzione alle politiche nordamericane, Litman ha sottolineato il fatto che esse tendono ad adottare misure centrate quasi unicamente sul traffico e sulla mobilità anziché sull’accessibilità (Litman 2003). A differenza delle prime, le misure di accessibilità dovrebbero includere interventi integrati riferiti a più ambiti e finalizzati ad aumentare la densità e l’utilizzo misto del suolo, a migliorare il livello di connessione delle reti viarie, a potenziare la mobilità lenta e, soprattutto, ad ampliare il raggio delle scelte modali. Mentre nei centri urbani il principio della multi-modalità ha trovato frequente applicazione, nelle aree periurbane a bassa densità demografica, la debolezza del sistema di trasporto pubblico si traduce in assenza di alternative modali e in difficoltà di accesso ai servizi per i soggetti che non posseggono un’autovettura privata. Particolare attenzione meritano gli studi empirici che hanno analizzato la relazione tra caratteristiche degli insediamenti, caratteri socio-anagrafici degli attori e stili di mobilità (Dieleman et al., 2002; Ewing e Cervero, 2001; Naess, 2006; Borlini e Memo, 2009; Handy, 2002). Tenuto conto del fatto che la relazione tra caratteristiche morfologiche delle città e mobilità è particolarmente difficile da districare a causa della numerosità dei fattori implicati, i risultati ci ricordano che accedere alle opportunità del territorio è un valore che rinvia non solo alle proprietà dei luoghi, alla struttura del sistema di trasporto e agli stili di mobilità ma anche a dimensioni soggettive quali i valori, le abitudini, gli atteggiamenti e le caratteristiche degli attori sociali. A queste ultime dedicheremo attenzione nelle prossime pagine.
3. ATTORI SOCIALI E CAPITALE DI ACCESSO L’attenzione agli attori sociali e al possesso delle proprietà che ne favoriscono la mobilità e l’accesso alle opportunità del territorio può essere fatta risalire alla seconda metà del secolo passato a partire, soprattutto, dall’opera di Hansen (Hansen, 1959).
Collocata nel contesto più generale degli studi empirici di approccio fisico-deterministico (o gravitazionale), essa ha per la prima volta definito l’accessibilità come potenziale di interazione creando i presupposti che consentiranno agli autori del periodo successivo di spostare l’attenzione dai luoghi alle proprietà dei soggetti. Si inseriscono in questa diversa prospettiva, tra gli altri, gli studi di Dijst sul concetto di spazio di azione, quelli sulla relazione tra trasporti ed esclusione sociale (in particolare nel Regno Unito) e le ricerche di Kaufmann sul capitale di mobilità. Lo spazio d’azione identifica l’area all’interno della quale si trovano le opportunities che possono essere raggiunte e utilizzate dagli individui per le loro attività (Dijst, 2002). L’oggetto sposta l’attenzione dai luoghi e servizi che devono essere raggiunti alla possibilità dell’attore di poterlo fare, laddove il riferimento al concetto di potenzialità rinvia al possesso di risorse individuali di varia natura. La distinzione proposta dall’autore tra spazio d’azione potenziale, spazio d’azione percepito e spazio d’azione effettivo ricorda che sono risorse di accesso non solo le proprietà che riguardano la condizione socio-economica del soggetto ma anche quelle che rinviano alle sue relazioni, competenze e conoscenze. Il riferimento alle relazioni è stato in seguito approfondito dagli studi sul rapporto tra trasporti e esclusione sociale realizzati negli ultimi vent’anni, in particolare, nel mondo anglosassone. È in tale contesto che l’accesso comincia ad essere associato, non solo alla possibilità di raggiungere più opportunities, ma anche alla capacità di accedere a quelle più significative nelle reti di appartenenza sociale degli attori (Lucas, 2004; Lucas e Jones, 2012). L’esclusione sociale associata alla mancanza di accesso e, più in generale, alla mobilità e ai trasporti rappresenta, negli studi di questi autori, l’esito dell’interazione di quattro diversi gruppi di fattori: i trasporti, la morfologia spaziale, le caratteristiche dei soggetti e gli obblighi sociali. Come noto viviamo in società nelle quali le differenze sociali si misurano non più solamente sul diverso possesso delle risorse di proprietà e di identificazione (Melucci, 1990) ma sempre più sulle risorse e le competenze. Secondo Nuvolati al fine di interpretare le pratiche odierne di mobilità occorre considerare diverse dimensioni tra le quali particolare importanza assumono le motivazioni personali (propensione alla mobilità) e soprattutto le mappe cognitive dei luoghi e delle relazioni spaziali (Nuvolati, 2007). Diverse ricerche, realizzate in particolare nei paesi anglofoni e in Francia (Grieco, Turner, Hine, 2000; Stern, 2000; Mignot et. al., 2001;
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Dupuy et al., 2005), hanno messo evidenza che i tradizionali fattori di differenziazione socioeconomica, agiscono sull’accessibilità non in modo diretto ma attraverso l’azione esercitata sia dalle conoscenze, abilità e pratiche effettivamente messe in atto dagli attori sociali, sia dal grado di libertà di scelta fra le alternative possibili (Sen, 1993). Occorre tuttavia ricordare che informazioni e conoscenze rappresentano risorse di accesso solo se, a loro volta, accessibili. Diversamente sono destinate a riprodurre le stesse disuguaglianze che vorrebbero, in teoria, contribuire a superare. La relazione tra estensione dello spazio di azione e accessibilità, abbiamo visto, dipende dal possesso di risorse individuali quali le reti sociali, le competenze e le conoscenze. Risorse che vengono incluse, unitamente a quelle più tradizionali riguardanti la condizione socio-economica degli attori sociali, nella definizione di motilità (o capitale di mobilità) proposta da Kaufmann nel 2004 (Kaufmann et al., 2004). Secondo l’autore la motilità consiste nell’insieme delle caratteristiche che consentono ad un individuo di essere mobile. Esse si articolano in tre serie di fattori interrelate, l’accesso, le competenze e l’appropriazione cognitiva. L’uso del termine motilità al posto di quello di mobilità è giustificato dall’intenzione dell’autore di spostare l’attenzione dal territorio all’azione individuale, mentre il riferimento al capitale risponde alla convinzione che la mobilità, come altri aspetti del comportamento umano, sia il risultato non casuale della combinazione di risorse che il soggetto acquisisce e scambia con altre forme di capitale (economico, culturale e sociale, Flamm e Kaufmann, 2006). L’attenzione di Kaufmann alle risorse cognitive è stata, in particolare, ripresa e approfondita dalla letteratura tematica francofona che, negli ultimi dieci anni, ha animato il dibattito internazionale sulla dimensione socio-cognitiva dell’accessibilità. Partendo dalla condizione delle persone disabili, Ramadier dedica attenzione al concetto di leggibilità sociale dei luoghi (Ramadier et al., 2008; Ramadier, 2010). Rinviano invece al concetto di capitale spaziale gli studi di un secondo gruppo di ricercatori interessati al tema della mobilità e dell’accessibilità dei giovani in difficoltà (Levy, 2003; Fournand, 2003; Ripoll e Veschambre, 2005; Gachelin, 2007). Il capitale spaziale viene definito come l’insieme delle risorse accumulate da un attore che gli consentono di trarre vantaggi, in funzione della sua strategia, dall’uso della dimensione spaziale della società. Dedicano attenzione, ancora, al tema delle competenze in relazione alle caratteristiche dei luoghi di residenza, gli studi empirici sull’accessibilità alle risorse peri-
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urbane delle persone anziane realizzati a Parigi e nel sud della Francia (Despres e Lord, 2002; Berger, Rougé e Thomann, 2010). Più in dettaglio, questi studi sono finalizzati a far luce sul modo in cui le persone anziane sviluppino attitudini e competenze a vivere in sistemi territoriali peri-urbani connotati dall’auto-mobilità (Urry, 2004; 2006) e dalla dipendenza dall’auto (Dupuy, 1999). Il riferimento al possesso e all’uso dell’auto consente di concludere l’argomento con uno dei temi più controversi nella letteratura tematica sulle proprietà individuali associate all’accessibilità e all’inclusione sociale. Come noto, il possesso dell’automobile è sempre stato considerato un indicatore di benessere economico e una condizione favorevole alla mobilità e all’accessibilità urbana. Le ricerche realizzate agli inizi dello scorso decennio ricordano che, se è vero che fra le classi di reddito le differenze di mobilità sono sempre più contenute in termini di possesso di autovetture (Orfeuil, 2002; Wenglenski, 2002), differenze rilevanti si continuano a riscontrare in relazione alla quota di reddito impiegata nella mobilità, alla qualità degli spostamenti e alle possibilità di scelta tra mezzi alternativi. Questi studi ricordano che l’automobile si sta trasformando da bene di lusso a bene di prima necessità, la cui domanda tende ad essere sempre meno sensibile alle variazioni di reddito e di prezzo. Dargay (2001) mostra che la riduzione di reddito non si traduce in una diminuzione di possesso dell’automobile pari all’incremento che si otterrebbe con un aumento di reddito, a causa sia della presenza di fattori di resistenza al cambiamento sia della difficoltà di ridurre la dipendenza dall’automobile. Quest’ultima osservazione ricorda che il possesso e l’uso dell’auto, normalmente considerati condizioni favorevoli all’accessibilità e all’uguaglianza sociale, possono trasformarsi in fattori di iniquità.
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OLTRE DISTANZE E ACCESSIBILITÀ: INCONTRI E FRIZIONI TRA PAESAGGI E MOVIMENTO
Noi qui abbiamo un problema che è quello che per raggiungere qualsiasi posto devi fare strada, strada che è piena di macchine, capisci, quello è un problema. Maggio 2016 Gruppo di Cammino di Boccaleone, Bergamo
pratiche e dei progetti educativi e mostra la presenza di distanze concettuali e di diversi livelli di accessibilità alla complessità insita nel paesaggio. L’articolo aspira quindi ad offrire alcune suggestioni su come accessibilità e distanze, al di là delle loro definizioni metriche, possano essere declinate al fine di comprendere meglio i paesaggi contemporanei.
1. ALCUNI RIFERIMENTI TEORICI Primavera. Esterno giorno. Aspettiamo che il semaforo diventi verde, io e i miei compagni di cammino per un giorno; il marciapiede, stretto, ha costretto il gruppo ad allungarsi e accanto a me rimangono due partecipanti, il registratore è acceso e continua a raccogliere frasi, rumori, commenti, racconti. La strada e le distanze, le macchine e le persone, la città, le sue bellezze e i suoi problemi. Ritorno a quell’incrocio perché i temi scelti per questa edizione di Iconemi mi costringono, con piacere, a ripercorrere con la mente i percorsi lungo i quali sono stata accompagnata da alcuni gruppi di cammino di Bergamo, nell’ambito della ricerca a cui ho dedicato gli anni del dottorato. Da questi itinerari prende quindi avvio il mio contributo, che aspira a presentare come, da una prospettiva geografica, ma aperta agli sguardi delle altre discipline, i punti di incontro tra paesaggio e movimento costituiscano un terreno fertile per osservare come distanze e accessibilità prendano corpo nell’esperienza quotidiana della città. Dopo una breve introduzione, che ha l’obiettivo di delineare le coordinate teoriche entro cui si è mossa la mia esperienza di ricerca, l’articolo procede con la presentazione di due momenti di incontro tra paesaggio e mobilità: il primo, già citato, consiste nella ricerca condotta con i gruppi di cammino al fine di indagare il rapporto che si instaura, nelle pratiche, tra percezione sociale del paesaggio e movimento condiviso; il secondo, invece, riguarda la mobilitazione, più teorica, della nozione di paesaggio nell’ambito delle
Cos’è il paesaggio, nella sua accezione più comune, se non ciò che vediamo in lontananza? Descriverlo senza prenderne le distanze sembra impossibile e coglierlo sembra richiedere innanzitutto staticità, l’osservazione da fermi. Tuttavia, come hanno sottolineato Farinelli (1991) e Dematteis (2010) il termine è ambiguo e la sua arguzia sta nella capacità di far riferimento insieme a sé stesso e all’immagine di sé stesso. Il paesaggio non è solo osservato, studiato e ammirato dalla distanza; esso è rappresentato, desiderato, immaginato, ma anche toccato, percepito con i sensi e con il corpo e infine progettato e costruito con le nostre azioni, individuali e collettive. Inoltre, senza movimento, senza una fase di distacco – decentering – seguita da una fase di riavvicinamento – recentering – non è possibile costruire un senso maturo di paesaggio, una consapevolezza della sua complessità e dei suoi molteplici valori (Tuan, 1980; Olwig, 1991; Castiglioni et al., 2015). È proprio questo movimento che ci porta ripetutamente dentro e fuori di noi, vicino e lontano, che ci permette di accedere ai molteplici significati del paesaggio e alla loro descrizione. Forse è anche per questo che la geo-grafia, la descrizione del mondo, sin dai tempi dei suoi fondatori Von Humboldt e Ratzel, è considerata proprio la scienza delle distanze (De Vecchis, 2014, p.131). Se il paesaggio non è definibile senza la sua componente dinamica, allo stesso modo le mobilità, intrinsecamente fluide e difficilmente ancorabili ad
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un punto fisso, non sono comprensibili appieno senza considerare i paesaggi da cui dipendono, i territori che producono e che trasformano, i luoghi di partenza, di transito e di arrivo. Su impulso delle scienze sociali (Sheller e Urry, 2006; Cresswell, 2006), lo studio delle mobilità, come fenomeno culturale e sociale ma anche come oggetto delle geografie dei trasporti e della pianificazione urbanistica (Knowles, 2009; Poli, 2011), trascende oggi il tentativo di quantificare e modellizzare i flussi di beni, informazioni e persone e si rivolge sempre più allo studio integrato dei tre aspetti costitutivi di ogni forma di mobilità: il movimento fisico in sé, la rappresentazione che ne costituisce il significato condiviso e, infine, le esperienze e le pratiche in cui si incarna (Cresswell, 2010, p. 19). L’analisi di ciascuna di queste tre dimensioni (formale, simbolica e pratica) non può quindi prescindere dalla considerazione di come i luoghi stessi vengano trasformati e risignificati in base alle mobilità, e alle im-mobilità, che li caratterizzano. Sotto l’ombrello del cosiddetto nuovo paradigma delle mobilità (Sheller e Urry, 2006) convergono inoltre numerose ricerche di stampo interdisciplinare che pongono al centro la mobilità di persone, oggetti, beni ma anche idee, concetti e luoghi. Attraverso l’idea di “paesaggi di pratiche” – landscapes of practice –, come sottolinea Cresswell (2003, p. 280), è possibile operare da un lato una iniezione di temporalità e di movimento nell’idea statica di paesaggio e, contemporaneamente, contestualizzare le pratiche in una cornice spaziale. Seguendo questo approccio, è possibile individuare nel cammino una delle pratiche che più permette di percepire l’ambiente circostante con tutti i sensi (De Vecchis, 2014, p.168) ed appropriarsi dei luoghi, co-costruendoli (Ingold e Vergunst, 2008). Tuttavia, nonostante vi siano numerosi esempi di ricerche dedicate alla pratica del cammino (Solnit, 2005; Careri, 2006; Nuvolati, 2013) e al suo utilizzo come strumento di interpretazione del paesaggio in senso teorico (Wylie, 2005), vi sono ancora pochi studi che si concentrano sull’esplorazione effettiva del cammino, soprattutto come pratica del quotidiano e come relazione con il paesaggio vissuto dagli individui (Middleton 2011, p. 100). Proprio lungo questa linea di ricerca, delineata da Middleton, si situa il primo dei due momenti di incontro tra paesaggio e movimento qui esposti, rappresentato da una ricerca dedicata all’esplorazione del caso dei gruppi di cammino, dalla quale emerge come la percezione del paesaggio possa essere costituita da un insieme di frizioni, barriere e, in alcuni casi, conflitti.
2. IL CAMMINO IN GRUPPO E IL RUOLO DELLE FRIZIONI
Diffusi in numerose province italiane, cosi come in diversi Paesi europei ed extraeuropei, i gruppi di cammino sono composti da un numero variabile di persone che si ritrovano almeno una volta a settimana per camminare insieme lungo un percorso urbano o extraurbano. Essi mirano primariamente, all’interno di una comunità specifica, alla promozione della cultura della salute ed al raggiungimento di obiettivi di natura socio-sanitaria. In Provincia di Bergamo, dal 2009, si sono creati e sono attivi più di 300 gruppi, i quali sono coordinati all’interno del progetto “Stili di Vita Sana” che coinvolge, a livello nazionale, aziende sanitarie, amministrazioni comunali, settori del privato sociale e organizzazioni di volontariato. Si tratta, nonostante la cornice istituzionale e l’impostazione primariamente rivolta alla promozione di stili di vita sani, di pratiche che hanno decisamente a che fare anche con aspetti legati al benessere, individuale e sociale, degli individui e dei territori in cui abitano. La ricerca qui brevemente presentata è stata realizzata nel corso dell’anno 2016 attraverso la partecipazione ad alcune delle uscite dei gruppi, la registrazione di interviste in cammino e la raccolta di questionari ed ha messo in luce come questa pratica di movimento in gruppo nel paesaggio del quotidiano sia uno specchio di alcune questioni territoriali locali ma anche di dinamiche più ampie, di seguito brevemente illustrate. Innanzitutto, dalla ricerca è emerso come il cammino venga influenzato dal paesaggio, su un piano esperienziale, soprattutto in quanto il percorso viene deviato alla ricerca di aree verdi urbane, parchi pubblici, viali alberati, piste ciclabili nel verde o aree agricole periurbane, considerate come mete privilegiate, ma anche in funzione del traffico – percepito come un disturbo in particolare a livello uditivo – e per la ricerca di sicurezza pedonale lungo il percorso. L’oggetto principale verso cui i gruppi di cammino tendono e a cui cercano di accedere, lungo i loro percorsi, è costituito spesso dall’insieme di quei brandelli percepiti come naturali, spesso costituiti da frammenti di terzo paesaggio (Clement, 2004), aree verdi o agricole o paesaggi minimi in cui l’elemento vegetazionale si fonde con le strutture antropiche (Ferlinghetti, 2010). Sul piano cognitivo, è interessante notare inoltre come, attraverso il cammino in gruppo, il paesaggio venga percepito ed esperito non solo come insieme di elementi giustapposti e diversificati tra loro che si susseguono davanti ai nostri occhi durante il cammino, ma come una serie di occasioni di con-
OLTRE DISTANZE E ACCESSIBILITÀ
fronto con l’altro, con chi ci cammina accanto. Ecco quindi che non è solo il cammino ad essere modificato in funzione delle caratteristiche del paesaggio (presenza o assenza di un marciapiede, di un’area verde in cui potersi riposare o di una pista ciclopedonale lungo cui camminare in sicurezza, di luoghi di interesse o di emergenze architettoniche) ma è lo stesso paesaggio ad essere co-costruito, nei suoi molteplici significati, attraverso la pratica del cammino in gruppo. Riprendendo quanto emerge dall'estratto di intervista riportato in esergo, è camminando nel quartiere che è possibile percepire, con tutti i sensi, la presenza di un numero eccessivo di automobili come un ostacolo per il suo attraversamento a piedi, ed è nel condividere questa informazione con chi ci sta accanto che questo ostacolo può trasformarsi, da problema soggettivo, in esperienza collettiva e condivisa, con la quale il quartiere stesso si confronta. Le discontinuità e le frizioni, quindi, come nodo attorno a cui leggere queste pratiche apparentemente poco legate al paesaggio. Frizioni di tipo corporeo, micro-geografie personali fatte di piccoli impedimenti e ostacoli al cammino, presenze o assenze di marciapiedi, odori repulsivi, rumori che impediscono di sentire il racconto della persona accanto. Oppure frizioni materiali ad una scala più ampia, come la presenza di barriere impenetrabili al cammino, infrastrutture esclusivamente dedicate alla mobilità ad alta velocità o cambiamenti nell’uso del suolo, limiti, margini tra aree verdi, residenziali o industriali che presentano nuovi scorci, nuovi elementi con cui confrontarsi. Discontinuità che derivano dalle scelte di pianificazione operate alla scala locale, aree dismesse in via di rigenerazione, nuove strutture che generano traffico indotto o nuove opportunità per i quartieri e, infine, frizioni derivanti da processi globali: effetti locali dei processi di desertificazione commerciale e scomparsa dei negozi di vicinato, invecchiamento della popolazione, sedentarizzazione, povertà e marginalizzazione. Il cammino, e in particolare quello svolto in gruppo, pone quindi di fronte alla diversità e alla complessità dei paesaggi, al loro essere sempre in divenire e, soprattutto, ai diversi significati che assumono a seconda di chi li guarda. Confrontarsi con le frizioni del paesaggio sembra stimolare i partecipanti ai gruppi di cammino ad operare così un salto di scala: dalla scala della percezione soggettiva a quella collettiva e sociale. Nelle interviste in cammino raccolte durante la ricerca, infatti, è attorno a particolari iconemi della città – o landmarks (Lynch, 1960) – che nasce e si alimenta la discus-
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sione, il confronto e la messa in comune di opinioni conoscenze ed esperienze personali, avviando così un processo di costruzione condivisa del paesaggio attraverso il movimento (Cisani, 2018). Essendo al tempo stesso attori e spettatori del paesaggio (Turri, 1998), i partecipanti alle camminate sviluppano una consapevolezza condivisa della propria appartenenza al paesaggio e alla comunità. È questo il meccanismo che si ritrova in quello che Olwig (2008) riconduce all’origine pastorale del termine inglese to heft, dal quale deriva sia il termine utilizzato per indicare il pascolo e l’appartenenza alla terra del gregge sia il verbo to have (avere, possedere), delineando così una stretta connessione tra il cammino in gruppo, il paesaggio e la comunità, e motivando, non senza una dose di rimpianto, il senso di spaesamento e la mancanza di cultura dei luoghi, a suo parere caratteristico delle città contemporanee, con l’allontanamento dei cittadini proprio dalla pratica del cammino e dalla frequentazione dei pascoli. Al di là di interpretazioni nostalgiche, l’importanza della dimensione collettiva dell’esperienza del paesaggio è altresì sottolineata dalla definizione della Convenzione Europea del Paesaggio (2000), il cui testo individua le popolazioni, al plurale, e non i singoli individui, come attori chiave del processo di costruzione sociale dei significati e valori del paesaggio (Ferrario, 2011). Sulla base di queste considerazioni è possibile quindi interpretare la pratica dei gruppi di cammino come un processo di co-costruzione di paesaggio, avente una dimensione materiale, fatta di esperienza corporea e di spostamenti fisici più o meno ostacolati da barriere e frizioni, una dimensione simbolica, costituita dai significati e valori messi in comune e discussi, e infine una dimensione collettiva e politica, in quanto espressione e rivendicazione, anche se inconsapevole, di un diritto alla città (Lefebvre, 2014; Harvey, 2013) e ad una mobilità non assoggettata alle logiche dell’iper-velocità smart (Cucca, 2009) ma piuttosto costruita collettivamente (Nikolaeva et al., 2019). Osservando i gruppi di cammino è possibile quindi far emergere non solo la presenza di determinate frizioni e barriere che impediscono e ostacolano l’accessibilità della città, ma anche interpretarne il ruolo, pedagogico, all’interno di un processo che vede le discontinuità e i conflitti come parte di un percorso di conoscenza e di acquisizione di consapevolezza. In particolare, in un’ottica di ricerca, di cittadinanza attiva e di pianificazione, considerare questo tipo di pratiche collettive di mobilità porta ad evidenziare come diverse distanze materiali (de-
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sertificazione commerciale, assenza di aree verdi, barriere architettoniche) e immateriali (solitudine, invecchiamento della popolazione, insicurezza, disuguaglianze di genere) si intreccino tra loro e che lavorare per un loro superamento implichi considerare i concetti di accessibilità e walkability non solo come meri indicatori, misure metriche funzionali alla rigenerazione urbana e a processi di gentrification, bensì come componenti di un più ampio percorso di accesso, co-costruzione e trasformazione dei paesaggi.
3. L’EDUCAZIONE AL PAESAGGIO E ALLA CITTADINANZA
Come è stato sottolineato, il cammino in gruppo nei paesaggi del quotidiano presenta un insieme di distanze e frizioni che tuttavia, potenzialmente, offrono un’occasione di confronto e di costruzione di una conoscenza condivisa del paesaggio, assumendo un valore pedagogico. Questo aspetto emerso dalla ricerca descritta nel paragrafo precedente offre la sponda per esplorare brevemente una seconda possibile declinazione del concetto di accessibilità, strettamente connessa alle competenze e alle pratiche di cittadinanza. In questo caso, le riflessioni provengono principalmente da un percorso di ricerca dedicato al paesaggio come oggetto e come strumento educativo, sviluppato dal Dipartimento di Studi Storici, Geografici e dell’Antichità dell’Università di Padova in collaborazione con il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali. Attraverso un questionario diffuso a scala nazionale, con il quale sono stati raccolti ed analizzati più di 300 progetti educativi, la ricerca ha portato, ad una mappatura dei progetti educativi di base e delle attività di formazione di insegnanti e operatori, realizzati in Italia tra il 2015 e il 2017 e dedicati al paesaggio. Questa mappatura, lungi da essere un censimento esaustivo, ha permesso tuttavia di avviare un’ampia riflessione sull’esistente (Cisani e Castiglioni, 2019). Tra i risultati, è in questo contesto utile sottolineare come sia emersa la presenza di differenze e distanze tra il modo scolastico e il mondo dell’educazione informale e rivolta alla cittadinanza. In estrema sintesi, i risultati mostrano che, se nell’ambito scolastico prevale una visione del paesaggio incentrata sulle sue componenti naturali e sulla dimensione sensoriale; nel mondo extra-scolastico il paesaggio è inteso invece principalmente come patrimonio storico-culturale. In entrambi i casi, inoltre, vi è una forte tendenza a concentrarsi sulle trasforma-
zioni che hanno interessato i paesaggi nel passato, con minore attenzione nei confronti delle dinamiche attuali della progettazione dei paesaggi del futuro. Tra le esperienze raccolte e analizzate, tuttavia, i dati mostrano la presenza di un approccio per certi aspetti differente rispetto a quelli appena descritti, quasi isolato, che considera il paesaggio come un’arena di confronto. Nei progetti che più incarnano questo approccio il percorso di educazione al paesaggio diventa infatti un’occasione di discussione tra i partecipanti, in cui hanno spazio le diverse interpretazioni e i molteplici valori assunti dal paesaggio ed emerge la sua natura mobile e complessa, spesso conflittuale e, in ultima analisi, politica (Mitchell, 2008). Tra le iniziative che più considerano questi aspetti troviamo ad esempio progetti di scoperta e progettazione dei giardini e degli spazi scolastici, percorsi di costruzione condivisa del patrimonio urbano; piani paesaggistici regionali che coinvolgono le scuole nella fase di identificazione dei significati del paesaggio; iniziative di coinvolgimento della popolazione per il recupero e la ri-costruzione del paesaggio, materiale e simbolica, all’indomani di terremoti o altri disastri ambientali; progetti di riappropriazione e di recupero di aree degradate. Adottando questa prospettiva, l’educazione al paesaggio può essere intesa quindi come uno strumento che contribuisce allo sviluppo delle competenze chiave di cittadinanza (D.M. 137/2007), poiché riguarda strettamente la capacità di comunicare, di collaborare e partecipare, di individuare collegamenti e relazioni, risolvere problemi, progettare e, in ultima analisi, di accedere appieno al paesaggio come bene comune (Parascandolo e Tanca, 2015).
4. MUOVERSI NELLE DISTANZE, COSTRUIRE L’ACCESSIBILITÀ
Come descritto in apertura, questo contributo ha cercato di tracciare alcune linee di riflessione attorno ai concetti di distanza e accessibilità, prendendo spunto da due percorsi di ricerca separati che tuttavia hanno in comune il fatto di ragionare sulle distanze (materiali e immateriali) e generare, in modalità differenti, incontri e frizioni tra movimento e paesaggio. Se nel primo esempio l’incontro tra paesaggio e movimento si incarna nelle pratiche di cammino in gruppo ed ha portato a considerare il ruolo delle frizioni nel meccanismo di percezione e costruzione condivisa del paesaggio, nel secondo caso l’approc-
OLTRE DISTANZE E ACCESSIBILITÀ
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cio mobile applicato al paesaggio permette di osservare come la nozione stessa di paesaggio si muova, assumendo diverse forme, nei vari contesti educativi in cui viene impiegata e come, in alcuni casi, l’educazione al paesaggio possa favorire proprio la comprensione della natura mobile, ambigua e multidimensionale del paesaggio. In entrambi i casi, queste ricerche mostrano come l’attenzione nei confronti delle pratiche, di mobilità così come di educazione al paesaggio, possa contribuire a comprendere come le questioni legate alla distanza e all’accessibilità prendano forma in alcuni aspetti della vita quotidiana e quale ruolo abbiano nei processi di costruzione ed espressione di cittadinanza.
Fig.1. Boccaleone, Bergamo (foto dell’autrice).
Fig. 2. Attraversamenti, Bergamo (foto dell’autrice).
Fig. 3. Nel parco delle rane, Bergamo (foto dell’autrice).
Fig. 4. Osservare il paesaggio a distanza (foto Comune di Pesaro, servizio politiche educative).
Fig. 5. Camminare nel paesaggio (foto Partecipanza agraria di Nonantola).
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RENATA GRITTI
COMUNITÀ E IDENTITÀ: TRA ‘BENE COMUNE’ E ‘APPARTENENZA’
Nel mio ruolo di presentatrice dell’argomento in trattazione oggi e moderatrice dei relatori che sono stati chiamati ad approfondire e declinare questo tema, ho ritenuto fosse necessario, vista la formazione tecnica del pubblico cui l’iniziativa Iconemi è rivolta, cercare di circoscrivere l’ambito della nostra indagine e introdurre alcuni elementi chiave per consentire un’adeguata interpretazione e comprensione di quanto sarà esposto. Mi sono avvalsa per questo prevalentemente di una fonte autorevole e scientificamente adeguata quale l’ENCICLOPEDIA DELLE SCIENZE SOCIALI Treccani1. DEFINIZIONE DAL DIZIONARIO: comunità /co·mu·ni·tà/ 1. Insieme di persone unite tra di loro da rapporti sociali, linguistici e morali, vincoli organizzativi, interessi e consuetudini comuni: la c. nazionale, cittadina; agire nell’interesse della c.; c. umana, la società degli uomini, il consorzio umano; c. di affetti, la famiglia. 2. Il complesso degli organi sovranazionali istituiti tra i paesi europei per il conseguimento di vantaggi economici e politici, nonché per la realizzazione di un mercato unico di merci, servizi, capitali e lavoratori. Il termine ‘comunità’, derivato dal latino communis: CUM-MUNEM, “con obblighi, obbligato a partecipare, unito ad altri con l’obbligo in ciascuno di qualche prestazione e col diritto di ricevere qualche beneficio” (contrapposto ad IM-MUNEM, libero da prestazioni) appartiene al linguaggio corrente ma anche al linguaggio di molte discipline, princi-
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palmente utilizzato in antropologia e sociologia, e ancora per esempio in filosofia, nel diritto, nella scienza politica, con significati tecnici di non facile definizione. Nelle scienze sociali il termine è usato prevalentemente in due significati. Nella sociologia classica esso evoca le piccole comunità di villaggio ma rimanda pure alla comunità nazionale, comprende la famiglia ma anche qualsiasi unità sociale in condizioni di alta integrazione; arriva infine a definire, in forma tipica, la società tradizionale che ha preceduto quella moderna. Nella sociologia contemporanea, invece, comunità è in genere sinonimo di comunità locale, con una restrizione – dunque – del significato2. Tanto in antropologia quanto in sociologia, nello studio di comunità locali non tradizionali e di più ampie dimensioni, sorgono problemi interpretativi ed esplicativi per gli “aloni di significato” che il termine si porta dietro. Nonostante le questioni che tali ambiguità di significato comportano, ci sono resistenze ad abbandonare il termine, anche nel senso più generale e astratto. Alcuni autori hanno cercato di evitarne l’uso, argomentando ed esplicitando la necessità bandirlo dal vocabolario delle scienze sociali3. Nonostante ciò il termine manifesta una persistenza ed una longevità invidiabili, assumendo nuove forme e nuove sfumature (e nuove ambiguità) in ragione dei differenti studi, delle nuove modalità di indagine, della multidisciplinarietà della ricerca scientifica oggi attuabile, delle risorse tecniche e tecnologiche a disposizione per affinare l’analisi dei dati in studio. Quindi non solo in ambito scientifico incontriamo resistenze ad abbandonare il termine, specie nel
http://www.treccani.it/enciclopedia/comunita_%28Enciclopedia-delle-scienze-sociali%29/ La più autorevole proposta di questo dopoguerra di una teoria sistematica, The social system di Talcott Parsons, comprende il concetto di comunità solo per indicare quel tipo di collettività “i cui membri condividono un’area territoriale come base di operazioni per le attività giornaliere” (v. Parsons, 1951; tr. it., p. 97). 3 v. Geiger, 1931. 2
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senso di comunità locale, non solo alcuni teorici lo mantengono nei loro apparati interpretativi, non solo i sociologi quando parlano lo adoperano più spesso di quanto non credano e di quanto non scrivano, ma spesso si osserva che ‘comunità’ è un termine che fa da ponte, pur con molte ambiguità, tra discorso sociologico e discorso corrente; ancora più significativamente, tra differenti scienze sociali. Già a fine ‘800 Ferdinand Tönnies effettuò il tentativo di chiarimento concettuale e di costruzione tipologica, partendo dal linguaggio corrente, distinguendo dunque ‘comunità’ da ‘società’, in quanto caratteristicamente distinte. In sostanza, egli afferma, “ogni convivenza confidenziale, intima, esclusiva [...] viene intesa come vita in comunità; la società è invece il pubblico, è il mondo.”4. Individua così la comunità di sangue, quale forma primaria di comunità, che trova la sua “unità e perfezione” nel rapporto genitori-figli (parentela); ma si danno pure comunità di luogo (vicinato) e comunità di spirito (amicizie). Max Weber ridefinisce in seguito il concetto di comunità, collocandolo a livello delle relazioni sociali e, pur individuando elementi della società tradizionale, non determina immediatamente l’interpretazione complessiva di un tipo di società5. Anche Durkheim ricorre a una dicotomia per definire la comunità, distinguendo fondamentalmente fra società basate sulla solidarietà meccanica (nelle quali il nesso che tiene uniti i segmenti è una cultura fortemente prescrittiva e repressiva) e società basate sulla solidarietà organica (che deriva dalla divisione del lavoro nella società moderna e definisce funzioni interconnesse, dunque ruoli complementari). Parsons individua il concetto di comunità solo in ragione della condivisione territoriale, come base di operazioni per le attività giornaliere. Questi successivi e ripetuti tentativi di definire univocamente cosa si voglia intendere per ‘comunità’ non hanno fatto che aumentare la varietà e la quantità dei suoi ambigui confini, che si sono sfilacciati nella definizione di altri concetti connessi con quello di comunità, altrettanto generatori di sfug4
genti delimitazioni, eppure utilizzati comunemente e anche senza riferimento al vecchio concetto: identità, reciprocità e fiducia sono parole che appartengono al vocabolario della comunità. La perdita di identità cui spesso ci si riferisce parlando della condizione di spaesamento dell’individuo nella società contemporanea è un modo per contrapporre una condizione di ‘vita societaria’ a una precedente condizione di ‘integrazione comunitaria’. I più recenti filoni di ricerca6 hanno studiato l’importanza, specialmente all’interno di un’economia come quella contemporanea, all’interno del sistema di mercato, di un sistema di azione autonomo, non istituzionalizzato, che sfugge al controllo ed alla quantificazione, tanto che non viene neppure contabilizzato: l’economia nascosta, non di mercato, segnala la sopravvivenza nella società moderna del principio di reciprocità. Il tema della fiducia7, quale requisito che rende possibili relazioni e strutture sociali, a livello sia micro che macro, si esplicita ed emerge prepotentemente in sociologia e in psicologia, per espandersi ed affiorare nello studio dei processi di sviluppo economico, dei fenomeni organizzativi, delle relazioni interpersonali, nella teoria della scelta razionale. Gli studi di comunità8 si sono caratterizzati come studi clinici di sintesi, interessati all’insieme dei rapporti sociali di una situazione concreta, secondo un’intenzione (più simile a quella della storia) che avvicina sociologi e antropologi. A ciò si associa la tendenza a utilizzare, a seconda delle necessità, strumenti di analisi delle diverse specializzazioni disciplinari delle scienze sociali e a usare insieme, a seconda dei casi, più tecniche di ricerca. Per questo motivo sono stati spesso compresi fra gli studi sociografici, studi che hanno cominciato ad usufruire della ricerca empirica in sociologia, pur con temi, metodologie ed interessi conoscitivi diversi, il tutto nel contesto di un ambito sociale territoriale. Il riferimento territoriale può andare dall’esame delle connessioni fra un insieme di fatti sotto osservazione e alcuni aspetti di una società locale ritenuti pertinenti, sino alla ricostruzione di un modello semplificato della struttura sociale localizzata.
v. Tönnies, 1887; tr. it., pp. 45-46. v. Weber, 1922; tr. it., vol. I, p. 39. 6 Per un’applicazione di questa prospettiva nello studio di una comunità locale, v. Bagnasco e Trigilia, 1984. 7 Riferimenti espliciti al tema della fiducia si trovano all’interno di grandi schemi teorici della società, come quelli di Parsons o di Niklas Luhmann, ma si incontrano anche in economia, dove, per esempio, Fred Hirsch definisce la fiducia come la condizione in cui sono presenti aspettative di reciprocità sul lungo periodo, e in ultima analisi come “bene pubblico”, vantaggioso per l’insieme dei partecipanti al mercato; si trovano anche nelle moderne teorie organizzative dell’impresa, dove si valuta la diminuzione dei costi di transazione quando le parti “possono fidarsi l’una dell’altra” e non si comportano in modo opportunistico (v. Butler, 1982; tr. it., p. 323). 8 v. Jahoda e altri, 1933. 5
COMUNITÀ E IDENTITÀ: TRA ‘BENE COMUNE’ E ‘APPARTENENZA’
Un esempio tra tutti le ricerche che Robert S. e Helen M. Lynd9 realizzarono a Muncie (una città di medie dimensioni dell’Indiana, da loro chiamata Middletown), per l’influenza che esse esercitarono sui lavori sociologici successivi. La ricerca dei dati partiva dalla rilevazione dei comportamenti in relazione a sei azioni fondamentali: guadagnarsi da vivere, farsi una casa, educare i figli, impiegare il tempo libero, impegnarsi in pratiche religiose, impegnarsi in pratiche comunitarie. Orientati da questo schema, e attraverso una paziente raccolta diretta di dati e informazioni, i ricercatori stesero alla fine un rapporto che metteva gli Americani di fronte a un’immagine di se stessi assai diversa da quelle ideologiche dell’American dream (senza lasciare spazio ad equivoci tra ‘medie dimensioni’ e città ‘statisticamente media’). Come non notare il parallelismo con le 4 azioni fondamentali che il CIAM si pose 70 anni fa a Bergamo nell’unico Congresso Internazionale di Architettura Moderna svoltosi in Italia: abitare, lavorare, muoversi e ricrearsi? Con l'obiettivo di individuare, mediante una dura semplificazione dei fondamenti del vivere, la chiave interpretativa per pensare città in cui vivere meglio. Molteplici i tentativi di fornire modelli formali di comunità, sulla base di ‘teorie delle comunità locali’, che siano in grado di superare la specifica e concreta variabilità studiata e rilevata da questi studi clinici, fornendo linee interpretative in funzione di parametri di riferimento. Negli anni ’50 e ’60 gli studi politologici e sociologici sul potere nella comunità10 trovarono un comune terreno di esercizio, valutando e analizzando le relazioni tra tre categorie variamente articolate e dosate: le caratteristiche di base della comunità (demografiche, economiche, ecc.); le caratteristiche della leadership e della struttura dei processi decisionali; le decisioni concrete prese. L’avvio del processo di sviluppo11 e, più di recente, i cambiamenti tecnologici e di mercato che hanno mutato la geografia dell’economia hanno sollecitato ricerche sui rapporti economia-società a livello
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locale, anche se spesso orientate a specifici problemi, esterni alla problematica della comunità in senso stretto12. Proprio questo tipo di indagini, le loro relazioni con la politologia e l’economia, la vicinanza di interessi fra sociologi e antropologi, hanno fornito strumenti aggiornati alla ricerca localizzata, contribuendo a restituire importanza agli studi di comunità, non più relegati in un’area indistinta di studi semplicemente descrittivi. Di recente, specie in Inghilterra, ci si è interrogati sul rinnovamento degli studi di comunità e sul ritorno di interesse per lo studio empirico del vicinato, delle reti di relazione, delle relazioni di amicizia, di quei fenomeni cioè di per sé non locali, che appartengono alle nuove problematiche teoriche della comunità13. Osservare che tali fenomeni debbono essere studiati senza ipostatizzare lo spazio, non significa però che lo studio dell’organizzazione spaziale della società debba essere abbandonato. Queste discussioni, come le questioni e le differenziazioni degli studi di comunità, piuttosto che segni di crisi paiono invece indicatori di vitalità in un ambito di ricerca che ha un bisogno continuo di risposte per poter orientare i servizi delle città ai loro cittadini. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Anfossi, A., Talamo, M., Indovina, F., Ragusa: una comunità in transizione, Torino 1959. Ardigò, A., Donati, P. P., Famiglia e industrializzazione, Milano 1976. Arensberg, C. M., American communities, in “American anthropologist”, 1955, LVII, pp. 11431162. Arensberg, C. M., The Old World peoples: the place of European cultures in world ethnography, in “Anthropological quarterly”, 1963, XXXVI, pp. 75-99. Bagnasco, A., Trigilia, C., Società e politica nelle aree di piccola impresa: il caso di Bassano, Venezia 1984.
9 v., 1929 - La prefazione a Middletown, considerato oggi un classico della sociologia, fu scritta dall’antropologo Clark Wissler, noto per le sue ricerche sugli indiani dell’America settentrionale; in quella occasione egli definì Middletown “un tentativo sperimentale di affrontare lo studio di una comunità americana secondo i metodi dell’antropologia sociale”. 10 Floyd A. Hunter 1953 e Robert A. Dahl 1961; v. Clark, 1968, p. 16; P. 37. 11 per l’Italia, v. Anfossi e altri, 1959; v. Pizzorno, 1960. 12 Esempi di questo tipo di studi sono: in Inghilterra la ricerca di Ray E. Pahl (v., 1984) sulla vita quotidiana e le strategie familiari nell’isola di Sheppey; in Italia gli studi locali sullo sviluppo dell’economia di piccola impresa (v. Ardigò e Donati, 1976; v. Bagnasco e Trigilia, 1984); in Francia la ricerca di Bernard Ganne (v., 1983) sulla crisi dei vecchi insediamenti industriali e la differenziazione del tessuto produttivo ad Annonay, nell’Ardèche. 13 v. Bulmer, 1985.
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RENATA GRITTI
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JOHNNY DOTTI
COMUNITÀ E IDENTITÀ – BERGAMO*
“Comunità” è una di quelle parole che possono fare molto male o che possono aprire orizzonti inesplorati: noi siamo comunità. La comunità non è nient’altro che l’esperienza umana della nostra componente plurale. In quanto persone, noi non siamo né singolari né plurali e siamo contemporaneamente singolari e plurali. Come insegnano tutte le lingue del mondo – compreso l’italiano e il dialetto bergamasco – Io, Tu, Egli o Ella sono prima, seconda e terza persona singolare; Noi, Voi, Essi sono prima, seconda e terza persona plurale. Facciamo l’esperienza di essere un Noi in quanto persona. Detto in tempi di crisi dal punto di vista individualista, appare una cosa un po’ strana: continuano a spiegarci che siamo il nostro Io, ma l’Io è un sesto della persona, tra l’altro un terzo dell’esperienza singolare, mentre la principale esperienza che facciamo come persona dal punto di vista singolare è di essere un Tu di qualcuno – il tu di un amante, il tu di un amico, il tu di un figlio, il tu di un altro. Questa è l’esperienza esistenziale più evidente, finiremmo in ragionamenti totalmente astratti se volessimo descrivere separatamente l’esperienza dell’Io. L’esperienza esistenziale più concreta è quella del Tu, il principio singolare che ci conduce all’esperienza plurale di Noi. Questo è fondamentale dal punto di vista antropologico, filosofico, spirituale, sociologico, mentre siamo radicati nell’immaginario di noi stessi come individui. Io contesto radicalmente questa definizione di uomo: un uomo non è, non esiste come un individuo. Dal punto di vista dell’esperienza esistenziale, è una persona. Dal nostro sentirci individui sono nati gli alloggi, gli appartamenti, che sono esattamente la forma opposta e ci portano a stare male. Ecco, dunque: noi siamo comunità. Non in modo esclusivo, ma la comunità è l’esperienza plurale di noi. Ieri sera, io ero
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un interista in grande difficoltà, perché ero in viaggio, sentivo la radio, ma facevo l’esperienza del noi. Esistenzialmente, la mia passione, la mia tensione, erano dentro una comunità persa nel mondo, che è quella degli interisti. Quindi quella era un’esperienza reale, che mi faceva soffrire. Abbiamo dibattuto, anche in modo abbastanza superficiale, sulla demagogia basata sulle appartenenze comunitarie religiose: quando Salvini alzava il crocifisso, evocava un’appartenenza comunitaria. In maniera demagogica e assolutamente strumentale, lì si tocca un punto – in una fase di sofferenza popolare, di difficoltà di identificazione, di dolore e di speranza, di senso di appartenenza a qualcosa, di “qui qualcuno forse mi vuole ancora bene”, di “sono di qualcuno”. Sarebbe un grave errore rubricare questo aspetto solo nell’ignoranza o nella stupidità: è come considerare i musulmani che vanno a pregare il venerdì sera solo dei regrediti che prima o poi si svilupperanno, come noi, e si renderanno emancipati dalla loro forma comunitaria. Come se noi fossimo evoluti, con i derivati, frutto di un individuo portato ad assoluto e che immagina che l’unico orizzonte di vita sia alimentare la propria volontà di potenza. È il vecchio racconto della rana di Fedro: più ti gonfi, più sei importante, più la tua potenza si espande, più tu fai esperienza della vita. La crisi del 2007, oggi è una crisi antropologica, che solo dal punto di vista superficiale appare finanziaria: la finanza è stata l’ultimo strumento della nostra volontà di potenza, la quale immagina che siamo in grado di generare qualsiasi cosa a nostro favore e ingegnerizzare tutto. È evidente che siamo in un sistema tecnocratico: nient’altro che l’espansione e l’allungamento di questo astratto io, ma in modo molto illusorio. Noi pensiamo di espandere l’esperienza di noi stessi attraverso la tecnologia, ma in realtà è il sistema che controlla noi.
Trascrizione del discorso tenuto il 7 ottobre 2019,presso la Sala Galmozzi, rivisto dall'autore.
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Nell’immaginario che abbiamo della salute, più viviamo a lungo meglio è. Ma chi l’ha detto? Il problema è come vivi, chi sei, come muori, con chi muori. Perché muori, perché vivi. Invece, noi abbiamo questo immaginario espansivo di un’esperienza molto materiale, che ci porta ad essere pieni di protesi, viagra, antidepressivi: cerchiamo di compensare questa volontà di potenza, che diventa insostenibile. Siamo arrivati ad un consumo di antidepressivi e ansiolitici senza precedenti nella storia umana. Il gioco d’azzardo, a Bergamo, ha superato ampiamente i €2000 a persona, compresi di neonati: cos’è questo, se non una perversione della volontà di potenza? Infatti, dico sempre ai miei studenti che Nietzsche sta festeggiando da circa 40 anni in cielo. Eppure, Nietzsche è morto pensandosi un cavallo: morto impazzito, ha pagato con la sua persona ciò che ha detto, pura espressione di questa volontà di potenza liberata da qualsiasi laccio relazionale. Portato all’estremo, Nietzsche è il nichilismo, ma la comunità torna costantemente. Anche la mafia è una forma perversa di comunità, uno dei sistemi economici tra i più potenti al mondo: la comunità in sé non è una cosa buona o cattiva, ha bisogno di essere interpretata. Se la vogliamo rimuovere, torna sotto forme perverse. Anche il digitale è una community: il grande capitalismo oggi investe tutto sullo sharing. Cos’è lo sharing, se non una produzione comunitaria di aggregazione della domanda? Il mio invito è a prendere sul serio la questione e immaginare che noi siamo relazione. Siamo comunità, dunque siamo relazione, e ogni relazione si contestualizza. Invece, l’idea dell’individuo è stata portata all’estremo, come se il testo non avesse bisogno di un contesto. Ognuno di noi è un mistero e dovremmo recuperare la gioia di questa affermazione. Invece, negli ultimi quarant’anni l’esistenza è stata scientificamente sostituita dalla funzione: noi siamo e viviamo perché funzioniamo. Auschwitz funzionava benissimo, probabilmente aveva l’economia circolare più efficiente che l’uomo abbia mai prodotto. Non si buttava via niente, ad Auschwitz: era efficientissima. Eichmann andava anche a messa con i bambini la mattina, ad Auschwitz c’è la Chiesa. Io sostengo che la nostra civiltà post-seconda guerra mondiale ha moltiplicato in modo subdolo il senso profondo di Auschwitz: siamo stati ridotti tutti ad una funzione e a funzionare. Il problema principale che ci siamo posti è quello del know-how, ma il know-how non serve a nulla se non c’è il know-why, il know-what, il know-who. Prima viene il perché, poi viene il chi, poi viene il cosa, per quarto viene il come.
Dunque, alcune forme umane hanno una premessa antropologica di natura personale; altre forme umane hanno per premessa l’individualismo funzionalista. La grande crisi che noi stiamo attualmente attraversando, che transiterà verso un nuovo ciclo del capitalismo – credo che moriremo capitalisti, su questo io sono tranquillo – è chiaramente un ciclo di riposizionamento rispetto a ciò che prima è stato venduto come il senso della vita: “il mondo gira intorno a te”, che sintetizza molto bene l’espansione dalla caduta del muro di Berlino ad oggi. Tutto è stato immaginato così e tutto è stato ricondotto lì, perché doveva alimentare il rapporto produzione-consumo. E chi consumava? L’individuo. Perciò bisognava alimentare la volontà di potenza di questo individuo, che si è trovato sempre più solo, sempre più obeso, sempre più vecchio, sempre più materialmente ricco. Eppure, povero spiritualmente di relazioni. Noi abbiamo costruito un sistema che ha prodotto attualmente dieci volte il PIL del mondo in termini di debiti. Non sappiamo cosa fare, non lo sa nessuno. Questa quantità di debiti è servita a sviluppare l’idea di noi come consumatori infiniti, con risorse e debito infinito: nessun problema, tanto il debito si re-impacchetta e diventa nuova risorsa. I derivati non sono altro che una strumentazione della follia di potenza dell’individuo. Come conseguenza, negli ultimi dieci anni sono ritornati i fondamentalismi, le regressioni comunitarie, i simboli religiosi: la via percorsa è terminata. Come l’adolescente che per la prima volta esce di casa e si ubriaca tutte le sere in discoteca: a forza di ubriacarsi, a un certo punto, collassa. Abbiamo vissuto tutti sopra le righe, in nome di un’espansione, abbiamo immaginato di essere potenza infinita: noi non siamo potenza infinita, noi siamo esseri mortali. Un saggio rapporto con le cose è sapere che vieni da qualcuno e che consegni qualcosa a qualcun altro. Invece, per 40 anni, abbiamo pensato ad allargare la rana, abbiamo cambiato mogli, mariti e immaginato di produrre figli come volevamo, di espanderci in qualsiasi cosa. Sempre più impotenti e frustrati, paradossalmente. C’è però una grande possibilità oggi, che non è l’immediata identificazione con la questione comunitaria, ma è immaginare che ci siamo lasciati alle spalle qualcosa di valore e che oggi possiamo rigenerarlo, fatta questa esperienza adolescenziale – sana, probabilmente dovevamo liberarci dal padre ossessivo, da sistemi di controllo, anche se siamo finiti in sistemi di controllo forse peggiori. Che cos’è davvero la nostra libertà? È la domanda che atterrisce l’occidentale. In un caso, si ha una
COMUNITÀ E IDENTITÀ – BERGAMO
società pura delle funzioni, ancora individuale, che si illude che questa sia la felicità; nell’altro, si tratta di un’immunità, non di una comunità: immaginarsi che ci chiudiamo e ci rassicuriamo entro confini “sicuri”, perché li conosciamo: per etimologia, la comunità è contemporaneamente dono e mura. La comunità è quella che non si è mai data, la comunità che c’è è quella che non c’è. È come noi. Chi sei tu veramente, Johnny? La mia risposta più onesta a 56 anni è: boh! Chi è veramente tua moglie? La mia risposta più onesta è: boh! Eppure, è quel “boh” la comunità. Che cosa vuol dire questo rispetto alle forme urbane e abitative? Gli appartamenti non si venderanno mai più, perché gli individui stanno male nel loro essere individui: appartamento vuol dire separazione, è esattamente la confezione dell’individuo, che è stata funzionale per il periodo fordista. Quando sento parlare degli “alloggi popolari” mi viene la pelle d’oca. La parola “alloggio” comincia a diventare significativa nel linguaggio dopo la metà dell’800, quando gli alloggi erano due categorie: gli alloggi degli animali e quelli dei soldati. Mai, nella storia dell’umanità, una casa è stata chiamata “alloggio”. Siamo entrati inconsapevolmente dentro un meccanismo che ci ha triturati: la bellezza è che è finito; state tranquilli, è finito. Adesso, che facciamo? Ci può essere una connessione tra felicità, persona e comunità, possiamo immaginare che ciò che abbiamo buttato via alla svelta contiene un pezzo – non la soluzione, non c’è mai la soluzione: io sono cattolico, quindi penso che il pellegrinaggio è infinito – per avvicinarci a cose buone, belle, giuste, vere. Nel mio piccolo attraversamento esistenziale, io dico di sì. Oggi però la comunità è una scommessa. Aggiungo di più: è una scelta politica. La dico più forte: è dire che non esiste società, se non c’è un’esperienza di comunità. Questo è un programma politico enorme, che può essere interpretato in modo diverso da sinistra e da destra, ma questo è un programma politico: è una visione, dal punto di vista della proposta dell’essere un Noi, un Voi o un Essi. Sulle cose fondamentali – educare, curare, lavorare, abitare – dobbiamo confrontarci con la questione della comunità: non è un optional, non è “se c’è, c’è… se non c’è fa niente”. Immaginarsi il Tu degli altri e immaginarsi il voi degli altri, cioè partire dalla seconda persona singolare o plurale, è diverso che partire dalla prima persona. La prima persona è un bel problema per l’uomo, lo è sempre stata: sia l’io che il noi. L’io porta all’individualismo e il noi porta all’immunitas. Sentirsi un Tu per qualcuno, un Voi per qualcuno, invece, è positivo, apre alla comunità.
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Che cosa vuol dire? Vuol dire superare l’immaginario dell’alloggio e dell’appartamento, in cui noi tutt’ora siamo incastrati: quando pensi al valore immobiliare, pensi all’appartamento. Nella nostra tradizione, solo negli ultimi 60 anni le case sono state appartamenti. Tradizionalmente, l’appartamento era il modo di definire lo spazio privato del principe nella reggia: qui è rimasto lo spazio privato, senza reggia. Oggi le parole non esistono più, perché il sistema tecnocratico prevede solo termini: invece, le parole sono vive, hanno una storia, e ci conducono dentro altre storie. Noi generiamo un linguaggio, che genera la vita. Nella nostra condizione esistenziale, se gli over 65 superano gli under 25, bisogna farsi la domanda: con chi volete morire? Queste sono le domande che trasformeranno l’abitare: con chi volete morire, voi? E con chi voglio vivere, io? Uguale, stessa domanda. Volete morire con un robot, che vi cambia il catetere e vi tiene anche la mano? Non “gli sfigati”: noi, noi normali. Non diciamo “i fragili”, siamo tutti fragili. L’ondata sarà clamorosa. Tra l’altro, con patrimoni sempre più bassi, mentre in questi dodici anni siamo sopravvissuti attingendo ai patrimoni. La pensione è stata un accidente del ‘900, ma per un po’ non potremo permettercela. Quindi? In termini propositivi: possiamo immaginare che il vicino non è solo un fastidio? Tutte le nostre forme urbanistiche, i nostri paesi, avevano dentro questa intuizione: funzione, individuo; tutto è specializzato, targettizzato; tutto domanda-risposta: nessuno custodisce più la domanda, mentre l’arte della vita è custodire la domanda, non avere tante risposte. È una follia: l’uomo non può stare in un appartamento – neanche un monaco, neanche un eremita. Perché, dunque, l’appartamento ha retto? Grazie alla compensazione della fabbrica del fordismo, che era luogo di comunità, dunque esperienze aggregative di natura biologica, spirituale, morale, culturale. Finite quelle, sono rimasti gli appartamenti. Dove si fanno la maggior parte degli omicidi in Italia? Negli appartamenti. Non è un caso. C’è molto da fare per architetti, geometri, urbanisti: cambiare l’immaginario, cambiare le forme. Il vicino ti riguarda, non è poi così male. Anche dal punto di vista economico: a Milano, su 10 famiglie, 5 sono formate da una persona sola; un altro 25% da due persone sole; solo l’ultimo 25% da più di 2. Volete cambiare le forme dell’abitare? Se l’economia non segue la vita, è pura speculazione – ma qui non c’è più niente da speculare, ormai è evidente.
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Possibile che non si riaccenda l’idea che c’è uno spazio comune tra il privato e il pubblico? Rimaniamo polarizzati in una forma che sta morendo, sia nella democrazia rappresentativa, sia nella speculazione individualista. Invece, tutte le nostre forme urbane sono costruite sul sentimento del comune, di ciò che abbiamo in comune. Cosa sono le piazze? Spazio buttato via, per un funzionalista. Cosa sono le case a ringhiera? Spazi senza igiene. Eppure, quanta gente si incontrava? Che bello. Forme di socializzazione profondissima, intelligenze enormi di natura popolare.
Gli “alloggi popolari” non li ha prodotti il popolo, ma sempre il potere. Il popolo ha sempre prodotto case. Adesso prendiamo dall’inglese “co-housing”, “housing sociale”, ma questa è la nostra tradizione. La mia domanda è: come posso portare questa tradizione dentro l’oggi – attraversare la libertà che abbiamo conquistato, ma non renderla assoluta, facendo esperienza di una libertà relazionata? Ecco, la comunità è un’esperienza di libertà relazionata. La libertà, se non è relazione, non è libertà: è liberticidio. Si è sempre liberi con qualcuno, per qualcuno, da qualcuno, di qualcuno. Senza qualcuno, non c’è la libertà.
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SUPERARE LE FORME DI FRAMMENTAZIONE URBANA: PROCESSI PARTECIPATIVI E MAPPING DINAMICI PER IL RECUPERO DEI BISOGNI DEGLI ABITANTI
Il contributo affronta il tema proposto dalla sessione «Comunità e identità tra bene comune e appartenenza» dell’edizione di Iconemi 2019, a partire da un approccio geografico e si articola in due parti. La prima, ispirata ai materiali di supporto della sessione, ovvero il film La Zona di Rodrigo Pla e il volume High Rise di Ballard, analizza alcune forme urbane proprie della mondializzazione e ricorrenti nel film e nel romanzo, indirizzate verso una separazione spaziale e al contempo sociale che genera conflittualità. La seconda parte introduce il concetto di giustizia spaziale e l’importanza della partecipazione come modalità attraverso le quali poter indirizzare gli interventi sul territorio assicurando una distribuzione delle risorse rispondente ai bisogni degli abitanti.
LE FORME SPAZIALI DELLA MONDIALIZZAZIONE TRA SEPARAZIONE E SENSO DI COMUNITÀ
Molti autori hanno discusso fino a che punto il mondo contemporaneo sia de-comunitarizzato adducendo all’avvento di un nuovo ruolo del soggetto in quanto individuo singolo di fronte alle istituzioni o agli attori collettivi, basti pensare al lavoro di Norbert Elias incentrato sull’analisi di una società degli individui (1990). Anche da un punto di vista geografico, l’avvento dell’era della mondializzazione che definisce il movimento continuo di flussi di persone, oggetti e informazioni incentrato sulle città, porta ad analizzare la centralità dell’individuo che, sostenuto ancor più dalle potenzialità delle tecnologie della comunicazione, porta a ripensare i concetti di comunità e identità e alle loro forme spaziali. Nell’analisi del film La Zona di Rodrigo Pla e del volume High Rise di Ballard con uno sguardo geografico, emergono alcune forme urbane prodotte dalla mondializzazione che ridefiniscono il rapporto tra individuo e comunità (Dumont, 2010, pp. 134164), ovvero:
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la recinzione il settore l’emblema lo spazio pubblico lo sprawl/dispersione Tra queste forme è possibile ritrovare quelle che definiscono chiaramente delle cesure spaziali da quelle che viceversa esaltano un senso di appartenenza espresso dalla copresenza degli individui nello stesso luogo. Nella prima tipologia ritroviamo la recinzione e lo sprawl.
La recinzione L’oggetto spaziale più visibile, il muro, in sé stesso non è una novità: c’è stato quello attorno al ghetto di Varsavia, poi quello, che dividendo una città (Berlino), divise il Mondo. La novità sta piuttosto nella diffusione mondiale del fenomeno, testimoniata per esempio dalla recinzione che separa gli Stati Uniti dal Messico. Dal punto di vista geografico, è interessante come la società si rapporta alle costruzioni sociali del territorio e come interviene di fronte ad un elemento spaziale che separa le comunità: di fronte al muro tra Messico e Stati Uniti, grazie ad un’idea di Ronald Rael, professore di architettura all’università della California, Berkeley, e di Virginia San Fratello, professore di design alla San José State University, vengono installate delle altalene transnazionali alle frontiere che avevano l’obiettivo di trattare la futilità della costruzione delle barriere grazie al sostegno del Colectivo Chopeke che si occupa di unire le comunità attraverso il design (Figura 1). Quindi la comunità può incidere nella creazione di nuove modalità di relazione nonostante i muri costruiti dalle istituzioni governative. Le identità che si generano in questi luoghi vanno oltre il segno del confine e restituiscono il senso di comunità laddove i decisori politici l’hanno abolito.
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La recinzione è una manifestazione spaziale che viene realizzata anche in contesti privati, per definire uno spazio privato separato dal resto del territorio urbano, come nel caso delle «gated communities» ovvero residenze sorvegliate e poste sotto sicurezza, come nel caso del quartiere “fortificato” del film La Zona che in Messico come in altri paesi del Sud del Mondo garantiscono sicurezza e comfort alle minoranze privilegiate grazie ad altissimi muri di recinzione, reticolati, telecamere, squadre di poliziotti privati.
dominio della metrica dell’automobile ha generato una grande congestione urbana e uno sviluppo di case individuali. Un ricco quartiere residenziale accanto al sobborgo povero di Ixtapaluca (Figura 2). La striscia rosa tra le case grigie, nel quartiere popolare, indica la presenza di un mercato. Il progetto fotografico Unequal Scenes mostra come l’architettura e lo sviluppo urbano siano usati come strumenti di emarginazione e segregazione in molte città del mondo.
Fig. 2. Città del Messico: a sinistra il quartiere residenziale e a destra il sobborgo di Ixtapaluca. Fonte: https://unequalscenes.com
Fig. 1. Esempio di recinzione che integra una installazione artistica lungo il confine che separa il Texas (a sinistra) e il Messico (a destra) . Fonte: https://www.thisiscolossal.com/2019/07/teetertotter-wall/
Lo Sprawl Dietro lo sprawl coesistono due grandi tipi di forme di frammentazione urbana che anche senza recinzioni provocano profonde divisioni spaziali, comunità con risorse, progetti e bisogni totalmente opposti, contribuendo a rinnovare le grandi sfide urbane del Mondo: la lottizzazione e le bidonvilles. Questa frammentazione, della quale gli individui sono gli attori principali, rinvia più che alla disgregazione di una città esistente, alla dispersione di frammenti, un fenomeno che sollecita la produzione di una nuova forma di città e, attraverso essa, di una nuova forma di società. La pianificazione pubblica lascia spazio alla frammentazione individuale. L’espressione si applica alle configurazioni urbane che seguono l’evoluzione di Los Angeles, dove il
La seconda tipologia di forme urbane proprie della mondializzazione mostrano una condivisione di funzioni (settore), di valori estetici condivisi a scala globale (emblema), o di azioni collettive a sfondo sociale, politico, culturale (spazio pubblico): Il settore Si tratta di una vera suddivisone della città in parti che proviene dalle teorie urbanistiche funzionaliste dominanti negli anni sessanta e settanta. Una vera e propria organizzazione urbana che allontana dal centro l’offerta urbana della città, in altri centri. Questa è la forma spaziale sulla quale poggia oggi l’economia mondializzata: a una logica dello zoning frutto della pianificazione regionale o statale (anni settanta) si sovrappone una logica di cluster prodotta nel quadro di una divisione funzionale. In Europa il periodo industriale aveva già inaugurato questa forma urbana creando una “cisti di stabilimenti industriali” entro la città. Alla creazione di campus, sorta di frammenti di città relativamente autonome e distanti dai centri urbani, si aggiunge la creazione di zone a funzione specifica (commerciale, legata alla formazione, industriale, ricreativa) che allontanano le differenti parti che compongono l’offerta urbana delle città concentrando delle funzioni in ambiti ter-
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ritoriali specifici, come nel caso dei centri commerciali, dei campus universitari, dei parchi a tema. L’emblema L’emblema rappresenta una singolarità urbana, sviluppatasi specialmente dopo gli avvenimenti dell’11 settembre 2001. Le città mondiali hanno lanciato delle competizioni internazionali per distinguersi attraverso le loro torri sempre più alte, le loro ruote panoramiche, simboli di una comunità mondiale. Anche in Italia, è noto questo fenomeno, come dimostra la Torre Unicredit, il grattacielo di Milano che con i suoi 231 metri di altezza alla guglia è attualmente il grattacielo più alto d’Italia. Lo Spazio pubblico La particolarità dello spazio pubblico è che non si possono stabilirne in anticipo le occorrenze: lo spazio pubblico non è una piazza, una strada, ma è la convergenza spazio-temporale, un momento in un luogo, allo stesso tempo di società e di urbanità, ovvero di persone e di azioni da loro compiute nello stesso momento che produce senso di appartenenza. Lo spazio pubblico come momento vede così coniugarsi in modo enigmatico forme materiali e forme sociali, in modo inestricabile, in un tempo storico: non esiste uno spazio pubblico “in sé”, bensì questo “momento di spazio pubblico” che associa strade, piazze, caffè, elementi collettivi e società in occasione di un evento a carattere culturale, sportivo, politico. È negli spazi pubblici che avvengono gli avvenimenti di portata mondiale, come è successo in occasione dei movimenti politici della Primavera araba del 2011 e successivamente degli Occupy Movements che si sono realizzati nelle diverse piazze delle metropoli mondiali.
GIUSTIZIA SPAZIALE E COMUNITÀ URBANE NELL’ERA DELLA MONDIALIZZAZIONE La recinzione e lo sprawl, da un punto di vista geografico, sono le due forme spaziali che ci portano a riflettere sul concetto di giustizia spaziale: il primo impedisce agli abitanti di muoversi liberamente da una parte all’altra del muro, il secondo produce una serie di separazioni di funzioni dello spazio urbano che a loro volta determinano divisione e separazione tra un sistema urbano regolato e ordinato secondo principi di legalità e di regolazione ed un sistema urbano che si sviluppa su principi di legittimità e di informalità. In entrambi i casi
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emerge l’importanza del concetto di giustizia spaziale, richiamato per la prima volta da Lefebvre della sua opera Le droit à la ville (1968) che ha affrontato il tema dei diritti degli abitanti che non si limitano ad una distribuzione equa delle risorse ma si estendono, invece, al diritto di decidere dei propri spazi, oltre la logica del profitto. Il diritto alla città è stato ricodificato in ambito geografico nel concetto di “giustizia spaziale”, in primis da Edward Soja in Seeking spatial justice (2010) dove l’autore indica l’importanza di analizzare il modo in cui viene utilizzato lo spazio da parte di diversi attori sociali (accessibilità, residenza, servizi, …) e come sono prese le decisioni sull’uso e la progettazione del territorio. A partire dagli studi di Soja, Los Angeles, e più significativamente il dipartimento di Urbanismo dell’UCLA, è diventato il luogo di un movimento nazionale centrato sulla nozione di Diritto alla Città che si è diffuso a livello mondiale durante il Social Forum del 2005, dove è stata proposta una Carta Mondiale del Diritto alla Città. Anche il geografo Jacques Lévy nel suo recente volume Théorie de la justice spatiale (2018) affronta il tema del giusto e dell’ingiusto nelle forme urbane ed introduce il ruolo della partecipazione degli abitanti nella definizione di cosa sia giusto o meno, a seconda dei loro bisogni. Per i geografi infatti la giustizia spaziale si esprime non solamente in una distribuzione equa delle risorse nel territorio, ma soprattutto nella loro reale accessibilità, ovvero nella possibilità reale di sfruttarle da parte di tutte le categorie di abitanti, intesi come residenti e city users che vi transitano. Si impone dunque l’idea delle comunità urbane come entità dinamiche e non monolitiche poiché gli abitanti sono mobili e cambiano a seconda dei momenti del giorno, della settimana o dell’anno. Entra dunque in gioco un lavoro importante per il geografo: riuscire a monitorare il movimento degli abitanti nello spazio urbano a seconda dei loro bisogni e dunque a trovare delle forme di partecipazione che siano in grado di far emergere i diversi bisogni degli abitanti.
PROCESSI PARTECIPATIVI E MAPPING DINAMICI PER IL RECUPERO DEI BISOGNI DEGLI ABITANTI
Analizzare il territorio urbano come bene comune di una comunità di abitanti mobili e aventi bisogni diversi richiede il ricorso a metodologie di ricerca e strumenti di analisi incentrati sia sulla realizzazione di processi partecipativi, sia sulla rappresentazione dinamica del movimento degli abitanti nello spazio urbano.
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coinvolgimento degli abitanti sia in forma attiva, mediante processi partecipativi, sia in forma passiva, utilizzando nuove fonti di dati come i Big Data. Partecipazione attiva: il sistema collaborativo Bergamo Open Mapping
Fig. 3. Il sistema Bg Open Mapping. Fonte: bgopenmapping.it
Per tale duplice motivo, ci si ancora a due aspetti che caratterizzano la svolta cartografica della nostra epoca: la centralità dell’abitante avente un doppio ruolo di attore territoriale e di comunicatore sociale (Casti, 1998, pp. 158-159) e l’interattività del mapping che assicura la sua partecipazione a supporto di processi di governance e alla presa di decisione concertata (Casti, 2013, pp. 270-271; Casti, Lévy, 2009). Tali aspetti sono da anni oggetto di analisi e di riflessione presso il CST-DiathesisLab dell’Università di Bergamo. Infatti, in concomitanza con l’evoluzione tecnica degli studi nell’ambito dei sistemi cartografici partecipativi, nel contesto italiano negli stessi anni si formulavano proposte teorico-metodologiche utili a facilitare l’uso dei sistemi cartografici partecipativi nel web (Casti, 2010; 2013). In particolare, il team di ricerca del CST-DiathesisLab veniva coinvolto in una serie di progetti di partecipazione volti alla governance territoriale e urbana che necessitavano dello sviluppo di una metodologia oltre che di strumenti volti alla partecipazione. È in tale contesto che è stata ideata la metodologia SIGAP (Sistemi Informativi Territoriali Aree Protette) nell’ambito della protezione ambientale in Africa subsahariana (Casti, 2006; Ghisalberti, 2011; Burini, 2016), applicata successivamente agli ambiti urbani europei. L’obiettivo di tale metodologia, che applicata all’urbano è stata ridefinita in Sistemi Informativi Territoriali Azioni Partecipate, è quello di realizzare processi partecipativi e sistemi operativi in grado di disvelare competenze, saperi e logiche locali legate all’uso degli spazi urbani da parte delle diverse categorie di abitanti. Si illustrano ora le potenzialità di tale metodologia mediante due ricerche condotte presso il CSTDiathesisLab dell’Università di Bergamo che mostrano il ruolo della cartografia nel garantire un
Il progetto “Bergamo Open Mapping”, realizzato nell’ambito della candidatura di Bergamo a capitale europea della cultura nel 2019, è stato promosso nel corso del 2013 per l’attivazione di un processo partecipativo a partire da una mappa interattiva e collaborativa propria del Web 2.0. Per quanto riguarda la fase di conoscenza, essa ha previsto l’identificazione degli interlocutori privilegiati per organizzare i focus group: istituzioni (assessorati, amministratori), associazioni culturali, scuole, parrocchie, biblioteche; presa di contatto con gli interlocutori; creazione di un database dei contatti. La consultazione è stata realizzata mediante il sistema operativo Bergamo Open Mapping (BOM) come piattaforma web cartografica che rispondesse ai criteri di: accessibilità, ampliando i contesti da cui si poteva accedere ovvero altri siti web istituzionali e social media; responsiveness, affinché BOM fosse consultabile dal maggior numero di supporti digitali, fissi e mobili e dunque adattarsi alle differenti esigenze degli utenti; chiarezza comunicativa, data dalla trasparenza delle informazioni e da un sistema di inchiesta che facilitasse la comunicazione dei saperi e delle conoscenze degli abitanti sul territorio. La consultazione ha previsto sia una modalità di coinvolgimento diretto mediante l’organizzazione di incontri collettivi (focus group), sia una fase di consultazione virtuale svolta nel web. Ogni focus group è stato articolato in due momenti: il primo rivolto alla presentazione e introduzione all’uso di BOM, il secondo volto a indirizzare i partecipanti a proporre interventi sul sistema digitale. Tali incontri hanno attivato un dibattito utile a delineare le risorse e le potenzialità dei territori interessati. BOM è un sistema ad interattività semi-aperta dal momento che lo stesso fondo carta di Google Maps è opzionabile dall’utente (fisico, ibrido, normale, satellitare) e le informazioni possono essere selezionate ma non modificate. Tuttavia, il sistema permette l’inserimento di dati sebbene mediante icone prefissate, al fine di rendere comparabili le varie segnalazioni provenienti dalle migliaia di utenze coinvolte nel processo. Al fine di garantire tale interattività, il sistema ha previsto una sezione cartografica “Consulta la mappa” articolata in una sezione di mera visualizzazione delle risorse naturali e culturali (step 1), una sezione “Aggiungi la tua segnalazione”
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di interattività aperta (step 2) grazie ad una finestra interattiva di inserimento dati che consente la scelta dell’icona cartografica da rappresentare, il nome del luogo, la proposta di evento o intervento proposto e la possibilità di caricare delle fotografie, producendo automaticamente un’icona cartografica georiferita dall’utente (step 3), che grazie al clic del mouse permette di aprire un pop-up autogenerato dal sistema contenente tutte le informazioni caricate dagli abitanti. Infine, nella fase finale si è passati alla concertazione organizzando una presentazione pubblica delle iniziative più votate, affinché fossero inserite nelle attività programmate per la candidatura. La concertazione sarebbe sfociata nella fase finale della partecipazione attiva o cooperazione, nel caso di un esito positivo della candidatura. Nel nostro caso, il processo partecipativo si è chiuso con la terza fase, dal momento che Bergamo non è stata selezionata e la città vincitrice è risultata Matera. Comunque, la capitalizzazione è ancora attiva, dal momento che il sistema è ancora on-line. Il mapping dinamico TweetMap-UrbanNexus e la partecipazione passiva L’analisi muove da una prima esperienza di ricerca a carattere sperimentale dal titolo “Urban Nexus” finanziata dall’Università di Bergamo come Excellence Initiative e realizzata dal DiathesisLab tra il 2016 e il 2019 in partenariato con l’EPFL di Losanna e l’Anglia Ruskin University di Cambridge.
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L’obiettivo della ricerca è stato quello di analizzare, mediante un approccio critico, nuove forme, metodi e strumenti di conoscenza della mobilità degli abitanti nei contesti urbani, a partire dall’identificazione di diverse fonti di dati, con un’attenzione particolare ai Big Geo-Data prodotti dagli abitanti durante il loro movimento. Si tratta cioè di sfruttare le potenzialità della VGI, ovvero il contenuto volontario generato dall’utente mediante social media o piattaforme web collaborative per produrre analisi inedite della mobilità degli abitanti e della percezione degli spazi attraversati nel loro movimento, per poi confrontare i risultati con i dati provenienti da altre fonti (OpenData, dati statistici, ecc.). Sfruttando le potenzialità offerte dai Big GeoData (Graham, Shelton, 2013; Kitchin, 2014) e applicando gli strumenti di intelligent modelling abbinati ad un approccio riflessivo e corografico al mapping (Casti, 2013, 2015), il team del CST-DiathesisLab ha integrato le competenze dei geografi con quelle di ingegneri informatici ed ha iniziato a porsi in modo critico nei confronti dell’analisi spaziale proveniente da tali fonti di dati, concentrandosi sul territorio urbano di Bergamo nella conurbazione milanese. A titolo di esempio si illustra un sistema di mapping ad interattività chiusa che mostra la spazializzazione dei dati passivi raccolti dalla piattaforma Twitter da aprile 2015 a maggio 2017. Il sistema di mapping consente di mostrare i dati raccolti mediante la traccia di utenti agganciati agli aeroporti di riferimento delle 3 città coinvolte nel
Fig. 4. Il sistema di mapping dei Tweet per la rappresentazione della mobilità degli abitanti.
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progetto con la possibilità di selezionare i dati relativi alla singola città, oppure di mostrarli complessivamente. Se selezioniamo i dati riferiti a Bergamo, la carta interattiva e dinamica mostra la spazializzazione delle tracce digitali lasciate dagli utenti di passaggio dall’aeroporto internazionale di Orio al Serio “Il Caravaggio”, utilizzando Twitter, e rappresentandoli cartograficamente mediante il dimensionamento del cerchio che rappresenta il numero di tweets, e l’intensità del cromatismo giallo che indica il numero degli utenti che hanno twittato da quel punto. Si tratta di 2.541 tracce lasciate da 1.133 utenti agganciati nel loro passaggio dall’aeroporto di Bergamo, che hanno prodotto 60.806 tweets nel mondo con 39.726 coordinate uniche. Grazie alla spazializzazione prodotta dalla cartografia, mediante l’interattività con azioni di pan emergono icone puntuali in corrispondenza dei nodi urbani (Bergamo, Milano) o a quelli della mobilità aeroportuale della conurbazione milanese (Malpensa, Orio al Serio, Linate) o ancora a quelli corrispondente ad aree oggetti di eventi internazionali (area di Expo2015), così come icone lineari in corrispondenza delle infrastrutture di mobilità (autostrade, ferrovie) (Figura 4). Ciò dimostra che il territorio di Bergamo è oggetto di dinamismo prodotto dagli abitanti grazie alla presenza dello scalo aeroportuale che connette il territorio bergamasco a una scala che supera i confini provinciali e regionali, in una maglia a rete definita a posteriori dalla mobilità degli abitanti che vi transitano. Tale analisi tuttavia non consente di approfondire la conoscenza dei profili di coloro che hanno prodotto tali informazioni, analisi che verrà sviluppata in futuro a partire dalla ricorsività del movimento degli abitanti negli stessi luoghi nel corso del tempo.
CONCLUSIONI L’edizione di Iconemi 2019 apre una riflessione sulle sfide dei concetti di comunità e identità nell’era della mondializzazione e alla luce di scelte urbanistiche che privilegiano la realizzazione di forme spaziali di frammentazione e separazione a scapito di soluzioni incentrate sulla progettazione del territorio che rispetti i bisogni delle diverse categorie di abitanti che vi si trovano. Il contributo degli studi geografici è quello di indagare i processi territoriali e le costruzioni sociali dello spazio urbano, tentando di trovare delle indicazioni su come perseguire la giustizia spaziale, sia attraverso metodologie e sistemi in grado di attivare processi partecipativi, sia attraverso analisi di nuove fonti di dati e nuovi sistemi di rappresentazione, in
grado di restituire il dinamismo degli abitanti e la loro frequentazione degli spazi urbani. Sistemi e processi partecipativi, abbinati a mapping dinamici di Big Data diventano i due strumenti imprescindibili per il geografo interessato a ricostruire i bisogni degli individui nell’era della mondializzazione e a trovare delle risposte per la gestione del territorio urbano come bene comune di una comunità di abitanti mobili e aventi bisogni diversi.
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INTERNO-ESTERNO, SOPRA-SOTTO, DENTRO-FUORI. PARTIZIONI E SPAZI DIALOGICI DEL MODERNO
1. INTRODUZIONE Il presente contributo sostanzia l’intervento proposto nell’ambito della rassegna Iconemi 2019. Il rilevante tema portante dell’ultima edizione ha riguardato le «idee di territorio» nel 70° anniversario del congresso CIAM (Congrès Internationaux d’Architecture Moderne) tenutosi a Bergamo – unica città italiana ad ospitarlo – nel 1949. L’idea innovativa e intrigante che gli organizzatori hanno messo in campo, ha visto la feconda declinazione dell’acronimo CIAM secondo una visione, probabilmente suggerita dalla contemporaneità, basata sulle tematiche di Comunità, Ambiente, Impegno, Mondo. Così facendo, si sono innescate delle inedite caratterizzazioni di senso per strutturazioni concettuali a volte troppo statiche, ancor più in quanto per ogni singola sessione sono stati proposti dei ricercati suggerimenti multimediali (un libro, un film e un brano musicale) inerenti al soggetto di volta in volta in discussione. Nel caso di chi scrive, il fattor comune concettuale della giornata ha riguardato l’articolato ma complesso doppio accostamento «Comunità e Identità: tra ‘bene comune’ e ‘appartenenza’». Vista la tematica di non facile trattazione e l’intento di apportare uno sguardo geografico da intrecciare con i dettami del Movimento Moderno1 qui celebrato, l’idea alla base dell’esposizione prima, e del presente contributo poi, è stata quella di porre in relazione alcune spazialità, identitarie e abitative, con le chiavi di lettura dei princìpi propri del paradigma architettonico, soprattutto in relazione ai fertili riscontri cinematografici e letterari ricevuti in dotazione. Così, le visionarie (e distopiche) pagine di James G. Ballard (High-rise – Il condominio, 1975), poi divenuto anche immaginifica pellicola di Ben Wheatley (High-rise – La rivolta, 2015) e il neorealista – perché no? – La Zona di Rodrigo Plá 2007) hanno costituito il viatico
per una breve riflessione circa alcune pratiche che si plasmano nella dimensione abitativa dello spazio geografico, ovvero nella relazione tra identità e appartenenza, tra accesso e separazione, tra interno ed esterno, tra luogo e spazio (Norberg-Schulz, 1979). Queste ultime, categorizzabili come contrapposizioni dialogiche, si configurano come portatrici di una tensione generativa di significati – tanto consolidati, quanto rinnovati – che alimentano e producono percezioni e reificazioni dello spazio, designandone la sua appropriazione geografica (Turco, 1988). In questo scenario, i canoni architettonici, urbanistici ed estetici svolgono un ruolo di certo rilievo poiché, tramite direttrici progettuali e compositive, veicolano – o in qualche modo influenzano – suggestioni di appartenenza o di repulsione, di benessere o malessere e, dunque, di inclusione ed esclusione. Su tali basi, allora, il concetto di partizione con le relative implicazioni e manifestazioni spaziali viene assunto come criterio di indagine a supporto della riflessione, analizzando sinteticamente due tipi ideali che ben incarnano il concetto in discussione: ghetto e gated community. Insomma, se la dinamica territoriale relativa ai nessi tra abitazione, spazio e identità, architettura e società è certamente densa di significati e altamente complessa, il ricorso ad una interpretazione della spazialità geografica tramite una segregazione imposta o una separazione ambita, funge da utile strumento per tentare una riduzione di tale complessità.
2. PARTIZIONI URBANE: GHETTO E GATED COMMUNITY Per Louis Wirth (1938), l’identificazione e la definizione del fenomeno urbano necessitava della valutazione contestuale di tre componenti: dimensione, densità e diversità (o eterogeneità). Ragionare dunque su manifestazioni partitive dello spazio ur-
1 È d’obbligo precisare che, nel prosieguo, mi riferirò a tale paradigma architettonico del ventesimo secolo con il solo termine Moderno.
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bano, ovvero ghetto e gated community, significa innestarsi su tale approccio, prendendo atto che l’esistenza di soluzioni di continuità – tanto spaziali quanto concettuali – siano fondamentali all’idea di città. Pur in una ottica critica di tali elementi che già Jane Jacobs (1969) introduceva a riguardo (Petrillo, 2000, p. 131), i due oggetti di indagine configurano una diade importante per la strutturazione dello spazio urbano, in quanto basati sulla idea di isolamento e segregazione. Quest’ultima, caratterizzata da una certa ambiguità che ne ostacola una precisa definizione, essenzialmente rimanda all’atto di mettere da parte, mettere allo scarto, uno o più individui. Per dirla con Grafmeyer (1994, p. 92), è possibile utilizzarla «sia per evocare qualsiasi situazione di non mescolanza sociale nell’habitat, sia per i tratti di “patologia sociale” attribuiti a questa insufficiente mescolanza, sia, infine, per una tendenza generalizzata alla dissociazione di aree residenziali delle diverse categorie sociali, tendenza che sarebbe in qualche modo una legge dell’urbanizzazione contemporanea». La parola segregazione, quindi, designa etimologicamente una pratica di separazione, non per forza imposta, tanto che lo stesso autore evidenzia come sia possibile collegare il tema della «segregazione alle figure dell’enclave, della sacca, del foyer domestico,2 e non per forza del ghetto» (ibidem). In questo senso, l’autore coglie il punto della complessità intrinseca alla questione, proponendola in un agevole condensato definitorio che rispecchia a pieno gli aspetti qui discussi. L’idea di una legge dell’urbanizzazione contemporanea costituisce l’oggetto che qui si vuole mettere in connessione con la natura geografica degli spazi e della spazialità, alla luce di un paradigma (non solo) architettonico dirompente e sovversivo rispetto ai canoni precedentemente assunti. Tali possibili leggi dell’urbanizzazione rimandano ad una concezione ben precisa della distribuzione spaziale, evidenziando come la segregazione sia una forma di distanza spaziale, talora misurabile in modalità oggettive e quantitative (Radini, 2008). Ecco, dunque, che la definizione succitata si presenta come un valido dispositivo organico capace di affiancare al punto focale della questione (la segregazione come non mescolanza sociale) quello della casistica collegata, tanto emarginalizzante (il ghetto come «patologia sociale») quanto dissociativa (la tendenza alla gated community), così come da aspetti che qui si richiameranno per tentarne un breve tratteggio.
Il concetto di ghetto, originariamente, si basava su una separazione spaziale subita da un gruppo e sulla conseguente distanza fisica che portava ad una radicazione particolare nel tessuto urbano. Il termine ghetto, infatti, nella sua accezione più consolidata designa il quartiere ebraico di una città. Tuttavia, nonostante la parola sia in uso da almeno cinquecento anni, la sua origine non è del tutto chiara e, anche per questo, oggi il termine si è connotato di un ulteriore senso: non si riferisce più soltanto allo spazio urbano in cui la comunità ebraica si insedia (o è stata costretta a farlo in funzione di esecrabili regolamentazioni ufficiali) ma anche ad aree culturali locali in cui diversi popoli o gruppi etnici hanno costituito o scelto di insediarsi volontariamente (Wirth, 1927). È il caso della popolazione nera delle città americane negli anni Venti del Novecento, così come di una pluralità di situazioni emerse durante tutto il secolo fino ai nostri giorni – basti pensare alle zone di insediamento degli immigrati, da Little Italy a China town (ibidem). Ancora oggi, infatti, la tendenza alla ghettizzazione è certamente diversa nelle forme e nella popolazione che si insedia ma si fonda su un persistente principio segregativo evolutosi nel tempo, in modo da non riguardare – o non soltanto – una distinzione di religione o di etnia ma ammettendone una di classe sociale. Si potrebbe argomentare, quindi, che nella suddivisione e partizione del tessuto urbano contemporaneo, a delle differenze orizzontali legate a matrici culturali o etniche, si siano aggiunte o si siano sostituite delle differenze verticali tra classi sociali: il passo verso la gated community è breve. A partire dall’ultima decade del secolo scorso (Lopez, 1996; Davis, 1999) la sociologia urbana e la geografia urbana hanno posto l’attenzione su un oggetto di studio tanto emergente quanto interessante: le gated communities (di seguito GC). Questo fenomeno, in realtà comparso in alcune manifestazioni pioneristiche sia negli Stati Uniti che in Europa già nel corso dell’Ottocento (Le Goix, 2004), si caratterizza per una nuova concezione di vivere e strutturare lo spazio urbano o, sovente, periurbano (Charmes, 2007), attraverso la creazione di una zona abitativa – vale a dire, oltre il semplice perimetro di una o più abitazioni – chiusa, cioè accuratamente separata dalla continuità del tessuto urbano, attraverso l’installazione di nette, tangibili e invalicabili recinzioni a vie d’accesso controllate e presidiate da apparati di videosorveglianza e sicurezza privata, delineando, di fatto, un rifiuto della cultura urbana
2 Il senso qui utilizzato dall’autore è quello sociologico. In francese, e particolarmente nel lessico sociologico, il foyer identifica una unità di abitazione in cui un gruppo di persone vive.
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e la messa a distanza di altri (Charmes, 2005). Nella facile derivazione referenziale del nome gated communities (letteralmente: comunità recintate), infatti, si staglia una modalità del tutto differente di abitare lo spazio urbano, separando non solo la propria abitazione (in senso strutturale) da un continuum ma, addirittura, isolando(si) anche nella dimensione civica dell’esperienza urbana, ovvero alienandosi da una trama casuale di interazioni-relazioni di vita di quartiere, in luogo di una ricercata e selezionata comunità «in vitro», in un vissuto fatto di abitazioni sicure, servizi ed equipaggiamenti vari, omogeneità sociale selezionata. Si tratta, allora, di una ricerca di identità comune, una sorta di «ripiegamento su sé stessi» (Charmes, 2007) messo in atto da determinati strati della gerarchia sociale che, da un lato, ha sublimato nella GC l’estrema ricerca di sicurezza (Davis, 2008); dall’altro, ha associato sempre più la funzione abitativa all’utilizzo e alla gestione di servizi o equipaggiamenti vari in forma privata (è il caso di pionieristiche GC sorte attorno ad un golf club), chiarendo come tali aspetti costituiscano dei fattori originari del fenomeno (Le Goix, 2004). Nella genesi di tali forme, dunque, non va trascurata la rendita immobiliare, legata ad un marché de lieux, soprattutto nelle zone periurbane dove la maggior parte delle GC si localizzano. Per questo, le caratteristiche di bel paesaggio, di spazi verdi e di un ambiente riservato, sicuro e caratterizzato da una certa identità (sociale) comune, fanno la fortuna degli intermediari immobiliari ed innescano quelle dinamiche di mercato dove tanto più è alta la domanda, tanto più alti saranno i prezzi. Si configurano, così, dei club residenziali che fungono sia da emulativi modelli che da redditivi propagatori di una logica economica alla base non solo della specializzazione degli spazi ma dello sviluppo stesso delle GC. Tali «ghettos pour riches» (ibidem), allora, si forgiano su una identità comune degli abitanti, spesso legata alla classe sociale, alla esclusività del luogo – tra i numerosi esempi, Villa Montmorency a Parigi3 – e ad alcune idee di sicurezza. In questa situazione di omologazione, la percezione dell’alterità gioca un
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ruolo importante: come ricorda lo stesso Charmes, «les enfants qui vivent dans une gated community tendent à percevoir les gens différents comme menaçants et exterieurs à leur monde»4 (Charmes, 2005) e nel film di Rodrigo Plá il tragico epilogo riservato al terzo intruso è del tutto emblematico di questa ostile percezione dell’altro, dell’estraneo, dello straniero. Tuttavia, rimanendo nella dimensione filmica e traendone spunto, si evince un legame tra gli abitanti della GC (seppur con qualche scricchiolio) che installa una sorta di parvenza di comunità (significativa, a riguardo, l’immagine dei bambini che vanno a scuola in una apparente normalità) sebbene conseguente ad una estraneazione abitativa – una chiara auto-segregazione. Allora, la GC, non troppo dissimile dal ghetto, sembrerebbe costituire una rinnovata eterotopia urbana (Focault, 2006; Secchi, 2005) laddove «l’eterotopia è uno spazio determinato che si oppone e nega un altro spazio determinato e inserisce nel continuum dello spazio una sostanziale discontinuità» (Focault, 2006, p. 58).5 2.1. Differenze? La linea di demarcazione tra ghetto e gated community, quindi, appare sottile. Entrambi, simbolici riferimenti di partizione nello spazio urbano, costituiscono gli effetti di paradigmi più ampi, manifestazioni di orientamenti e tendenze urbane stratificatesi nel corso della storia della città. Come visto, i due fenomeni condividono il concetto ampio di segregazione, laddove, oggi, questa costituisce prevalentemente la tendenza alla concentrazione spaziale dovuta ad un fattore censuario, di classe sociale, di reddito. Anche se quest’ultime differenziazioni non sono certo tendenze recenti, il fenomeno delle GC mette in maggiore evidenza tale polarizzazione, tramutandola in un fatto spaziale e dunque geografico. L’ascostamento della GC al ghetto è indubbiamente agevole, tanto che il geografo francese Renaud Le Goix (2004) adotta l’icastica nozione di ghetto-doré, alimentando lo stereotipo diffuso di una esigenza di sicurezza ma, ancor più, di una
3 Villa Montmorency è una gated community (résidence fermée in francese) ubicata nel XVI arrondissement a Parigi. Oltre ad essere una delle GC più note, è curioso sapere, visti gli scopi del lavoro, che si trova giusto di fronte alla sede parigina della Fondazione Le Corbusier [http://www.fondationlecorbusier.fr/corbuweb/default.aspx]. 4 «I bambini che vivono in una gated community tendono a percepire gli estranei come minaccia ed esterni al loro mondo» (traduzione mia). 5 In tal senso, anche il commento di Bernardo Secchi (2005, p. 113) il quale, ammettendo nel novero delle nuove eterotopie la gated community e accostandola, tra gli altri, al campus universitario, specifica: «il campus è eterotopia non solo per la specificità delle pratiche che ospita e per le loro temporalità, ma anche per il suo opporsi radicale alla continuità del tessuto urbano anche se alla sua origine, come all’origine di ogni eterotopia, vi sono motivazioni forti e ragionevoli. Garantirne la coerenza delle relazioni spaziali e temporali con il contesto diviene, lungo tutto il secolo e mano a mano che i campus si moltiplicano, compito sempre più difficile».
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chiusura volta a proteggere uno stile elitario. A pensarci, infatti, la sempre maggiore contrapposizione tra spazi – fortificati – dei ricchi (Belmessous, 2002) e spazi emarginati, soprattutto in funzione delle possibilità economiche di chi li abita, ha portato la letteratura a riflettere circa il concetto di città duale (Harvey, 1973 e 1993; Castells e Mollenkopf, 1991 citato in Radini, 2008), ovvero di un (non)-tessuto urbano sempre più polarizzato da localizzazioni segregative basate sul fattore reddituale e sociale, contrapponendo i ghetti dorati delle GC alle villa miseria sudamericane (Velasco Esquivel, 2011). La dicotomia indotta da tali differenze, sociali prima e urbane poi, di fatto, si riflette anche nella sempre più frammentata trama urbana, fatta di isole e di separazioni in una perenne tensione, appunto, tra comunità e identità, tra bene comune e appartenenza. In fondo, la città non può prescindere dall’archetipo partitivo e, con molta probabilità, ghetto e GC ne costituiscono delle manifestazioni differenti ma convergenti alla medesima idea. Quello che qui occorre rilevare, quindi, concerne la duratura riproduzione degli oggetti di indagine che, prescindendo dalla declinazione di appartenenza identitaria o di sicurezza, sussistono e accentuano una sorta di lotta urbana. Per dirla con Petrillo (2000, p. 122), «il ghetto finisce per affermarsi come modello sociale pervasivo e duraturo. La sicurezza urbana nelle città delle segregated areas è già alla partenza […] nella sua sostanza una pace armata».
e gerarchia ripensando agli schemi ideali della città isonomica e della città ippodamea (Farinelli, 2003), dove la forma radiale (isonomica) rispetto a quella ortogonale (ippodamea) concilia una condizione di utopistica uguaglianza dal centro (cioè dal potere) ma vede perfettamente sovvertita la questione se si pone in considerazione la distanza tra punti di riferimento (cioè specifici e analoghi spazi del vissuto) nei reciproci rapporti con lo spazio, ora più vicini ora più lontani (Figura 1)?
3. SPECIE DI SPAZI DIALOGICI: IL MODERNO È dogmatico assumere che il fenomeno urbano sia tensione – senso lato – allo stato puro. Ugualmente, la relazione tra spazio (sia nel significato geografico che architettonico-urbano) e percezioneemozione è cosa ormai assodata (su tutti: NorbergShulz, 1979 e Zevi, 2009). Henri Lefebvre, inoltre, nella sua profonda riflessione ontologica sullo spazio (1976), aveva già dichiarato i nessi tra spazio, tipologie di spazio, rappresentazioni e conformazioni: «La hauter, la verticalité reçoivent un sens privilégié, parfois total (savoir, pouvoir, devoir), mais ce sens varie avec les sociétés et le ‘cultures’. Dans l’ensemble pourtant, l’espace horizontal symbolise la soumission – l’espace vertical la puissance – l’espace souterrain la mort» (Ivi, p. 273).6 Non solo. Come non intravedere lo stretto legame tra forma, spazio
Fig. 1. Lo schema ideale della città isonomica e della città ippodamea. Fonte: Farinelli, 2003, p. 2.
Allora, adottando tale visione come perfetto legame tra speculazione teorica, realtà fenomenica, scopi del lavoro e ottime proposte multimediali suggerite dagli organizzatori, appare chiaro come l’idea di una razionalità progettuale ed estetica Moderna – talmente innovativa e rigorosa alla sua linea da essere anche definita funzionalista o, appunto, razionalista – non può che esprimere ulteriori forme gerarchiche legate ai differenti statuti localizzativi che porta in dote. In altri termini, è chiaro come proprio
6 «L’altezza, la verticalità ricevono un senso privilegiato, talvolta totale (sapere, potere, dovere), ma questo senso varia con le società e le ‘culture’. Pertanto, nell’insieme, lo spazio orizzontale simbolizza la sottomissione – lo spazio verticale la potenza – lo spazio sotterraneo la morte» (traduzione mia).
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in virtù della sua intrinseca differenza anche nella progettazione dello spazio urbano,7 costituisce o rigenera rapporti di subalternità non solo per via della componente accentrante di funzioni varie ma in virtù delle inedite giustapposizioni degli spazi di vita (uno spazio sopra l’altro o una funzione dentro l’altra). Per dirla con Marco Cremaschi (2008, p. 17), «l’estetica del funzionalismo in architettura aveva cercato volenterosamente di cancellare i rituali che velano il potere: la citta moderna doveva rivelare, non nascondere, la dura essenza del ruolo e delle gerarchie». Insomma, è pacifico che posizionare e localizzare strutture e funzioni generi differenze di qualsivoglia natura (Raffestin, 1981) ma non va dimenticato che la tipologia, la forma e lo stile di tali oggetti o radicalizzazioni spaziali funzionali possano aggiungere, creare o sovvertire una relazionalità differente mai esperita in precedenza. Proprio in questo senso, il lavoro intende sottolineare come le dinamiche di comunità e di appartenenza oggetto della riflessione, possano essere concepite e analizzate in relazione alle tipologie di (nuovi) spazi del Moderno, cioè in virtù della relativa estetica e razionalità, che fungono da fucina di rapporti dialogici derivanti dalle opposizioni localizzative ed esperenziali (interno-esterno, sopra-sotto, interno-esterno). L’ Unité d’Habitation di Marsiglia (1952) – che, peraltro, insieme al progetto di Ville Radieuse si arricchisce di una evocativa e non trascurabile connotazione semantica8 – si configura come un aggregatore di spazi e funzioni (una unità, appunto) che sottrae alla localizzazione in una sempre più dispersa città orizzontale (Adobati, 2015), per collocare in una sorta di città verticale, capace, nelle intenzioni di Le Corbusier, di «emanciparsi da un rapporto di dipendenza nell’ancoraggio a terra» (Belloni, 2010, p. 93). In questo senso, la collocazione in verticale (cioè nel medesimo spazio sovrapposto o contenente) di tante attività e funzioni (abitazioni, palestra, piscina, negozi, giardini) in un unico edificio diventa, di fatto, una separazione dall’esterno, facendo riecheggiare le partizioni «orizzontali» viste in precedenza.
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È pur vero che l’ottica accentrante corbuseriana, concepita anche al fine di ridurre gli spostamenti per liberare la città dai problemi di circolazione (ancora una volta, si pensi alle funzioni della città moderna), poi scivolate in una concezione dell’interno sicuro in opposizione ad un esterno pericoloso – si vedano ghetto e gated community – si pone l’intento di produrre una sorta di mescolanza sociale e di comunità abitativa all’interno dell’unità residenziale. Senza dubbio, tale socialità risulta certamente lontana dalla concezione di comunità con i suoi beni in comune (Dotti, 2013) ma va sottolineato che un tentativo di commistione e mescolanze non è stato escluso nelle idee del Moderno. In questo senso, è ormai lampante l’analogia con la tipologia architettonica dell’high-rise, cioè del grande immobile super-contenitore, tanto scenario immaginifico dei romanzi di Ballard (1975) e delle sue trasposizioni cinematografiche qui già richiamate, quanto degli odierni accessi restrittivi e securitari per gli abitanti agiati delle città sudamericane. L’Unité d’Habitation vien ben metaforizzata dalla pellicola mettendo in scena la commistione tra spazio pubblico e privato – in assoluta opposizione alla evidente contrapposizione tra privato e pubblico nel film La zona di Plá – in cui si tenta di rendere lo spazio non più uno scenario esclusivamente abitativo ma un punto focale di attrazione importante. Insomma, detto in altri termini, sembra che il grande immobile deputato ad auto-contenere tutto, finanche la socialità, non sia indenne alle contrapposizioni dialogiche che proprio la socialità innesca, soprattutto in virtù degli spazi progettuali ad essa destinati, riproponendo con modulazioni di sorta, dinamiche gerarchico-sociali che Ballard mette bene in evidenza nella disposizione di appartamenti e servizi come valore sociale – rango e altezza dei piani vanno di pari passo – e nello scontro tra bande di omologhi residenti. Non tutto, però, può seguire le intenzioni progettuali: l’epilogo che l’autore destina all’architetto Anthony Royal è la metafora eloquente del fallimento progettuale o del discostamento dal
7 Il Movimento Moderno formalizza nella Carta di Atene (1933) le quattro funzioni umane che necessitano e vanno agevolate nella concezione della città moderna: abitare, lavorare, divertirsi, spostarsi. 8 Ville radieuse, la città radiosa rimane uno dei progetti di utopia urbana non realizzati da Le Corbusier; tuttavia essa ha costituito il modello per la realizzazione di Brasilia (1960) da parte di Lúcio Costa e Oscar Niemeyer, o per altri epigoni del Moderno come Wallace K. Harrison con il suo Empire State Plaza (1976) nello stato di New York. La connotazione semantica di tali progetti proietta loro in un contesto di radiosità, di solarità, del mondo a vista. Allo stesso modo, dona un’aurea di positività che rispecchia gli ideali architettonici Moderni legati alla salubrità, all’igiene, allo spazio aperto raggiungibile nella maestosità delle strade e delle forme, nella composizione urbana (si pensi alla Esplanade des Ministères o al grande asse monumentale della città), o attraverso gli ampi spazi unici e la finestra a nastro negli edifici. L’anelito di libertà e benessere che ne promana – e che chi scrive rintraccia anche nell’opera di Luigi Cosenza per il Comprensorio Olivetti di Pozzuoli (Napoli) – si evidenzia anche nella trasposizione cinematografica in questione (High-rise – La rivolta), laddove le degenerazioni tra inquilini sono simboleggiate dall’appropriazione degli spazi collocati ai piani più alti (ecco la dialogìa del sopra-sotto e la metafora della perenne gerarchizzazione sociale), deputati a far godere meglio del sole e del cielo, richiamato dall’azzurro della pittura con cui il protagonista imbratta tutto nelle sue fasi di delirio.
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Fig. 2. Scena del film Hig-rise – La rivolta (2015). Il protagonista nella fase di delirio.
percorso previsto: tanto le lotte quanto gli scontri degli abitanti dell’high-rise non possono che rappresentare gli inevitabili imprevisti che l’evoluzione e le dinamiche urbane e sociali generano. D’altronde, Georges Perec (1989) aveva già avvertito tutti con il suo celebre adagio: «vivere è passare da uno spazio all’altro cercando di non farsi troppo male».
4. CONCLUSIONI L’intento di questo contributo è stato quello di ragionare su alcuni fenomeni che interessano l’urbano, partendo da una serie di elementi del tutto differenti tra loro sia per natura (concetti, avvenimenti urbani, testi letterari e musicali, opere cinematografiche) che per appartenenza paradigmatica. L’accostamento – nella speranza di aver evitato un facile pericolo congèrie – ha permesso di imbastire una breve analisi per valutare le interazioni e gli effetti reciproci che da tali elementi potevano promanare, vagliati nel solco della partizione urbana (di cui ghetto e gated community ne sono robusti emblemi) e dei canoni del Movimento Moderno. Muovendo da una convergenza ontologica de facto tra ghetto e gated community – entrambi sono portatori di una segregazione intrinseca pur nella differenziazione di intra-muros per imposizione (i primi) e extra-muros per scelta (i secondi) – si è ri-
levata una maggiore configurazione di questi come rinnovate eterotopie e lo stesso Wirth (1927, p. 71) era giunto alla conclusione che «it is not merely a physical fact but also a state of mind». Il Moderno ha certamente giocato un ruolo importante in tale evoluzione, concettuale prima e spaziale poi, introducendo, come visto, nuovi spazi della sovrapposizione e della giustapposizione, portatori e catalizzatori di inediti significati e, per questo, qui concepiti e proposti come spazi dialogici. Nell’archetipale oscillazione tra volontà e potere, tali spazi possono ambire ad essere una metafora della società che si compromette proprio a seguito di un sistema chiuso e autoreferenziale (l’omicidio insabbiato dei ragazzi intrusi ne La zona e la brutale rivolta o il clima di degrado morale in Hihg-rise), inevitabile catalizzatore di politiche di sorveglianza e controllo in quanto «la sicurezza è l’unità di misura dell’incolumità personale, ma più ancora dell’isolamento dell’individuo da gruppi e persone indesiderabili nella sfera dell’habitat, del lavoro e dei viaggi» (Davis, 1999) o, nell’efficace espressione di Paul Virilio (in Tedeschi, 2011), di una claustopolis in luogo di una cosmopolis. Se il bisogno di sicurezza, allora, può esser soddisfatto da una recinzione (una rete, una grata, una griglia) che separa e traccia i confini tra dentro e fuori, tra pericolo e non pericolo, anche la complessità dell’urbano può esser gestita da una griglia di
INTERNO-ESTERNO, SOPRA-SOTTO, DENTRO-FUORI
precise localizzazioni e confinamenti (che cos’è, in fondo, lo zoning introdotto dal CIAM?). In questa idea di palinsesto generale dove tutto è inseribile a condizione che ciascuna tessera rispetti lo standard di riferimento (un modulor?) assolutamente necessario per comparare le diversità, l’essenza caleidoscopica e anamorfica del territorio – splendido logo di questa rassegna – fatica a inserirsi. Pur nella perfetta geometria delle forme iniziali che si riflettono negli specchi dello strumento, i movimenti e le torsioni che gli spazi del mondo generano non possono far altro che deformare qualunque griglia e qualunque ortogonalità, ottenendo così una visione particolare e inaspettata, lontana da qualsiasi andamento predefinito. Sembra, quindi, che i fatti territoriali siano tanto più interessanti e affascinanti se spinti dai continui e inevitabili cambiamenti e mescolamenti degli spazi di vita, laddove le griglie si deformano e i paradigmi moderni non possono che cedere il passo a quelli post-moderni.
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ALESSANDRO COPPOLA*
LA CITTÀ DELLE PICCOLE SOVRANITÀ
Il tema delle eterotopie che ci invitate ad affrontare è fondamentale nelle discussioni correnti sulla città. Io non parlerò di vere e proprie eterotopie, parlerò diversamente di più o meno minute “formazioni sociali” che nella città producono forme di sovranità sullo e nello spazio, e che ci pongono una serie di questioni che sono secondo me rilevanti per chi oggi studia la e interviene sulla città. Correttamente, e da tempo, si osserva come la città abbia cessato di funzionare come un insieme rispondente ad una razionalità comprensiva, ovvero a un insieme di obiettivi, regole ed aspettative di funzionamento stabilite per l’insieme della città in un momento preciso e per una durata definita. Per la verità quella di una sua razionalità stabile e comprensiva – ben rappresentata dall’idea di un “Piano Regolatore Generale” – è stata più un’ideologia che un’effettiva approssimazione alle condizioni reali delle città: le città sono sempre state, perfino all’apice dell’industrialismo fordista, insiemi più o meno caotici di flussi, attori e forme di legame sociale dotati di proprie, potenti e autonome razionalità. Ma di certo, la minore complessità in termini di struttura e diversificazione produttiva, di capitale umano e di conoscenze diffuse e la stessa minore entità di capitale fisico accumulato – sul quale pensare e attuare interventi – si accompagnavano nella fase industriale ad un maggiore agio da parte dei poteri pubblici, e del sistema di interessi sociali che li sorreggevano, nel predisporre piani e nel conseguire obiettivi di trasformazione che avessero un’ambizione di comprensività. Oggi, come noto, tutto appare disorganizzato e scomposto: le città si trasformano dall’interno e per parti, i network instabili e complessi di attori posizionati a varie scale hanno sostituito schemi di azione fondati su relazioni lineari fra poteri pubblici e circoscrivibili interessi sociali ed economici, il sovrappiù di conoscenze tracima nella città risignifi*
candola diffusamente e ben oltre i saperi e tradizionali. La stessa rottura dei confini concreti fra la città e il resto, il suo incapsulamento in un sistema globale di interdipendenze e di flussi di mobilità che rendono l’urbanizzazione “planetaria” secondo l’espressione di Neil Brenner contribuiscono a dare l’idea di un tutto non governabile, e probabilmente nemmeno facilmente conoscibile. In questo contesto, la razionalità della città sembra scivolare via dall’intenzionalità degli attori organizzati verso una dimensione abbastanza misteriosa fatta degli esiti delle interazioni reciproche e non prevedibili fra un numero elevato (e crescente) di intenzionalità. E non a caso la città è diventato un oggetto di interesse per tutti i progetti intellettuali che guardano alle teorie della “complessità” e dei “sistemi”, ed in particolare alla necessità di produrre letture critiche dei nessi fra ecologia ed organizzazione sociale ed i loro feedback. La città contemporanea impone un sapere della complessità che spesso si risolve in allusioni e retoriche di una complessità che tuttavia siamo ancora ben lontani dal poter davvero indagare, e ancor meno spiegare. Entro questo quadro, negli ultimi decenni abbiamo tuttavia affinato lo sguardo su come parte di questa complessità assuma la forma dello strutturarsi di specifiche “formazioni sociali” nello spazio, e nello spazio urbano più precisamente. Una società con una stratificazione sociale più articolata, con un rapporto con l’urbano più denso di significati e in cui l’urbano viene a giocare funzioni sempre più importanti nelle strategie di identificazione e distinzione sociale e nella quale tutto ciò assume una complessità organizzativa crescente lascia molte tracce nella città: queste tracce possiamo indagarle e rappresentarle con un sapere eminentemente qualitativo che spesso ha il ritmo della descrizione, altre volte quello della vera e prioria indagine etnografica.
Dipartimento di Architettura e Studi Urbani, Politecnico di Milano.
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Guarderemo a queste tracce di “formazioni sociali” associando alcune questioni di interesse ad alcuni luoghi che ho avuto il piacere di conoscere e di indagare. Questi luoghi sono l’Ex Ospedale Psichiatrico Paolo Pini a Milano, un territorio di eccezionale qualità dove nel tempo sono andate stratificandosi nuove funzioni e popolazioni urbane in un contesto di informalità (intendendo per informalità non l’assenza di norme e apparati regolativi, ma un insieme di strategie adattive di determinati soggetti fondate su una relazione critica con esse); la Freetown di Christiania a Copenaghen, un vasto quartiere urbano – anch’esso caratterizzato da valori urbani ed ambientali di grande qualità – occupato dagli anni 70 dello scorso secolo da una comunità autonoma sulla base di un principio di differenza in relazione a sistemi regolativi fondamentali quali la proprietà e la democrazia rappresentativa; un quartiere di Milano – detto di “NoLo” – caratterizzato da forme peculiari di auto-organizzazione e mobilitazione di gruppi di nuovi abitanti e infine i nuclei urbani exabusivi di Roma, aree edificate al di fuori della pianificazione da gruppi di immigrati interni e progressivamente consolidatisi e formalizzatesi attraverso un denso rapporto con le autorità politiche e le norme di pianificazione.
temporaneità nella quale siamo immersi - continuiamo a muoverci nello stesso solco, in forme però mutevoli e in parte intensificate. A Christiania tutto nasce dall’occupazione di un territorio di poco meno di otto ettari e di proprietà dello stato da parte di attivisti appartenenti a subculture radicali e che volevano sperimentare collettivamente modi di vita altri. Nel caso dell’ex ospedale Paolo Pini si tratta di nuovo di un processo di sedimentazione incrementale di attività, da parte di attori formalizzati e specializzati impegnati nel campo della salute mentale, entro un patrimonio di proprietà anche questo di organizzazioni pubbliche. Nel caso del quartiere cosiddetto “Nolo” si tratta invece di un processo di uso degli spazi pubblici e non solo pubblici come terreno di manifestazione di gruppi di “nuovi abitanti” che progressivamente si “responsabilizzano” nel governo di questo spazio producendo così anche una nuova forma di “identificazione” con il quartiere. Nel caso degli ex quartieri abusivi di Roma, infine, siamo in effetti alla più tradizionale “enclave” migratoria “per addizione”: i migranti interni arrivavano a Roma e edificavano abusivamente dei terreni privati non urbanizzati, costituendosi come “borgata” da “formalizzare” nel quadro di un rapporto complesso e articolato con l’autorità pubblica. In tutti questi casi, abbiamo a che fare con gruppi sociali di diverso tipo e dai diversi criteri di inclusione che designano uno spazio per prodursi nella forma di una più complessa “formazione sociale”. Lo spazio è qui un supporto e una piattaforma senza i quali il potenziale di questi gruppi non potrebbe essere pienamente dispiegato. E in tutti questi luoghi, sebbene in misura variabile, gli usi dello spazio trovano origine non nei “piani” bensì nell’incontro dinamico e iterativo fra questi gruppi sociali e lo spazio. In altre parole, guardiamo qui a fenomeni che producono regolazioni dello spazio secondo logiche che non sono quelle tradizionali del governo, intesa come attività intenzionale orientata al domani e che si basa su una qualche forma di legittimità formalizzata.
INSORGENZE,
I MIX IMPOSSIBILI E L’ASPIRAZIONE
LO SPAZIO COME SUPPORTO DELL’IDENTITÀ
A PICCOLE TOTALITÀ
Le città sono sempre stati anche processi di colonizzazione entro i quali una data popolazione designava in modo più o meno coeso, e in qualche modo “additivo” rispetto a quanto già esisteva, un perimetro più o meno mutevole entro il quale insediarsi e costruire anche processi di identificazione (si pensi alle dinamiche migratorie, ed alla formazione di enclave). Nella città contemporanea – della lunga con-
Questi episodi poi mettono in discussione concettualizzazioni e partizioni funzionali, producendo una propria discreta e localizzata concezione dello spazio che in qualche modo sembra aspirare a costituire piccole totalità, società in piccolo. Nel caso del quartiere “Nolo” la formazione del gruppo si è essenzialmente fondata sulla più forte discontinuità con l’ordinamento funzionale più radicato che si
Allora se lo sguardo è quello delle eterotopie, e quello delle eterotopie in un contesto di crescente complessità e stratificazione, possiamo andare a guardare alcune delle formazioni sociali che la sostanziano e osservarle in una prospettiva di scartamento rispetto alle aspettative consolidate di una città che funzioni secondo una razionalità comprensiva, e in direzione viceversa dell’istituzionalizzazione di razionalità di “medio livello” che per l’appunto strutturano questa “città per parti” e per “frammenti”. Frammenti che tuttavia sono dislocazioni congiunturali di una complessità della quale si continua, comunque a far parte, negoziando (in posizione più o meno favorevole) le proprie condizioni di scambio e appartenenza.
LA CITTÀ DELLE PICCOLE SOVRANITÀ
possa immaginare nelle nostre città: ovvero sull’inversione dello spazio pubblico in spazio in qualche modo “privato”, o per meglio dire “privato collettivo” (una dimensione “meso” sempre più importante nelle nostre società urbane). I nuovi abitanti hanno preso a organizzare colazioni in spazi pubblici - lungo il marciapiede o in qualche spazio liminale che intendevano “riconquistare” – affermando complessivamente il principio secondo il quale lo spazio pubblico non può più essere neutro, ma deve essere abitato da gruppi sociali discreti (hanno poi ottenuto che il comune pedonalizzasse delle aree e mettesse delle panche, che in qualche modo permettessero usi simili a quelli da loro avviati). Inoltre, hanno fondato una radio di quartiere, organizzato festival di quartiere, promosso gli acquisti di quartiere e fondato una varietà di gruppi locali tanto da spingere uno degli attivisti a “non uscire più dal quartiere”. Nel caso di Christiania come in quello dell’ex Paolo Pini, l’originalità della rivisitazione funzionale la si osserva alla scala di quello che si potrebbe invece definire il “progetto urbano”. La vera e propria chimera del mix funzionale perseguita da centinaia di progetti immobiliari con i loro mix paludati di residenza, uffici, grande distribuzione – è stata in qualche modo conseguita con successo da queste formazioni sociali. Nel caso dell’ex Paolo Pini, con pochissimi capitali e molto lavoro le associazioni impegnate nei percorsi di salute mentale avviatisi successivamente alla legge Basaglia hanno riconfigurato gli spazi del manicomio ora dismesso dandogli funzioni molto articolate e la cui combinazione appare del tutto originale – un teatro, accanto a un orto sociale, non lontano da un hospice per malati terminali – e soprattutto non esito di una intenzionalità originaria e precisa, bensì di un sedimentarsi incrementale di interazioni e di nessi fra le attività che andavano collocandosi nel territorio. Stesso discorso vale per le popolazioni. Entro il Paolo Pini si trovano a convivere popolazioni disparate che nessuna strategia formalizzata di “rigenerazione” farebbe mai convivere: persone inserite in percorsi di salute mentale, amici e parenti di malati terminali insieme al pubblico di un festival (il festival “Da vicino Nessuno è Normale” si tiene al Paolo Pini). Nel caso di Christiania il discorso è non dissimile con quello che è un distretto notturno situato in sostanziale compenetrazione con un tessuto diffuso fatto attrezzature collettive quali scuole e servizi sociali - entrambi gestiti dalla comunità di Christiania, che ha le sue istituzioni deliberative e un suo bilancio – e di abitazioni. In entrambi i casi poi si tratta di grandi spazi con una naturalità debordante, di quartieri-parco caratteriz-
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zati da una grande varietà di funzioni concentrate in uno spazio limitato con una caratteristica aspirazione alla totalità, al contenere un po’ di tutto in un piccolo spazio (esattamente il contrario del principio di specializzazione e concentrazione delle funzioni proprio alle dinamiche egemoni di urbanizzazione). Tale aspirazione alla totalità, sebbene con un minore impatto sul capitale fisico, la incontriamo anche nel caso di Nolo dove la razionalità prevalente sembra quella della costituzione di un villaggio urbano dove si possa “trovare tutto”. Infine, ultima nota riguardo Christiania e il Paolo Pini, questa stratificazione di funzioni si produce in condizioni di quasi sostanziale assenza dei meccanismi capitalistici di investimento e remunerazione. In entrambi i casi infatti, abbiamo mix di funzioni realizzati nella prospettiva di una sostanziale non incamerabilità – a mezzo di scambi di mercato - dei valori così generati: a Christiania la proprietà privata degli immobili non esiste mentre nell’ex Paolo Pini a garantire l’uso degli spazi vi sono titoli di affitto o di comodato d’uso. Quindi in entrambi i casi l’unico fattore che ha spinto la trasformazione è stato il diritto d’uso e l’aspettativa di fare un uso adeguato dello spazio in relazione a determinati obiettivi nei quali non rientrava l’aumento del valore del bene immobiliare.
SOVRANI, FINO A PROVA CONTRARIA Altra importante dimensione è poi quella della ricerca della sovranità, ovvero di una crescente aspirazione di determinati gruppi sociali di esercitare controllo e governo su spazialità “prossime” entro le quali i processi di identificazione vanno intensificandosi. Il caso di Nolo rappresenta un caso esemplare dal punto di vista della logica di formazioni sociali nelle quali il ruolo dei ceti medi e superiori è più pronunciato. Gruppi di nuovi abitanti, spesso coinvolti in professioni ad elevato capitale culturale, vedono il quartiere come un supporto essenziale delle loro stesse identità sociali e professionali. Questo li spinge a “impegnarsi” affinché ciò corrisponda alle proprie aspettative elaborando una sorta di visione “domestica” di spazi che sono comunque urbani e spingendo più in là la frontiera del controllo sociale, ben oltre lo spazio domestico. Attenzione: non si tratta esclusivamente e necessariamente della mera “difesa” dello spazio da presenze considerate estranee o lesive, ma di qualcosa collocato ben oltre. Ovvero della produzione di uno spazio che divenga supporto della riproduzione sociale in senso molto ampio e in dimensioni che riguardano i legami so-
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ciali, le risorse di identificazione sociale e anche la possibilità che il quartiere divenga un terreno di impegno, sperimentazione e crescita professionali: molte delle attività culturali che hanno luogo a Nolo, nel nome di Nolo, partono dall’iniziativa di abitanti la cui professione ha a che fare con quelle attività e con quei mercati. Ovviamente, anche Christiania rappresenta un caso di estremo interesse, da questo punto di vista. La Freetown si è strutturata come vera e propria organizzazione secessionista dal resto della società: non un rifiuto di relazione, ma di certo, l’affermazione di una volontà di autonomia e separatezza attraverso la costruzione di uno spazio peculiare, governato da istituzioni peculiari – nel nome della democrazia deliberativa, ogni abitante partecipa direttamente alla formulazione di decisioni che devono essere improntante al consenso – entro il quale affermare e riprodurre uno stile di vita alternativo: anche in questo caso si ricercava lo spazio perché rappresentava il supporto concreto entro il quale rendere possibile lo sviluppo di una identità, in questo caso programmaticamente altra rispetto a quella egemone. Infine, nelle borgate ex-abusive romane, il loro costituirsi come oggetti extra-legem ha da subito condotto a forme di sostanziale auto-governo sebbene sempre accompagnate dalla rivendicazione di un intervento di governo. Nel tempo, dai comitati si è passati a forme pienamente formalizzate di sovranità locale: le cosiddette associazioni consortili – sia quelle di cosiddetto “recupero urbano” sia quelle “stradali” – ovvero organizzazioni a base proprietaria oggi chiamate ad assolvere una serie di funzioni collettive. In tutti questi casi, ma devo dire soprattutto nel caso di Nolo, si impone soprattutto l’immagine di un processo di “domesticizzazione” dell’urbano: mentre la prima scoperta sociologica della città la caratterizzava come un sistema razionale fondato su forme strumentali, astratte ed anonime di legame sociale oggi osserviamo come nello spazio urbano specie alcuni ceti combattano per riaffermare legami sociali che imitino quelli primari, di fare famiglia nella società locale, di fare casa nello spazio pubblico. Si tratta di una nuova forma di collettivismo dei pochi, che inevitabilmente afferma una nuova scala: quella del rapporto fra il gruppo degli scelti e la più complessiva dimensione urbana cui si accede selettivamente. A imporsi di frequente è l’idea di un mondo in miniatura nel quale la sovranità non si fondi su meccanismi astratti di legittimazione bensì, per l’appunto, su legami che imitino quelli primari.
GOVERNARE, IN ACCORDO Una terza dimensione è quella del come si predispongono le relazioni fra questi processi e la società nel suo complesso. Tutte queste formazioni sociali, molto diverse fra loro da tantissimi punti di vista, hanno ovviamente bisogno (e desiderio) di relazioni dense con la società nel suo complesso, ma vogliono in una certa misura consapevolmente e intenzionalmente negoziare tale relazione. Volendo esercitare della sovranità, non esclusiva ma comunque sovranità, si costituiscono come interlocutori e nelle visioni più ireniche come veri e propri partner delle autorità pubbliche. Paradossalmente, laddove la deviazione è più consistente più intensa è l’attività di partenariato perché le autorità pubbliche devono in qualche modo normalizzare l’esistenza di queste deviazioni al fine di renderle maneggiabili, e in qualche modo razionalizzarla e renderla per l’appunto parte di un “piano” e di una qualche dimensione regolativa. Che essenzialmente è fatta di “discorsi” che stabiliscono nessi, riconoscimenti reciproci, assegnano responsabilità e limitano anche diritti. Queste formazioni sociali sono quindi oggetti fondamentali per osservare l’avvento del “governo per accordi”: sebbene i processi di individualizzazione siano stati vettori influenti di cambiamento sociale, oggi di frequente osserviamo processi differenti di trasformazione del legame sociale che si basano più che sull’asse individuo-società su quello che unisce gli individui, delle microcittadinanze collocate ad una scala “meso” e la società nel suo complesso. A Christiania il processo di formalizzazione della Free Town – ed essenzialmente la garanzia della sua sopravvivenza – è stato reso possibile da un accordo fra una fondazione fondata dagli abitanti e il governo danese che ha venduto, in regime di proprietà collettiva sostanzialmente inalienabile, la proprietà dei suoli. Nelle borgate ex abusive di Roma, i processi di formalizzazione sono avvenuti sia su base individuale attraverso la concessione di un “condono edilizio”, sia su base collettiva per mezzo della costruzione di accordi fra il comune ed i proprietari riuniti nelle citate associazioni consortili, divenuti così attori legittimi di governo di questi quartieri con i quali il comune deve necessariamente accordarsi. A NoLo, il Nolo Social District – ovvero l’omonimo gruppo facebook e in senso più ampio il gruppo originario di “nuovi abitanti” che hanno dato vita al discorso su Nolo – è diventato responsabile della gestione “collaborativa” di alcuni spazi pubblici, oltre che un attore chiave nella negoziazione di determinati, importanti cambiamenti. Il moltiplicarsi nelle città di
LA CITTÀ DELLE PICCOLE SOVRANITÀ
formazioni sociali che permettano il “governare per accordi” è diventato una delle principali aspirazioni per chi per l’appunto (tenta di) governare in contesti sempre più complessi, con identità sociali stratificate e divergenti, risorse pubbliche – sia finanziarie, sia di altro tipo comunque limitate. Un accordo permette di governare senza governare e in alcuni casi di comunicare l’idea del governo senza doverlo praticare per davvero, quantomeno nelle sue forme tradizionali. E da un certo punto di vista è anche un modo per allentare i conflitti, ridurre i costi politici (e talvolta economici) dell’attività di governo, per dislocarli altrove e per affidare a queste “microcittadinanze” responsabilità sempre più ampie persuadendole, allo stesso tempo, che uscire da tali accordi è troppo pericoloso in una città in cui tutti sono legati da qualche forma di accordo.
IN CONCLUSIONE I quattro casi che ho trattato in questa conversazione sono, come evidente, assai diversi fra loro. Ma restituiscono tuttavia una medesima torsione della logica dell’azione collettiva. Nelle società urbane esiste un ampio sovrappiù di risorse cognitive e di domande di identificazione sociale che con difficoltà riescono ad accomodarsi entro gli apparati regolativi per come essi si sono stratificati in decenni di organizzazione dello scambio fra stato e mercato. Che si tratti di una comunità di pratica della salute mentale, di un gruppo di abitanti di ceto-medio alto oppure dei membri di una sub-cultura alternativa, quando tale sovrappiù incontra uno spazio disponibile esso si trasforma in una formazione sociale urbana. Tale formazione può promuovere narrazioni politiche diverse, se non opposte, e prestarsi a for-
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me di accordo anche molto variabili con le autorità legittime. Tuttavia, condividono la promozione e la difesa di un’aspirazione alla sovranità entro la quale possono determinarsi effetti spaziali molto peculiari e rilevanti. Il come città dalle molte, crescenti e diseguali sovranità possano essere ancora governate senza perdere le loro essenziali qualità urbane – il diritto all’anonimato, all’indifferenza ed alla neutralità dello spazio pubblico nel quadro della universalità della cittadinanza – rappresenta una delle sfide principali del secolo che si sta aprendo.
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FRANCESCO MAZZUCOTELLI
L’ARABA FENICE: RICOSTRUZIONI ED ETEROTOPIE IN LIBANO
1. LE TRASFORMAZIONI URBANE NEL MEDIO ORIENTE CONTEMPORANEO Benché i fenomeni di trasformazione urbana presentino elementi ricorrenti in buona parte del mondo contemporaneo, riassumibili nei ben noti processi di densificazione, gentrificazione, finanziarizzazione dello sviluppo urbano, incremento delle diseguaglianze spaziali e concentrazione di capitale finanziario e sociale (Sassen 2006; Harvey 2012), a un’analisi più approfondita appaiono evidenti alcuni caratteri specifici che questi fenomeni assumono a seconda dei differenti contesti geografici. Le città dell’area mediorientale, così come quelle dello spazio postsovietico o del continente latinoamericano, sono così attraversate da processi simili a quelle di altre grandi aree metropolitane del mondo, ma presentano traiettorie influenzate marcatamente da variabili locali, tra cui il ruolo più o meno marcato delle istituzioni pubbliche, la natura dei finanziamenti, il rapporto tra capitale pubblico e capitale privato, il linguaggio architettonico con tutte le sue implicazioni simboliche (Zanobi 2019). Studiare gli elementi distintivi di queste trasformazioni urbane presenta motivi di interesse non solo per coloro che si occupano di area studies, permettendo di evidenziare attraverso lo sviluppo urbano alcune linee di tendenza di carattere politico e sociale, ma anche per coloro che si occupano di urbanistica in senso stretto, dal momento che in molti contesti extraeuropei alcuni processi trasformativi irrompono con maggiore evidenza, nell’assenza di alcuni filtri e schermi ancora presenti nei contesti europei. Per quanto Le Galès (2016) abbia contestato l’assunto di leggere i processi di trasformazione urbana esclusivamente sulla base del paradigma neoliberista, Brenner, Peck e Theodore (2010) argomentano invece come le città siano i siti privilegiati di attuazione, di fallimento e di resistenza ai programmi di ristrutturazione sociale di stampo neoliberista. Rifacendosi in parte al pensiero dell’economista Sa-
mir Amin, i tre autori citati introducono la categoria di actually existing neoliberalism (“neoliberismo concretamente esistente”) per indicare come il neoliberismo, pur costituendo un modello disciplinare globale, segua geografie, modalità e percorsi di attuazione che sono specifici di ciascun contesto. Le città, in particolare, diventano luoghi in cui prendono forma molteplici modalità di distruzione creativa e di “creatività contraddittoria” che sono funzionali alla ristrutturazione neoliberista della società, nel quadro di una topografia perennemente instabile e di un ineguale sviluppo nello spazio (Brenner, Peck, Theodore 2009). In questa prospettiva, la dubaificazione delle città del Medio Oriente e del Nord Africa, dal progetto della Tech City di Tangeri alle Flame Tower di Baku, deve essere inquadrata nell’intreccio di interessi economici, finanziari, bancari e politici che creano una dialettica continua tra capitale globale, capitale locale e attori politici di natura tanto istituzionale quanto informale (Makarem 2018). Queste dinamiche sono a loro volta inestricabili dalle caratteristiche del sistema economico regionale (Hanieh 2011). Le caratteristiche specifiche delle trasformazioni urbane in Medio Oriente e in Nord Africa non vanno perciò lette nella chiave di una contrapposizione fra tradizione e modernità, anche per la difficoltà di accordarsi su una definizione univoca di questo concetto (Eisenstadt 2000). Tanto meno appare convincente inquadrare i fenomeni in atto contrapponendo la città “moderna”, sia essa di stampo coloniale o di stampo capitalista, alla città “islamica”, nella varietà di definizioni che ne sono state date, sia da coloro che hanno cercato di individuare alcuni elementi qualificanti di tipo morfologico sia da coloro che hanno cercato di spiegarne il prototipo sulla base di necessità funzionali legate a valori e pratiche sociali (Neglia 2008). Tanto la ricerca antropologica quanto l’analisi architettonica hanno, al contrario, messo in luce la sovrapposizione di modernità e tradizione (Declich 2015), che crea spazi i quali rical-
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cano i linguaggi architettonici tradizionali senza tuttavia poter replicare le caratteristiche funzionali di un sūq premoderno,1 o che percorre espressioni artistiche e architettoniche sperimentali nella costruzione di nuovi luoghi di culto e nella trasformazione di spazi pubblici con l’obiettivo di rafforzare la legittimità degli stati postcoloniali (Holod, Khan 1997). Questo articolo, rifacendosi alla prospettiva degli studi sulle trasformazioni urbane neoliberali, intende offrire alcuni casi di studio localizzati nel contesto del Libano contemporaneo, sottolineando la centralità degli spazi urbani nelle forme di gestione e contestazione del potere politico (Maggiolini, Mazzucotelli 2013).
2. “UNA CITTÀ ANTICA PER IL FUTURO”: LA RICOSTRUZIONE DEL CENTRO DI BEIRUT Molto è stato scritto sulla ricostruzione del Libano, e in particolare della sua capitale Beirut, dopo la fine della guerra civile e la firma degli accordi di Ta’if nel 1990, che sancirono un accordo tra le maggiori milizie e posero il paese sotto una ferrea tutela siriana. Secondo Haidar (1996), il processo di ricostruzione pose a proprio fondamento la rimozione dalla vista e dal discorso pubblico di tutti i segni evidenti del passato recente, in un’assordante assenza di narrative condivise, di forme di commemorazione pubblica, o quanto meno di un dibattito collettivo sugli avvenimenti bellici. Questo portò, secondo Makdisi (2006), a un processo consapevole di rimozione del tema del conflitto e alla riluttanza a prendere di petto il lungo processo di rielaborazione della memoria e delle immagini della guerra. Ciò serviva anche a promuovere una superficiale pacificazione nella quale i principali attori politici continuarono a essere gli esponenti delle milizie coinvolte nel conflitto, alleggerite delle loro responsabilità da un’amnistia generalizzata. La rimozione complessiva non riuscì a cancellare del tutto la memoria della guerra; al contrario, continuò a galleggiare in uno stato fluido negli spazi e nei tempi della città, pronta a essere evocata in forme selettive e parziali, spesso a uso e consumo delle diverse fazioni (Mazzucotelli 2010). Non deve perciò sorprendere che i progetti di ricostruzione degli spazi urbani danneggiati o distrutti in tempo di guerra andarono indirizzandosi verso forme drastiche di eliminazione dei segni fisici dei combattimenti e la ricostruzione da zero di un nuo-
vo centro urbano, anche al costo di stravolgere la forma urbana preesistente e di abbattere edifici che, seppure fortemente danneggiati, avevano resistito a quindici anni di guerra. Furono così archiviati i due master plan adottati dalle autorità municipali ancora in tempo di guerra: il primo, adottato nel 1977, che mirava a ripristinare e ricostruire una gran parte degli edifici del centro urbano, riportando la forma della città alle condizioni antecedenti allo scoppio delle ostilità; e il secondo, adottato nel 1983, che aveva acquisito come dato di fatto la divisione della città su base confessionale e che puntava a salvare il salvabile, accantonando l’idea di un restauro integrale (Bollens 2012). Il nuovo progetto, commissionato nel 1991 e finanziato dalla fondazione che faceva capo al futuro primo ministro Rafiq al-Hariri, puntò alla tabula rasa in modo da costruire un nuovo centro cittadino con servizi e infrastrutture all’avanguardia che potesse tornare a essere un polo regionale per i servizi bancari, finanziari e assicurativi. Benché il gigantismo iniziale del progetto venisse presto ridimensionato, non cambiò la natura di un intervento che privilegiava la capitale a scapito delle regioni periferiche del paese, e il centro della capitale a scapito delle periferie. Dalla foga delle demolizioni iniziali non si salvarono neanche quegli edifici di pregio o di valore storico che avrebbero potuto essere salvati, né migliore sorte toccò ai quartieri popolari inclusi nell’area di intervento (Kassir 2009). L’obiettivo del progetto di ricostruzione del centro era quello di realizzare lotti ad alto valore immobiliare, indirizzati prevalentemente al settore finanziario e al commercio di lusso. A ridimensionare il piano originario non fu la scoperta di strati archeologici di età fenicia, romana e mamelucca più importanti del previsto, bensì un ricalcolo delle spese e dei profitti attesi e soprattutto una strategia di marketing che, grazie a una campagna coordinata dall’agenzia Saatchi & Saatchi, trasformava il patrimonio storico della città in strumento promozionale, volto ad aumentare l’attrattività di Beirut rispetto alle più anodine città del Golfo Persico (Summer 2006). I grattacieli futuristi furono così integrati con edifici che richiamavano esteriormente l’aspetto degli edifici civili del tardo periodo ottomano e dell’età mandataria, ossia tra la seconda metà dell’Ottocento e gli anni Trenta del ventesimo secolo. Nel 1994 il governo libanese presieduto da Rafiq al-Hariri affidò a una società per azioni (la Società libanese per lo sviluppo e la ricostruzione, o Solide-
1 Si veda in: https://in30secondi.altervista.org/2018/07/01/in-qatar-04-1-la-cultura-culturale-suq-waqif/ (ultima visualizzazione: 24 febbraio 2020).
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re nell’acronimo francese) l’appalto per lo sviluppo immobiliare, la creazione delle infrastrutture e la gestione delle proprietà. I titoli di proprietà preesistenti al conflitto furono espropriati in cambio di quote azionarie di Solidere a titolo di indennizzo. La manovra, pur giudicata necessaria per ovviare alla parcellizzazione e alla complessità dei titoli di proprietà, diede luogo a una lunghissima serie di contestazioni legate al rapporto tra il valore delle proprietà espropriate e il valore del pacchetto di azioni offerte come indennizzo (Andraos 2008). Alla segregazione amministrativa, definita dalla situazione di un centro cittadino in cui le istituzioni dello stato avevano completamente delegato la ricostruzione e la gestione degli spazi a una società azionaria a capitale privato, si sovrappose la segregazione spaziale, poiché ai margini del nuovo “distretto centrale” furono realizzate superstrade di fatto impossibili da attraversare a piedi, mentre l’assenza di trasporto pubblico rendeva il centro praticamente inaccessibile a quanti non avessero un veicolo proprio. Il caso del downtown di Beirut è un esempio da manuale delle politiche di repressione e di controllo degli spazi urbani centrali descritte da Loukaitou-Sideris e Banrejee (1998): oltre alle misure visibili di sicurezza adottate attorno agli obiettivi sensibili (Parlamento, palazzo del Primo ministro, sede delle Nazioni Unite, uffici governativi e ministeri, banche), Solidere implementò regole più morbide nell’apparenza, ma non meno importanti nell’effetto finale, tra cui un’ampia pedonalizzazione che non aveva solo funzioni estetiche o ambientali, ma serviva soprattutto al filtraggio dei visitatori indesiderati, l’ubiqua presenza di agenzie di sicurezza private, il divieto di comportamenti (mangiare o bere alimenti e bevande portati da casa, ascoltare musica ad alto volume, persino parlare a voce troppo alta) che tendevano a dissuadere e allontanare le fasce di pubblico sgradito, in particolare il proletariato povero della periferia meridionale di Beirut. Uno dei termini che vennero e che vengono tuttora utilizzati per pubblicizzare il paesaggio urbano realizzato e poi gestito da Solidere è “esclusivo”. Questo termine rende bene l’ambiguità di un processo di ricostruzione che creò spazi signorili ed esteticamente gradevoli, ma allo stesso tempo escluse alcuni segmenti meno abbienti di popolazione. Ciò che avvenne nei 120 ettari (più altri 60 recuperati al mare attraverso lo sversamento delle macerie) assegnati a Solidere non fu solo un processo di gentrificazione, bensì, secondo Kassir (2009), la creazione di una enclave del lusso e del privilegio 2
largamente distaccata dal resto della città. Per il provocatorio gruppo hip hop Touffar, il centro commerciale (al-wasaṭ al-tijārī) diventa così “lo schifo commerciale” (al-wasakh al-tijārī) in una canzone che attacca frontalmente “i palazzi costruiti sul sangue degli schiavi” e l’azienda Solidere, che espande i suoi profitti attraverso “l’alleanza con il Golfo” e “il sostegno degli americani”.2 Il tentativo di reinventare il centro cittadino come uno spazio controllato, regolamentato, misurato non è inoltre riuscito a cancellare la centralità fisica e simbolica di alcuni luoghi della memoria collettiva, e in particolare la Piazza dei Martiri. Quest’ultima è tuttora informe (nonostante numerosi progetti di riqualificazione mai portati a termine, tra i quali uno del Renzo Piano Workshop)3 e largamente disconnessa dal tessuto urbano circostante, ma rimane il palcoscenico virtuale su cui le diverse componenti politiche libanesi proiettano la loro immagine di paese (Mazzucotelli 2013), così come lo spazio privilegiato delle grandi manifestazioni, da quelle della primavera del 2005 (Gahre 2007) fino a quelle iniziate nell’autunno del 2019, che hanno messo radicalmente in discussione l’intreccio tra sistema economico e sistema politico confessionale.
Fig. 1. Il cantiere della ricostruzione del centro di Beirut nell’estate del 2005.
3. “LA
MEGLIO GENTE”: LA RICOSTRUZIONE DELLA
PERIFERIA MERIDIONALE DI
BEIRUT
Le cartoline d’epoca ritraggono la Beirut brillante degli anni Sessanta, senza mai soffermarsi sulla cintura periferica che in quegli anni andava espandendosi in maniera incontrollata, dopo la mancata applicazio-
Si veda in: https://www.youtube.com/watch?v=UMpIwkW3VQo (ultima visualizzazione: 24 febbraio 2020). Si veda in: http://www.solidere.com/city-center/urban-overview/districts-main-axes/martyrs-square (ultima visualizzazione: 24 febbraio 2020). 3
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ne del piano di governo proposto da Michel Écochard nel 1961 sulla base di un precedente progetto del 1944. La cosiddetta “cintura della miseria” (cioè la fascia periurbana composta da campi profughi palestinesi, insediamenti informali, zone di recente urbanizzazione a basso reddito, aree agricole e tratti di costa inizialmente pensati come spazi verdi) assunse rapidamente connotazioni di caos, miseria, squallore e assenza di regole (Fawaz 2005). Gli anni della guerra civile, oltre alle distruzioni materiali e ai processi di spostamento coatto di popolazione, fecero esplodere anche speculazioni sfrenate, compromessi informali e soluzioni in deroga a qualsiasi tipo di regolamentazione, portando a una grave insufficienza delle infrastrutture e dei servizi di base (Davie 1994). Al termine del conflitto furono ideati due grandi progetti di riqualificazione che avrebbero dovuto creare altrettante zone residenziali ad alto reddito connesse al centro cittadino tramite corridoi autostradali, ma che fallirono sia a causa dei costi sia a causa dei contrasti tra le diverse fazioni politiche coinvolte (Harb 2005). La periferia meridionale della città, che si estende nei pressi dell’aeroporto, assume un carattere del tutto particolare a causa del radicamento del partito sciita Hezbollah, al punto da vedersi attribuite le etichette di “ghetto sciita” e “bastione di Hezbollah” (Deeb 2006). Oltre a una varietà di organizzazioni fiancheggiatrici, attive in diversi ambiti sociali (Catusse, Alagha 2008), il “Partito di Dio”, ispirato alla dottrina politica khomeinista, ha fondato una propria società di progetti edili (denominata Jihād al-binā’ o “Sforzo di ricostruzione”), che ha lo scopo di ricostruire e restaurare edifici sia appartenenti al partito sia privati, garantire l’erogazione di acqua ed energia elettrica (laddove le istituzioni pubbliche non sono in grado di farlo), raccogliere l’immondizia, valorizzare le proprietà fondiarie e immobiliari, costruire unità abitative per le famiglie disagiate.4 Poiché le amministrazioni decentrate della periferia meridionale sono saldamente in mano ai due partiti sciiti Hezbollah e Amal, che in passato hanno saputo alternare retoriche di estraneità al sistema di potere confessionalista con una prassi di profondo inserimento nella logica di spartizione delle risorse pubbliche, la società Jih d albin ’ ha acquisito un carattere sempre più dominante nella gestione delle politiche urbanistiche. Nell’estate del 2006, una guerra intensa contrappose Hezbollah a Israele, causando estese distruzioni nei settori meridionali di Beirut. Benché il governo libanese avesse 4
annunciato l’intenzione di gestire l’intero processo di ricostruzione, nel novembre del 2006 Hezbollah creò una società di edilizia privata, chiamata Waʿd (“Promessa”), incaricata di formulare e realizzare un progetto di ricostruzione che rispetti le volumetrie e le forme preesistenti alla guerra, senza modificare la densità abitativa, lo stile e il tessuto delle aree colpite dai bombardamenti (Fawaz 2008). Il progetto tentò di coinvolgere architetti, docenti universitari e residenti con un meccanismo di progettazione partecipativa, secondo una formula che venne replicata anche per la ricostruzione del campo profughi palestinese di Nahr el-Bared, distrutto invece nei combattimenti tra l’esercito libanese e un gruppo jihadista nel 2007.5 Il concetto di “lavoro di servizio tra la gente” fu ripreso nell’autunno del 2009 da una campagna di mobilitazione denominata al-niẓām min al-īmān (“l’ordine viene dalla fede”), secondo cui la gestione regolamentata degli spazi pubblici, dell’edilizia privata e del decoro (sia dal punto di vista estetico sia dal punto di vista dei comportamenti) diviene espressione manifesta del proprio impegno religioso e politico,6 oltre che strumento di creazione del consenso e dell’egemonia culturale già iniziata nella topografia dei luoghi di memoria e di socializzazione (Harb, Deeb 2008). Il caso della periferia meridionale di Beirut è un esempio particolarmente eclatante di un processo di sovrapposizione tra interessi economici privati e interessi politici che attraversa in realtà tutte le periferie libanesi, nelle quali viene scavalcata ampiamente la distinzione teorica tra urbanizzazione formale e informale, nel senso che anche quest’ultima risponde a logiche di controllo del territorio, per quanto non dipendenti dalle istituzioni pubbliche. L’etnografia realizzata da Nucho (2016) nel quartiere armeno di Burj Hammoud evidenzia come i principali attori politici realizzino il proprio radicamento territoriale e aumentino la propria capacità di mobilitazione attraverso la demarcazione e il controllo fisico e simbolico di gran parte degli spazi urbani. Non è dunque plausibile comprendere il confessionalismo, cioè il peculiare sistema libanese di spartizione dei principali incarichi e delle risorse pubbliche secondo il criterio dell’affiliazione religiosa, senza capirne le dinamiche spaziali e in particolare periurbane. Le analisi apparse negli ultimi anni sulle periferie urbane libanesi, sui campi profughi e sulle aree di insediamento di antichi e recenti rifugiati partono perciò spesso dall’analisi degli spazi edifica-
Si veda in: http://www.waad-rebuild.org.lb/page.asp?subid=60&id=8 (ultima visualizzazione: 24 febbraio 2020). Si veda in: https://www.dezeen.com/2013/05/02/reconstruction-of-nahr-el-bared-refugee-camp/ (ultima visualizzazione: 24 febbraio 2020). 6 Si veda in: https://al-akhbar.com/Politics/123157 (ultima visualizzazione: 24 febbraio 2020). 5
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ti e degli spazi pubblici per studiare le dinamiche sociali e politiche di introversione identitaria, stigmatizzazione, esclusione e auto-ghettizzazione (Kortam 2015), così come la produzione e l’esperienza dei confini urbani nella vita quotidiana.7 La ricerca accademica dibatte se esistano spazi “altri” che sfuggono alle logiche di segmentazione confessionale e partitica degli spazi periurbani, facendo riferimento al concetto di eterotopia introdotto da Michel Foucault, ma anche alla nozione di quotidianità sviluppata da Michel de Certeau e alle riflessioni di Giorgio Agamben sul potere sovrano e la “nuda vita”. Dehaene e De Cauter (2008) sostengono ad esempio che la categoria di eterotopia, in quanto spazio realmente esistente che crea una rottura nel tessuto della normalità, possa essere utile per comprendere le dinamiche degli spazi periurbani in una società che essi definiscono “postcivile”, ossia in una società che abbraccia consapevolmente la propria brutalità. Se Foucault intendeva le eterotopie prevalentemente come spazi di crisi dell’ordine costituito, di confino e marginalità, spesso connotati come luoghi reietti (Agier 2012), alcuni sociologi e urbanisti ne sottolineano invece il versante sovversivo (Tramontani Ramos 2010), nonché il conflitto che esprimono sull’uso e l’interpretazione dello spazio (Shane 2005). Dalle periferie delle metropoli americane ai confini urbani tra i quartieri delle periferie mediorientali, passando per i centri di accoglienza dei rifugiati siriani lungo il confine turco o per i valichi di controllo in Cisgiordania (Bontemps 2015), l’analisi degli spazi altri permette di capire meglio le logiche dominanti di organizzazione del territorio e produzione di significati.
Fig. 2. L’ingresso nel campo profughi di Burj al-Barajneh nell’estate del 2010. 7
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4. OSCAR NIEMEYER A TRIPOLI: TRA UTOPIA ED ETEROTOPIA
Nel 1962 il governo libanese incaricò il rinomato architetto brasiliano Oscar Niemeyer di realizzare un complesso fieristico alle porte di Tripoli, la seconda città del paese dopo Beirut. L’amministrazione guidata dal nuovo presidente Fouad Chehab recepiva così i suggerimenti di uno studio realizzato dall’istituto di ricerca guidato dall’economista francese Louis-Joseph Lebret, che proponeva di decongestionare l’area metropolitana di Beirut, decentrare le attività produttive e promuovere lo sviluppo del nord del Libano a partire dal ruolo storico e geografico del porto di Tripoli. La scelta di Niemeyer, raggiunto grazie ai buoni uffici della fiorente diaspora libanese in Brasile, non fu casuale, in quanto le raccomandazioni di Lebret si sovrapponevano bene con il progetto che stava alla base della costruzione di Brasília.8 A Tripoli, Niemeyer replicò molti elementi già utilizzati nel Palácio do Planalto e nel Palácio da Alvorada, continuando a esplorare l’uso del cemento armato, l’impiego di forme cilindriche e semisferiche, il gioco dei colonnati, delle simmetrie e delle linee di fuga, evidenziate dal riflesso in bacini d’acqua. Il sito si distingue ancora oggi per l’organicità e la coerenza del progetto originario.9 Su un’area ellittica di circa un kilometro quadrato, Niemeyer immaginò un edificio centrale a forma di boomerang, coperto da tettoia e lungo circa trecento metri, che avrebbe dovuto ospitare le esposizioni temporanee, un padiglione libanese permanente che riproduceva alcuni elementi dell’architettura vernacolare locale, un serbatoio idrico di forma cilindrica, alcune aree residenziali e di servizio, un teatro sperimentale all’interno di una semisfera in cemento armato, e infine un grande teatro all’aperto, costruito sopra una grande vasca e accessibile tramite una rampa incorniciata da un arco ellittico in cemento. La costruzione della fiera fu segnata da contestazioni sugli indennizzi dopo l’espropriazione dei terreni agricoli, problemi tecnici ed errori di costruzione legati all’uso del calcestruzzo negli elementi architettonici più audaci come il grande arco. Dopo lo scoppio della guerra civile nel 1975, la fiera venne requisita dalle forze armate siriane, entrate inizialmente con funzioni di interposizione e poi contrapposte con diverse formazioni palestinesi e islamiste. Nonostante due richieste da parte
Si veda in: https://syriastreet.com/ (ultima visualizzazione: 24 febbraio 2020). Si veda in: http://tripoliniemeyer2018.com/wp-content/uploads/2018/09/Visitors-Guide-English.pdf (ultima visualizzazione: 24 febbraio 2020). 9 Si veda in: http://whc.unesco.org/en/tentativelists/6437/ (ultima visualizzazione: 24 febbraio 2020) 8
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Fig. 3. Il padiglione libanese e il teatro sperimentale nella fiera di Tripoli nel gennaio 2017.
Fig. 4. Il teatro all’aperto e il bacino principale nella fiera di Tripoli nel gennaio 2017.
del consiglio di amministrazione della fiera per ottenere l’evacuazione delle truppe del comando militare siriano, prima nel 1978 e poi nel 1980, l’area rimase una base militare, strettamente separata dal resto della città, fino al ritiro del contingente siriano, avvenuto in due fasi nel 1994 e nel 1998.10 Nel lungo dopoguerra libanese, le autorità nazionali e locali, perlopiù concentrate su altre priorità, alternarono vaghe promesse di recupero ad altrettanto vaghi progetti di trasformazione dell’area in un parco a tema. Nonostante alcuni restauri parziali e l’organizzazione di eventi sporadici, non vi fu un piano complessivo. Da una parte, il politico locale Najib Miqati, un uomo d’affari che aveva creato la sua fortuna nel settore delle telecomunicazioni tra Beirut, Montecarlo e Dubai, cercò di insediare alcuni suoi uomini nel padiglione di ingresso, in modo da rivendicare un rango simbolico di signorotto più che per controllare fisicamente lo spazio (Dewailly 2012). Dall’altra parte, gli spazi della fiera, quasi sempre chiusi al pubblico, divennero una destinazione avventurosa per appassionati di architettura, adolescenti in amore e praticanti di parkour, mentre i decenni di mancata manutenzione e i danni strutturali causati dal processo di carbonatazione del calcestruzzo impressero segni sempre più evidenti su molte strutture, al punto che il degrado della fiera è stato descritto come la metafora fisica di una città in decadenza che non è in grado di far fruttare il proprio potenziale.11
Nell’autunno del 2018 un gruppo di artisti libanesi ha realizzato un’esposizione collettiva che ha cercato non solo di usare lo spazio della fiera come contenitore, ma di indagarne il lascito nella memoria della città e il suo ruolo come catalizzatore di un’immagine diversa di Tripoli e delle sue potenzialità.12 Questo processo di riscrittura è stato però superato nel 2019 dal progetto caldeggiato dall’autorità portuale cittadina, che punta a trasformare il porto di Tripoli nello snodo logistico per la ricostruzione postbellica della Siria e che ha aperto un bando per trasformare la fiera in un “parco tecnologico” e incubatore di piccole imprese, nell’ottica di un re-branding della città attraverso la retorica neoliberale della città smart, cioè in fondo all’interno della logica globale di competizione tra aree urbane per attirare investitori, ricercatori, residenti e turisti.13 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Agier M. (2012) “From Refuge the Ghetto Is Born: Contemporary Figures of Heterotopias”, in Hutchison R., Haynes B. (eds.), The Ghetto: Contemporary Global Issues and Controversies, Westview, Boulder, pp. 265–292. Andraos R. (2008) Neoliberal Planning and the Politics of Public Space: The Case of Martyrs’ Square in Beirut’s Downtown, tesi di laurea, American University of Beirut.
10 Si veda in: https://www.theguardian.com/cities/2019/jan/03/too-little-too-late-the-battle-to-save-tripoli-futuristic-fairgroundoscar-niemeyer (ultima visualizzazione: 24 febbraio 2020). 11 Si veda in: https://www.synaps.network/post/tripoli-lebanon-economy-deadlock (ultima visualizzazione: 24 febbraio 2020). 12 Si veda in: http://www.bema.museum/bema/outreach/upcoming-programs/cycles-of-collapsing-progress (ultima visualizzazione: 24 febbraio 2020). 13 Si veda in: https://tsez.gov.lb/kic (ultima visualizzazione: 24 febbraio 2020).
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FRANCESCO MAZZUCOTELLI
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EMANUELE GARDA
UN NUOVO RUOLO PER GLI SPAZI URBANI SOTTOUTILIZZATI TRA SOTTRAZIONI E PERMEABILITÀ
“[…] non c’è grande differenza fra le cose e le persone, hanno la loro vita, durano un certo tempo, e ben presto finiscono, come tutto al mondo” (Saramago, 2016) “Noi, esseri umani, siamo dotati di tutto quanto ci occorre per scegliere la strada giusta; la strada che, una volta scelta, sarà la stessa per tutti noi” (Bauman, 2000)
PREMESSA In molte realtà urbane investite da rilevanti livelli di urbanizzazione e dalla crescente attenzione per i cambiamenti climatici, assistiamo alla nascita di esperienze fondate sulla de-impermeabilizzazione dei suoli. Si tratta di iniziative incoraggiate da gruppi di cittadini, associazioni locali o istituzioni pubbliche, che, manifestando un particolare interessamento per gli spazi collettivi sottoutilizzati o monofunzionali, evidenziano la necessità di indurre un cambio radicale nella natura fisica e funzionale di queste aree. Tale mutamento, ottenuto grazie all’innesto di un nuovo ciclo di vita, è stato ricercato per rispondere alle esigenze delle comunità, valorizzando la dotazione di spazi collettivi esistenti e promuovendo i principi di sostenibilità. Il contributo, dopo un breve avvicinamento ai temi della de-impermeabilizzazione dei suoli, si rapporterà con alcune applicazioni riconoscendo sia le principali caratteristiche e condizioni che hanno guidato tali pratiche, sia la loro capacità di tradurre in azione concreta i concetti di depaving (o de-sealing). Oltre al richiamo ad alcuni programmi proposti a livello internazionale da istituzioni pubbliche, si guarderà alle esperienze attivate nel contesto nordamericano da gruppi di cittadini. Le motivazioni che hanno sorretto queste particolari iniziative si ritrovano nella volontà di: i) rafforzare il ruolo di alcuni spazi aperti posti nelle immediate vicinanze a luoghi rilevanti per la vi-
ta delle comunità, ii) contrastare il sottoutilizzo di aree localizzate in contesti a forte caratterizzazione residenziale, iii) rispondere ai bisogni dei cittadini (Silva, 2016) con nuova dotazione di spazi collettivi, iv) promuovere la lotta ai cambiamenti climatici.
UN PROGRAMMA PER LA POROSITÀ Indipendentemente dal livello di civilizzazione o dalla dimensione raggiunta, le società hanno sempre manifestato l’esigenza di ordinare lo spazio in cui erano insediate (Mazza, 2015). Si tratta di una condizione profondamente legata alla storia delle comunità, che, nonostante le continue pressioni esercitate sulle strutture insediative, può ancora essere evocata come possibile leva interpretativa dei rapporti tra spazio e società (Bianchetti, 2016). La città, inoltre, continua ad essere il risultato dell’azione collettiva di molteplici attori, portatori di specifici interessi, culture e immaginari (Secchi, 2000) collocabili in un universo di pura potenzialità, dove tutto è possibile (Ruggero, 2000). Al contempo le città sono altresì il contesto naturale in cui gli individui di ogni provenienza e classe sociale si mescolano tra loro giungendo, tra resistenze e conflitti, a “produrre una forma mutevole e contingente di vita in comune” (Harvey, 2015, p. 91). Il luogo in cui continua questa “vita in comune” continua a manifestarsi con maggiore evidenza è sicuramente lo spazio pubblico. Questa condizione vale, tuttavia, se considerata all’interno della prospettiva interpretativa ampia e generosa, indifferente alla sola situazione giuridica, proposta da Pier Luigi Crosta secondo il quale: “Uno spazio è pubblico non perché viene istituito come pubblico, né perché viene stabilmente utilizzato in comune. Quello pubblico, cioè, non è un carattere inerente allo spazio, ma un carattere che può essere conferito allo spazio dall’interazione sociale” (Crosta, 2000, p. 43)
86
EMANUELE GARDA
Entro queste prime considerazioni di ordine generale possono essere collocate le iniziative che, in ragione della presenza di particolari spazi sottoutilizzati, si sono manifestate nell’azione di depaving. Con tale locuzione sono identificate le esperienze promosse da gruppi di cittadini, con il sostegno di associazioni e istituzioni locali, che, attraverso la permeabilizzazione dei suoli urbani, hanno agito conferendo una nuova funzionalità ad alcuni spazi di interesse collettivo. Si tratta di concrete esperienze che si sono confrontate, talvolta inconsapevolmente, con la nozione di spazio pubblico, posizionandosi all’interno di un’ampia riflessione che ha indagato tale idea fin dal Novecento (Pasqui, 2018). Inoltre, accanto alla necessità di incrementare la dotazione di aree verdi, è emersa l’esigenza di adottare delle soluzioni per contrastare gli effetti negativi prodotti dai cambiamenti climatici, concentrandosi sulle aree dimenticate (Crupi, 2014) o su quelle destinate a rivestire un ruolo di secondo piano tra le pratiche urbane. Le operazioni di de-impermeabilizzazione descritte nel presente contributo – a livello internazionale riconosciute con i concetti di depaving o di desealing1 – si sono tradotte nella de-sigillatura dei suoli ottenuta attraverso la rimozione degli strati superficiali impermeabilizzati (asfalto o calcestruzzo), il dissodamento del terreno sottostante, l’asportazione del materiale estraneo (EU, 2012; Tobias et al., 2018) ed il ripristino degli strati superiori del terreno (topsoil). Il principale obiettivo di tali azioni, a fronte di numerosi benefici2, ha riguardato il recupero del sottosuolo attraverso il ripristino di quelle funzioni (agricole, ecologiche, idrauliche, etc.) che i processi di sigillatura avevano escluso o limitato. Da diversi anni le città si stanno impegnando ad incrementare le prestazioni ambientali e migliorare il comfort dei sistemi urbani, attraverso la riduzione delle superfici impermeabilizzate (Beatley, 2000). Questo è avvenuto a Berlino dove è stato istituito un programma di rimozione delle superfici pavimentate grazie alle indicazioni del Piano del paesaggio3. Anche la città di Saarbrücken ha adottato un Programma per promuovere la “sviluppo verde”, ponendo attenzione alla gestione delle acque piovane. 1
Qui il Programma ha previsto l’erogazione di piccoli finanziamenti per i cittadini e le imprese con il fine di migliorare la gestione delle risorse idriche e di ridurre il runoff delle acque piovane (incentivando i progetti di de-sigillatura e rinaturazione). Tra le numerose iniziative sostenute da New York per incrementare la dotazione di aree verdi e rafforzare la capacità di gestione delle acque piovane, rientra anche il Programma Greenstreets il quale è stato proposto per favorire la riconversione di aree vacanti e spazi impermeabilizzati (ad esempio spazi stradali o le isole spartitraffico). Questo specifico Programma è stato, inoltre, integrato con l’ampio NYC Green Infrastructure Plan: un complesso strumento lanciato dalle istituzioni locali per incrementare la resilienza degli spazi costruiti (Perini, Sabbion, 2017). Grazie a finanziamenti pubblici, il Piano ha puntato a creare o rafforzare le infrastrutture verdi, in ragione dell’incapacità operativa delle “infrastrutture grigie” esistenti. Il Programma Greenstreets ha trovato ampia applicazione anche in altre realtà urbane. A Philadelphia il Dipartimento per l’acqua ha promosso una simile iniziativa che, attraverso la realizzazione di circa 200 interventi, ha dotato gli spazi della mobilità di numerosi dispositivi tecnici, migliorando sia le prestazioni idrauliche delle infrastrutture fognarie, sia l’assetto fisico e paesaggistico. La versione proposta nella città di Vancouver ha, invece, aggiunto un altro elemento di riflessione. In questo caso, a partire da simili obiettivi (gestione dell’acqua, creazione di nuovi spazi verdi, rafforzamento della biodiversità, etc.), dopo una prima sperimentazione pilota, è stata sostenuta l’idea di coinvolgere attivamente i cittadini attraverso dei percorsi di giardinaggio volontario. La campagna 12,000 Rain Gardens in Puget Sound, sostenuta da Stewardship Partners, dalla Washington State University e da numerose associazioni locali, ha favorito l’installazione di rain garden all’interno dei giardini privati4, oppure entro alcuni spazi pubblici (parcheggi pubblici, isole spartitraffico, sedi stradali, etc.). Grazie gli incentivi previsti e al supporto di differenti soggetti, in pochi anni, si è arrivati all’attivazione di circa 6.200 progetti interessando un’area di circa 290.000 metri quadrati (280 milioni di litri annui).
Il termine depaving è stato utilizzato nelle esperienze nordamericane promosse da gruppi di cittadini. De-sealing (o soil recovery) è stato invece segnalato come misura compensativa dalle linee guida europee in materia di soil sealing (EU, 2012). 2 Questi benefici possono riguardare: il miglioramento delle prestazioni idrauliche dei suoli (Brears, 2018); il ripristino delle funzioni ecologiche (Rosenzweig, 2003; Francis, Lorimer, 2011); i benefici per gli abitanti grazie alla maggiore disponibilità di spazi verdi (Chiesura, 2004; Wolch et al., 2014; Kabish et al., 2015); il contrasto al fenomeno dell’isola di calore urbana (Urban Heat Island). 3 In dodici anni la città ha investito circa 30 milioni di marchi ripristinando la presenza di vegetazione su circa 1.400 aree (Beatley, 2000). 4 Il ruolo idraulico degli spazi privati permeabili è stato trattato, ad esempio da Kelly (2016).
UN NUOVO RUOLO PER GLI SPAZI URBANI SOTTOUTILIZZATI
Anche i programmi RiverSmart istituiti dal District Department of Energy and Environment (Washington D.C.) hanno avuto lo scopo di contrastare il deflusso delle acque piovane che minacciavano il locale distretto idrografico. In generale, questi programmi hanno agito tramite incentivi finanziari ai proprietari per supportare la realizzazione di infrastrutture verdi e opere per il drenaggio urbano. In particolare, il Programma RiverSmart Homes ha sostenuto i proprietari di abitazioni private per favorire la rimozione di superfici impermeabilizzate presenti sugli spazi pertinenziali delle loro proprietà. A partire dagli anni Novanta, nella città di Portland è stato avviato il Community Watershed Stewardship Program (CWSP) con l’obiettivo di sostenere, anche economicamente, i progetti di rinaturazione e gestione delle acque piovane promossi dalle comunità locali. Tra le differenti azioni sostenute da questa iniziativa, rientrano anche le operazioni di rimozione delle pavimentazioni impermeabili proposte nell’ambito di progetti sostenuti da comunità locali.
SPAZIO ALLA COMUNITÀ La maggiore consapevolezza dei problemi ambientali prodotti dalle attività umane (Perini, Sabbion, 2016) e il riconoscimento di un valore potenziale per alcuni spazi urbani, hanno esortato gruppi di cittadini, con il supporto di associazioni locali e istituzioni pubbliche, a promuovere il depaving. Tra i differenti argomenti considerati da queste iniziative, la gestione delle acque piovane, ha rappresentato un tema ricorrente, soprattutto per le realtà caratterizzate da un significativo grado di copertura dei suoli. In tali condizioni le acque piovane hanno maggiori difficoltà ad essere assorbite dal terreno (Perini, Sabbion, 2016) determinando differenti problematiche idrauliche (Gibelli et al., 2015)5. Lo sviluppo dell’urbanizzazione, pertanto, determina effetti negativi sull’idrologia locale poiché l’impermeabilizzazione incrementa il volume di scorrimento superficiale (Obropta at al., 2018), inducendo pressioni multiple sul ciclo idrologico (Shuster et al., 2005).
87
Molte delle esperienze di depaving si sono rapportate con le differenti criticità, soprattutto idrauliche, indotte dal soil sealing6, considerando la realizzazione di nature-based solutions7 come una possibile risposta per tali problematiche8. Negli ultimi anni, inoltre, il progressivo e misurato ritorno della “natura in città”, ha acquistato una crescente rilevanza nel dibattito scientifico (Di Pietro et al., 2018) e nelle iniziative promosse da importanti soggetti istituzionali o da associazioni locali. Rispetto ai casi ricordati nel paragrafo precedente, sorti in differenti contesti grazie all’azione diretta di istituzioni pubbliche, è interessante soffermarsi su alcune “pratiche urbane micro-spaziali” (Iveson, 2013) che da qualche anno stanno ridisegnando gli spazi urbani di molte città. Si tratta di “sperimentazioni” avviate negli Stati Uniti grazie all’impegno di numerosi cittadini-volontari, che hanno considerato il depaving come una grande opportunità per riscoprire i valori della comunità e, al tempo stesso, mutare il senso ed il ruolo delle aree sottoutilizzate. Una delle più rilevanti iniziative è stata quella avviata nel 2007 a Portland9 dall’Associazione Depave: un’importante rete di esperienze nata per promuovere gli interventi di de-impermeabilizzazione in territori caratterizzati dalla carenza di spazi verdi e, all’opposto, dall’eccessiva presenza di spazi collettivi impermeabili. Si tratta di un progetto sostenuto dalla consapevolezza per il valore della “terra reclamata” (Flores 2010) che ha cercato di ispirare le comunità affinché si ritrovasse una connessione tra paesaggi urbani e natura (Puerani et al., 2013). Nata come iniziativa spontanea, sorretta dal solo attivismo locale e da un’organizzazione noprofit, nel breve periodo Depave si è trasformata in un approccio sempre più ampio, sostenuto immediatamente dalla città di Portland e dall’Agenzia per la protezione dell’ambiente (EPA), attenuando la “radice tattica” che aveva caratterizzato la sua nascita. La traiettoria di sviluppo di questa iniziativa ha dimostrato che anche un’azione di piccola entità può trovare applicazione all’interno di un livello politico e territoriale più esteso (Puerani et al., 2013), trasformandosi in una pratica diffusa tra le differenti comunità (con la legittimazione delle istituzioni pubbliche).
5 Le principali problematiche idrauliche riguardano: la riduzione dei tempi di corrivazione, l’intensificazione dei fenomeni alluvionali, la diminuzione delle quantità d’acqua di infiltrazione a ricarica delle falde, l’aumento dello scorrimento superficiale (runoff), l’incremento dell’erosione del suolo e l’inquinamento delle acque 6 Con il concetto di soil sealing si intende la copertura permanente di una superficie attraverso la creazione di materiali artificiali impermeabili (EU, 2012). 7 Un’introduzione al tema si trova in EC (2015). 8 La rimozione di superfici pavimentate può consentire alle acque meteoriche di infiltrare nel suolo direttamente nel punto di caduta, anziché scorrere orizzontalmente veicolando sostanze inquinanti verso i corsi d’acqua (Brears, 2018). 9 Da decenni l’Oregon e Portland rappresentano contesti emblematici per la sperimentazione di politiche di sviluppo e contenimento urbano (Giovannoni, 2010).
88
EMANUELE GARDA
Figg. 1 e 2 Interventi di depaving presso la Lent School di Portland nel luglio 2017 (Fonte immagini: www.depave.org).
In più di un decennio Depave è riuscita a stimolare l’attivazione di circa settanta “progetti-eventi”, interessando le aree poste attorno ai luoghi rilevanti per la vita delle comunità. In particolare, sono state coinvolte le superfici pertinenziali di strutture scolastiche creando un nuovo “equipaggiamento” di spazi destinati a rivestire differenti funzioni (ecologiche, idrauliche, educative, etc.). In altri casi, il de-
paving è stato applicato ai parcheggi localizzati nelle immediate vicinanze a luoghi di culto oppure a centri per l’intrattenimento degli abitanti (sempre in un’ottica multifunzionale). L’intero processo di de-impermeabilizzazione e di diversificazione funzionale proposto dall’associazione Depave, grazie all’intensa esperienza prima sottolineata (cfr. Fig. 3 e Tab. 1), nel tempo è arrivato ad una
Fig. 3 Individuazione delle principali esperienze di depaving promosse a Portland dall’associazione Depave e da altre realtà locali (Fonte: elaborazione dell’autore).
89
UN NUOVO RUOLO PER GLI SPAZI URBANI SOTTOUTILIZZATI DENOMINAZIONE INIZIATIVA
ANNO
DIM. (MQ)
ELEMENTI RILEVANTI DI PROSSIMITÀ
FUNZIONI PRECEDENTI AL DEPAVING
FUNZIONI DOPO IL DEPAVING
Fargo Forest Garden
2008
279
HOUSING
PERTIN. E PARCHEGGIO
COLTIVAZIONE
Creative Science School Gardens
2009
111
SCUOLA
PERTINENZIALE
GIOCO
EDUCATIVA
-
Holy Redeemer Catholic Parish & School
2009
752
LUOGO DI CULTO/SCUOLA
PARCHEGGIO
IDRAULICA
EDUCATIVA
100
JOIN Homelessness Transition Center
2009
279
HOUSING
PERTIN. E PARCHEGGIO
DECORATIVA
COLTIVAZIONE
45
Kailash Ecovillage Community Garden
2009
397
HOUSING
PERTIN. E PARCHEGGIO
DECORATIVA
Vestal Elementary Community Garden
2009
1.394
LUOGO DI CULTO
PERTIN. E PARCHEGGIO
COLTIVAZIONE
GIOCO
100
Jason Lee Elementary Trees
2010
0
SCUOLA
PARCHEGGIO
DECORATIVA
EDUCATIVA
-
New Day School Community Garden
2010
827
SCUOLA
PERTINENZIALE
COLTIVAZIONE
EDUCATIVA
100
SE Uplift Rain Garden
2010
26
SERVIZIO COLLETTIVO
PARCHEGGIO
IDRAULICA
DECORATIVA
25
Vermont Hills Community Garden
2010
669
LUOGO DI CULTO
PERTINENZIALE
COLTIVAZIONE
40
Chief Joseph Elementary School
2011
130
SCUOLA
PERTINENZIALE
EDUCATIVA
40
Disjecta Art Center Plaza
2011
511
CENTRO ARTISTICO
AREA PARCHEGGIO
DECORATIVA
Escuela Viva Community School
2011
427
SCUOLA
PERTIN. E PARCHEGGIO
IDRAULICA
Frazer Park Community Garden
2011
929
VARI
PARCHEGGIO
COLTIVAZIONE
James John Elementary School Soccer Field
2011
348
SCUOLA
PERTINENZIALE
IDRAULICA
DECORATIVA
Lake Oswego United Church of Christ
2011
37
LUOGO DI CULTO
PARCHEGGIO
IDRAULICA
DECORATIVA
-
Our Happy Block Neighborhood Improvement
2011
418
LUOGO DI CULTO
PARCHEGGIO
IDRAULICA
DECORATIVA
45
Capitol Hill Elementary School
2011
520
SCUOLA
PERTINENZIALE
GIOCO
DECORATIVA
100
Hayhurst Elementary School
2012
98
SCUOLA
PERTINENZIALE
EDUCATIVA
James John Elementary School
2012
372
SCUOLA
PERTINENZIALE
IDRAULICA
DECORATIVA
Word and Spirit Church Rain Garden
2012
204
LUOGO DI CULTO
PARCHEGGIO
IDRAULICA
DECORATIVA
Baltimore Woods Oak Meadow
2012
752
AREA BOSCHIVA
PARCHEGGIO
AREA BOSCHIVA
Arleta School Playground Improvement
2013
186
SCUOLA
PERTINENZIALE
GIOCO
King School Naturescaping
2013
102
SCUOLA
PARCHEGGIO
IDRAULICA
Lewis Elementary School Rain Garden
2013
204
SCUOLA
PERTIN. E PARCHEGGIO
COLTIVAZIONE
Portland Community College – Sylvania Campus
2013
37
SCUOLA
PARCHEGGIO
IDRAULICA
DECORATIVA
-
Saint Mary Ethiopian Orthodox Church
2013
223
LUOGO DI CULTO
PARCHEGGIO
IDRAULICA
DECORATIVA
50
Portland Mercado Green Plaza
2014
372
SPAZI COMMERCIALI
PARCHEGGIO
IDRAULICA
DECORATIVA
150
Pilgrim Lutheran Church Rain Garden
2014
167
LUOGO DI CULTO
PERTIN. E PARCHEGGIO
IDRAULICA
DECORATIVA
-
Wild Lilac Community Garden
2014
334
SCUOLA
PERTINENZIALE
DECORATIVA
GIOCO
70
Opal School Nature Playground
2014
111
SCUOLA
PERTINENZIALE
GIOCO
DECORATIVA
-
Faith Community Church Rain Garden
2014
102
LUOGO DI CULTO
PARCHEGGIO
IDRAULICA
King School Rain Garden
2014
111
SCUOLA
PERTINENZIALE
DECORATIVA
-
Creston School Reading Garden
2014
158
SCUOLA
PERTINENZIALE
GIOCO
50
Oliver P Lent Amphitheatre
2015
251
SCUOLA
PERTINENZIALE
DECORATIVA
-
Beyer Court Apartments Rain Garden
2015
74
HOUSING
PARCHEGGIO
IDRAULICA
-
Muslim Community Center Stormwater Courtyard
2015
465
CENTRO RELIGIOSO
PERTINENZIALE
IDRAULICA
70
Golden Harvesters Food Bank Regreening
2015
28
SERVIZIO COLLETTIVO
PERTIN. E PARCHEGGIO
IDRAULICA
-
Metropolitan Learning Center Regreening
2015
74
SERVIZIO COLLETTIVO
PERTINENZIALE
DECORATIVA
-
Atkinson Elementary Nature Playground
2015
186
SCUOLA
PERTINENZIALE
GIOCO
Peninsula School Treescape
2015
130
SCUOLA
PERTIN. E PARCHEGGIO
GIOCO
Saints Peter & Paul Episcopal Parking Lot
2015
74
LUOGO DI CULTO
PARCHEGGIO
IDRAULICA
Eastham Community Center Learning Garden
2015
65
SERVIZIO COLLETTIVO
PERTINENZIALE
GIOCO
EDUCATIVA
-
Sabin Elementary Natureplay
2015
139
SCUOLA
PERTINENZIALE
IDRAULICA
GIOCO
-
Clackamas Academy of Industrial Sciences
2016
28
SCUOLA
PERTINENZIALE
IDRAULICA
-
Vernon School
2016
93
SCUOLA
PERTINENZIALE
DECORATIVA
75
Bridgeport Church
2016
70
LUOGO DI CULTO
PERTIN. E PARCHEGGIO
IDRAULICA
Human Solutions Family Center
2016
372
SERVIZIO COLLETTIVO
PERTIN. E PARCHEGGIO
DECORATIVA
Rose’s Ice Cream
2016
19
SPAZI COMMERCIALI
PERTINENZIALE
DECORATIVA
Astor School
2016
465
SCUOLA
STRADA/PARCHEGGIO
Childswork Learning Center
2016
353
SCUOLA
Hillsboro Multicultural Marketplace
2017
929
SPAZI COMMERCIALI
Ascension Catholic Church
2017
297
Lent Elementary School
2017
209
Woodmere Elementary School
2017
Faithful Savior Lutheran Church Russellville Grange Hall
VOLONTARI 147
-
GIOCO
75 -
20 150 90 DECORATIVA
85
-
IDRAULICA
-
65 GIOCO
125
GIOCO
DECORATIVA
100
PERTINENZIALE
GIOCO
DECORATIVA
-
PERTIN. E PARCHEGGIO
IDRAULICA
GIOCO
150
LUOGO DI CULTO
PARCHEGGIO
IDRAULICA
SCUOLA
PERTINENZIALE
GIOCO
-
102
SCUOLA
PERTINENZIALE
GIOCO
60
2017
242
LUOGO DI CULTO
PERTINENZIALE
IDRAULICA
60
2017
93
SERVIZIO COLLETTIVO
PERTINENZIALE
IDRAULICA
D.C. Latourette Tennis Courts
2018
372
PARCO
PERTINENZIALE
DECORATIVA
Mt Hood Community College
2018
0
SCUOLA
PARCHEGGIO
IDRAULICA
Boise-Eliot/Humboldt School
2018
372
SCUOLA
PERTINENZIALE
GIOCO
IDRAULICA
100
Inukai Family Boys & Girls Club
2018
418
SCUOLA
PARCHEGGIO
IDRAULICA
GIOCO
-
Kelly Elementary School
2019
223
SCUOLA
PERTINENZIALE
GIOCO
Plaza 122
2019
149
SPAZI COMMERCIALI
PARCHEGGIO
IDRAULICA
-
-
GIOCO
130
-
Tab. 1 La tabella riporta i principali risultati di un’analisi compiuta su un campione di 62 esperienze promosse da Depave nella città di Portland (Fonte: elaborazione dell’autore).
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sua codificazione, con un protocollo operativo che oggi ricomprende: le prime analisi compiute sull’area e la valutazione delle sue caratteristiche; la formulazione di un progetto post-depave e la definizione di un team per la sua realizzazione; la ricerca di finanziatori e sostenitori; l’ottenimento di tutte le autorizzazioni necessarie per la realizzazione degli interventi; la promozione del progetto presso la comunità con l’obiettivo di costruire un esteso interesse e radunare potenziali volontari; la preparazione dell’area in previsione della giornata-evento con il taglio preventivo delle superfici impermeabili; la “giornataevento” durante la quale il team di progetto, assieme ai volontari, compiono le operazioni di de-sigillatura; la rimozione delle macerie, il trasporto e deposito di nuovo terreno vegetale (attività svolte da soggetti tecnici); l’arredo degli spazi verdi (attività a cura del team di progetto); la gestione ordinaria delle nuove superfici attrezzate. Queste differenti fasi, oltre a rivelare la varietà dei possibili attori intercettati (team di progetto, volontari, imprese preposte ad alcune attività tecniche, finanziatori delle iniziative, etc.) in un processo di trasformazione solo apparentemente elementare, mostra per gli abitanti-volontari un coinvolgimento parziale che si limita alla realizzazione di attività circoscritte, direttamente o indirettamente assistite da altre figure portatrici di uno specifico sapere tecnico. L’attività di sostegno ai singoli gruppi di cittadini si è attuata attraverso l’attività di formazione e, indirettamente, con la pubblicazione di manuali tecnico-operativi. In tali strumenti, che si configurano come integrazione alle linee guida o ai manuali già
Fig. 4 Copertina delle linee guida realizzate e proposte da Depave (Fonte: www.depave.org).
disponibili nei contesti di sperimentazione, si affrontano i principali temi necessari per l’attivazione e realizzazione di un intervento di depaving. Nella guida proposta da Depave (Fig. 4), ad esempio, sono affrontate: le condizioni da rispettare nella scelta delle aree più adatte per la promozione degli interventi di de-impermeabilizzazione (dimensioni minime e massime, localizzazioni ottimali, valutazioni idrauliche, etc.); le analisi preliminari e storiche da sostenere per la valutazione del sito (ad esempio per verificare l’eventuale presenza di contaminazioni); i dispositivi da considerare per la gestione dell’acqua (bioswales, rain gardens, etc.), oppure i principi necessari per la definizione del progetto. In altre grandi città sono state sperimentate simili azioni. A Cleveland l’iniziativa DepaveNEO10 si è interessata alla de-sigillatura di aree a parcheggio, mentre a Nashville è stata realizzata un’iniziativa che ha ottenuto il supporto dell’associazione noprofit Cumberland River Compact da anni impegnata nell’attivazione di progetti sul tema acqua. Nel territorio canadese la Green Communities Canada ha avviato nel 2012 l’iniziativa Depave Paradise ispirandosi esplicitamente all’esperienza di Portland. I promotori di Depave Paradise hanno riconosciuto nella loro azione la possibilità di: ripristinare il ciclo naturale dell’acqua (anche su piccole aree), assorbire parte delle precipitazioni riducendo il runoff, restituire spazi a flora e fauna locale, infine, rafforzare la consapevolezza negli abitanti rispetto ai temi della resilienza urbana. Attraverso il sostegno a volontari e associazioni locali questo programma si è ampiamente diffuso11 interessando differenti spazi residuali sottoutilizzati (parcheggi, superfici pertinenziali, aree pedonali, etc.). Il primo intervento ha interessato una piccola area a parcheggio nella città di Kingston, presso la Mulberry Waldorf School, dove 68 volontari hanno riconvertito in giardini e aree verdi un’area di 350 metri quadrati. Nel 2015, a Calgary, con il coinvolgimento di 170 volontari, è stato realizzato un giardino condiviso de-sigillando tre campi da tennis inutilizzati (170 mq). Sempre nello stesso anno a Ruelle du Trotteur, per contenere i frequenti problemi di allagamento del loro quartiere, 62 volontari sono intervenuti riconvertendo parzialmente una strada di vicinato e creando 138 metri quadrati di aree permeabili. Infine, nel 2017, il cortile di una scuola elementare ad Aurora è stato rinaturalizzato riportando cespugli e alberi su una superficie di 450 metri quadrati.
10 DepaveNEO è un programma di Cuyahoga River Restoration, un’organizzazione no profit nel nord-est dell’Ohio che opera per ripristinare, rivitalizzare e proteggere il territorio interessato dal fiume Cuyahoga e dal lago Erie. 11 Si tratta di 43 eventi promossi in 19 città
UN NUOVO RUOLO PER GLI SPAZI URBANI SOTTOUTILIZZATI
Le esperienze di de-impermeabilizzazione descritte in questo paragrafo, oltre ad esibire una possibile traduzione operativa del concetto di depaving, si aprono ad un’osservazione multitematica. In loro è innanzitutto possibile riconoscere una spiccata attitudine a sostenere la ritematizzazione e rifunzionalizzazione di alcuni spazi collettivi sottoutilizzati, soprattutto in quelli caratterizzati da un rapporto di prossimità con cittadini interessati alle pratiche di cittadinanza attiva (Paba, Perrone, 2002) e con taluni “luoghi rilevanti” per la vita delle comunità. Queste iniziative, maturate in una fase di entropia della sfera pubblica (Donolo, 2005), crisi del welfare state (Pasqui 2017) e austerity urbanism (Peck, 2012), rimandano al concetto di do-it-yourself (DIY)12, poiché orientate verso un urbanesimo più dinamico, flessibile e adattativo (Bishop, Williams, 2012), avvicinando le trasformazioni degli spazi urbani ai nuovi bisogni degli abitanti. Questo è importante perché, come Baiocco e Savoldi (2016) hanno sottolineato, in condizioni di contrazione delle politiche di welfare e di investimento per le dotazioni collettive, le forme di autorganizzazione tendono spesso a mobilitare progetti innovativi in forma rimediale, intessendo reti e consolidando i sistemi di produzione dal basso. Molte delle forme di depaving riconosciute nel contesto nordamericano si confrontano con l’urban gardening13: un complesso approccio al riutilizzo delle aree urbane14 che fin dal Novecento ha mostrato una forte propensione a presentarsi come tattica di recupero delle aree vacanti15 e di alcune forme di abbandono (Kurtz, 2001). Tuttavia, nei casi presentati si è aggiunto un nuovo valore all’urban gardening attraverso una nuova ricerca progettuale condizionata dai temi dei cambiamenti climatici e, soprattutto, dalla necessità di riconciliare le aree urbane (e le comunità) con il ciclo idrologico. Assieme al sostegno della comunità, come soggetto attuatore e gestore (connotato tipico delle esperienze di urban gardening), l’interesse per la multifunzionalità ha comportato la creazione di nuovi “dispositivi spaziali” che hanno sostenuto la condivisione, ad esempio, tra funzioni di intrattenimento (nella forma del 12
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parco attrezzato), oppure ecologiche (ripristino delle strutture vegetali) e idrauliche (riattivazione infiltrazione nei suoli). Poiché finalizzato al rafforzamento della dimensione collettiva, il depaving si è, infine, dimostrato adatto a garantire il raggiungimento di due importanti risultati: sostenere la formazione di nuovi legami tra individuo e spazio collettivo e al tempo stesso rafforzare le relazioni tra i differenti soggetti coinvolti nelle fasi di ricolonizzazione delle aree.
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EMANUELE GARDA
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L’ARCHIVIO DI ICONEMI
2010 Alla scoperta dei paesaggi contemporanei Quaderno 19, Bergamo University Press – Sestante ed. 2011 Città – Campagna. Incontro o scontro? Quaderno 22, Bergamo University Press – Sestante ed. 2012 Paesaggi della sostenibilità. Come i nuovi bisogni e le nuove tecnologie trasformano i luoghi e il nostro modo di viverci e di concepirli Quaderno 23, Bergamo University Press – Sestante ed. 2013 Nuovi paesaggi verso smart City. La città partecipativa ed ecologica Quaderno 24, Bergamo University Press – Sestante ed. 2014 Alimentare i paesaggi / I paesaggi dell’alimentazione. Nuovi sguardi verso Expo 2015 Quaderno 26, Bergamo University Press – Sestante ed. 2015 Paesaggi abitati. Prove di città e di cittadinanza. Agricoltura per la rigenerazione sociale e territoriale Quaderno 28, Bergamo University Press – Sestante ed. 2016 Paesaggi della creatività. L’arte pubblica per la rigenerazione sociale e territoriale Quaderno 29, Bergamo University Press – Sestante ed. 2017 Eventi: la città nella dimensione del transitorio. Effimero e permanenze nei paesaggi contemporanei Quaderno 30, Bergamo University Press – Sestante ed. 2019 2019 CIAM: Comunità, Impegno, Ambiente, Mondo. Idee di territorio 70 anni dopo Quaderno 31, Bergamo University Press – Sestante ed.
Tutte le pubblicazioni sono liberamente consultabili nel sito www.iconemi.it
Finito di stampare nel mese di settembre 2020