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International Communication Summit ICS è un laboratorio internazionale di approfondimento specialistico, uno spazio di discussione per comunicatori e tra comunicatori, per seguire le innovazioni e le tendenze del settore attraverso il pensiero dei suoi più acuti interpreti
Cultural storytelling #1-2/2015
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La nostra storia migliore
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Michael Dobbs 13
André Singer
Il paradosso della fiducia
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Oscar Blumm 15
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Se la parola non basta
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La giusta forma
Una magia chiamata storia
Brand Stories
Come un nastro di Moebius Frank Rose
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Sahar Delijani 33
Storie di innovazione Gianfranco De Gregorio
Steve Duenes 26
Ritorno alle origini Jimmy Nelson
John Grimwade 20
Perché non scenda la notte
Il Re è nudo Christian Salmon
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Realtà aumentata e digital storytelling
Vincenzo Boccia
Marco Sbardella
iniziativa promossa da powered by
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Editoriale Lo sguardo dell’antropologo di Franco Pomilio
Storytelling: mito del presente o vera rivoluzione? L’enfasi che oggi viene posta nei settori più disparati sul concetto di narrazione, come se l’arte di narrare fosse una dirompente novità invece che un’antica facoltà umana, induce al comunicatore accorto qualche domanda. Come di fronte a ogni moda, però, il punto non è tanto misurare l’innovatività della forma, in un gioco di palingenesi che lascia il tempo che trova, quanto quella dell’uso a cui la forma è piegata dal corpo vivo della comunità dei suoi utenti. E quello, certo, è indubitabilmente cambiato. Storie collettive sono sempre esistite, ma storie di costruzione collettiva e generazione diffusa sono, queste sì, una vera novità. È questo uso a generare trasformazione: formule rodate di racconto si rinnovano, ispirando nuovi strumenti per decodificare il presente. Come la netnografia, che trasfonde la capacità interpretativa dell’antropologia nell’ambiente incorporeo del web. O il digital storytelling, che non si limita più a giustapporre i linguaggi in un mix più o meno bilanciato, ma li fonde in un amalgama di nuova natura.
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Diceva Cifford Geertz, uno dei più grandi etnografi del secolo passato, che l’antropologia è “un’interpretazione di interpretazioni”. Perché ogni cultura, sosteneva, è già di per sé portatrice di una specifica visione della realtà, di una propria weltanshauung fatta di linguaggi, usanze, ma soprattutto valori: quella che appunto, oggi, molti chiamano “narrazione”. Non basta osservare, quindi; occorre capire, mettersi in gioco in prima linea, consapevoli che il proprio sguardo non è neutrale e che quella sociale, soprattutto, è una narrazione che si scrive insieme. Così, se fare comunicazione oggi significa muoversi all’incrocio tra racconti estremamente diversi, ricordarsi quanto è difficile comprendere “l’altro” – anche quando l’altro è, semplicemente, il proprio passato – può essere estremamente utile. Utile, come diceva Juri Lotman, altro grande pensatore del Novecento, a trovare la “lingua creola” tra comunità mai “così lontane, così vicine”, che nel raccontarsi accorciano le distanze e rivoluzionano codici, fino a trovare inedite forme di incontro.
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La nostra storia migliore di Michael Dobbs*
Tutto cominciò con una bottiglia di vino, due iniziali e un impeto di rivalsa sugli “occhi di Caligola” di Margaret Thatcher. Michael Dobbs, ideatore di House of Cards, tra humor e saggezza politica, ricorda perché dobbiamo imparare di nuovo a “raccontare l’Europa”. Senza perderci in quisquilie, e in questioni di punteggiatura
*Trascrizione dell’intervento tenuto dall’autore durante l’edizione 2014 dell'International Communication Summit a Bruxelles
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Negli ultimi tempi, da quando il successo di House of Cards è diventato globale, mi capita sempre più spesso di partecipare a dibattiti su temi politici, durante i quali, nonostante io stesso sia da anni membro della House of Lords, mi viene chiesto di intervenire principalmente nella mia seconda veste, quella di scrittore. Mi viene chiesto, in altri termini, di provare a spiegare attraverso la mia esperienza quale sia il segreto dello storytelling, e dunque di fatto in che modo un atto apparentemente semplice e innocuo come raccontare storie può effettivamente cambiare il mondo. In tutta onestà, non saprei dire con certezza come e perché una storia possa cambiare il mondo. Posso affermare, però, senza dubbio che ha cambiato il mio. LO SGUARDO DI CALIGOLA Ventisette anni fa mi trovavo in vacanza con quella che allora era ancora mia moglie, dopo essere sopravvissuto al periodo professionalmente più complesso della mia vita. Ero capo dello staff nel Governo Thatcher e avevo appena avuto con lei un litigio furibondo. Un’esperienza che non auguro a nessuno. François Mitterrand disse una volta: Margaret Thatcher ha le labbra di Marilyn e lo sguardo di Caligola. Ecco, a me toccò lo sguardo...
La cultura lega e definisce molto più a fondo delle Istituzioni politiche. Chi ricorda quali Istituzioni esistessero al tempo di Omero? E soprattutto, a chi importa?
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Signore e signori, l’Europa è la più grande storia mai raccontata. Perciò continuiamo a raccontarla e smettiamo di preoccuparci della punteggiatura
Ad ogni modo, in quel momento tutto questo era lontano: mi riposavo per la prima volta dopo due anni e mezzo e un pomeriggio stavo leggendo un libro che trovavo veramente orribile, prendendomela in modo piuttosto sgarbato col povero autore, quando mia moglie – cito testualmente – mi disse: “Smettila di essere così maledettamente borioso! Se pensi di essere più bravo, dimostralo.” Detto fatto. Me ne andai in piscina armato di taccuino, penna e una bottiglia di vino. Quando la bottiglia fu vuota, mi resi conto di avere scritto solo due lettere “F” e “U”... Era chiaro che affrontavo una sorta di terapia, ma quelle lettere sarebbero diventate le iniziali di Francis Urquhart e da lì sarebbe nata la trilogia di House of Cards, che davvero nel corso dei successivi ventisette anni mi ha cambiato la mia vita, in tutti i sensi e per il meglio. E devo tutto alla mia ex moglie!
STORIE EUROPEE In apertura, sostenitori del fronte “Sì” al referendum sull'indipendenza della Scozia nel 2014. In alto, il Presidente del Consiglio italiano Matteo Renzi, dichiarato ammiratore della serie House of Cards
UNA STORIA GRANDIOSA Questa è la mia storia, ma è chiaro che House of Cards è anche il prodotto di un altro tipo di storia, quella collettiva dell’Europa. E l’Europa è la storia più meravigliosa che ci sia. Una storia che supera per intensità, ricchezza, drammaticità qualsiasi altra.
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Qualche tempo fa, Renzi è stato fotografato mentre comprava una copia del mio libro. Ho ritenuto di inviargli due righe per ricordargli che è un’opera di intrattenimento, e non un manuale d’istruzioni
Abbiamo dominato il mondo per più di due millenni, anzi, sarebbe più giusto dire che eravamo il mondo. Tuttavia, come sappiamo, le cose sono cambiate: l’Europa sta attraversando una crisi d’identità, sta perdendo la fiducia in se stessa: è un progetto in declino, in innegabile difficoltà. E non basteranno certo le mie brevi riflessioni per trovare una soluzione. Ma torniamo per un attimo indietro, più o meno alla metà del secolo scorso. Ai tempi della Guerra Fredda era chiaro ciò che l’Europa, o meglio l’Europa occidentale, rappresentava. Avevamo un obiettivo e avevamo la pazienza necessaria per perseguirlo. Decenni di pazienza. E se alla fine l’impero sovietico è crollato, non è stato per azioni militari, ma perché la nostra storia e i nostri valori sono stati abbracciati da milioni di persone nell’Europa orientale, trovando così la forza di abbattere con le proprie mani i muri che ci dividevano. Non si trattava solo di condividere il nostro benessere, ma la nostra identità. Non erano i nostri politici che questi popoli avevano come riferimento, quanto i nostri artisti, i nostri scrittori, in nostri cantanti o sportivi o attori; persino i nostri chef. In breve, l’Europa occidentale aveva una storia grandiosa da raccontare e la gente
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dell’Est desiderava esserne parte. Ora, paradossalmente, molte regioni d’Europa stanno cercando di ricostruire quei muri: in Scozia, ad esempio, se potessero alcuni ricostruirebbero il Vallo di Adriano... Ma che cosa è cambiato nel corso di quest’ultima generazione? Non i nostri valori, non la nostra identità, non la nostra vivacità culturale: tutto questo c’è ancora. La nostra influenza in questo senso è ancora enorme. Quel filo che ci unisce a uomini del calibro di Omero, Shakespeare, Mozart e migliaia d’altri è ancora forte. C’ERANO UN INGLESE, UN ITALIANO E UN FRANCESE… Il vero problema, allora, è proprio il contrasto e a volte il conflitto tra l’Europa istituzionale e quella della cultura. Prendiamo l'esempio della Scozia. Recentemente ha avuto luogo quell'incredibile referendum (la consultazione, che aveva come oggetto l'ipotesi di indipendenza dal Regno Unito, si è svolta nel settembre 2014; ha vinto il "no" con il 55,3% dei voi, ndr), al quale ha partecipato ben l’85% degli scozzesi. Una percentuale straordinaria, sconvolgente. Ci vorrà parecchio tempo prima che qualcuno di noi riesca a capire non cosa è successo, ma perché è successo. Ma
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ciò che è emerso da entrambe le parti coinvolte nell’acceso dibattito è che, in un modo o nell’altro, gli scozzesi volevano avvicinare a casa il loro governo e i loro valori. Ad ogni modo, il governo di Westminster si è preso un bello spavento e ha promesso un significativo cambiamento costituzionale, verso un sistema meno centralizzato e più federale. Ma quel sentimento di lontananza, quella sensazione che il governo sia troppo distante, quell’orgoglio e quella voglia di diversità sono presenti praticamente ovunque in Europa. Forse sarà più semplice spiegare il concetto attraverso una storiella, sperando di non essere troppo inopportuno. Immaginate di trovarvi nel vagone di un treno e seduta di fronte a voi c’è una giovane coppia, che comincia a scambiarsi effusioni piuttosto spinte. Ora, se voi foste francesi, ve ne stareste seduti ad applaudire. Se foste tedeschi, osservereste i dettagli per poi stilare analisi statistiche. Se foste italiani, probabilmente vi unireste ai due. Se foste greci, vendereste biglietti per lo spettacolo, e se veniste da Bruxelles, consultereste un manuale per controllare che i due procedano nel modo corretto. Ma se voi foste inglesi, ve ne stareste seduti a guardare fuori dal finestrino come se non stesse accadendo assolutamente nulla. Salvo ovviamene dare in escandescenze se per caso, una volta terminato, i due amanti si accendessero una sigaretta. Ecco: questa boutade non ha senso se non si è in grado di apprezzare le differenze culturali. Differenze che non arricchiscono solo la nostra storiella, ma tutto il nostro continente. E quindi, come possiamo avvicinare la gente alle Istituzioni? Domanda molto interessante, ma forse sbagliata. Forse dovremmo provare a fare il contrario e avvicinare le Istituzioni alla gente. LE LINEE GUIDA DE GAULLE Lo sappiamo: cultura significa identità. E viceversa. Probabilmente è questo che
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passava per la mente e il cuore del presidente francese Charles De Gaulle quando, ormai tanti anni fa, sui gradini del palazzo dell’Eliseo lanciò il suo veto all’entrata della Gran Bretagna in quella che allora era la Comunità Europea. Sosteneva che noi inglesi non eravamo “abbastanza europei”, che non avessimo ancora sviluppato i giusti valori. E mi spiace dirlo, ma forse aveva ragione. Quei valori erano, e sono, estremamente importanti. Sono i mattoni di ciò che significa essere europei. Sono l’identità dell’Europa. I valori. Oggi sembriamo essere indifferenti ai valori. In compenso, sembriamo ansiosi di estendere a qualunque costo i confini della nuova Europa, aumentando in modo indefinito gli Stati membri. Ma anche in questo campo occorre usare cautela, quantomeno farlo con la consapevolezza che l’allargamento non è una faccenda automatica. So che le mie parole alle orecchie di alcuni suoneranno come un’eresia, ma credo che prima di ammettere un nuovo Paese in Europa dovremmo chiederci: è in grado questo Paese di rispettare quelle che potremmo definire le “linee guida De Gaulle”? Possiede i valori giusti? Rafforzerà l’Europa o si limiterà a “forzarla”, a stiracchiarne i confini? Dopotutto, quando le culture si scontrano nascono i Mozart, quando lo fanno le Istituzioni scoppiano le guerre.
IL VOLTO DELLA POLITICA Margaret Thatcher, Primo Ministro del Regno Unito dal 1979 al 1990. Nella pagina seguente, Kevin Spacey nei panni di Frank Underwood, protagonista della serie di Netflix tratta dai libri di Dobbs
ARMATE DI MUSICA E PAROLE In Europa abbiamo una storia unica da raccontare; meravigliose correnti di pensiero che abbondano di personaggi. A volte, però, invece di raccontare questa storia meravigliosa perdiamo tempo su questioni di punteggiatura. La cultura lega e definisce molto più a fondo delle Istituzioni politiche. Chi ricorda quali Istituzioni esistessero al tempo di Omero? E soprattutto, a chi importa? Praticamente tutti i paesi europei hanno avuto un impero che è fiorito, si è indebolito e poi è
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Francois Mitterrand disse una volta: Margaret Thatcher ha le labbra di Marilyn e lo sguardo di Caligola. Ecco, a me toccò lo sguardo
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Ammettiamolo: l’unico modo che abbiamo per conquistare la Cina è attraverso eserciti in marcia di Christian Dior, Robbie Williams, Dino Ferrari, Johnnie Walker
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scomparso, ma la cultura ha continuato il suo cammino. E la cultura ci dà potere, ci mostra la strada da seguire. Oggi, i rapporti con la Russia a livello istituzionale non sono un gran che, eppure i russi continuano a comprare i nostri marchi, i nostri edifici, le nostre squadre di calcio. E ammettiamolo: l’unico modo che abbiamo per conquistare la Cina è attraverso eserciti in marcia di Christian Dior, Robbie Williams, Dino Ferrari, Johnnie Walker. E, chi lo sa, magari anche di produzioni come House of Cards. In effetti lo show in Cina ha un enorme successo. Ma non solo: il presidente Obama ne parla su Twitter, e anche David Cameron e George Osborne lo adorano. E qualche tempo fa, anche il primo ministro Renzi è stato fotografato mentre entrava in una libreria a Roma per comprare una copia del libro. A quel punto, lo confesso, ho ritenuto prudente inviargli due righe per ricordargli che è un’opera di intrattenimento, e non un manuale d’istruzioni...
UNITI NELLE DIFFERENZE Il punto è che lo storytelling – quel genere di storytelling, che grazie alle nuove tecnologie ci consente di raccontare in modi prima impensabili – riesce a superare i confini territoriali. Qualcosa che politici e Istituzioni semplicemente non sanno fare. Quanto a capacità di raggiungere le persone, la cultura ha potenzialità che le Istituzioni non possono neanche lontanamente immaginare. Ecco, se la mia piccola storia personale può insegnare qualcosa, è proprio questo: la grande capacità che solo la cultura possiede di raggiungere e unire le persone. Ho scritto House of Cards ormai tanti anni fa e tutto ha avuto inizio da un semplice battibecco con mia moglie, a cui è seguita un’idea, che poi è diventata un romanzo e in seguito una serie televisiva trasmessa su decine di canali, fino a dare il via a una sorta di rivoluzione dell’intrattenimento che sta conquistando tutto il mondo. Per me era inimmaginabile, ma è così che funziona la cultura.
POLITICS IS SO OVERRATED La politica, si sa, è da sempre materia letteraria pregiatissima. Anzi è già letteratura in partenza: nasce così, naturaliter, senza neppure bisogno che qualcuno si sforzi di romanzarla. Diceva Juri Lotman che l’arte è quel procedimento che prende il caos e ne fa struttura. Se è così, la politica è, a suo modo, una forma d’arte assai raffinata. Capace di rendere sistematica, regolata, in certi casi addirittura sensata l’innata entropia dei rapporti di potere. In fondo è questo che rende lo storytelling una risorsa preziosa e sfruttatissima per il politico medio. Oggi chiunque abbia un ruolo istituzionale e governativo sembra avere grandi storie da raccontare, o almeno fare finta di averle. Salvo dimenticarsi che raccontare storie non è così facile, ed è anzi pericolosamente vicino, almeno nella percezione diffidente del senso comune, alla pratica oggi così diffusa del “raccontarsela”. Il racconto, al contrario, è merce che scotta e bisogna saperla maneggiare. Non a caso lo stesso Dobbs durante l’ICS summit di Bruxelles ha sarcasticamente raccomandato a Matteo Renzi di non prendere il suo libro House of Cards come un manuale di istruzioni. Aggiungendo poi, più di recente, che la politica reale richiede mano ferma e scarponi chiodati. Come dire: va bene alleggerire il carico del potere con l’arte del racconto, se questo serve a scardinare certi significati profondi, ma non dimentichiamoci di che materia è fatta, davvero, la politica, che rimane un affare duro e spiacevole, a cui, in ultima analisi, bisogna solo sperare di saper sopravvivere. E dove il valore massimo, se davvero si vuole far bene, è guadagnarsi il rispetto dei cittadini, a costo di essere odiati. Perché l’amore invece – sacro graal del politico 2.0, tutto selfie e narcisismo da camera – “is so overrated”. Direbbe Frank. D. P.
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God save the British humour
Guida – dice – una “purple Panda”. Perché nel traffico grigiofumo di Londra ama “poter uscire dalla House of Lords e individuarla in un lampo tra le file di berline tutte identiche, nere e blu”. E lo ripete divertito, sottolineando la casuale allitterazione, resa più gustosa dall’accento “very british”. Ma l’aneddoto non è una semplice trivialità. Michael Dobbs, il creatore di House of Cards, è un furbo, sveglissimo, gioviale lord inglese: a lungo braccio destro di Margaret Thatcher e ai vertici del Partito Conservatore, alla fine degli anni ‘80, insoddisfatto da letture troppo banali, si scola una bottiglia di vino e scrive il primo capitolo della saga di Frank Underwood, che diventerà la serie cult di Netflix prodotta da David Fincher e interpretata da uno spietato Kevin Spacey. Buone maniere e buona cultura, mixate a uno sferzante sense of humour, lo hanno reso un personaggio capace di muoversi con la stessa disinvoltura nell’ambiente serioso della politica inglese come nel panorama iper-pop della TV americana, dove la serie ha conquistato persino il presidente Obama, nonostante rappresenti la politica del Campidoglio senza risparmiare nefandezze e immoralità. Ammettiamolo: di politici letterati, ormai, ce ne sono pochi, anche se Dobbs, più che un letterato è un narratore puro, uno storyteller di razza. Uno che ha capito benissimo che, a onta dei proclami postmoderni, siamo ancora in un’epoca affamata di narrazioni. Magari non “grandi narrazioni”, quanto piuttosto piccole storie, intime e minimali, capaci però di schiudere a un senso collettivo. E persino aprire le porte della Casa Bianca. Daniela Panosetti
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