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. Mariano Corso Le persone al centro della trasformazione digitale delle imprese . Ian Williamson Talent management e leadership nell’era della disruption . Polimi: le applicazioni Blockchain cambiano la logistica . Precision Marketing per il Retail 4.0 . Storie di innovazione digitale: Auchan, Barilla, Costa Crociere, Eltek, Gruppo SEA, Kasanova, Technogym
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30-31 Ottobre 2018
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EDITORIALE
Il sogno hi-tech dell’auto senza pilota è un incubo per le case automobilistiche
di
UMBERTO BERTELÈ PRESIDENTE DIGITAL360
@umbertobertele
Non so se il sogno della self-driving car farà la stessa fine di quello, accarezzato a lungo ma tramontato 30 anni fa, di produrre energia a costo minimo con la cosiddetta “fusione fredda”. Oppure se esso si avvererà, superando ostacoli che non sono solo tecnologici, con un impatto profondo sulla nostra mobilità, sulla logistica e sullo sviluppo di una molteplicità di servizi innovativi. Quello che mi sembra certo è che il sogno è vissuto come un incubo dalle grandi case automobilistiche, che - timorose di perdere la loro storica leadership di filiera (e larga parte della loro profittabilità) a vantaggio delle imprese tech se non disporranno di sistemi di self-driving competitivi – sono comunque costrette, in assenza di certezze sul futuro, a investire ora notevoli risorse in attività lontane dalle loro classiche competenze. E lo sono nello stesso momento in cui - la crescita della sensibilità ambientale le obbliga a investire nelle auto elettriche; - le potenzialità sintetizzabili con il termine “Industria 4.0” le costringono, per non lasciare spazi ai competitori, a ripensare i loro sistemi produttivo-logistici; - la domanda è in evoluzione, perché le nuove generazioni sembrano meno interessate al possesso dell’auto e più inclini alla condivisione, meno sensibili al “ruggito” del motore e più alla qualità della connessione in rete. Come stanno rispondendo le grandi case automobilistiche? Come le imprese del ride hailing quali Uber, le più immediate beneficiarie del self-driving per la possibilità di dirottare i loro clienti verso flotte di auto senza guidatore (robo-taxi)? E come le imprese tech, a partire da Waymo, la “costola” di Google che ha accumulato la maggiore esperienza in assoluto in termini di km percorsi? Le strade possibili, per le imprese automobilistiche e di ride hailing, sono sostanzialmente tre: - far nascere nuclei di R&D al loro interno, “importando” risorse umane con competenze digitali adeguate (i pionieri dell’esperienza Google sono tuttora fra i più gettonati): una strada lunga da percorrere, se intrapresa da sola; - sfruttare la potenza finanziaria per acquisire le tech startup più promettenti: una strada molto più veloce, ma con le stesse ovvie difficoltà di integrazione in contesti culturalmente diversi (pena la fuoruscita dei soggetti più interessanti); - stringere alleanze e fare accordi, equity o non equity, fra di esse e/o con le tech: per condividere i costi estremamente pesanti e le esperienze, per ridurre i rischi, per promuovere sinergie laddove gli M&A non siano possibili o convenienti. È su questo ultimo punto che è in atto una accelerazione frenetica. AlixPartners, come riportato dal WSJ, ha contato nel 2017 ben 271 operazioni di partnership contro le 131 dell’anno precedente: con tutte e quattro le categorie considerate – electric vehicles, connected cars, autonomous vehicles e car sharing – in crescita. Toyota, che ha recentemente dichiarato di volersi trasformare in una società di servizi, è entrata nel capitale di Uber e Grab (la “Uber indonesiana”) e ha appena realizzato una partnership con SoftBank - la società giapponese che ha creato il più grande fondo di venture capital del mondo (il Vision Fund con 100 miliardi di dollari) – per mettere a punto un servizio di robo-taxi. In Cruise – la startup per lo sviluppo del self-driving acquisita da GM nel 2016 – sono coinvolte a vario titolo, oltre a GM stessa, Honda e Lyft (concorrente statunitense di Uber), con il supporto finanziario del Vision Fund (che è peraltro il principale azionista di Uber). Daimler e BMW hanno di recente fuso i loro servizi di car sharing (Car2Go e DriveNow), puntando a una leadership forte nel comparto. Waymo ha stretto accordi con FCA e Jaguar Land Rover per farsi produrre veicoli adatti per una propria flotta. E, sotto lo stimolo del governo cinese, le tre big tech (Alibaba, Tencent e Baidu) stanno collaborando con le imprese automobilistiche del Paese per la messa a punto di sistemi di self-driving competitivi. www.digital4executive.it
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COVER STORY
Le persone al centro della trasformazione digitale delle imprese
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Come cambia la Direzione HR: le nuove competenze necessarie
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HR Data Driven Innovation: il volto umano dei dati
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La sfida delle competenze digitali: i nuovi percorsi di Training & Development
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Professioni digitali: le più richieste e più pagate nel 2018
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Mariano Corso, Docente di Leadership & Innovation, Politecnico di Milano Fiorella Crespi, Direttore Osservatorio HR Innovation Practice, Politecnico di Milano Luca Flecchia e Emanuele Madini, P4i - Partners4Innovation Marco Planzi e Chiara Bellucci, P4i - Partners4Innovation Fabio Bocchi, P4i - Partners4Innovation MANAGEMENT
People Management, i valori che attirano i talenti nell’era della disruption Ian Williamson, Professore di Leadership, Melbourne Business School
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DIGITAL TRANSFORMATION
Marketing - User Experience Design per aumentare la propensione all’acquisto: il caso Technogym
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Marketing - Precision Marketing, lo strumento tattico e strategico per ripensare l’impresa
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Marketing - Retail Marketing, il ruolo del negozio nel customer journey dell’era digitale
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Finance - Il CFO e il progetto Emotional Food: «Decisivo partecipare al business sul campo»
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Finance - Fattura elettronica B2B, il Governo: nessun rinvio. Sogei spiega le semplificazioni
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Hr - Costa Crociere, rotta sulle competenze digitali
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Supply Chain - Blockchain nelle filiere settoriali: il Polimi censisce 131 progetti nel mondo, 3 in Italia
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Procurement - SEA, decolla l’innovazione: un portale online per gare più efficienti e trasparenti
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Manufacturing - CollaborAction, in Barilla le manutenzioni in fabbrica si gestiscono con un’app
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Marco Raspati, CEO, Nexo Corporation
Giuseppe Stigliano, Executive Director Europe, AKQA
Fabio Iacuitti, Chief Financial Officer, Gallerie Commerciali Italia/Ceetrus Italy (Gruppo Auchan)
Neil Palomba, Presidente, Costa Crociere
Andrea Ghiselli, Direttore Purchasing e Supply Chain, Gruppo SEA
OSSERVATORI
Sharing Economy, verdetto in sospeso: erede del capitalismo o moda effimera?
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INTERVISTE
Made in Italy, quando il cambio di ERP incarna la nuova visione aziendale
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Kasanova trasforma marketing e logistica: «Digitale inevitabile per il futuro del retail»
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Paolo Valle, Controller e ICT Manager, Eltek Group
M. Brambilla (Presidente), S. Cudicio (CIO), U. Martino (Supply Chain Manager), Kasanova REPORTAGE
Workforce transformation: come vincere le sfide dell’innovazione nel mondo HR
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NORMATIVE
I sistemi CRM alla luce del GDPR: spunti di riflessione
Gabriele Faggioli, Chief Executive Officer, P4i-Partners4Innovation
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RUBRICA | RICERCHE E STUDI
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RUBRICA | NOMINE
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COV E R S TORY di
MANUELA GIANNI
MARIANO CORSO
Le persone al centro della trasformazione digitale delle imprese
DOCENTE DI LEADERSHIP & INNOVATION POLITECNICO DI MILANO
La cultura aziendale e i comportamenti di dipendenti e manager sono la chiave di volta per il successo della digital transformation, ma spesso le aziende li trascurano. «L’innovazione è un vortice che tocca tutti i settori. Bisogna avere il coraggio di abbandonare i modelli organizzativi a cui siamo abituati e accompagnare le persone nel cambiamento, preparandole a recepire le opportunità che arriveranno nei prossimi anni», spiega Mariano Corso
La metafora giusta per rappresentare l’organizzazione aziendale nell’era della trasformazione digitale è quella di un organismo: è vivo e si adatta al contesto, arrivando se serve a far evolvere una parte di se stesso se diventa inutile. L’impresa concepita come una macchina ben oliata ha fatto il suo tempo. I ruoli rigidamente assegnati e la specializzazione dei compiti non permettono di affrontare un contesto incerto come quello attuale. Anche perché la rivoluzione digitale ha già di fatto cambiato comportamenti, aspirazioni e bisogni delle persone, che chiedono e offrono sempre più flessibilità e autonomia. «Per diventare innovative e realizzare un percorso di Digital Transformation, prima di tutto le aziende devono diffondere una nuova cultura, favorire nuovi comportamenti e adottare nuovi modelli», spiega Mariano Corso, docente di Leadership & Innovation al Politecnico di Milano e partner di P4I-Partners4Innovation. | 6 |
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LA RIVOLUZIONE DIGITALE FA PAURA: SERVE OTTIMISMO «Stiamo vivendo un periodo storico fantastico, ricco di novità - dice con entusiasmo Corso. - La trasformazione digitale sta spingendo anche le aziende molto tradizionali a ripensarsi. È un vortice di cambiamenti e opportunità che tocca tutte le industry, dovuto al convergere di diversi fenomeni: le nuove tecnologie digitali abilitano modelli di consumo alternativi e nuove modalità di interazione e creazione dei contenuti». Le prime industry a essere risucchiate dal vortice sono state quelle del retail, del settore media ad entertainment, dei prodotti e servizi tecnologici, dei servizi finanziari e delle Telco. Ma chi ha avuto più tempo per aspettare, ora dovrà fare più in fretta, perché il vortice tende ad accelerare le sue dinamiche. «Questa trasformazione è veloce, genera dubbi e crea ansia verso il futuro. Basta vedere i titoli dei giornali per
C OV E R S TORY | L E PE RSO N E A L C E N T RO DE L L A T RA SF O RMA Z IO N E DIG ITA L E DE L L E IMP RESE
«Il successo dipende dalla capacità di accompagnare le persone. Non basta semplicemente dire: “Da domani si fa così”. Bisogna costruire una palestra in cui si possono allenare»
capire che si sta diffondendo l’idea che la tecnologia sta mettendo in discussione il nostro benessere. I robot non ci ruberanno il lavoro, perché nasceranno nuovi bisogni e nuovi mestieri. Alcuni lavori spariranno, ma questo è sempre accaduto, e molti altri verranno aumentati dalla tecnologia, che renderà l’uomo più produttivo. Il pessimismo è un errore di prospettiva incredibile. La verità è che l’innovazione ci permetterà di sfruttare al meglio le risorse, ci sarà più inclusione e ricchezza. Invece il percepito è l’opposto». LA DIGITAL TRANSFORMATION PARTE DALLE PERSONE In questo contesto, le aziende che non vogliono essere travolte dall’ondata del digitale devono affrontare una trasformazione che mette al centro le persone, riscoprendo le loro capacità e preparandole a nuovi impieghi. Nonostante la profondità e pervasività dell’innovazione tecnologica nelle
nostre vite, i processi e l’organizzazione del lavoro sono rimasti in molti casi rigidi, fermi a stereotipi e pregiudizi di un’era ormai superata. «Il successo dipende dalla capacità di accompagnare le persone. L’impatto costringe a uscire da una zona di confort, a reinventare una professionalità. Molte aziende falliscono nella gestione del cambiamento perché dimenticano le persone. Non basta semplicemente dire: “Da domani si fa così”. Le persone
Principi del passato
Principi attuali
Specializzazione
Trasversalità
Supervisione
Orchestrazione
Linearità
Iterazione
Stabilità
Liquidità
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COVER STORY | LE PE R S ONE AL CE NT R O D E L L A T R ASF O RMA Z IO N E DIG ITA L E DE L L E IMP RE SE
«Oggi serve trasversalità, non specializzazione: i silos non agevolano il cambiamento. Le competenze distintive restano fondamentali, ma devono essere messe al servizio di tutti»
se hanno paura e sfiducia non cambiano. Serve un approccio positivo, in grado di ingaggiare in modo profondo le persone e attivare le loro capacità nascoste. Bisogna costruire una palestra in cui si possono allenare a recepire le opportunità che arriveranno nei prossimi anni, anche se non le conosciamo. Determinante, inoltre, è il Commitment dei manager: i capi ci devono credere e devono dare l’esempio». CHANGE MANAGEMENT E DIGITAL EMPOWERMENT In concreto, quello che molte organizzazioni hanno già iniziato a fare è costruire un piano di
Le leve su cui agire per costruire la Digital Organization 1. Il modello organizzativo Occorrono nuove modalità di lavoro e modelli organizzativi più flessibili, che puntano su “accountability” e cultura della misura. Significa assumersi la responsabilità di un compito ed essere misurati sugli obiettivi. Sia le persone che il loro capo devono dunque sentirsi imprenditori. 2. Competenze e cultura Serve sviluppare una cultura sia per manager sia per dipendenti che punti sulla crescita personale. Serve creare senso della comunità, garantire e chiedere flessibilità e virtualità, ovvero la capacità di lavorare attraverso tutti i canali, fisici e digitali, oggi disponibili. 3. Processi, metodologie e strumenti Il modo di lavorare e le esigenze delle persone sono cambiate. Avere un approccio imprenditoriale favorisce la sperimentazione, con il rischio di fallimento. Questo implica che il metodo con cui i progetti vengono approvati deve cambiare. 4. Ecosistema Serve essere aperti, guardare fuori del perimetro aziendale: ai fornitori, alle startup, alle università. L’ecosistema serve ad accelerare la trasformazione, è una chiave di volta del cambiamento.
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change management e un percorso di digital empowerment a tutti i livelli, con attività mirate che puntano sulla diffusione di nuove competenze, aggiornamento e formazione, percorsi per la generazione di idee innovative. «Occorre costruire una Digital Organization ispirandosi a nuovi principi organizzativi e per farlo bisogna avere il coraggio di abbandonare modelli a cui siamo abituali. Oggi serve trasversalità, non specializzazione: i silos non agevolano il cambiamento. Bisogna superare quella regola non scritta per cui una persona può parlare solo con il suo capo: al contrario, deve essere premiata la comunicazione aperta e orientata al problem solving. Non significa che servono figure generaliste: le competenze distintive restano fondamentali, ma devono essere messe al servizio di tutti. Alla fine, è una questione di apertura e curiosità». Cambia anche il ruolo del capo, da supervisore a orchestratore di risorse. Un approccio ben diverso da quello che misura il potere in base a quanti sono i sottoposti. Occorre poi, con un sano realismo, considerare i processi non come lineari, ma interattivi: se serve bisogna reiterare, imparando dagli errori. In queste nuove realtà liquide e poco stabili, il digitale deve permeare l’intera organizzazione. «I leader del futuro hanno uno ruolo straordinario, strategico ed etico: diventare allenatori per le persone del futuro per fare in modo che essi stessi costruiscano il loro futuro, il loro valore la loro impiegabilità, anche a prescindere dall’azienda. È una leadership condivisa, in cui ognuno sa farsi influenzare dagli altri, grazie ad approcci e modelli organizzativi orientati a favorire la diffusione di cultura, stili manageriali e comportamenti basati sulla definizione di obiettivi, sulla responsabilizzazione sui risultati e la valutazione delle performance». Un approccio che deve partire dal DNA di ciascuna azienda. «Non esiste un’unica ricetta – conclude Corso –. Definire una struttura organizzativa e nuovi processi standard facilita la fase iniziale, ma poi sarà la diffusione e l’interiorizzazione di una nuova cultura imprenditoriale a rendere di successo le iniziative che si deciderà di lanciare».
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COV E R S TORY
di
FIORELLA CRESPI
DIRETTORE OSSERVATORIO HR INNOVATION PRACTICE POLITECNICO DI MILANO
Come cambia la Direzione HR: le nuove competenze necessarie L’Osservatorio del Politecnico di Milano ha sviluppato un modello che comprende 5 diverse aree di competenze digitali chiave per il futuro della Direzione HR, includendo aspetti prettamente strategici e organizzativi, e aspetti più operativi. Un modello legato all’utilizzo degli strumenti a supporto dei processi di gestione delle risorse umane. Poche le aziende italiane già pronte
Il cambiamento delle competenze digitali nelle organizzazioni ha un duplice impatto sulla Direzione HR, che deve da un lato essere in grado di supportare il cambiamento che avviene nelle organizzazioni, dall’altro sapere essa stessa cambiare e adeguare le proprie competenze e processi. L’estrema rilevanza e attualità del tema sono dimostrate dal fatto che lo sviluppo di competenze digitali nell’organizzazione e, più in generale, di una cultura del digitale, è per il secondo anno di seguito la principale sfida che i direttori HR si pongono per il 2018, indicata come prioritaria da più di un’azienda su 2 (54%). Con lo sguardo puntato sulla Direzione HR, la Ricerca dell’Osservatorio HR Innovation Practice di quest’anno ha cercato di comprendere quanto questa si senta pronta ad affrontare la Trasformazione Digitale in termini di competenze, e quanto investirà nei prossimi anni nello sviluppo delle proprie skill, in modo da assumere il ruo| 10 |
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lo di guida per l’organizzazione verso la Digital Transformation. Già con la ricerca dello scorso anno l’Osservatorio ha rilevato come il portfolio di competenze della Direzione HR si debba arricchire di skill mutuate da altre funzioni aziendali. Quest’anno la Ricerca si è focalizzata in particolare sulle competenze digitali specifiche della funzione. Basandosi su alcuni modelli presenti in letteratura, elaborati attraverso l’integrazione e la validazione dei responsabili HR coinvolti nei workshop di Ricerca presso il Politecnico, l’Osservatorio ha sviluppato un modello che include cinque diverse aree di competenze digitali chiave per la Direzione HR. Tale modello include tutti gli aspetti del lavoro, da quello prettamente strategico e organizzativo a quello più operativo, legato all’utilizzo degli strumenti a supporto dei processi di gestione delle risorse umane. Più nello specifico, le
COVER STORY | COME CAMBIA LA DIREZIONE HR: LE NUOVE COMPETENZE NECESSARIE
cinque aree di competenze che riguardano le HR Digital Capabilities sono: 1.DIGITAL PEOPLE STRATEGY: capacità di tradurre le trasformazioni del business presenti nel piano industriale, tra cui quelle dovute all’impatto del digitale, in una People Strategy coerente. Tra queste competenze troviamo ad esempio la capacità di comprendere e anticipare le esigenze dell’azienda in termini di nuove professionalità necessarie e la capacità di creare una cultura organizzativa basata sul raggiungimento dei risultati e sull’acquisizione di adeguati stili di leadership. 2.DIGITAL CHANGE CAPABILITY: capacità di supportare la gestione del cambiamento dovuto alla Digital Transformation sia a livello di processi HR sia nell’intera organizzazione. Questo vuol dire, ad esempio, saper supportare le persone nel capire l’urgenza e l’importanza del cambiamento e allo stesso tempo saper identificare le persone che possono diventare key agent del cambiamento. 3. DIGITAL PEOPLE CARE: capacità di far evolvere e migliorare la relazione con collaboratori e candidati a fronte delle trasformazioni dovute al digitale. Le principali competenze afferenti a questo ambito riguardano, ad esempio, la capacità di scorporare attitudini e talenti digitali, valutarne la coerenza e le traiettorie di sviluppo in funzione dei bisogni dell’organizzazione. 4.DATA DRIVEN ANALYSIS & DECISION MAKING: capacità di prendere decisioni basandosi sull’analisi dei dati e delle informazioni legate alle persone sapendo utilizzare tecnologie digitali innovative come supporto. Tra queste competenze rientrano, ad esempio, la capacità di raccogliere, integrare, elaborare e analizzare i dati in modo sicuro e conforme alla normativa oppure saper utilizzare i dati per supportare e automatizzare le decisioni di individui e team.
5.TOOLS & CHANNELS: capacità di scegliere e utilizzare tool specifici della Direzione HR. Tra le competenze annoverate in tale macro-ambito ci sono sia la capacità di selezionare e gestire fornitori e partner, sia la capacità di saper identificare possibili nuovi ambiti di digitalizzazione e sperimentare nuovi strumenti. LA MATURITÀ DELLE AZIENDE ITALIANE Ma quanto le Direzioni HR delle organizzazioni presenti in Italia pensano di possedere tali competenze? Dal punto di vista della maturità complessiva, sono poche le realtà che si valutano molto mature su tutte e 5 le dimensioni delle competenze digitali, come sono poche quelle che si ritengono particolarmente immature su tutte le dimensioni: la maggior parte si colloca in una situazione intermedia. In generale il livello di possesso delle singole macro-aree di competenza si colloca a un livello intermedio. Da un confronto settoriale emerge però che le organizzazioni che operano in settori o in business in cui c’è una spiccata componente digitale, il possesso di HR Job Related Skills è mediamente più elevato rispetto alle altre. Se guardiamo al futuro e chiediamo quale è il macro-ambito di competenze su cui le Direzioni HR ritengono di dover investire in modo prioritario e significativo nel corso del 2018, saranno le competenze connesse di Digital change capability per cui il 57% delle aziende del campione dichiara che farà investimenti significativi, seguito da Digital People Strategy (50%). Quindi è sempre più importante che le Direzioni HR, nell’esercitare il loro ruolo di guida delle organizzazioni nel percorso verso la digitalizzazione, non dimentichino lo sviluppo delle proprie competenze digitali che sono fondamentali per saper cogliere le opportunità offerte dalle nuove tecnologie per migliorare i propri processi.
Il 57% delle aziende del campione dichiara che farà investimenti significativi per la Digital Change Capability nel corso del 2018 www.digital4executive.it
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di
HR Data Driven Innovation: il volto umano dei dati
LUCA FLECCHIA
ASSOCIATE PARTNER P4I - PARTNERS4INNOVATION
Per la Direzione HR nelle aziende, l’ambito ‘HR Analytics & Big Data’ sta diventando una priorità di innovazione digitale: l’insieme di competenze, tecnologie e fonti informative, che consentono di capitalizzare, gestire e analizzare i dati del personale, fornisce un supporto decisionale sempre più importante in termini di acquisizione, sviluppo e retention delle persone
Il percorso verso la trasformazione in “data-driven company” non è semplice e “obbliga” le aziende a vedere il dato non come elemento tecnico ma come pilastro strategico del business. Un passaggio che non può avvenire con la sola tecnologia: serve portare la cultura del dato a tutti i livelli aziendali. Anche per la Direzione HR l’ambito ‘HR Analytics & Big Data’ sta diventando, sempre più, una priorità di innovazione: comprende l’insieme di competenze, tecnologie e fonti informative che consentono di capitalizzare, gestire e analizzare dati relativi al personale, con l’obiettivo di fornire un maggiore supporto decisionale e strategico in termini di acquisizione, gestione, sviluppo e retention delle persone. Il motivo della crescita di attenzione su questo tema è giustificato dal fatto che sempre di più viene richiesto alla Direzione HR di affiancare ai temi di gestione “soft” anche approcci analitici e quantitativi che supportino le strategie e gli investimenti sulle persone. La diffusione della digitalizzazione dei processi e delle modalità di relazione comporta una crescita | 12 |
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esponenziale dei dati, trasformati poi in informazioni utili per la Direzione HR, tra cui quelle su performance, tassi di retention e turnover, contributi social media, risultati delle survey di clima, leadership and competence assessment. In generale, nelle organizzazioni italiane l’uso di HR Analytics & Big Data è ancora limitato, e legato alla semplice reportistica descrittiva - eventualmente personalizzata per i manager - o, al più, al confronto attraverso sistemi di benchmark esterni. Se in Italia siamo ancora in fase esplorativa, il panorama internazionale inizia a mostrare diversi casi di successo di implementazione di advanced analytics in ambito HR. Tra gli esempi più rappresentativi c’è Wells Fargo, che ha sviluppato un modello predittivo per la selezione delle persone, nell’ambito del progetto di centralizzazione del processo di recruiting per la sua division ‘community banking’. Basato su questionario di 65 domande su esperienze, motivazioni e skills dei candidati, il modello ha consentito di individuare le risorse più in linea con la cultura e i requisiti di performance
C OV E R ST O RY | H R DATA DRIV E N IN N OVAT IO N : IL VO LT O UMA N O DE I DAT I
di
EMANUELE MADINI
ASSOCIATE PARTNER P4I- PARTNERS4INNOVATION
aziendali, portando a un miglioramento del retention rate e degli indicatori di performance dei dipendenti. Un altro esempio è quello di HP, che per ridurre il turnover delle risorse ha sviluppato un modello predittivo sulla probabilità di abbandono, con cui individuare i fattori che inducono i dipendenti a lasciare la società e implementare, di conseguenza, misure e politiche di miglioramento dell’ambiente di lavoro, con un risparmio stimato di 300 milioni di dollari rispetto ai costi legati all’employee replacement. Infine non si può non citare Google, che si è avvalsa di tecniche di advanced analytics per individuare i tratti e i comportamenti distintivi del ‘great manager’ (Project Oxygen) e i fattori che rendono i team di lavoro più efficaci ed efficienti (Project Aristotle), favorendo l’employee engagement e lo sviluppo di eccellenti team leader. Come dimostrano questi casi, la mole di dati crea opportunità per supportare al meglio i processi decisionali delle Line of Business, ma richiede altresì uno sforzo alla Direzione HR, che deve ampliare le proprie
competenze, in termini di conoscenza sia delle tecnologie disponibili sia delle modalità e dei casi d’uso di tali strumenti a supporto del business. Al momento infatti mancano le abilità e gli strumenti per progettare sistemi di HR analytics che consentano di tracciare il passato, ma anche di supportare i processi decisionali con analisi predittive e simulazioni di scenario. Per sviluppare un vero e proprio approccio di HR Data Driven Innovation è necessario quindi definire una strategia integrata su 3 dimensioni: • Dati: definire le modalità di governo dei dati all’interno della Direzione HR e, più in particolare, delle modalità con cui sono immagazzinati e resi disponibili ai diversi applicativi HR, con la possibilità di integrare anche fonti informative provenienti da altri sistemi aziendali (soprattutto Finance) o da canali esterni (ad esempio, social media); • Competenze: sviluppare le skill legate alla gestione e all’analisi dei dati relativi ai processi HR con la possibilità di introdurre anche figure professionali specifiche, come i Data Scientist; • Tecnologie: introdurre tecnologie per la gestione degli HR Analytics & Big Data che consentano l’elaborazione di algoritmi predittivi e la visualizzazione di dati e indicatori in modo dinamico e personalizzabile anche dagli utenti Business. Oltre a definire una visione di lungo periodo, è però altrettanto importante individuare alcuni progetti pilota di sperimentazione per consentire ai professionisti HR di “toccare con mano” le nuove tecnologie, rendendoli più consapevoli delle potenzialità e dei benefici ottenibili, e riducendo eventuali timori e possibili resistenze al cambiamento. Più di altri ambiti tecnologici, l’HR Analytics & Big Data è quello che mette più in discussione le competenze tipiche di chi si occupa di HR, ma rappresenta anche la base per poter comprendere e declinare correttamente gli ambiti futuri di innovazione dei processi HR, legati per esempio all’Intelligenza Artificiale e alla Blockchain. Per poter implementare con successo nell’organizzazione questo tipo di analisi è quindi necessario un forte cambiamento culturale, supportando i professionisti HR nella comprensione del fatto che questi tipi di analisi e strumenti non si sostituiscono all’uomo e alla sua capacità analitica e decisionale, ma lo affiancano, dandogli più elementi a supporto delle decisioni, così da aiutarlo e da permettergli di prendere decisioni più solide e più efficaci. www.digital4executive.it
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COV E R S TORY di e
MARCO PLANZI, ASSOCIATE PARTNER - P4I CHIARA BELLUCCI, BUSINESS ANALYST - P4I
La sfida delle competenze digitali: i nuovi percorsi di Training & Development L’aggiornamento professionale è già oggi una priorità per la sopravvivenza delle imprese, ma i metodi tradizionali di formazione hanno perso efficacia. È tempo di Edtech, nuove piattaforme che uniscono personalizzazione, social, gamification e microlearning
La digital disruption avrà un impatto profondo sul contesto lavorativo nei prossimi anni e, mentre nuovi mestieri nascono, molti altri rimarranno spiazzati. Per descrivere questa dinamica, negli Stati Uniti hanno coniato il neologismo ‘jobsolete’ dall’unione di job – lavoro – con la parola obsolete. Si tratta di un concetto provocatorio che mette a disagio perché paragona le competenze di una persona alle funzionalità di un oggetto, soggette a dinamiche di obsolescenza. Altrettanto provocatoriamente, in diversi articoli divulgativi si parla dell’“evoluzione della specie professionale”, dall’Homo Sapiens che tutto sa all’Homo Adaptus, ovvero colui che comprende la necessità di essere in uno stato di perenne evoluzione e, anziché resistere allo sviluppo tecnologico, cerca di piegarlo ai suoi scopi per prosperare. Il report “Future of Jobs” del World Economic Forum delinea le principali competenze del lavoratore del futuro, dal pensiero critico, fino alla creatività unita al problem solving. Si tratta di competenze che non si ottengono solo attraverso lo studio accademico, ma anche attraverso forme di apprendimento espe| 14 |
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rienziale. Apparentemente, l’Accademia così come la conosciamo non sembra essere sempre lo strumento giusto, perché richiede significativi investimenti di tempo e risorse economiche. All’opposto, la formazione online (accessibile, focalizzata e a buon mercato) non ha ancora rispettato appieno le promesse. Basti pensare che, in media, solo il 10% di chi acquista un corso online lo porta a compimento. Ultimamente però gli sforzi di accademie, imprese e fondi di venture capital si stanno focalizzando sul superare i limiti della formazione online: da tre anni si parla sempre più di Edtech, un settore in espansione in cui le startup giocano un ruolo cruciale per innescare l’innovazione nel mondo dell’educazione professionale, soprattutto nelle nicchie tematiche poco coperte dai corsi universitari o in cui si utilizzano metodi formativi poco allineati con le esigenze degli utenti. Miliardi di dollari di investimento convergono sull’Edtech (il picco nel 2015 con più di 3 miliardi) e tra le 10 startup più finanziate ci sono TutorGroup, Udacity e Coursera (piattaforme di online-learning con video-lezioni), e Knewton (piattaforma di accompagnamento allo stu-
COV E R S TORY | L A S FI DA D E L L E COM P E T E N Z E DIG ITA L I: I N UOV I P E RC O RSI DE L T RA IN IN G & DE V E L O P ME NT
dio individuale). I benefici ricadono anche sulle imprese, per cui l’aggiornamento professionale è oggi una priorità per la sopravvivenza: instaurare meccanismi più efficaci di autoformazione può diventare un differenziale rispetto ai concorrenti e può far raggiungere la tanto agognata “agilità organizzativa”. Oggi, nella maggior parte delle imprese la formazione online è erogata attraverso Learning Management Systems (LMS) per la maggior parte risalenti agli Anni Duemila, la cui tecnologia tenta di replicare virtualmente le dinamiche di una lezione frontale in classe. Confrontando gli LMS tradizionali con le soluzioni delle migliori startup Edtech o addirittura con i servizi online che usiamo quotidianamente (da Facebook ad Amazon) emerge una distanza siderale in termini di user experience, ma anche alcuni pattern che condizioneranno le esperienze formative del futuro. Il trend più evidente riguarda la Personalizzazione, ovvero la costruzione di esperienze formative online che guidano l’utente nell’esplorazione del catalogo formativo attraverso motori di raccomandazione che analizzano le preferenze di navigazione, insieme a interessi e attitudini dell’utente, con un’esperienza sempre più simile a Netflix e Amazon. Lungo questa direzione, sempre più imprese stanno adottando LMS maggiormente content-oriented e simili ai MOOCS, “Massive Online Open Course”. Il training online rischia di risultare freddo e troppo individuale. Per questo serve completare l’esperienza utente con iniziative di Social Learning, che sfruttino i canali digitali (dall’instant messaging fino ai social network) per attivare dibattiti e stimolare lo scambio di idee tra le persone, sia interne all’azienda sia esterne, in logica di Open Innovation. Qualsiasi LMS moderno content-oriented deve essere orientato al Microlearning secondo cui il training viene erogato sottoforma di video-pillole, infografiche, contenuti multimediali e brevi articoli, a cui si può accedere anche da smartphone, secondo i principi del “just in time training”.
Infine, alla base di ogni percorso di formazione online al passo coi tempi c’è l’attenzione alle logiche di Gamification con la costruzione di sistemi di punteggi e “livelli di gioco”, che stimolano e incentivano la partecipazione attiva degli utenti, e offrono un’esperienza che ingaggia le persone e le rende curiose. A fianco di Personalizzazione, Social Learning e Microlearning, non va mai dimenticata la regola ‘content is king’, per cui la qualità dei contenuti è fondamentale, sia rispetto al contenuto in sé, sia rispetto alla cura nella produzione. P4I-Partners4Innovation sviluppa con i clienti le Digital Academy, percorsi di training & development, online e offline, personalizzati sul profilo dell’utente e centrati sulle esigenze dell’impresa, abbinando la capacità di progettazione dei percorsi e le competenze d’avanguardia su tutti i fronti della Digital Transformation. La progettazione delle iniziative si basa sulla metodologia Digital DNA, un modello di mappatura delle attitudini digitali e imprenditoriali delle persone calato sull’impresa. Tramite una conoscenza approfondita delle persone, si avvia il percorso più adatto, che comprende il mix corretto di training, sperimentazione pratica, collaborazione (online e offline) con l’obiettivo di trasferire nuove competenze e modi di lavorare favorendo l’orientamento al “Digital Mindset”. Qualsiasi progettualità di training & development deve basarsi su una solida dashboard, un “cruscotto” di misurazione dei risultati su due ambiti: cultura e conoscenza. Gli indicatori culturali misurano l’impatto del cambiamento del modo di lavorare, anche nelle attività quotidiane, e della percezione che la persona ha dell’organizzazione in cui è inserito. Gli indicatori di conoscenza misurano l’impatto in termini di informazioni acquisite dai partecipanti ai percorsi di formazione. Grazie all’attività di monitoraggio continuo è possibile innescare un processo di miglioramento progressivo e dinamico delle attività, sempre più in linea con i comportamenti degli utenti. Marco Planzi e Chiara Bellucci, rispettivamente Associate Partner e Business Analyst di P4I-Partners4Innovation
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C OV E R S TORY di
MANUELA GIANNI
FABIO BOCCHI ASSOCIATE PARTNER P4I - PARTNERS4INNOVATION
Professioni digitali: le più richieste e più pagate nel 2018 Il Chief Digital Officer è in cima alla classifica delle figure specializzate nel mondo digitale a più alta retribuzione, stilata dalla società di advisory P4I-Partners4Innovation elaborando i dati del sito Confrontastipendio.it. «Stiamo vivendo una vera e propria rivoluzione, in cui emergono nuove professioni e “mestieri” fino a pochi anni fa sconosciuti o inesistenti»
L’innovazione digitale corre e trasforma anche il lavoro, dando vita ad alcune delle professioni più richieste e pagate dalle aziende anche in Italia. In cima a questa classifica di super-professionisti a prova di futuro, nel 2018 ci sono il Chief Digital Officer (CDO, ovvero chi si occupa di tutti gli aspetti del business digitale), il Chief Innovation Officer (CIO, sigla che un tempo indicava il responsabile IT con competenze molto tecniche, mentre oggi è un manager di progetto che governa le tecnologie e i fornitori) e il Mobile Sales Manager, che è responsabile delle attività di vendita del canale mobile dell’azienda, gestendo il posizionamento dei prodotti/servizi su motori di ricerca e social media in collaborazione con il digital marketing e il category manager. La Retribuzione Lorda Annua (RAL) media di queste tre figure è rispettivamente di 81mila, 57mila e 51 mila euro annui. Seguono in classifica (la tabella completa è nella pagina a fianco) il Multichannel Sales Manager, il Digital Business Development Manager, e l’eCommerce Manager. L’elenco delle professioni più richieste in| 16 |
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clude dunque figure tradizionali, magari in evoluzione come il responsabile IT o chi si occupa di Commercio Elettronico, e ruoli che solo pochi anni fa non esistevano, o comunque non erano definiti con chiarezza, come l’esperto di multicanalità, il Data Scientist, il Digital Media Planner o il Growth Hacker, figura emergente che si occupa di sviluppare la crescita di un servizio online agendo in parallelo su diversi canali. 180 PROFESSIONI DEL DIGITALE SUL SITO CONFRONTASTIPENDIO.IT La classifica dei lavori digitali “superstar” nel 2018 è stata stilata dalla società di advisory P4I-Partners4Innovation del gruppo Digital360, che ha elaborato i dati del sito Confrontastipendio.it, fornendo così una prima lettura del dinamico mercato del lavoro digitale nel nostro Paese. Un mercato in cui la domanda e l’offerta sono ancora distanti, tanto che alcune figure sono difficilissime da trovare e vengono letteralmente rubate vicendevolmente dalle aziende in concorrenza fra loro.
COVER STORY | LE PROFESSIONI DIGITALI PIÙ RICHIESTE E PIÙ PAGATE NEL 2018
Di conseguenza gli stipendi lievitano, e si moltiplicano le iniziative di employer branding, con cui le aziende cercano di andare incontro ai gusti e agli interessi dei talenti che cercano di attirare. «La diffusione capillare di tecnologie digitali, i modelli di consumo alternativi e le nuove modalità di comunicazione hanno messo in discussione i concetti tradizionali di lavoro, professionalità e competenza – dice Fabio Bocchi, Associate Partner di P4I -. Stiamo vivendo una vera e propria rivoluzione in cui emergono nuove professioni e “mestieri” fino a pochi anni fa sconosciuti o inesistenti. E proprio per tracciare l’evoluzione di questo mercato del lavoro abbiamo sviluppato Confrontastipendio. it un servizio qualificato in continua evoluzione a disposizione di manager e imprese, indispensabile per monitorare le politiche retributive delle professioni digitali». Confrontastipendio.it è un tool gratuito e interattivo nato proprio per portare chiarezza nel mondo del lavoro in Italia, in un periodo in cui la domanda di nuove competenze digitali cresce fortemente ogni anno, e interessa non solo i nuovi ambiti applicativi, ma anche i ruoli ICT più tradizionali. Chiunque lavori nell’ICT può infatti confrontare il proprio stipendio con la media di mercato e capire se è in linea con il mercato: il database contiene dati relativi a circa 180 professioni del digitale. Il sito è utile anche alle direzioni HR, che stanno sempre più completando gli organigrammi delle azien-
de italiane con nuovi ruoli: i responsabili delle Risorse Umane possono mettere a confronto la retribuzione dei collaboratori già in organico e di quelli in ingresso con i livelli medi di stipendio sul mercato per le singole funzioni digitali. LAVORARE IN UNA GRANDE AZIENDA SIGNIFICA INCASSARE UN 10% IN PIÙ L’analisi rivela anche che lo stipendio medio di tutte le professioni digitali è di circa 35mila euro: un impiegato guadagna mediamente 29.400 euro, un quadro 51.800 e un dirigente circa 84.000 euro. Anche nel mondo digitale permane una significativa differenza di genere, che non si discosta troppo dalla media nazionale: le donne sono ancora troppo poche e guadagnano a parità di ruolo mediamente circa il 6% in meno dei colleghi maschi. Inoltre le aziende grandi pagano meglio: profili simili guadagnano quasi un 10% in più se operano in aziende con oltre 750 milioni di euro di fatturato. Le professioni digitali profilate sul sito Confrontastipendio.it vengono aggiornate di continuo grazie al confronto con HR manager ed esperti del settore. Le informazioni (circa 5000 i dati raccolti) vengono rielaborate tramite un algoritmo proprietario che incrocia le caratteristiche ricorrenti delle remunerazioni rilevate con i dati indicati dall’utente.
i lavori più redditizi: retribuzione annua lorda media 2018 (in euro) 0
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CHIEF DIGITAL OFFICER CHIEF INNOVATION OFFICER MOBILE SALES MANAGER MULTICHANNEL SALES MANAGER DIGITAL BUSINESS DEVELOPMENT MANAGER E-COMMERCE MANAGER DIGITAL PRODUCT MANAGER CLOUD SOLUTION SPECIALIST DIGITAL ACCOUNT MANAGER DIGITAL MARKETING MANAGER DIGITAL PROJECT MANAGER
Fonte: Sito Confrontastipendio.it
MARKET DATA ANALYST ONLINE MERCHANDISER SPECIALIST GROWTH HACKER DATA SCIENTIST UX-UI DESIGNER BIG DATA ANALYST DIGITAL MEDIA PLANNER
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MANAGEMENT - WORLD OF BUSINESS IDEAS di
in collaborazione con
MANUELA GIANNI
IAN WILLIAMSON PROFESSORE DI LEADERSHIP MELBOURNE BUSINESS SCHOOL
People Management, i valori che attirano i talenti nell’era della disruption Coinvolgimento e partecipazione attiva, relazioni positive, interazioni con la società e il territorio: ecco cosa si aspettano oggi le persone dalle organizzazioni. «I leader forniscono una visione, non istruzioni precise. Si concentrano sull’allocazione delle risorse e non sulla loro valutazione. E creano situazioni in cui i dipendenti sono soddisfatti di come eseguono il loro lavoro, e non solo dei risultati ottenuti»
Un tempo i capi dovevano dare indicazioni chiare sui compiti da svolgere, e controllare come questi venivano eseguiti. Un tempo per motivare le persone le aziende puntavano sulla stabilità e su forme di tutela. Un tempo l’operato di un’azienda aveva impatti sociali limitati sul territorio in cui operava. Oggi, nell’era della digital disruption, tutte queste certezze sono crollate. Digital4Executive ne ha parlato in esclusiva con Ian Williamson, uno dei più autorevoli studiosi di Organizational Behavior e People Management, professore di Leadership alla Melbourne Business School in Australia, nonché relatore al World Business Forum 2018 di Milano. L’automazione, le piattaforme digitali e l’innovazione stanno trasformando la natura stessa del lavoro. Le persone ne hanno paura. Che tipo di leadership occorre in un tale contesto? Nell’approccio tradizionale, si ritiene che un buon leader debba saper fare tre cose: spiegare alle persone tutto quello che è necessario fare e come esat| 18 |
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tamente farlo; valutare e monitorare come le persone realizzano questi compiti; e premiarle (o punirle) in base ai risultati ottenuti. Questo approccio alla leadership può essere molto efficace, ma presuppone che i leader sappiano cosa deve essere fatto e lo abbiano già visto fare, o lo abbiano fatto essi stessi. Purtroppo sono due ipotesi che in molti casi non corrispondono più alla realtà. In un periodo di disruption come quello che stiamo vivendo, spesso non è chiaro ciò che deve essere fatto, e comunque si tratta di azioni e attività che nessuno ha già svolto in passato. In queste situazioni la leadership non può essere esercitata fornendo indicazioni chiare, ma creando le migliori condizioni affinché le persone possano sperimentare, riflettere e consolidare gli insegnamenti appresi dall’esperienza. In questo contesto, insomma, i leader devono fornire una visione, e non istruzioni precise. Devono assegnare le risorse necessarie, e non fare valutazioni. E soprattutto devono creare situazioni in cui i
MANAGEMENT - WORLD OF BUSINESS IDEAS | PEOPLE MANAGEMENT, I VALORI CHE ATTIRANO I TALENTI NELL’ERA DELLA DISRUPTION
dipendenti siano soddisfatti del fatto di fare il loro lavoro, e non solamente dei risultati ottenuti. Cosa è più importante, in un contesto in continua evoluzione, per attrarre e fidelizzare i talenti? Cosa si aspettano davvero le nuove generazioni da un’organizzazione? In passato i datori di lavoro attraevano i talenti fornendo forme diverse di tutele o di stabilità. Alla generazione precedente interessava molto, ad esempio, ottenere buoni programmi pensionistici. Oggi però le organizzazioni sono meno in grado di garantire stabilità. La buona notizia è che è meno probabile che i dipendenti ormai si aspettino stabilià dai datori di lavoro. Piuttosto sono attratti dalla vision dell’organizzazione. Le domande che fanno riguardano l’opportunità di lavorare a progetti fortemente innovativi, o che trasformano l’ambiente in cui lavorano; a loro interessa se saranno trattati in modo giusto ed equo, e se l’azienda sarà in grado di valorizzare i frutti dei loro sforzi se avranno successo. Sono queste le aspettative delle nuove generazioni. Che consiglio darebbe ai responsabili HR in Italia, considerando che in Italia il mercato del lavoro non è molto flessibile? Spesso i manager si lamentano che gli accordi sindacali o le normative limitano la loro capacità di gestire efficacemente la forza lavoro. In particolare, i manager sono spesso frustrati dal non poter apportare modifiche formali nei contratti dei dipendenti o dal non poter sollevare le persone dall’incarico se sono inadeguate. Un modo per superare questi ostacoli è riconoscere l’importanza dei benefit intrinseci e sociali come mezzi per motivare i dipendenti. Con benefit intrinseci intendo i riconoscimenti che le persone ricevono dallo svolgere un compito specifico, mentre con benefit sociali intendo le interazioni sociali positive che le persone ricevono grazie al loro lavoro. Entrambe le ricompense possono essere un modo molto efficace per migliorare la motivazione e le prestazioni dei dipendenti in contesti vincolati, e su queste i manager hanno una grande influenza. Ad esempio, i leader possono offrire ai talenti l’opportunità di cimentarsi in diversi tipi di attività per trovare quella che massimizza i benefit intrinseci. Per migliorare i vantaggi sociali, invece, possono creare situazioni di lavoro in team. I suoi studi si sono concentrati anche sulla ricerca e assunzione dei talenti da parte delle piccole imprese. Cosa suggerisce alle PMI italiane, che affrontano la competizione su scala globale?
Le piccole imprese sono in genere in svantaggio nel recruitment di talenti rispetto alle grandi, perché mancano del riconoscimento del brand e non sono considerate attrattive e ricche di opportunità di crescita e carriera come le grandi realtà globali. La mia ricerca ha evidenziato che per superare queste barriere le piccole imprese possono adottare una duplice strategia, che consiste nel far proprie alcune modalità tipiche delle best practice delle grandi imprese, evidenziando al contempo le caratteristiche peculiari della propria realtà specifica. Per esempio possono utilizzare job title e descrizioni di ruoli analoghi a quelli utilizzati dalle grandi imprese. Ciò può trasmettere un senso di legittimità ai potenziali dipendenti e più fiducia sul tipo di lavoro che saranno chiamati a svolgere. Tuttavia, le piccole imprese devono anche distinguersi. Per esempio potrebbero sviluppare una politica inclusiva, che coinvolge i dipendenti nella definizione delle attività aziendali, oppure investire notevolmente nella creazione di momenti che favoriscono le interazioni fra le persone dell’organizzazione. Sono due situazioni più difficili da creare nelle grandi aziende. È questo equilibrio fra l’essere al contempo simili e diverse alle grandi aziende che può aiutare le imprese più piccole ad attrarre e mantenere i migliori talenti. Lei sostiene che il talent management ha un impatto non solo sull’organizzazione, ma anche sulle comunità. Può fare qualche esempio? Il più grande problema che ogni organizzazione dovrà affrontare in futuro non è la concorrenza di altre imprese, ma le criticità sociali presenti nella comunità e nell’ambiente in cui tale organizzazione opera. Se questa comunità è caratterizzata da scarsa istruzione, scarsa assistenza sanitaria o alti livelli di violenza, difficilmente l’organizzazione riuscirà a essere profittevole, indipendentemente da quanto siano validi i suoi prodotti o servizi. Perciò le aziende lungimiranti stanno iniziando a capire che la loro value proposition potrà crescere solo se crescerà quella della comunità in cui si trovano ad operare. In questa logica, le aziende devono sforzarsi di capire come le loro business practice possano essere utilizzate per risolvere le questioni sociali più critiche delle loro comunità di riferimento. Ad esempio, invece di limitarsi a fare donazioni, un’azienda di retail potrebbe collaborare con una scuola superiore locale per introdurre corsi di formazione di competenze di vendita nel programma scolastico, dando ai giovani un’opportunità immediata di entraa nel mondo del lavoro. Nel lungo termine, questo creerebbe un serbatoio di talenti per l’azienda, e allo stesso tempo contribuirebbe a innalzare il livello di istruzione e di competenze dei membri della comunità. www.digital4executive.it
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OSSERVATORIO di
DANIELE LAZZARIN
Sharing Economy, verdetto in sospeso: erede del capitalismo o moda effimera? In un convegno al Politecnico di Milano due docenti dell’ateneo hanno analizzato il fenomeno da punti di vista molto diversi: una fotografia globale del mercato, con mappatura degli operatori e classificazione dei cinque principali modelli di business, e una lettura macroeconomica controcorrente: «È affitto, di “sharing” non c’è nulla»
Di Sharing Economy negli ultimi anni si è parlato moltissimo. Al di là delle “punte di diamante” - le varie Uber, Airbnb, Enjoy e BlaBlaCar – il fenomeno si è talmente ampliato che oggi è davvero difficile dire cosa sia, e cosa non sia, la Sharing Economy. E se sia davvero un modello socioeconomico rivoluzionario, che soppianterà il capitalismo, o invece una moda effimera, che non genera ricchezza e sfrutta lavoro precario. Un’occasione importante di approfondimento è stata il convegno “Sharing Economy: dal possesso all’accesso” degli Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano. «Ci interessa dare un contributo concreto per capire il fenomeno, andando oltre le visioni superficiali e moralistiche», ha detto Alessandro Perego, Direttore degli Osservatori, introducendo l’evento, che si è articolato in due parti. Nella prima due docenti del Politecnico di Milano hanno analizzato la Sharing Economy da prospettive diverse: una ricerca di mercato su scala mondiale, e una lettura macroeconomica “controcorrente”. Nella seconda (vedi a pag. 23) hanno parlato | 20 |
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tre “addetti ai lavori”: un sindacalista e i top manager di tre primarie realtà del settore - Eni Fuel (Enjoy), Supermercato24, e BlaBlaCar Italia. 195 STARTUP NEL MONDO, 26 ITALIANE La ricerca di mercato, curata da un team dell’Osservatorio Startup Intelligence del Politecnico di Milano, è stata presentata da Antonio Ghezzi, direttore dell’Osservatorio e docente di Strategy & Marketing dell’ateneo milanese. «La Sharing Economy è da anni un tema caldissimo: una semplice ricerca su Google dà oltre 18 milioni di risultati. E muove enormi volumi di denaro: molte startup sono diventate unicorni - Uber, Didi, Airbnb, Lyft, BlaBlaCar - e in tutto abbiamo rilevato investimenti di oltre 4 miliardi di dollari in 195 startup, di cui 26 italiane che hanno raccolto 23 milioni di dollari». Delle italiane, la più finanziata è Supermercato24 (oltre 5 milioni), seguita da ProntoPro (servizi professionali occasionali) con 3,7 milioni, e Moovenda (consegna di cibo a domicilio) con 2,2
OSS E R VATOR I O | S HAR I NG E CONOM Y, V E RDE T T O IN SO SP E SO : E RE DE DE L C A P ITA L ISMO O MO DA E F F IME R A ?
LA DEFINIZIONE DI “DIGITALLY ENABLED SHARING ECONOMY”
milioni. La Sharing Economy è cresciuta tantissimo in pochi anni, ramificandosi in molte accezioni - collaborative economy, economy ondemand, collaborative consumption, gig economy, platform capitalism – e generando decine di studi e definizioni, alla confluenza di tre aree di ricerca: sistemi informativi, management, e psicologia del consumatore, ha detto Ghezzi. L’obiettivo del team del Politecnico era inquadrare il fenomeno Sharing Economy, definirlo, classificarlo in funzione di una serie di variabili, e mappare i casi rilevanti. «Abbiamo individuato come concetti di base la fruizione senza possesso (non-ownership consumption) e lo scambio peer-to-peer, e come fattori abilitanti le tecnologie digitali (mobile, piattaforme online di incontro domanda-offerta) e la crisi economica, che spinge a cercare nuove fonti di reddito e a saturare asset sfruttati solo in parte. I benefici più frequenti sono flessibilità, risparmi di costo, tempo e spazio, nuove fonti di reddito, interazioni umane, e sostenibilità ambientale».
Il team si è concentrato sui modelli di Sharing Economy basati su tecnologie digitali, sintetizzando una definizione di Digitally Enabled Sharing Economy che parla di accesso di singoli e aziende, attraverso piattaforme tecnologiche, alla fruizione, condivisione e scambio di beni e servizi non necessariamente posseduti, con compenso monetario o non. Nella pratica esistono molti modelli che si collocano tra due estremi: il “pure sharing”, senza ritorni economici, e l’economic exchange, in cui ciascuna delle parti si aspetta un ritorno e spesso c’è un cambio di proprietà. Il team ha individuato 5 modelli principali: il più diffuso è lo “Pseudo Sharing”, in cui la piattaforma possiede l’asset (esempi: Ofo, Enjoy), che concentra il 73% dei 4 miliardi di dollari citati sopra. Gli altri sono “Gig Economy” (Uber, Supermercato24), con offerta di servizi su piattaforme di sola intermediazione, “Servizi professionali”, con ruoli non interscambiabili (esempi: BeMyEye, Mathesia), “Pooling Economy” (offerta di pacchetti di prodotti, servizi ed experience su piattaforme solo matching, esempi: BlaBlaCar, Airbnb), e “P2P Lending” (esempi: Liquidspace, Vrumi), con offerta tra pari di asset non saturi, come spazi di lavoro e attrezzature sportive. «È solo un primo tentativo di classificazione formale – ha sottolineato Ghezzi -, ma riteniamo che la Sharing Economy, essendo il risultato di diversi macrotrend di business, tecnologici, sociali, sia un fenomeno duraturo. Proprio per la sua natura complessa e dirompente, è fondamentale continuare a tracciarne gli impatti nel tempo». «ECONOMIA DEI LAVORETTI, MA NON SONO IMPRENDITORI» Il secondo intervento è stato di Fabio Sdogati, professore di Economia Internazionale del Politecnico di Milano: «La questione cruciale è capire se la Sharing Economy sia una moda o l’inizio di una transizione a un sistema socioeconomico diverso dal capitalismo. Una transizione che nascerebbe dal passaggio epocale della priorità del consumatore dalla proprietà all’accesso. Passaggio che però è avvenuto durante la crisi economica, in parallelo con la caduta dei redditi della classe media. In Italia il reddito procapite è inferiore a www.digital4executive.it
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O SSERVATORI O | SHAR I NG E CONOM Y, V E R D E T T O I N S O SP E SO : E RE DE DE L C A P ITA L ISMO O MO DA E F F IME RA ?
11 anni fa. È inevitabile chiedersi quanto questa caduta abbia inciso». Nei paesi ad alto reddito, continua Sdogati, l’economia non cresce per carenza di domanda e di spesa pubblica, perché i governi sono paralizzati dal pareggio di bilancio. Quindi c’è un eccesso d’offerta: di immobili, di capacità produttiva, e di lavoro. «Molti cercano di rimediare sfruttando la propria dotazione di beni mobili e immobili, conoscenze e competenze. È l’economia dei “lavoretti” o gig economy, ma la definizione di “imprenditori di se stessi” non ha senso: chi ha due case e ne affitta una a giornate non è un imprenditore, e chi fa consegne a domicilio non è un imprenditore solo perché usa la sua bicicletta». Quelli che invece sono i veri imprenditori di ultima generazione hanno creato le imprese della Sharing Economy: imprese che – con il supporto decisivo delle tecnologie - risolvono problemi nuovi, prima mai posti. «Però di “sharing”, di condivisione, non c’è niente: questi sono intermediari di scambi economici tra consumatori che non si conoscono, per l’accesso ai beni di altri o a servizi. Io questo lo chiamo affitto o noleggio, anche se a breve termine». Queste nuove imprese capitalistiche per Sdogati hanno due caratteristiche negative per la salute dell’economia nel lungo termine. «La prima è che non producono: intermediano e distribuiscono. Snaturandosi in parte, il capitalismo reagisce alla crisi della produzione e alla stagnazione della produttività passando da modo di produzione di ricchezza, a modo di trasferimento di ricchezza. Un trasferimento, però, da chi non ha verso chi ha.
Guardiamo Airbnb: è un passaggio di ricchezza da chi non ha una casa in una certa città a chi ha due case in quella città. Questa “redistribuzione al contrario” è coerente con le diseguaglianze sociali crescenti di cui molti economisti parlano con forte preoccupazione, perché distruggono la classe media e riducono la propensione marginale al consumo». «L’IMPRESA VEDE DIMINUIRE DRASTICAMENTE IL SUO RUOLO» La seconda caratteristica negativa è la bassa capitalizzazione. «Tipicamente gli asset di queste realtà sono qualche decina di computer. La domanda di beni capitali cade. Hanno poi un basso numero di dipendenti, anche se danno lavoro a molte persone. Questo è un grande problema. L’impresa è sempre stata vista come il cuore dell’economia, ma in questi nuovi modelli vede fortemente diminuire il suo ruolo». In conclusione quindi per Sdogati la Sharing Economy nasce dall’interazione tra le esigenze di questa nuova generazione di imprese capitalistiche e l’economia “dei lavoretti”. «Si dice che il passaggio da proprietà ad accesso nasca da un cambiamento strutturale delle preferenze dei giovani, a cui non interessa più possedere la musica, l’auto, la casa. Ma se questi giovani non generano domanda di beni da possedere, tra 20-30 anni si troveranno senza beni da usare per integrare un sistema di welfare che probabilmente non sarà generoso con loro. È chiaro che questa tendenza non è sostenibile nel lungo termine, quindi è da monitorare e studiare con continuità».
I CINQUE MODELLI DELLA SHARING ECONOMY
Fonte: Osservatori Digital Innovation, Politecnico di Milano
Model
Tangibility Level
Number of sides
Actors type
Sharing Vocation
Pricing Structure
Examples
Pseudo Sharing
High (goods)
2 sides sharing
B2C
Low (one to many, roles not exchangeable)
Consumption fee, flat subscr. rate, subscripion + consumpt. fee
Enjoy, Car2Go, Ofo, Mobike
Gig Economy
Low (services)
2 sides sharing
C2C, B2B
High (many to many, exchangeable roles)
Consumption fee, flat subscr. rate
Supermercato24, Uber, Glovo
Professional services
Low (services)
2 sides sharing OR 2 sides sharing + 1 not sharing
B2B, C2B, B2C
Medium (many to many, roles not exchangeable)
Consumption fee, flat subscr. rate
Mathesia, BeMyEye, Fazland, Shippify
Pooling Economy
Medium (product-service bundles)
2 sides sharing
C2C
High (many to many, exchangeable roles)
Consumption fee, flat subscr. rate
BlaBlaCar, Airbnb, Couchsurfing, Boatflex
p2p Lending
High (goods)
2 sides sharing
C2C, B2B, B2C, C2B
High (many to many, exchangeable roles)
Consumption fee
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Liquidspace, Vrumi, Paladin, Sharewood
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Sharing Economy in Italia, parlano Enjoy, BlaBlaCar, e Supermercato24 Tre leader del mercato spiegano i loro modelli in forte crescita: «L’obiettivo è rispondere a esigenze insoddisfatte e adattarsi a sviluppi inattesi, non sta a noi analizzare l’impatto sociale». Terranova (Cgil): non è la fine del lavoro, ma una profonda trasformazione Nella seconda parte dell’evento Sharing Economy degli Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano sono intervenuti alcuni dei protagonisti di questo mercato. «Enjoy è arrivata a oltre 15 milioni di noleggi con 715mila iscritti in 4 anni e mezzo: molto oltre le previsioni – ha detto Giuseppe Macchia, Responsabile Smart Mobility Services di Eni Fuel -. Il digitale è decisivo, senza lo smartphone non esisteremmo. I nuovi iscritti sono 500-600 al giorno: all’inizio erano giovani senza auto di proprietà, come previsto, poi si sono aggiunti i genitori, che hanno verificato la facilità del servizio e lo usano in altre città, ma anche nella propria, per entrare nelle ZTL. Ora il target è chi vive in una grande città e ha esigenze di mobilità, 9 milioni di persone secondo le ricerche di mercato: le opportunità sono enormi». Supermercato24 è un servizio di spesa online e consegna a casa in giornata. «Copriamo l’esigenza di molti consumatori, ma anche dei retailer che vogliono aprire un canale online con poco rischio e investimento – spiega l’AD Federico Sargenti -. In Italia l’eCommerce del Food è agli albori: Milano è un caso a sè, chi vive in provincia raramente ha un servizio di spesa online a disposizione, ai retailer alimentari classici non conviene economicamente, ma con noi possono attivarlo usando il punto vendita fisico come magazzino. Non investiamo in asset fisici ma in persone, software, sviluppo: siamo 50, di cui 20 sviluppatori». BlaBlaCar opera nel pooling, una piccola porzione della Sharing Economy, ma ha oltre 60 milioni di iscritti in 22 paesi, di cui 3 milioni in Italia, sottolinea il country manager Andrea Saviane. «L’idea di condividere l’auto esiste da sempre, abbiamo sfruttato momento storico e tecnologie per “massificare” questa tendenza semplificando l’organizzazione, e coprendo una domanda di mobilità insoddisfatta, tra città non ben collegate. Abbiamo puntato sulla sicurezza con profili, recensioni, e un meccanismo di prenotazione che garantisce la transazione. I conducenti sono diversi dai passeggeri, hanno età più alta (35-50
anni contro 30). Il passeggero sceglie BlaBlaCar perché è l’opzione più comoda, non perché costa meno. L’intensità d’investimento è bassa, ed è soprattutto in persone, marketing, ricerca e sviluppo». All’evento a rappresentare il mondo del lavoro c’era Paolo Terranova, Presidente di Agenquadri Cgil. «Non credo che la Sharing Economy sia la fine del lavoro, ma è una profonda trasformazione. Non sono ancora emerse alternative al lavoro dipendente come principale fonte di reddito e anche di emancipazione sociale. Lavoro, studio e ceto medio nel ‘900 hanno tenuto in piedi le democrazie occidentali, ora occorre evitare di creare differenze sociali ed economiche incolmabili». Le valutazioni sull’impatto sociale della Sharing Economy però non toccano alle imprese, concordano i tre manager. «Sul ruolo sociale non mi pronuncio – ha detto Sargenti -: l’obiettivo di una startup è rispondere a un’esigenza scoperta, e poi adattarsi agli sviluppi, per esempio noi ci aspettavamo i millennial come clienti e invece il 75% è over 35, e abbiamo anche bar e conventi». «Noi per Eni siamo innovazione attraverso la diversificazione. Pochi giorni fa abbiamo aggiunto il trasporto di cose (cargo) – spiega Macchia -. Vediamo i cambiamenti nelle abitudini delle persone, faccio uno dei tanti esempi che potrei fare: quattro ragazze hanno voluto macchine Enjoy per i loro matrimoni. Ma non sta a noi tirare conclusioni». Perfettamente in linea Saviane: «Non sono in grado di leggere il fenomeno in ottica sociale. Non stiamo cambiando il mondo, ma grazie a noi ci sono meno auto in circolazione e l’ambiente ne beneficia». È una fase di transizione, da gestire con grande attenzione, ha concluso Terranova: «C’è tantissimo lavoro ma sono lavoretti con cui si vive appena, in un’incertezza che riduce la propensione al consumo e a investire sul futuro. E se cala la domanda, anche per l’innovazione ci saranno sempre meno risorse. Difficilmente il modello del reddito minimo garantito sarà la soluzione: non credo possa reggere nel lungo periodo». www.digital4executive.it
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INTERVISTA di
DANIELE LAZZARIN
Made in Italy,quando il cambio di ERP incarna la nuova visione aziendale Eltek Group, multinazionale piemontese della meccatronica con impianti in tre continenti, ha sfruttato il Piano Industria 4.0 per adottare un sistema integrato internazionale che copre tutti i processi, dall’amministrazione alla gestione della produzione. «La proprietà lo considera un progetto strategico, occasione di crescita per tutto il gruppo», spiega Paolo Valle, Controller e ICT Manager
Una “multinazionale tascabile” italiana della meccatronica in forte espansione, un ICT Manager che è anche Controller, e il Piano Industria 4.0: questi i protagonisti del piano che il Gruppo Eltek sta portando avanti per sostituire il sistema gestionale AS400 in uso da oltre vent’anni con SAP S/4HANA, l’ultima generazione del sistema ERP del colosso tedesco del software. Abbiamo chiesto a Paolo Valle, che appunto è Controller e ICT Manager del Gruppo Eltek, di raccontarci questo progetto. Eltek Group è specializzata nella ricerca, progettazione e produzione di componenti meccatronici, cioè stampi, elettronica, ingegneria di linee di produzione semi o completamente automatiche con capacità da piccole serie a milioni di pezzi all’anno. La produzione si è rivolta per anni ai settori elettrodomestici e automobilistico, poi recentemente ha ampliato l’ambito anche all’industria biomedicale e alla ricerca avanzata nelle nano-biotecnologie. Oltre all’impianto originario di Casale Monferrato, dove ha anche la sede centrale, il Gruppo | 24 |
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comprende ulteriori 5 stabilimenti produttivi e due uffici commerciali in tre diversi continenti. Attualmente Eltek è strutturata in tre business unit (Appliance, Automotive e Medical). Il fatturato consolidato è di circa 200 milioni di euro, le risorse sono circa 1600, di cui la metà in Italia. «Stiamo realizzando un “core model” che poi sarà esteso a quattro aziende del gruppo: la sede italiana farà il go-live nel 2019, poi sarà la volta di Svizzera, Polonia e Cina, una country ogni sei mesi – ci spiega Valle -. Il piano prevede l’adozione in Eltek di SAP S/4HANA con tutti i moduli principali, tra cui SD, FI, CO, MM, produzione e manutenzione, integrando la gestione della produzione e della manutenzione fino alla schedulazione a capacità finita». «IL SISTEMA AS400 NON È PIÙ IN GRADO DI SUPPORTARE IL BUSINESS» Il fatto che il progetto ricada nell’ambito del Piano Industria 4.0 è una felice combinazione,
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quasi tutte nel perimetro del sistema SAP. Eltek ha scelto SAP nell’aprile 2017, dopo una valutazione che ha coinvolto altri due ERP di fascia Enterprise. «Ci hanno convinto soprattutto la copertura funzionale e ricchezza di funzionalità, la penetrazione in ambito manifatturiero e le referenze del nostro settore, e il livello di supporto e assistenza in Italia su cui potremo contare dopo la fine del progetto: questi benefici sopravanzano i maggiori costi», spiega Valle. La firma del contratto per 300 licenze risale a fine novembre 2017 per un primo kick-off interno a gennaio 2018. Non è un’implementazione limitata agli aspetti amministrativi, in quanto coinvolge attivamente la produzione. «Ci sono alcune funzionalità semplici che saranno a disposizione di un numero relativamente alto di persone. Per esempio la RDA, richiesta preliminare d’acquisto da inoltrare all’ufficio acquisti, è una funzione già oggi molto distribuita. Stesso discorso per la consuntivazione di produzione: nei vari reparti produttivi potrà avere un numero importante di utenti anche se è una funzione molto circoscritta». PERSONALIZZAZIONI DA LIMITARE: 15-20% AL MASSIMO
continua Valle, «ma il percorso di valutazione di un sistema ERP integrato internazionale era già in corso, perché il crescere del gruppo ha aumentato anche la complessità, e il sistema che abbiamo iniziava a mostrare limiti anche per l’età: pur avendo fatto della manutenzione evolutiva, non è più in grado di supportare alcune richieste del business, per esempio la distribuzione internazionale, la gestione contabile e fiscale in diversi paesi, gli scambi intercompany da gestire in modo strutturato, le personalizzazioni richieste dai clienti». La copertura funzionale non è una particolare criticità («quella del sistema in sostituzione è ampia, l’integrazione tra i moduli è di buon livello, anche se inferiore ai moderni ERP, ed è più che sufficiente per gestire una produzione “normale”»), però il gestionale attuale è completato da moduli di contorno – uno per il controllo qualità, uno per la schedulazione di produzione, uno per Business Intelligence e Corporate Performance Management – le cui funzioni saranno assorbite
Attualmente il progetto è in fase di configurazione. «Il team di lavoro comprende personale interno e del partner (Altea, ndr) e sta gestendo il progetto con metodologie Agile (Sprint), che ci PAOLO VALLE CONTROLLER E ICT MANAGER ELTEK GROUP
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«Questo è sempre stato definito un progetto organizzativo e strategico per l’azienda: sono sempre stati coinvolti i process owner di business nelle decisioni, senza lasciarle solo all’IT»
consentono di testare già a sistema le funzionalità aggiunte con i vari rilasci, mentre la logica “waterfall” prevede fasi molto più compartimentate, e il sistema in funzione si testa solo alla fine, con il rischio di scoprire che quanto realizzato non sia totalmente coerente con quanto atteso». Uno degli obiettivi del team di progetto è limitare le personalizzazioni: «Anche se ci sono problematiche specifiche Eltek che richiedono sviluppi ad hoc, il punto di riferimento sono le best practice di SAP. Stiamo verificando: qualcosa ci sarà da fare, ma cercheremo di restare sotto il 15-20% di personalizzazione (la percentuale indica le giornate uomo in più di quelle pianificate, ndr) che in questo tipo di progetti è fisiologico, sia per contenere i costi, sia per semplificare la portabilità del sistema verso le versioni successive». L’OBIETTIVO È FAR DIALOGARE GESTIONE DELLA PRODUZIONE E MACCHINA Quanto al Piano Industria 4.0, Eltek ha utilizzato gli incentivi per una parte delle attività di progetto e del software SAP, quella che riguarda strettamente la produzione e integrazione con le macchine, precisa Valle. «Integrazione che parzialmente avevamo già, stiamo lavorando soprattutto sulla bidirezionalità, che per noi farà la differenza. Avevamo già sistemi MES connessi in produzione, ma soprattutto per il monitoraggio: non parlavamo con le macchine, non davamo ordini. Adesso – sia per rispettare i requisiti del piano Industria 4.0, sia per introdurre innovazione – ci spingeremo più in là per poter inviare parametri macchina: ci sarà un dialogo bidirezionale tra macchina e gestione della produzione». L’azienda ha anche valutato se sfruttare gli incentivi per nuove soluzioni di raccolta di dati di produzione sul campo, racconta Valle, «però abbiamo già sistemi per questo scopo, e in questa fase non saremmo riusciti a sostenere anche questo investimento, ma può essere un’idea per il futuro. Invece al di fuori dell’ambito produzione stiamo anche sostituendo la parte di Business Intelligence e di budgeting (le soluzioni sono SAP BW-Business Warehouse e SAP | 26 |
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BPC-Business Planning Consolidation, ndr)». Il progetto del nuovo ERP, sottolinea Valle, incarna in Eltek una nuova visione dell’azienda: «È un’occasione di crescita di tutto il gruppo, di revisione dei processi, e stiamo puntando anche molto sul change management». Per questo è promosso dal top management fin dall’inizio. «Questo gruppo è a proprietà familiare, della famiglia fanno parte l’AD che è l’azionista di riferimento, e il direttore della supply chain. La proposta è stata da loro condivisa da subito, coinvolgendo tutti i manager. È sempre stato definito un progetto non della sola IT ma organizzativo e strategico per l’azienda, coinvolgendo di conseguenza i process owner di business nelle decisioni di progetto senza lasciarle solo all’IT». L’EFFETTO DEL DOPPIO RUOLO CONTROLLER-ICT MANAGER Il fatto che il promotore del progetto oltre a essere ICT Manager è anche Controller in un certo senso ne ha facilitato il cammino, riconosce Valle. «La mia origine è nell’ICT, poi la carica di Controller si è aggiunta grazie all’esperienza di gestione dei progetti e dei sistemi, che ha interessato sempre più anche il lato organizzativo e quello economico». Ovviamente tutto l’iter di proposta e approvazione presuppone un continuo confronto con il CFO («che in Eltek ha focus soprattutto sull’area fiscale e finanziaria»), ma durante il progetto tenere le fila dell’allineamento di funzioni, moduli e processi è importante, e non ci si può affidare solo al partner, sottolinea Valle. «E introdurre anche un’ottica di “controllo di gestione” aiuta, e a volte è necessaria, perché ogni evento, ogni attività all’interno del sistema ha un effetto sui costi, su come si vogliono gestire, un effetto “contabile” che è importante rilevare in modo corretto. Per esempio se ho un ordine di acquisto, è importante sapere come compro un prodotto, se mi arriva per tempo, e cioè tutte le sue ripercussioni operative, ma è anche importante cercare di prevedere i suoi impatti sui costi, sul cash flow, e sul conto economico fin dalla configurazione del sistema».
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Kasanova trasforma marketing e logistica: «Digitale inevitabile per il futuro del retail» L’obiettivo della Digital Marketing Strategy è offrire ai negozi in franchising e ai consumatori servizi integrati omni-canale, quello del Distribution Network Redesign è riconfigurare la supply chain sia in ottica di rete fisica che di gestione e copertura software. Ce ne parlano Mario Brambilla (Presidente), Stefano Cudicio (CIO) e Umberto Martino (Supply Chain Manager)
Difficile pensare a un business più tradizionale del retail di prodotti casalinghi e articoli per la casa, ma anche qui la trasformazione digitale può permettere salti di qualità e vantaggi competitivi decisivi. Su questa convinzione si basa il piano industriale di Kasanova, caso da manuale di impresa familiare italiana tra i leader del settore. Piano che prevede anche due progetti a forte vocazione tecnologica, uno di Marketing e uno di Logistica, di cui abbiamo parlato con Mario Brambilla (Presidente), Stefano Cudicio (CIO) e Umberto Martino (Supply Chain Manager). Più in dettaglio la Digital Marketing Strategy ha l’obiettivo di offrire ai clienti (negozi in franchising e consumatori) servizi integrati in ottica omni-canale, reingegnerizzando i processi coinvolti (Marketing, Logistica, IT, Amministrazione, Risorse Umane, ecc.), e prevede tra l’altro la revisione della strategia eCommerce e l’adozione di una piattaforma CRM. Il Progetto Distribution Network Redesign ha in| 28 |
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vece l’obiettivo di realizzare una gestione integrata della supply chain per ottimizzare il trade-off tra costi logistici vivi (warehousing e trasporto in primis), costi opportunità (capitale circolante, obsolescenza) e livello di servizio a punti vendita e consumatori. E prevede la riconfigurazione della supply chain a due livelli. Il primo è strutturale: numero, posizione e caratteristiche degli hub logistici, loro proprietà, modalità di trasporto, tecnologie operative di handling/storage, imballi di prodotto. Il secondo è gestionale: logiche d’allocazione, pianificazione dei flussi di materiali (dalla previsione alla gestione degli acquisti), sistemi informativi, e loro grado di copertura dei processi gestionali. «LA RICETTA CHE CI HA PORTATO A 300 NON È QUELLA CHE CI PORTERÀ A 600» «Entrambi i progetti fanno parte di una strategia che prevede forti investimenti sulle tecnologie
INTERVISTA | KASANOVA TRASFORMA MARKETING E LOGISTICA: «DIGITALE INEVITABILE PER IL FUTURO DEL RETAIL»
experience integrate, in pratica l’omnicanalità». Negli ultimi cinque anni, continua Brambilla, Kasanova è cresciuta da 100 a 300 milioni di euro di fatturato, «ma la ricetta che ci ha portato qui non può essere quella che ci porterà a 600 milioni: la stessa presenza di un CIO e di un Supply Chain Manager (figura quest’ultima introdotta in azienda all’inizio del 2018, con l’arrivo appunto di Martino, ndr) dimostra che Kasanova, dopo decenni di conduzione totalmente familiare si sta strutturando e “managerializzando”. In questo caso specifico, per definire le strategie di realizzazione del piano industriale nelle aree marketing e supply chain, ci siamo fatti aiutare rispettivamente da Partners4Innovation e IQ Consulting (entrambe del gruppo Digital360, di cui fa parte anche la nostra testata Digital4Executive, ndr)». «IL CRM NON SARÀ SOLO UN DATA BASE DELLE INFORMAZIONI SUI CLIENTI»
digitali, che sono inevitabili nel progettare il futuro di un’impresa di retail – spiega il Presidente Mario Brambilla -. L’eCommerce nel commercio al dettaglio ha quote già importanti e in crescita, anche nel nostro settore, ma non eliminerà i negozi fisici: per questo occorre realizzare delle customer
Per quanto riguarda il marketing, spiega il CIO Stefano Cudicio, «siamo partiti da un’analisi competitiva del nostro settore merceologico, che ha confermato il forte tasso di crescita dell’eCommerce, poi abbiamo fatto delle interviste per verificare la percezione del brand nei consumatori. Abbiamo individuato le tecnologie abilitanti per gli obiettivi fissati, e definito un piano operativo che per alcune componenti è già in corso, per esempio la revisione completa della piattaforma eCommerce, il cui rilascio è imminente, e la realizzazione di servizi cross-canale». Il prossimo passo sarà l’integrazione nei sistemi
Da sinistra: Mario Brambilla (Presidente), Umberto Martino (Supply Chain Manager), e Stefano Cudicio (CIO) di Kasanova
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«La nomina di due esperti nel ruolo di CIO e di Supply Chain Manager dimostra che Kasanova, dopo decenni di conduzione totalmente familiare si sta strutturando e “managerializzando”»
informativi di Kasanova di un sistema di Customer Relationship Management (CRM): «Sarà il centro dell’architettura, connesso immediatamente con la piattaforma eCommerce, e quindi con i sistemi di punto vendita per implementare un sistema di loyalty, con tessere o app, che entrerà in funzione prima sul web e poi nei punti vendita». I servizi cross-channel, continua Cudicio, danno l’opportunità di sfruttare un punto di forza unico di Kasanova: la capillarità su tutto il territorio italiano dei 350 punti vendita, dove i clienti possono ritirare gli acquisti eCommerce, o pagare e ritirare prodotti prenotati via web, o ordinare in negozio articoli che non sono in assortimento in quel negozio e riceverli a casa. «Quest’ultimo servizio si chiama Shop & Dely, l’abbiamo sperimentato in estate per la vendita
Fatturato triplicato in cinque anni: da 100 a 300 milioni di euro Kasanova nasce nel 1968 come F.lli Fontana srl, con sede ad Arcore (Milano). Nella sua prima fase opera come grossista per i dettaglianti di articoli per la casa, con un’ampia gamma di prodotti di livello medio e medio-basso. Nel 1994 c’è la svolta con il lancio del franchising, che si rivela una formula vincente per il settore, grazie anche a un originale sistema di lista nozze con ritiro degli articoli in qualsiasi punto vendita sul territorio. Negli anni 2000 l’azienda cambia immagine e scelte commerciali per offrire prodotti e servizi sempre al passo con i tempi. Percorso che culmina nel 2016 con il cambio di nome da F.lli Fontana Srl a Kasanova SpA e la nomina di Maurizio Ghidelli (in azienda dal 1994) ad Amministratore Delegato. Oggi i negozi sono oltre 350 tra diretti ed affiliati: distribuiti su tutto il territorio italiano con i marchi Kasanova, Kasanova+, Co.Import, L’Outlet del Kasalingo, Italian Factory, Kikke e La Casa sull’albero, vendono servizi di piatti, bicchieri, posate, piccoli elettrodomestici, utensili per la cucina e casalinghi. Il fatturato è triplicato (da 100 a 300 milioni di euro) negli ultimi 5 anni. I dipendenti sono oltre 1700, con età media 33 anni. Il quartiere generale è tuttora ad Arcore, dove lavorano più di 170 persone.
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delle biciclette elettriche E-mootika, e a breve verrà esteso a quasi tutte le categorie merceologiche». Quanto al sistema CRM, il fornitore e la piattaforma tecnologica sono già stati selezionati: «Non intendiamo usarlo solo come data repository dei dati dei clienti, ma anche come fonte dati per attivare tutte le azioni di marketing automation». Una volta terminata questa fase del progetto eCommerce, servizi cross-channel e CRM -, il passo successivo, sottolinea Cudicio, riguarderà nel 2020 le tecnologie per i punti vendita. «IL CONTROLLO SUI PROCESSI DI HANDLING E TRASPORTO È INDISPENSABILE» Del progetto Distribution Network Redesign ci ha parlato invece il Supply Chain Manager Umberto Martino. «Siamo partiti da un quadro iniziale di logistica operativa con diversi piccoli depositi , quasi tutti situati in Lombardia, che devono servire negozi distribuiti in tutta Italia. Una situazione che, vista la forte crescita dei volumi negli ultimi anni, non riusciva più a garantire i livelli di efficienza necessari per gli obiettivi economici e di livello di servizio in cui si concretizza la cultura centrata sul cliente di Kasanova». L’azienda ha quindi analizzato tutti i processi, dal fornitore alla consegna, valutando diverse soluzioni alternative. «La conclusione è che la soluzione che ci consentirebbe di conciliare al meglio velocità di servizio e costi logistici e di trasporto prevede due poli logistici, uno a Nord e uno a Sud». Un polo al Nord non significa che fisicamente ci sarà un solo centro, precisa Brambilla, perché si può creare un unico polo “logico” collegando in rete diversi magazzini attraverso i sistemi informativi: «Il sistema informativo logistico di Kasanova sarà il collante di tutto il modello, perché ci consente di controllare i processi e di avere il dominio delle informazioni. I partner logistici sono già integrati con i nostri sistemi, questa è sempre stata una condizione irrinunciabile: per mettere in
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«Il sistema informativo logistico di Kasanova sarà il collante di tutto il modello, perché ci consente di avere il dominio delle informazioni. I partner logistici sono già integrati con i nostri sistemi»
pratica una cultura di centralità del cliente, che sia questo il consumatore o il punto vendita, mantenere il controllo sui processi di handling e trasporto per noi è indispensabile». TECNOLOGIE: IL PUNTO DI RIFERIMENTO È IL “MAGAZZINO 4.0” A CORBETTA Quindi questa prima fase si è concentrata soprattutto sulla rete di distribuzione, continua Martino, ma l’ambito del progetto è la catena di fornitura nella sua completezza. «È importante agire su leve di supply chain management perché il 70% dei prodotti consegnati nei nostri depositi con marchio Kasanova provengono da tutto il mondo, e questo implica lead time lunghi e volumi importanti per la singola consegna, e quindi alti livelli di stock per noi». Un fronte di ottimizzazione sono le attività di handling, dove una decisione importante è se lavorare a pezzo, a collo, a pallet. «Vista l’alta priorità che diamo al servizio al cliente, e il fatto che non sempre il negozio ha un magazzino, un’opzione è servire il negozio anche a singolo pezzo, non solo a collo o a pallet. Quindi non solo dobbiamo rifornire il negozio il più velocemente possibile, ma anche con un packaging “user-friendly” che permetta al commesso di mettere il prodotto subito e facilmente sullo scaffale». Altro fronte è quello dei trasporti, dove, sottolinea Martino, si evidenzia il legame tra i progetti di marketing e di logistica: «Omnicanalità significa gestire acquisti in negozio, o sul sito web, e consegnarli a casa, e questo richiede di creare un’infrastruttura logistica adeguata, basata su una stretta collaborazione e una forte integrazione con i nostri partner logistici. Partner che magari ci possono garantire anche la preparazione della merce, o addirittura la gestione logistica completa di almeno una parte dei prodotti importati da tutto il mondo, senza farli passare fisicamente dai nostri depositi». Per quanto riguarda le tecnologie più innovative e i sistemi informativi, il punto di riferimento
dell’intero progetto è il magazzino Kasanova di Corbetta presso Milano, spiega Cudicio. «È un impianto che possiamo definire di “logistica 4.0”, perché il sistema logistico è completamente integrato con quello informativo, con utilizzo di tecnologie di Internet of Things e di geolocalizzazione in tempo reale. È il secondo in Italia che combina una tecnologia semi-automatica per la gestione dei canali di stoccaggio multiprofondità, con un sistema di guida assistita a bordo dei mezzi di movimentazione, che sono geolocalizzati in tempo reale. Ed è il primo in assoluto che ha anche integrato un sistema di stock intensivo. Già adesso garantisce prestazioni che abbiamo fissato come riferimento per tarare il modello del futuro sistema logistico, e ci permette di sperimentare sul campo le altre tecnologie che valutiamo di introdurre».
«Kasanova non ha cercato scorciatoie» Per concretizzare le indicazioni del piano industriale nelle aree marketing e supply chain, Kasanova si è fatta supportare da Partners4Innovation e IQ Consulting, entrambe parte del gruppo Digital360 (di cui fa parte anche la nostra testata Digital4Executive, ndr). Così Giovanni Miragliotta, fondatore e senior partner di IQ Consulting, commenta così il progetto Digital Marketing Strategy: «Non di rado capita che, di fronte a grandi cambiamenti, diverse divisioni di un’azienda si muovano in modo poco coordinato, dando priorità a urgenze o a scelte tattiche, senza la giusta visione strategica. Così non è stato in Kasanova: il ridisegno Omnicanale è stato fatto pensando alle opportunità offerte da una rete distributiva capillare, ed il ridisegno della rete logistica è stato fatto per potenziare l’esperienza omnicanale». Quanto al progetto Distribution Nework Redesign, continua Miragliotta, «la progettazione di una rete di distribuzione è questione di dati: dati di costo, dati logistici, dati di domanda. Kasanova non ha cercato scorciatoie, investendo una ampia parte del progetto, ed inserendo una nuova figura, proprio per acquisire e completare il patrimonio informativo indispensabile per un buon progetto. Sono servite diverse settimane, ma ora c’è una buona confidenza sull’accuratezza dei modelli nell’esplorazione del trade off costo-servizio, e sulle aspettative di miglioramento».
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DIGITAL TRANSFORMATION - MARKETING di
MANUELA GIANNI
User Experience Design per aumentare la propensione all’acquisto: il caso Technogym Investire nella User Experience porta valore al business: lo conferma uno studio della multinazionale italiana del fitness, realizzato su un tapis roulant che integra un tablet per offrire un’esperienza di allenamento in ottica digitale. I risultati mostrano che gli utenti che hanno percepito una migliore UX sono disponibili a pagare un prezzo maggiore e a suggerire il prodotto ad altri
Gli investimenti nel design di esperienze, ovvero nello User Experience Design (UX), sono diventati oggi determinanti per il successo in ogni business. Roman Nurik, Designer e Design Advocate di Google, sostiene che la User Experience sia la discriminante tra le aziende che continuano a crescere e quelle che invece sono destinate al fallimento: una tesi che, a una prima analisi può sembrare, troppo forte ma che è sostenuta da altri visionari come Jeff Bezos o Steve Jobs e comincia ad essere supportata anche da diverse ricerche scientifiche. INVESTIRE NELLO USER EXPERIENCE DESIGN PER LA CRESCITA DEL BUSINESS Molti studi confermano infatti che la User Experience (e per estensione la Customer Experience) non è più solo un elemento competitivo che fa emergere rispetto alla media dei competitors; è diventata una condizione necessaria per la sopravvivenza e un presupposto per la crescita. Secondo | 32 |
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il Baymard Institute, il 35% delle vendite perse sul canale eCommerce sono riconducibili a una UX insoddisfacente. Considerando un mercato che si stima varrà 4 trilioni di dollari entro il 2020 (eMarketer, 2016) stiamo parlando di un’opportunità di circa 1.420 miliardi di dollari, quanto il PIL nominale dell’intera Spagna. Eppure spesso le aziende dedicano scarse risorse allo User Experience Design, perché lo ritengono un investimento a ritorno nullo o addirittura negativo, oppure perché poco convinte del reale effetto positivo sulle prestazioni interne, come il tempo di sviluppo di un nuovo prodotto, o esterne, come le vendite. Sebbene esistano numerosi report che studiano la relazione che intercorre tra gli investimenti nel miglioramento della UX e i ritorni economici che ne derivano, in termini di vendite, di Willingness-topay o di profitto (ROI), vi è tuttavia poca evidenza statistica che esista una reale correlazione tra la propensione all’acquisto e la migliore User Experience di un prodotto o servizio.
DIGITAL TRANSFORMATION - MARKETING | USER EXPERIENCE DESIGN: IL CASO TECHNOGYM
L’IMPATTO DELLO UX DESIGN: IL CASO TECHNOGYM Verificare la reale correlazione tra la propensione all’acquisto e lo User Experience Design su un prodotto o servizio è proprio l’obiettivo che si è posto un studio realizzato per Technogym all’interno di una nuova strategia Human-Centred Design. La nota multinazionale, leader nel settore delle soluzioni Fitness e Wellness ha condotto la ricerca in collaborazione con Ergoproject S.r.l. e il laboratorio di Eye-Tracking del Dipartimento di Psicologia di Sapienza Università di Roma, verificando che esiste effettivamente una relazione positiva tra una miglior User Experience e la “Buying Intention”. A tal fine è stato selezionato un campione, diversificato per età e sesso, di 23 persone che, su base volontaria, ha provato in anteprima un modello di Tapis roulant di Technogym. Questo, oltre alle normali funzionalità (es. regolare velocità, inclinazione), è dotato di uno spazio apposito in
cui inserire il tablet per connettersi all’applicazione MyRun che permette di definire un programma di allenamento, monitorarlo, associandovi la musica adatta al ritmo a cui si sta correndo, e dando la possibilità di condividere l’esperienza con i vari canali Social. L’innovazione del prodotto, quindi, passa dalla riprogettazione dell’esperienza di allenamento in ottica digitale e secondo i canoni del nuovo paradigma di “Smart Gym” (letteralmente “Palestra Intelligente”). I 23 utenti hanno provato il prodotto durante un breve allenamento che prevedeva d’impostare e avviare la sessione, controllare la propria andatura e concludere con un defaticamento. Una volta terminata la fase di interazione con il prodotto, sono stati somministrati dei questionari che hanno permesso di ottenere degli indicatori in grado di misurare diverse componenti della qualità soggettiva (percepita dall’utente) dell’esperienza col prodotto: · User Experience, misurata sulla base di un questionario composto da domande vero o falso relativamente a 4 dimensioni (distraibilità, facilità di utilizzo, livello di gradevolezza estetica e utilità); · NASA-TLX, un indicatore introdotto dalla NASA e ampiamente utilizzato per misurare il carico di lavoro percepito; · Net Promoter Score (NPS), che consiste in stima della probabilità che un cliente consigli un prodotto ad altre persone, in una scala da 1 a 10; · Willingness-to-pay (WTP), ai partecipanti è stato chiesto di riportare il massimo prezzo a cui sarebbero stati disposti ad acquistare il prodotto e di stimarne il prezzo reale. I RISULTATI DELLE RICERCHE CONFERMANO LA TEORIA «L’idea di partenza – come ci racconta uno dei ricercatori coinvolti nello studio, Simon Mastrangelo, Co-founder Ergoproject, UX Advisor P4IParteners4Innovation – è stata quella d’indagare la relazione tra il livello di User Experience e le altre variabili rilevate durante l’utilizzo del tapis roulant, ipotizzando che si potesse dimostrare che il prezzo a cui un cliente è disposto a comprare il prodotto è maggiore nel caso in cui l’esperienza sia stata positiva. Sottoponendo i dati ad analisi statistica è stato possibile mettere in luce effetti che non erano mai stati dimostrati in precedenza». I risultati mostrano una relazione positiva tra User Experience e carico di lavoro percepito: i parwww.digital4executive.it
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DIGITAL TRANSFORMATION - MARKETING | USER EXPERIENCE DESIGN: IL CASO TECHNOGYM
tecipanti con una migliore UX, hanno percepito un minor carico di lavoro. Questo aspetto è spesso sottovalutato nelle ricerche di mercato del settore. Un’altra relazione significativa è stata trovata tra la UX e il valore del Net Promoter Score. Non stupisce scoprire che gli utenti che dichiarano un’esperienza soddisfacente con l’attrezzo sono più propensi a promuoverlo ai futuri clienti. Infine, per studiare quali variabili abbiano un effetto significativo sulla Willingness-to-pay, si è effettuata un’analisi tenendo conto dell’effetto indiretto del prezzo stimato per il prodotto. I risultati dimostrano l’esistenza di una relazione positiva tra la UX e la WTP mediata dal prezzo stimato: il cliente che ha avuto una migliore esperienza riporta un prezzo massimo mediamente più alto e allineato col prezzo reale di mercato. LE DOMANDE APERTE Lo studio realizzato da Technogym e dai suoi partner di ricerca è il primo del suo genere ad essere effettuato su un prodotto fisico e i risultati confermano le conclusioni di altri studi fatti in precedenza su siti web o servizi.
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L’effetto positivo dello User Experience Design sulla propensione all’acquisto sta ormai diventando un’evidenza ed è possibile notare come questa abbia un duplice effetto sul risultato economico delle aziende. Da un lato, infatti, una migliore UX offre la possibilità di aumentare il prezzo del prodotto, e quindi potenzialmente il margine unitario. Dall’altro lato, può incrementare le vendite grazie all’effetto positivo del Word Of Mouth, ovvero il passaparola positivo che viene innescato dai clienti soddisfatti. Queste osservazioni però non sono vere unicamente per il settore del Fitness, ma trovano validità ovunque vi sia un prodotto di cui la UX sia un aspetto rilevante per i clienti e in cui le esigenze del cliente stiano cambiando, soprattutto abilitate da nuove tecnologie. In quest’ottica la UX costituisce sicuramente una chiave fondamentale per la crescita delle imprese in numerosi settori. Ad ogni modo, appare chiaro che la ricerca in questo ambito debba continuare e rimangono da dimostrare altri possibili benefici legati al miglioramento della UX, per ora solo ipotizzati e sostenuti da molti player del mercato.
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Precision Marketing, lo strumento tattico e strategico per ripensare l’impresa
MARCO RASPATI
CEO DI NEXO CORPORATION, MAIN PARTNER DEL PKMF18
Il Marketing di precisione analizza passaggi e azioni dell’utente lungo il customer journey, e permette di proporre i contenuti più idonei all’utente giusto e nel momento migliore per l’acquisto. Le prime applicazioni sono nei campi digital, retail, blockchain e food. Come utilizzarlo? Se ne parla quest’anno al Philip Kotler Marketing Forum (PKMF) in programma a Bologna
Il Precision Marketing è un approccio scientifico che analizza i passaggi e le azioni compiute dall’utente impegnato in un processo di consumo (customer journey). Questa analisi consente di raccogliere dati specifici, utili a tracciare con chiarezza l’identikit dell’utente: la conoscenza certa del consumatore è la prima conquista che il marketing di precisione assicura. Con il Precision Marketing si governano informazioni originali, cruciali per la costruzione di strategie personalizzate, imperniate su bisogni e desideri reali dell’utente. Questo rende il Precision Marketing lo strumento principe nella costruzione di una user experience significativa e significante. Il Philip Kotler Marketing Forum 2018 punta a condividere le opportunità e gli sviluppi di questo metodo innovativo. A parlarne saranno Philip Kotler, padre fondatore del marketing strategico, che con le sue teorie ispira l’evoluzione del business e della cultura imprenditoriale da oltre 20 anni, e Martin Lindstrom, fondatore del Neuromarketing e brand futurist, che vede negli “small data” i cardini delle strategie vincenti. Gli ambiti di applicazione del Precision Marketing
sono molteplici: tra i contesti dove stanno germogliando le prime “rivoluzioni” ci sono il digital, il retail, la blockchain e il food marketing. Sul fronte digital, i progressi dell’intelligenza artificiale, la progettazione dei dispositivi che dialogano con l’utente in base alle sue specificità, la realtà aumentata, l’accelerazione dei processi con il machine learning sono le premesse di un nuovo mondo che il Precision Marketing contribuisce a disegnare. Anche il retail marketing sta vivendo un’evoluzione: da tempo si è alla ricerca di una nuova epistemologia, per creare, comunicare ed esprimere un valore superiore partendo dalle richieste del consumatore. Il ricorso a dati specifici entra in gioco anche quando si parla di Blockchain, che con le sue prerogative di immutabilità, trasparenza e sicurezza stabilisce un nuovo codice di condotta per il mercato e i processi aziendali. Nel Food, il Precision Marketing è una leva interessante, commisurata al coefficiente di differenziazione di questo mercato e, al tempo stesso, agile per stare al passo con le sue repentine trasformazioni. www.digital4executive.it
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Retail Marketing, il ruolo del negozio nel customer journey dell’era digitale
GIUSEPPE STIGLIANO
EXECUTIVE DIRECTOR EUROPE DI AKQA E DOCENTE DI RETAIL MARKETING INNOVATION
Molti punti vendita chiudono, ma la colpa non è del Commercio elettronico: i giganti del Web stanno aprendo negozi fisici, consapevoli che l’80% delle vendite passa ancora da qui. Occorre però un nuovo approccio al cliente: Retail Marketing significa oggi comprendere e interpretare gli effetti della trasformazione digitale e padroneggiarne le dinamiche, ciascuno nel proprio ambito
La rivoluzione digitale ha cambiato molti dei presupposti su cui si è sempre fondato il mondo del retail. Negli anni più recenti, un numero altissimo di punti vendita in tutto il mondo ha chiuso, tanto che alcuni si sono spinti a parlare di “apocalisse”. A un primo sguardo si direbbe quindi che il retail tradizionale versi in condizioni molto critiche e, dato il crescente successo dell’e-commerce, si tenderebbe ad additare proprio la rivoluzione digitale come principale responsabile di questo declino. Tuttavia, nello stesso periodo, giganti del commercio elettronico del calibro di Amazon e Alibaba hanno deciso di aprire negozi fisici, sia sperimentando direttamente nuovi format, sia acquisendo catene preesistenti. E la stessa Google potrebbe presto considerare l’apertura di flagship store in cui mettere in luce il meglio della propria offerta di prodotto, inclusi gli smartphone Pixel, i visori per la realtà virtuale Daydream, il termostato intelligente Nest e l’assistente virtuale Home. | 36 |
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A questo punto la questione si fa più complessa: perché mai i cosiddetti pure digital player, forti della loro efficienza logistica e privi dalle inefficienze connesse alla gestione degli store fisici, dovrebbero rinunciare alla “purezza” per entrare in un mercato ritenuto in crisi? La risposta sta nella superficialità dell’assunto per cui il settore sarebbe inesorabilmente in declino. Infatti, anche nelle stime più generose, le transazioni digitali nella vendita al dettaglio non superano oggi il 20% di quelle totali. Indubbiamente gli acquisti online sono cresciuti in maniera impressionante negli ultimi anni, ma riteniamo sia quantomeno avventato evocare addirittura un’apocalisse e decretare la morte imminente del retail fisico. Occorre invece rivedere il modello tradizionale – nel retail come in altri settori – alla luce dei cambiamenti indotti dall’uso degli strumenti digitali da parte di un numero sempre più alto di persone. Il percorso d’acquisto del consumatore è stato sem-
DIGITAL TRANSFORMATION - MARKETING | RETAIL MARKETING, IL RUOLO DEL NEGOZIO NEL CUSTOMER JOURNEY DELL’ERA DIGITALE
Con il proliferare dei touchpoint, il customer journey ha decisamente mutato forma, configurandosi sempre meno come sequenza, e sempre più come un reticolo di momenti
pre rappresentato in modo lineare, ipotizzando che all’insorgere di un bisogno o un desiderio dovesse corrispondere uno stimolo di comunicazione in grado di generare dapprima la cosiddetta awareness, poi la familiarity e la consideration, e poi il purchase; nonché auspicabilmente il riacquisto e il passaparola positivo tra gli acquirenti. Con il proliferare dei touchpoint, però, il customer journey ha decisamente mutato forma, configurandosi sempre meno come una sequenza di fasi e sempre più come un reticolo di momenti che si rivelano più o meno decisivi a seconda della tipologia di bene o servizio, e del profilo del consumatore. La rilettura del modello di funzionamento del retail deve quindi tenere in considerazione questo cambiamento e ridefinire il ruolo del punto vendita fisico entro un percorso d’acquisto più articolato, arrivando anche a mettere in discussione – se necessario – la stessa ragion d’essere del negozio. RETAIL MARKETING, I NUOVI VALORI DI UN MERCATO INCLUSIVO E SOCIAL Negli ultimi dieci anni, circa 3 miliardi di persone nel mondo hanno progressivamente accolto nelle loro vite lo smartphone e un numero quasi equivalente di persone a livello globale risulta iscritto ad almeno un social network. La combinazione di questi due aspetti ci restituisce un quadro eclatante: quasi la metà della popolazione mondiale è online, raggiungibile in qualsiasi momento, ed è in grado di interagire in tempo reale con altre persone e con le aziende. Due elementi che da soli basterebbero a riscrivere le regole del gioco. Il mercato è diventato più orizzontale, inclusivo e social. Bisogna fare i conti con una circolazione delle informazioni a velocità straordinaria e con il fatto che oggi sono co-autori delle campagne di marketing e comunicazione coloro che fino a poco tempo fa si potevano definire “destinatari”. Non solo: gli stessi prodotti e servizi, se è vero che gli acquirenti possono esprimere così facilmente la propria opinione, vengono in molti casi co-prodotti, co-creati, co-disegnati. Queste evoluzioni assegnano ad aziende e brand un ruolo nuovo: è
divenuto indispensabile offrire prodotti che corrispondano sempre alle aspettative, dimostrare correttezza verso tutti gli attori della catena del valore, agire in armonia con l’ambiente e le persone, essere presenti in modo significativo in tutti i punti di contatto e comunicare in modo coinvolgente, saper dialogare (e saper dare ascolto), personalizzare la relazione con i clienti senza invadere la loro privacy, valorizzare coloro che dimostrano fedeltà, favorire e ricompensare l’advocacy. LA DISTANZA ABISSALE DAL “MONOLOGO PREDIGITALE” Appare abissale la distanza tra questo modello e il “monologo” che ha contraddistinto l’era predigitale. Per questo si impone di conseguenza la necessità di un approccio diverso, con nuovi strumenti e competenze da integrare a quelli tradizionali. I marketer sono chiamati a comprendere appieno gli effetti della trasformazione digitale, ma non solo: devono padroneggiarne anche le dinamiche individuando impatti e opportunità per la propria azienda. Il digitale è come l’elettricità: è un abilitatore invisibile che consente di dar vita a prodotti, servizi ed esperienze che in alcuni casi si integrano con quelli preesistenti e in altri li sostituiscono tout court. Se si assume questa visione, sarà più facile per l’azienda e per il brand interpretare in modo corretto e vantaggioso la trasformazione in atto. E si eviterà il rischio di confinare il digitale a una categoria di “strumenti innovativi”, o di confondere il mezzo con il fine, come spesso capita. In questa ottica si colloca la riflessione sull’intelligenza artificiale, il neuromarketing, i big e small data che assumono un ruolo centrale nel determinare la value proposition dei retailer. Questi temi sono approfonditi nel libro “Retail 4.0, 10 regole per l’era digitale”, di cui Giuseppe Stigliano è co-autore con il guru del marketing Philip Kotler, e saranno oggetto dei panel Marketing Tech e Retail Marketing 4.0 al Philip Kotler Marketing Forum 2018 in programma il 30 novembre-1 dicembre a Bologna www.digital4executive.it
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DIGITAL TRANSFORMATION - FINANCE di
DANIELE LAZZARIN
Il CFO e il progetto Emotional Food: «Decisivo partecipare al business sul campo» Fabio Iacuitti, Chief Financial Officer di Gallerie Commerciali Italia/Ceetrus Italy (Gruppo Auchan) ci parla dell’iniziativa per valorizzare spazi commerciali creando “experience” con il cibo, di cui è co-responsabile. E della sua visione del ruolo della funzione Finance e del Chief Financial Officer oggi, in forte cambiamento grazie alle soluzioni digitali
Si parla molto di Chief Financial Officer (CFO) coinvolti nel business, ma non capita spesso di incontrarne uno che è co-responsabile di un progetto di “emotional food”, e ne segue in prima linea tutti gli aspetti, dalle soluzioni digitali alla customer experience. È il caso di Fabio Iacuitti, CFO di Gallerie Commerciali Italia/Ceetrus Italy, che abbiamo intervistato nella sede della società a Rozzano (MI). «Il doppio nome GCI Italia/Ceetrus Italy è dovuto al recentissimo cambio di nome – da Immochan a Ceetrus – della società immobiliare del gruppo Auchan di cui siamo la filiale italiana», ci spiega Iacuitti. «GCI è nata nel 2003 per accompagnare lo sviluppo di Auchan in Italia, individuando bacini d’utenza per ipermercati, e costruendo in parallelo centri commerciali, cioè gallerie di negozi che affittiamo e gestiamo. Nel 2012 ci siamo aperti al mercato, creando due fondi immobiliari – in cui abbiamo quote, ma a cui forniamo servizi di | 40 |
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gestione degli spazi – ed espandendoci in attività non retail». È la base della nuova “vision”, che punta al 2030, e di cui il cambiamento del brand fa parte. «Ceetrus si può leggere come “citizens are us” e c’è un messaggio di trust: il core business rimane nei centri commerciali, ma partiamo dal nostro DNA immobiliare per occuparci a 360 gradi di costruire ciò che può far stare bene e divertire il cittadino, per esempio riqualificazione urbana, coworking, gestione di spazi anche fuori dai centri commerciali, student housing». In Italia Ceetrus conta poco più di 100 persone, che gestiscono circa 50 centri commerciali dalla Lombardia alla Sicilia. «Abbiamo dei property manager nei vari siti, e qui in sede la direzione commerciale e le strutture di staff: Finance, HR, Sviluppo, Area Tecnica e Marketing». Come è nato il progetto Emotional Food? È nato tre anni fa, dalla difficoltà di commer-
DIGITAL TRANSFORMATION - FINANCE | IL CFO E IL PROGETTO EMOTIONAL FOOD
di alimentari di altissima qualità. La seconda sperimentazione è a Fano, in una vecchia stazione ristrutturata, con vagoni e sale d’attesa. I partner sono due imprenditori locali, e la formula è molto complessa. Si basa sullo street food artigianale, ogni operatore (tenant) si occupa di una pietanza: dal pesce alla carne, dalla pizza ai dolci. Quali sono le soluzioni digitali che supportano il progetto? Mentre il partner di Mestre ha già sistemi informativi e di controllo gestione consolidati, a Fano ci siamo occupati noi di questi aspetti. Abbiamo scelto un software di gestione ristoranti che ci permette di gestire 13 casse su iPad, itineranti e funzionanti dalla mattina alla notte, una per vagone: ogni vendita viene istantaneamente acquisita e aggregata via cloud. È un sistema più costoso rispetto ad altri, ma ci dà prospettive di sviluppo di medio-lungo termine, e ci permette di gestire con molta flessibilità i tenant e anche le casse, in particolare convenzioni, loyalty, servizio al tavolo, e presto anche il delivery a casa. Sempre a Fano c’è un sistema digitale di controllo dei flussi, con telecamere termiche, beacon e altri dispositivi per capire in dettaglio i comportamenti dei clienti.
cializzare bene una delle nostre food court più importanti dove lo “standard food” (i grandi marchi food internazionali, ndr) non faceva la differenza. L’idea è stata di puntare su formule innovative per creare “experience” con il cibo – cosa che adesso è di gran moda, ma tre anni fa era agli albori – attraendo anche pubblico che non frequenta i centri commerciali, e riqualificando l’offerta. Volevamo partner locali, piccoli e flessibili: i grandi tendono a standardizzare, cosa che in questo caso volevamo evitare. Alla fine ne abbiamo trovati due, che ci hanno proposto formule diverse. Un progetto è a Mestre, con un partner lombardo che offre una gamma di prodotti dall’antipasto a dolce, bevande e liquori, quasi tutti bio, locali e artigianali, presentati con storytelling, che è ciò che ci interessava. Il partner gestisce in toto – dalla colazione al dopocena – un’area di 1500 mq dove c’è anche un mercato
Come analizzate questi dati? Abbiamo più dati che analisi, è il problema del momento. Siamo abituati a gestire dati, per esempio i dati d’ingresso li abbiamo da sempre, aggiornati anche al minuto. Ma sono “semplici” numeri. Quelli del controllo dei flussi invece sono volumi enormi composti da diversi tipi di dati, e sono online: per ciascuna persona che entra sappiamo il percorso, dove e quanto si ferma, dove e quando compra, e così via. Il problema è collegare queste informazioni con i dati economici – gli incassi – che invece sono mensili. Quindi stiamo lavorando sui sistemi per aumentare l’aggiornamento dei dati economici, in collaborazione con i tenant. L’obiettivo è aggregare i dati e dedurne trend e indicazioni da condividere con loro. Per esempio capire, di due negozi d’abbigliamento a poca distanza, perché uno funziona bene e uno no. Più in generale, il digitale ci aiuterà a concentrare l’analisi solo su chi entra e spende, a capire quali aree, negozi e vetrine funzionano meglio. E a comunicare il prodotto più adatto al cliente che sta entrando. www.digital4executive.it
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«Abbiamo scelto un software di gestione ristoranti che ci permette di gestire 13 casse su iPad, itineranti e funzionanti dalla mattina alla notte: ogni vendita viene istantaneamente acquisita e aggregata via cloud»
Cosa porta un CFO a diventare co-responsabile di un progetto come Emotional Food? Quando è partito il progetto mi sono affiancato al collega che l’ha proposto, per occuparmi della governance. Ma era talmente interessante che alla fine l’abbiamo costruito insieme e ne conosco tutti i meccanismi. Ovviamente ho il mio tornaconto anche come CFO. Abbiamo creato un sistema strutturato di raccolta dei dati, che mi dà ampie possibilità di analisi. Penso sia fondamentale per i CFO partecipare al business “sul campo”. Qualche anno fa mi sono preso la responsabilità di gestire tutti i sistemi informativi dell’azienda: se faccio questo lavoro bene, io che devo sommare i numeri di tutti mi semplifico la vita. Quindi il team Finance ha costruito o implementato tutti i sistemi, maturando una mentalità molto aperta verso il business, e una visione spesso più ampia della singola funzione. Può fare qualche esempio di sistemi sviluppati per il business? Stiamo facendo un portale per i tenant – gli affittuari degli spazi, sono circa 2500 – e un altro per gestire i mall (temporary store), utilizzando tecniche mutuate dai principali siti “branded” di eCommerce, come le compagnie aeree. Per esempio se prenoti prima paghi meno. Si può decidere sulla mappa degli spazi in galleria, vedere il rendering del negozio, la proposta di prezzo, prenotare lo spazio, pagare con carta di credito. Per i mall c’è un sistema di tariffe con campagne di sconto per esempio nei periodi “morti”. Quello dei tenant era un portale dedicato solo alle fatture, ma i soli dati della fattura non bastavano a
«Abbiamo più dati che analisi, è il problema del momento. Siamo abituati a gestire dati, ma sono “semplici” numeri. Il controllo dei flussi invece ci dà volumi enormi, di diversi tipi, e sono online»
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conoscerli. Ora stiamo cercando di sapere di più su di loro, atraverso interazioni come sondaggi, informazioni, feedback. Sta diventando un portale di supporto commerciale. In che misura le tecnologie digitali hanno cambiato il suo lavoro di CFO? Come professionista ho sempre avuto a che fare con gli ERP, grandi sistemi strutturati che definiscono come si deve raccogliere e trattare l’informazione in un’azienda complessa. Al loro contorno però si può lavorare in modalità più agili. Da quando gestiamo per conto terzi abbiamo iniziato a studiare nuovi scenari che ora ci stanno aiutando a migliorare il core business. Un esempio: per le gare dei servizi esterni per i centri commerciali, per esempio per le pulizie, usiamo da anni una piattaforma di gare online di Auchan. A un certo punto uno dei fondi ci ha chiesto di poter preselezionare i partecipanti. Quindi abbiamo sviluppato un sistema di rating dei fornitori, basato sulle valutazioni dei nostri property manager, e ammettiamo di volta in volta alla gara – che resta sulla piattaforma Auchan – un insieme già scremato, per esempio quelli con voto oltre 9 su 10 su un certo parametro. Ora usiamo il sistema anche per noi stessi, e tutti i piccoli appalti “tecnici” non passano neanche più per la piattaforma Auchan, il che vuol dire più velocità, meno costi e accumulazione di knowhow sulla gestione di gare che potremmo vendere a terzi come servizio. Riguardo specificamente all’area Finance, per alcune attività usiamo strumenti tradizionali, soprattutto l’excel “evoluto”, che comunque
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«Quando è partito il progetto mi sono affiancato al collega che l’ha proposto, per occuparmi della governance. Ma era talmente interessante che alla fine l’abbiamo costruito insieme. Ovviamente ho il mio tornaconto anche come CFO»
continua ad aiutare molto, per esempio per i dati dal sistema di casse: è knowhow di grande valore che scambiamo anche con i partner. Per altre attività servono tecnologie più avanzate, per esempio per la pianificazione finanziaria stiamo lavorando con la casa madre su un nuovo sistema in grado di fare simulazioni di scenario lavorando su molti tipi di informazioni diverse. Oggi nel settore immobiliare l’ambiente esterno influenza tantissimo il valore degli asset, e ci sono momenti in cui bisogna “realizzare” un valore perché se si aspetta se ne perderà una parte. Serve più velocità di analisi e di decisione rispetto al retail. E la tecnologia ci aiuta a decidere più velocemente. Governare le informazioni, avere sempre un valore oggettivo e aggiornato degli asset, aiuta a trovare opportunità dove gli altri non le vedono, e a convincere gli investitori. Cosa pensa del ruolo del CFO in azienda? Il CFO ha sempre avuto un punto di vista più ampio del colleghi, se non altro perché deve sommare i numeri che arrivano da tutti. Oggi però questa cosa si è accentuata: il CFO “deve” occuparsi di business. Anche se il mandato principale resta di tenere sotto controllo i conti, dobbiamo essere un “punto di crescita” per tutta l’azienda. Insomma quello del CFO è un ruolo più proattivo e spostato verso l’esterno. Anche perché nei settori di servizi e commerciali il ruolo del back office è rischioso, è puro servizio, e rischia di diventare “di serie B”. Per evitarlo occorre mettersi nei panni del business, capendone le esigenze a volte meglio di loro stessi.
Per esempio è fondamentale introdurre flessibilità. Prendiamo il lavoro dei nostri commerciali. Una volta avevamo una sola tariffa, oggi dobbiamo consentirgli di “inventarsele”, e poterli seguire ma non a consuntivo, rincorrendo proposte su pezzi di carta. Dobbiamo “governare” insieme la flessibilità, parametrizzare nel sistema una serie
di opzioni economicamente sostenibili. Poi dal cliente basta un click per scegliere la più adatta alla situazione. Quindi flessibilità al business, ma controllo del sistema. Non ci possiamo più permettere di dire “nel nostro sistema non si può fare”. Si deve poter fare non proprio tutto, ma quasi tutto.
«Qualche anno fa mi sono preso la responsabilità di gestire tutti i sistemi informativi dell’azienda: se faccio questo lavoro bene, io che devo sommare i numeri di tutti mi semplifico la vita» www.digital4executive.it
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Fattura elettronica B2B, il Governo: nessun rinvio. Sogei spiega le semplificazioni Il Consiglio dei Ministri conferma l’entrata in vigore dell’obbligo il primo gennaio (con sanzioni ridotte nei primi 6 mesi) e annuncia novità, snellimenti del processo, e l’obbligo di trasmissione telematica dei corrispettivi. Intanto l’AD di Sogei in audizione alla Camera ha illustrato i miglioramenti e le messe a punto in corso sul Sistema di Interscambio e sulle procedure di fatturazione elettronica
Nonostante cambi di governo e richieste di rinvio, l’imminente obbligo in Italia della fatturazione elettronica tra privati (o fatturazione elettronica B2B) continua a ricevere conferme. L’ultima e molto autorevole viene da un comunicato stampa del Consiglio dei Ministri: “Si mantiene l’entrata in vigore dell’obbligo di fatturazione elettronica dall'1 gennaio 2019, riducendo per i primi 6 mesi le sanzioni previste per chi non riuscirà ad adeguare i propri sistemi informatici”. Il comunicato parla anche di altre misure a sostegno dell’innovazione digitale, tra cui “sgravi per chi assume manager dell’innovazione”, riduzione degli oneri per startup, PMI innovative e incubatori, e “definizione dei registri distribuiti (blockchain) e sostegno, con un fondo di venture capital con Cassa Depositi e Prestiti, alle startup che investono in questa tecnologia”. Ma tornando alla fatturazione elettronica, il Consiglio dei Ministri introduce alcune novità e semplificazioni. Si dà per esempio la possibilità di emettere fatture entro 10 giorni dall’operazione alla quale si riferiscono, e di annotarle nel registro entro il giorno 15 del mese successivo all'emissione. Viene poi abrogato | 44 |
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l’obbligo di registrazione progressiva degli acquisti, mentre il pagamento IVA slitta al momento in cui la fattura viene incassata. Inoltre all’obbligo di fatturazione elettronica si affianca l’obbligo di memorizzare e trasmettere telematicamente i corrispettivi. “Ciò consentirà di eliminare alcuni adempimenti contabili come l’obbligo di tenuta dei registri e conservazione di fatture e scontrini e un controllo maggiore e meno invasivo dell’Agenzia delle Entrate”, spiega il comunicato. L’obbligo parte dall'1 luglio 2019 per chi ha volume d’affari oltre 400mila euro, e dall'1 gennaio 2020 per tutti gli altri. Lo sforzo di chi lavora al processo ora è quindi di semplificare gli elementi connessi all’imminente adempimento. L’Agenzia delle Entrate ha dedicato alla fatturazione elettronica un’area tematica sul suo sito web con aggiornamenti, guide (tra cui quella sui servizi gratuiti forniti dall’Agenzia stessa), atti normativi e regole tecniche, e sta svolgendo incontri formativi sul territorio e partecipando a eventi di associazioni di categoria e aziende. Quanto a Sogei, è interessante quanto scaturito a metà ottobre nell’audizione
DI GI TAL TRANSFOR M ATI ON - F I NA NC E | FATTURA ELETTRONICA B2B, IL GOVERNO: NESSUN RINVIO. SOGEI SPIEGA LE SEMPLIFICAZIONI
in parallelo le richieste e possono crescere sia in potenza che in numero, quelli di back end sono scalabili in ogni componente, e lavorano con processi paralleli che gestiscono in simultanea le varie fasi». Quanto alle ricevute di consegna, inviate a chi emette la fattura se questa supera i controlli dello SdI e viene correttamente recapitata all’indirizzo telematico del destinatario, «nel periodo luglio-settembre sono state rilasciate in media in 3,5 ore». C’è preoccupazione anche sulla possibilità di vedersi scartata la fattura, ma Quacivi ha parlato di “percentuali di scarto abbastanza modeste”, che per giunta – come è successo per la fatturazione elettronica alla PA – con il tempo probabilmente si ridurranno ancora: «Abbiamo ricevuto dall'1 luglio a oggi 5,1 milioni di fatture: ne sono stae scartate il 4,3% sul portale fatture e corrispettivi, il 3,1% sul canale FTP e il 6,3% sul canale PEC». Dopo aver ricordato i servizi predisposti da Sogei e resi disponibili dall’1 luglio dall’Agenzia delle Entrate (archiviazione elettronica delle fatture, conservazione, consultazione, registrazione soggetti IVA, generazione di codice a barre con le informazioni anagrafiche IVA, software stand-alone e mobile app per generare e trasmettere fatture), Quacivi ha poi illustrato gli interventi di semplificazione in corso. «Prima di tutto, per risolvere una delle maggiori criticità segnalate dagli intermediari, e cioè l’attivazione delle deleghe nei loro confronti, il sistema di gestione delle deleghe è stato rivisto accelerando l’attivazione e introducendo la modalità delega massiva oltre a quelle già disponibili (delega puntuale e diretta), che verranno adeguate». dell’amministratore delegato Andrea Quacivi presso la Commissione Finanze della Camera. PERCENTUALI DI SCARTO TRA 3,1% E 6,3% Quacivi ha riferito sullo stato d’avanzamento dei miglioramenti, semplificazioni e messe a punto dell’infrastruttura tecnologica del Sistema d’Interscambio (SdI) in vista dell’1 gennaio. Un elemento di preoccupazione per esempio riguarda la capacità del Sistema di gestire i picchi, ma l’AD di Sogei ha spiegato che entro l’1 ottobre sono stati trasmessi senza criticità 1,45 miliardi di fatture riguardanti l’adempimento dello spesometro relativo al primo semestre 2018. «Il sistema di fatturazione elettronica è stato progettato e realizzato con un’architettura modulare e “on demand” in grado di crescere rapidamente in tutte le componenti per far fronte a picchi massivi e non prevedibili dei carichi di invio delle fatture. L’architettura si compone di sistemi di front-end differenziati su più canali asincroni e sincroni che smistano le richieste sui sistemi infrastrutturali di back-end. I primi gestiscono
IN VISTA ANCHE IL DOWNLOAD MASSIVO Ulteriori interventi in vista riguardano funzionalità di consultazione massiva delle notifiche di fattura, upgrade della mobile app (con possibilità per esempio di generare la fattura in modalità offline) e dell’applicazione web («in entrambi i casi ipotizziamo un rilascio a novembre e uno a dicembre»), funzionalità per la consultazione delle fatture anche per i contribuenti non titolari di partita IVA, possibilità di inviare fatture da registratori telematici con evoluzione dell’interfaccia grafica di monitoraggio dei flussi di trasmissione a disposizione degli esercenti. Rispondendo poi alle domande dei deputati della Commissione Finanze, Quacivi ha precisato tra l’altro che il costo della mobile app, che si chiama FatturAE (disponibile per iOS e Android), è stato di circa 90mila euro. E che Sogei sta lavorando anche a semplificare il più possibile l’accesso alle fatture, la ricerca per data, periodo o altri filtri (nome cliente, ecc), e il download massivo e trasmissione dei documenti a consulenti fiscali e commercialisti. www.digital4executive.it
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DIGITAL TRANSFORMATION - HR di
MANUELA GIANNI
Costa Crociere, rotta sulle competenze digitali Un percorso di formazione e innovazione coinvolge tutti i dipendenti della compagnia di crociere, incluso il top management. «È il momento di fare un passo avanti: per affrontare il futuro dobbiamo tutti imparare a pensare e agire con un mindset digitale» NEIL PALOMBA PRESIDENTE COSTA CROCIERE
Costa Crociere vara Costa Futura, un viaggio verso l’innovazione digitale guidato dalla funzione HR della compagnia che coinvolge tutta l’organizzazione (è escluso solo il personale di bordo, per ora). Già l’anno scorso era stato lanciato in Costa lo Smart Working, con risultati molto soddisfacenti: un’adesione dell’89% e un aumento della produttività delle persone, certificato dai manager responsabili. La strategia si è ora ampliata con un assessment sulle competenze digitali, realizzato attraverso una survey online giocosa che ha mirato a scoprire e valorizzare attitudini e talenti di ciascun dipendente, e stimolare così la crescita e la trasformazione verso un mindset più orientato al digitale e all’approccio imprenditoriale. È previsto inoltre il lancio di una Digital Academy, ossia un percorso di formazione digitale personalizzato per i dipendenti. «L’innovazione è già da tempo al cuore della strategia di Costa Crociere – ha detto il Presidente Neil Palomba in un video interno che è stato poi reso pubblico -. Oggi però è il momento di fare un passo avanti. Sappiamo di avere davanti enormi opportunità, in un mondo che ormai è digitale. E siamo convinti che le nuove tecnologie possano aiutarci ad accelerare il nostro percorso di crescita. Vogliamo migliorare ulteriormente il nostro modo di lavorare | 46 |
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e offrire ai nostri ospiti, che sono sempre al centro di tutte le nostre decisioni, una vacanza sempre più indimenticabile». Palomba ha sottolineato che il cambiamento inizia dall’interno, dalle persone di Costa, e che Costa Futura è un’iniziativa strategica che coinvolge in prima persona tutto il Top Management. «Per affrontare il futuro dobbiamo tutti insieme aumentare le nostre competenze, migliorare la conoscenza delle nuove tecnologie, imparare a pensare e agire con un mindset digitale. Per questo abbiamo creato un percorso di trasformazione digitale dell’organizzazione che ci vede tutti coinvolti». Per tenere traccia dei risultati ottenuti, ogni dipendente riceverà un Passaporto Digitale dove registrare le attività svolte, i progressi ottenuti e le tappe raggiunte.
ADVERTORIAL
Auriga, innovazione fa sempre più rima con contaminazione
Per portare l’innovazione all’interno dell’organizzazione sempre più aziende ricorrono al paradigma dell’Open Innovation, l’innovazione aperta che permette di entrare in contatto con idee, soluzioni tecnologiche e competenze che arrivano dall’esterno, da università, startup, istituti di ricerca pubblici e privati, fornitori, programmatori. Anche Auriga, azienda che opera in Italia e in Europa nel mercato delle soluzioni software per l’IT banking, ha deciso di puntare su questo modello, lanciando un nuovo incubatore per startup, l’IC406 Innovation Camp, pensato per raccogliere e dare slancio alle migliori idee innovative in ambito digital business. «L’innovazione è da sempre nel DNA di Auriga e crediamo nell’Open Innovation, un modello che ormai dal nostro punto di vista è diventato imprescindibile – sottolinea Vincenzo Fiore, CEO di Auriga -. Lo abbiamo reso parte integrante del nostro business, dando vita a un nostro incubatore con sede a Bari, dove Auriga ha sempre avuto il suo quartier generale. IC406 è una grande opportunità per tutti: i talenti possono trasformare le idee in impresa, e l’organizzazione può essere contaminata da quello slancio, da quella creatività, da quella spinta innovatrice che è la linfa vitale della crescita». Il percorso d’incubazione prevede una fase di selezione in cui sono valutate le competenze del team, il grado di innovazione del progetto e le potenziali sinergie con il network dell’incubatore. Il periodo di incubazione per i team selezionati va dai 6 ai 9 mesi e prevede un contributo economico fino a 25.000 euro per ogni startup. In seguito, è prevista la fase di MVP testing & execution, che prevede un percorso di for-
LA NASCITA DELL’INNOVATION CAMP IC406 È IL RISULTATO DELLA VOLONTÀ DELLA SOFTWARE HOUSE DI APRIRSI ALL’OPEN INNOVATION ENTRANDO IN CONTATTO CON LE STARTUP DIGITAL PIÙ INNOVATIVE E TALENTUOSE IN ITALIA
VINCENZO FIORE CEO Auriga
mazione e accompagnamento per studiare il target di mercato, ipotizzare il proprio modello di business e realizzare il business plan. Infine, concluso il programma di incubazione, il percorso e i risultati raggiunti da ciascun team vengono esaminati, per verificare l’idoneità a candidarsi a eventuali programmi di accelerazione per lo scale-up dell’iniziativa. «Abbiamo pensato a un percorso fisico o virtuale per dare la possibilità di partecipare anche a chi non si trova in prossimità dell’incubatore. È possibile, quindi, utilizzare gli spazi della sede di Bari, usufruendo sul posto di tutti i servizi resi disponibili da IC406, oppure usufruire in remoto dei servizi di accompagnamento e supporto, per trasformare la propria idea in impresa», continua Fiore. IC406 Innovation Camp è rivolto a studenti, laureati, ricercatori o professionisti, o anche a giovani aziende e piccole e medie imprese innovative, che intendono sviluppare una propria soluzione nell’ambito del Digital Business da testare prima del lancio sul mercato. IC406 mette a loro disposizione supporto e competenze specifiche per costituire la propria startup, grazie a un programma di accompagnamento e di incubazione, compresa la possibilità di partecipare a workshop, seminari e corsi di imprenditoria, oltre a un network di partner qualificati.
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DIGITAL TRANSFORMATION - SUPPLY CHAIN
Blockchain nelle filiere settoriali: il Polimi censisce 131 progetti nel mondo, 3 in Italia In grandissima parte sono alla fase di annuncio o di sperimentazione, solo 8 sono operativi, spiega l’Osservatorio Fatturazione Elettronica & eCommerce B2b del Politecnico di Milano. Finanza e logistica i settori più attivi, seguono largo consumo e utility. Gli utilizzi più diffusi: condivisione di documenti e informazioni, tracciabilità delle merci, gestione del credito di filiera, trading di energia
La tecnologia Blockchain, ideata per supportare transazioni finanziarie, è sempre più utilizzata anche nelle Supply Chain, e per questo l’Osservatorio Fatturazione Elettronica & eCommerce B2B del Politecnico di Milano nel suo più recente report ha deciso di censirne gli utilizzi in questo ambito, contando 131 progetti in tutto il mondo. I ricercatori hanno selezionato le applicazioni della tecnologia in processi B2B e rapporti di filiera con almeno uno scambio informativo o documentale tra un’azienda cliente e una fornitrice. La prima conclusione è la conferma che siamo ancora agli inizi: il 48% di questi 131 progetti di blockchain nelle supply chain è in fase di sperimentazione, il 47% è fermo all’annuncio, e solo otto casi sono già in fase operativa. Si tratta essenzialmente di banche, distributori di energia, produttori agroalimentari, con fini di gestione del credito di filiera, tracciabilità, e condivisione di documenti e informazioni. A livello geografico, la proverbiale predominanza | 48 |
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tecnologica americana stavolta è smentita: circa il 40% dei progetti di blockchain nelle supply chain censiti sono in Asia (d’altra parte il concetto di bitcoin è stato ideato da un giapponese), il 30% in Europa, e “solo” il 24% in America. I TRE PROGETTI ITALIANI: UNO BANCARIO E DUE NEL SETTORE ALIMENTARE Gli USA però si rifanno come singola nazione, con 23 progetti, seguiti da Cina (13), Regno Unito (10) e Giappone (9). In Italia i ricercatori del Politecnico hanno rilevato tre progetti, di cui uno operativo – Cantina Volpone, per l’autocertificazione di qualità dell’intero processo produttivo del vino “dalla vigna alla tavola” – e due in sperimentazione: Intesa Sanpaolo (integrità delle informazioni nelle transazioni finanziarie) e Torrefazione Caffè San Domenico, in collaborazione con la startup Foodchain, anch’esse al lavoro su un’applicazione blockchain di tracciabi-
DI GI TAL TRANSFOR M ATI ON - S UP P LY C H A I N | BLOCKCHAIN NELLE SUPPLY CHAIN: IL POLIMI CONTA 131 PROGETTI NEL MONDO, 3 IN ITALIA
La proverbiale predominanza tecnologica USA stavolta non si conferma: circa il 40% dei progetti di blockchain nelle supply chain è in Asia, il 30% in Europa, e “solo” il 24% in America
lità di filiera agroalimentare, in questo caso del caffè. Per quanto riguarda i settori, il più attivo risulta quello finanziario (25% dei progetti censiti), seguito dalla logistica (18%), in cui la blockchain è tipicamente utilizzata per tracciare merci e spedizioni, e poi da largo consumo (15%) e utility (14%), in cui i progetti sono principalmente volti alla tracciabilità delle merci e al trading di energia. Altri settori al lavoro sulla blockchain sono pubblica amministrazione, lusso, elettronica di consumo, assicurazioni e automobilistico. LE APPLICAZIONI: SCAMBI DI DOCUMENTI PER TRANSAZIONI COMMERCIALI Per quanto riguarda i processi supportati, il 43% dei progetti è nell’eSupply Chain Execution (fasi logistiche, commerciali, amministrative e contabili), per la condivisione sicura di documenti e informazioni e la gestione del credito di filiera. L’Osservatorio cita il caso della società di spedizioni navali giapponese Mitsui OSK Lines che, tramite un’applicazione blockchain, scambia e archivia documenti commerciali, logistici e assicurativi relativi a transazioni commerciali internazionali. Il 31% dei progetti è in area eSupply Chain Control, con obiettivi di efficientamento di procedure esistenti in ambito di controllo della supply chain già esistenti. I più numerosi sono di tracciabilità della merce dal punto di origine al punto di consegna (abbiamo citato due casi italiani). Ma la blockchain è usata anche per verificare il comportamento degli attori nella filiera, come nel caso della canadese TMX Group, che sta sperimentando una soluzione per identificare in modo certo e tempestivo l’operatore della filiera responsabile nei casi di fuga di gas o interruzione dell’erogazione. LE APPLICAZIONI: EPROCUREMENT E GARANZIA DI AUTENTICITÀ L’Osservatorio Fatturazione Elettronica & eCommerce B2B ha censito anche un 11% di casi di eSupply Chain Collaboration (cioè l'area pianificazione,
sviluppo nuovi prodotti, gestione della qualità). Singapore Diamond Investment Exchange (SDiX), per esempio, sta sperimentando una soluzione per garantire ai compratori di diamanti l'autenticità dei preziosi grazie alla registrazione dei cambi di proprietà in un database distribuito. L’utilizzo della tecnologia in questo caso permette di includere nella catena anche il compratore, aumentando la trasparenza del mercato. Un altro 9% di progetti blockchain nelle supply chain è poi di eProcurement (revisione dei processi d’acquisto, dalla ricerca di nuovi fornitori alla negoziazione vera e propria), come quello del Ministero degli Affari Interni giapponese e del suo sistema per raccogliere in un unico database condiviso le informazioni delle aziende che partecipano alle gare d’appalto pubbliche. Infine un 5% di progetti è di supporto ai processi interni, per migliorare i processi di conservazione, archiviazione e gestione dei workflow approvativi, grazie all’attestazione di autenticità e immodificabilità di documenti e informazioni. I BENEFICI: TRASPARENZA, SICUREZZA, RIDUZIONE DI COSTI E DI TEMPI Incrociando settori di applicazione e processi, i ricercatori del Politecnico di Milano rilevano tre “cluster”, cioè insiemi significativi di progetti: eSupply Chain Execution nei settori finanziario e logistica (37 progetti che utilizzano la tecnologia per la condivisione di documenti e informazioni e per applicazioni di Supply Chain Finance); eSupply Chain Control nei settori largo consumo e logistica (23 progetti in cui la blockchain è impiegata per garantire la tracciabilità della merce); ed eProcurement in ambito utility (9 progetti a supporto del trading di energia). Quanto ai benefici, vista la fase ancora embrionale delle applicazioni di blockchain nelle supply chain, per ora si parla soltanto di percezioni qualitative, soprattutto di aumento della trasparenza e della sicurezza, e riduzione dei costi e dei tempi di svolgimento delle operazioni. www.digital4executive.it
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DIGITAL TRANSFORMATION - PROCUREMENT di
SEA, decolla l’innovazione: un portale online per gare più efficienti e trasparenti
MANUELA GIANNI
intervista ad
ANDREA GHISELLI
DIRETTORE PURCHASING E SUPPLY CHAIN GRUPPO SEA
Migliora, grazie a una nuova piattaforma cloud sviluppata da Jaggaer, il processo di Procurement dell’operatore, che gestisce Linate e Malpensa e opera nel settore regolato dalle norme sul Public Procurement. I vantaggi? «Un rapporto più immediato con i fornitori, funzionalità potenziate e garanzia di compliance normativa», spiega Andrea Ghiselli, Direttore Purchasing e Supply Chain di Gruppo SEA
Da una parte il rispetto delle regole del Public Procurement (Codice degli Appalti), dall’altra le esigenze del business che impongono la costante ricerca di efficacia ed efficienza. Sono i due binari paralleli lungo i quali si sviluppano le strategie e l’innovazione delle aziende operanti nei settori regolamentati, fortemente esposte al contesto competitivo non solo nazionale, ma anche internazionale. Con l’ulteriore complessità di una partecipazione mista. «Una sorta di Yin e Yang che rende il processo di acquisto particolarmente complesso e sfidante», spiega Andrea Ghiselli, Direttore Purchasing e Supply Chain di Gruppo SEA, tra i più importanti operatori aeroportuali internazionali, che gestisce gli scali Linate e Malpensa e ha come azionisti il comune di Milano e il Fondo di investimento F2i. «Il business richiede risposte rapide ed efficaci agli stimoli competitivi, mentre l’articolazione delle prescrizioni normative rappresenta paletti e vincoli importanti da rispettare», dice Ghiselli, da due anni in SEA e con una lunga esperienza manageriale maturata in McKinsey e poi in un’importante Utility. | 50 |
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Dopo aver superato la difficile fase successiva al dehubbing, negli ultimi anni SEA ha visto una crescita a due cifre del traffico ed è ora impegnata in uno sfidante piano di trasformazione. L’evoluzione non interessa solo le infrastrutture fisiche, ma anche quelle digitali, con una tensione fortissima alla dematerializzazione dei processi che, in questo momento, ha diversi fronti aperti. In particolare, è in via di implementazione una piattaforma di eProcurement per migliorare il colloquio con i fornitori in fase di gara, che sostituirà l’attuale soluzione, potenziandone reach e funzionalità. Si tratta di un portale fornito in logica SaaS (Software as a Service) da Jaggaer, società multinazionale specializzata nelle soluzioni Source to Pay che ha fra i propri clienti numerose società aeroportuali. 1500 FORNITORI COINVOLTI: DAI BUS PASSEGGERI ALLE TURBINE La nuova piattaforma online facilita il colloquio con i fornitori in gara in tutte le fasi previste dal co-
DIGITAL TRANSFORMATION - PROCUREMENT | SEA: UN PORTALE ONLINE PER GARE PIÙ EFFICIENTI E TRASPARENTI
dice degli appalti: dall’invito alla raccolta dell’offerta, fino alla fase di individuazione del potenziale aggiudicatario e di comunicazione al contraente. «È una parte fondamentale del processo d’acquisto, quella più esposta all’esterno - puntualizza il manager – ma anche molto integrata con il modo in cui lavoriamo. Gestiamo oltre 1.500 fornitori, con gare di importi che superano costantemente le soglie di evidenza europea». In SEA gli acquisti sono completamente centralizzati. Il team di Procurement, rispettando la segregazione delle responsabilità, è organizzato in diverse categorie di acquisto, con un ambito di attività vario: dalla cancelleria fino ai bus interpista, dalla realizzazione di hangar fino al revamping degli impianti di generazione. «Stiamo lavorando sulla nuova Linate, tutti gli appalti relativi sono gestiti con gara. Ma compriamo anche turbine, gruppi frigoriferi, chimica di base e molto altro, in un mercato di fornitura che è sempre più internazionale, coerentemente con il business in cui operiamo», spiega Ghiselli. Il team, circa 40 persone divise fra i due scali, include i Category manager e uno staff con competenze tecnico-giuridiche, che si occupa degli aspetti formali del processo. C'è poi un terzo team dedicato alla logistica, composto da circa 20 persone, che si occupa di material management e order management, gestendo i fabbisogni, i flussi logistici da e per i punti di stoccaggio, oltre alle operation di magazzino. Un’attività questa che si sta evolvendo verso il just in time, con una crescente penetrazione dei sistemi di order managment a catalogo elettronico che prevede un’interfaccia diretta del richiedente con il fornitore (a fronte di condizioni negoziate a monte). Insomma, un modello che per alcune categorie di acquisto è in grado di coniugare il governo del processo di acquisto e della spesa con i vantaggi della “democratizzazione” e semplificazione della relazione con il fornitore.
Andrea Ghiselli Direttore Purchasing e Supply Chain, Gruppo SEA
che aggiunge: «Ci sono poi i benefici relativi alla compliance al codice degli appalti: il contesto regolatorio è in continua mutazione, e ogni volta che cambia una norma il portale utilizzato per le gare deve recepire la modifica. La piattaforma in Cloud assicura l’aggiornamento sistematico. C’è poi il vantaggio della cross fertilization: mettere a fattor comune le esperienze sviluppate lavorando con diverse stazioni appaltanti permette a Jaggaer di offrire uno strumento specifico, evoluto e potente, più scalabile, e semplice da gestire e aggiornare. Infine, la completa digitalizzazione del processo di acquisto è l’unica soluzione che consente di rendere compatibili le prescrizioni normative del Public Procurement con le esigenze di business. Quest’ultimo richiede tempi di risposta brevi, un ampio reach e un approccio sempre più collaborativo ed interattivo». L’INTEGRAZIONE NEL SISTEMA IT SEA sta ora affrontando l’integrazione della nuova piattaforma all’interno del parco applicativo esistente. «È un lavoro in cui ci è di grande aiuto, oltre all’integrabilità della tecnologia Jaggaer, la loro esperienza nella gestione di questi progetti e la conoscenza dei processi di acquisto, accanto al nostro IT, che ci supporta sul fronte tecnico», conclude il manager.
I VANTAGGI DI SCEGLIERE UN FORNITORE SPECIALIZZATO
SEA: una realtà in forte crescita nel contesto internazionale
La scelta di una soluzione in Cloud e di un fornitore con solide referenze sul mercato consentirà a SEA di cogliere diversi vantaggi. «Il portale ci permette un rapporto più immediato con il mondo della fornitura, facilitato anche dall’help desk specializzato messo a disposizione. Avremo funzionalità che abilitano processi negoziali più veloci e con più fornitori, oltre a criteri di aggiudicazione più puntuali e articolati. Ci aspettiamo anche un vantaggio economico, anche se non è questa la variabile determinante che ci ha fatto propendere per questa soluzione», dice Ghiselli,
Il Gruppo SEA, posseduto per il 54,8% dal Comune di Milano e per il 45% del Fondo di Investimento F2i, gestisce gli aeroporti milanesi di Malpensa e Linate che insieme si posizionano tra i primi dieci sistemi aeroportuali in Europa per volume di traffico, sia nel segmento passeggeri (circa 30 milioni l’anno) che in quello merci. Ha anche una partecipazione azionaria dell’aeroporto di Orio al Serio (Bg). Nel 2017 i ricavi sono stati di 697 milioni di euro, in crescita del 6,8%. A maggio 2018 si è conclusa la prima fase del progetto "Nuova Linate" che entro il 2020 consegnerà a Milano un city airport completamente rinnovato. È stata completata la nuova facciata, e sono state ammodernate la zona arrivi e l’area ritiro bagagli. www.digital4executive.it
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DIGITAL TRANSFORMATION - MANUFACTURING
CollaborAction, in Barilla le manutenzioni in fabbrica si gestiscono con un’app La soluzione, realizzata da Injenia, utilizza post social al posto dei classici ticket di help desk: consente agli operatori di vedere in tempo reale gli interventi sugli impianti e scambiare informazioni ed elementi multimediali. Testata nello stabilimento Bakery di Cremona, ora è in uso anche in altri impianti, e ha portato a ridurre del 50% i tempi di manutenzione. Un progetto premiato ai Digital 360 Awards
Tempi di manutenzione ridotti del 50% e una miglior gestione delle persone: Barilla ha puntato sulla digitalizzazione per ottimizzare la gestione degli interventi manutentivi su impianti e macchinari negli stabilimenti. Per la multinazionale alimentare, presente in 10 Paesi con 29 stabilimenti e oltre 8mila persone, accelerare la presa in carico e risoluzione degli interventi era cruciale per organizzare i flussi e ridurre i fermi macchina. In precedenza infatti il processo richiedeva tempi lunghi, la comunicazione delle informazioni non era precisa, e mancava il monitoraggio e storicizzazione di attività e best practice. Gli interventi erano gestiti con registri cartacei, telefonate, lavagne, riunioni giornaliere, per poi essere sottoposti a consuntivazione massiva e periodica mediante SAP. Inoltre gli operai anticipavano le criticità via Whatsapp con cellulari personali, rendendo difficile la distinzione delle richieste e compromettendo il controllo centrale. Per monitorare e storicizzare tutte le comunicazioni, creare report aggiornati sugli interventi e formalizzare totalmente i workflow, Barilla ha quindi adottato CollaborAction, un’app web e mobile che consente di creare, invece di ticket di help desk, | 52 |
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dei post social per richiedere gli interventi manutentivi: le richieste sono viste in real time dagli operatori che possono scambiarsi informazioni e elementi multimediali. CollaborAction, sviluppata da Injenia, ha vinto il Digital360 Award 2018 nella Categoria Smart Working e Collaboration. L'app è stata testata su due linee dello stabilimento Bakery di Cremona e implementata in 50 giorni. Poi è stata introdotta in altri impianti e ha generato 100mila post, centinaia di migliaia di commenti e 3mila elementi multimediali. Oltre a tempi ridotti e miglior gestione delle persone, altri benefici sono: aumento della capacità di risposta al business, knowledge management più efficiente (informazioni accessibili all’intera azienda, monitorate, archiviate, reperibili e analizzabili), maggior partecipazione e collaborazione degli operai, riduzione degli scarti alimentari. Per il futuro è prevista la connessione dei macchinari in modalità IoT, sfruttando il machine learning per evidenziare fenomeni ricorrenti/prevedibili e implementando strumenti di assistenza virtuale. Inoltre CollaborAction sarà estesa ad altri processi di Barilla, connettendo entro il 2018 più di 2700 persone e 18 stabilimenti worldwide.
Il punto di riferimento
per l’aggiornamento Executive sull’Innovazione Digitale Gli Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano sono una fonte unica di informazioni, dati e conoscenza sui temi chiave dell’Innovazione Digitale. Attraverso una piattaforma multimediale e interattiva, WWW.OSSERVATORI.NET, è possibile accedere al know-how e agli eventi sui temi chiave dell’Innovazione Digitale per essere costantemente aggiornati in qualsiasi luogo e con qualsiasi dispositivo. Gli Osservatori elaborano strategie e modelli per molteplici ambiti B2c, B2b e PA: finance, customer experience, export, gioco online, risorse umane, sanità, beni e attività culturali, retail, turismo, media, banking, food, sport, manufacturing, supply chain finance, ...
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REPORTAGE di
PAOLA CAPOFERRO
Workforce transformation: come vincere le sfide dell’innovazione nel mondo HR Per disegnare una strategia del cambiamento, la Direzione HR ha diversi ingredienti da combinare. Lo sviluppo di cultura e competenze digitali, i nuovi modelli di organizzazione del lavoro, le iniziative per migliorare la motivazione e la soddisfazione delle persone sono alcuni aspetti affrontati all’evento organizzato da Workday, con testimonianze di Kering, PwC, Roche, Sanofi, Marsh & McLennan, e IBM
Mettersi in gioco, uscire dalla comfort zone, rivedere le abitudini e le modalità di gestione dei processi HR. Ecco da dove deve ripartire la Direzione HR per abbandonare i vecchi modelli e disegnare una strategia del cambiamento che riesca a tenere il passo con la quarta rivoluzione industriale e con ritmi di trasformazione molto più veloci rispetto al passato. Oggi più che mai bisogna essere consapevoli che per accompagnare l’HR nel futuro è necessaria una completa digitalizzazione dell’HR stessa. È stato questo il tema centrale dell’evento “Your new HR Intelligence: come riorganizzare la tua azienda in un solo colpo”, organizzato a Milano dalla multinazionale Workday (sbarcata ad aprile in Italia con una nuova filiale, ndr), che offre soluzioni gestionali in Cloud per la gestione finanziaria e delle risorse umane. «In un mondo che è sempre più digitale ogni organizzazione deve scontrarsi, da un lato, con | 54 |
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il tema del management delle persone e, dall’altro, con le sfide globali che richiedono la gestione di sistemi multipli e di temi rilevanti, e spinosi, come la compliance, la data privacy e la diversità culturale», ha sottolineato dal palco dell’evento Zoran Radumilo, il primo Managing Director di Workday Italia, fresco di nomina. Sul mercato da tredici anni, la multinazionale americana è presente oggi in oltre 200 Paesi nel mondo e ha raggiunto con la sua piattaforma oltre 31 milioni di persone: i clienti attivi sono circa 2300 (350 in Europa) e di questi il 70% sono live con un progetto. Per quanto riguarda il nostro Paese, Workday conta già 450 clienti globali, sta lavorando sull’ecosistema dei partner e dei consulenti certificati per espandere il business, si è posta l’obiettivo di raggiungere il 30% delle aziende quotate sulla borsa di Milano, e sta puntando sulla crescita del team locale. «Il potere della nostra soluzione è nel “power
REPORTAGE | WORKFORCE TRANSFORMATION: COME VINCERE LE SFIDE DELL’INNOVAZIONE NEL MONDO HR
of one”, ovvero proporre ai clienti un sistema unico che permette di avere innovazione e integrazione continue – ha ribadito Radumilo –. È così che supportiamo le organizzazioni nel percorso
di trasformazione dei processi HR, e dell’azienda nella sua interezza. Le peculiarità di Workday si possono riassumere in cinque punti: la nostra soluzione è testata e ha il 98% di customer satisfaction, ha un minor rischio di deployment con il 70% dei clienti live, presenta una forte base clienti referenziabili, può contare sull’esperienza e un set di partner certificati che condividono i nostri valori, e ha un costo inferiore». Alla base della strategia di Workday c’è il commitment con i clienti, ha raccontato Javier Moreira, Workday Regional VP for Continental Europe. «È nel nostro DNA lavorare per raggiungere un’ottima customer satisfaction. La prima domanda che poniamo ai nostri clienti è “siete contenti di Workday?”, la seconda è “raccomandereste Workday alle altre compagnie?”. Se la risposta è affermativa in entrambi i casi, ci riteniamo soddisfatti: oggi la nostra customer satisfaction ha raggiunto il 98%». Commitment con i clienti quindi, ma soprattutto collaborazione con la Direzione HR, chiamata a essere una vera e propria guida nel percorso di cambiamento, capace di ingaggiare, anche con l’esempio diretto, le persone con positività, senza avere paura del futuro. «Rispetto al tema del cambiamento, la Direzione HR ha tantissimi ingredienti da combinare tra loro. Lo sviluppo di cultura e competenze digitali, i nuovi modelli di organizzazione del lavoro, le iniziative per migliorare la motivazione e la soddisfazione sono alcuni degli elementi su cui oggi si focalizza chi si occupa di Risorse Umane» ha sottolineato Emanuele Madini, Associate Partner di P4I-Partners4Innovation. «I prossimi 5 anni
Da sinistra: Zoran Radumilo (Managing Director di Workday Italia) e Javier Moreira (Workday Regional VP for Continental Europe)
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REPORTAGE | WORKFORCE TRANSFORMATION: COME VINCERE LE SFIDE DELL’INNOVAZIONE NEL MONDO HR
Da sinistra: Emanuele Madini (Associate Partner di P4IPartners4Innovation) e Francesco De Carli (Head of HR Organization & Processes di Kering)
saranno più entusiasmanti e sfidanti per chi si occupa di HR: bisogna ripensare il modello con cui si guidano le persone, andando verso una “People First! Strategy”, perché sono loro l’asse portante. Ogni Direzione HR ha il compito di aiutare, da un lato, l’organizzazione a comprendere quale sia il suo Digital DNA e, dall’altro, le persone a riscoprire i geni digitali». Come ha spiegato Madini, il modello People First! Strategy si basa su 5 macro ambiti: «‘Digital Capabilities & Job Strategy’, per scovare e valorizzare le competenze digitali già presenti in azienda; ‘HR Job related skills’ ed ‘HR Process transformation’, a sottolineare come la stessa Direzione Risorse Umane si debba mettere in gioco dal punto di vista delle competenze e dei processi; ‘Digital Organization & Ways of working’, per lavorare bene è necessario costruire un ambiente di lavoro capace di far esprimere al meglio i talenti; ‘Digital & Innovation Engagement’, per aiutare le persone a sviluppare un’attitudine positiva al cambiamento digitale». All’evento hanno parlato anche alcune aziende clienti di Workday. Francesco De Carli, Head
Da sinistra: Marco Sala (COO di PwC Italia) e Paolo Cagnotto (HR Systems Portfolio Manager di Roche)
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of HR Organization & Processes di Kering, ha ribadito che «per affrontare al meglio questo momento di trasformazione serve coraggio da parte dell’HR, coraggio che viene ripagato dalla soddisfazione dimostrata delle persone di fronte all’adozione di soluzioni insieme semplici e innovative. La partita si gioca su due assi quindi: da una parte c’è la tecnologia, dall’altro il change management, fondamentale per accompagnare il cambiamento». Le parole di De Carli raccontano alcuni aspetti salienti del progetto, che andrà live nelle prossime settimane, nato per dare una base comune ai processi HR del Gruppo che possiede 12 brand di lusso - tra cui Saint Laurent, Pomellato, Gucci e Bottega Veneta - con una storia importante e una forte identità, presenti in 47 paesi, con un totale di circa 30 mila dipendenti. «Workday è al centro della trasformazione del gruppo e dell’HR: lavorando alla sua implementazione ci siamo resi conto che era necessario ripartire dai processi, sia per adattare Workday alle esigenze di Kering sia per permettere a Kering di cogliere le opportunità di Workday. Ci siamo resi conto che lavorare insieme ai brand come un uni-
REPORTAGE | WORKFORCE TRANSFORMATION: COME VINCERE LE SFIDE DELL’INNOVAZIONE NEL MONDO HR
Da sinistra: Laura Bruno (HR Director Italia e Malta di Sanofi) e Elena Massironi, Regional CCG Talent Management Lead di Oliver Wyman (Marsh&McLellan Companies)
co team sui processi HR e di conseguenza sul contenuto dei diversi ruoli coinvolti, sta cambiando anche la nostra cultura ben oltre le attese». Per PwC, organizzazione globale caratterizzata da un’imprenditorialità locale, Workday è l’abilitatore di processi e comportamenti omogenei. «Nella trasformazione di un’azienda è implicita anche una trasformazione delle risorse umane, ed è molto difficile gestire questi cambiamenti senza i giusti strumenti e una leadership forte e coesa. In PwC stiamo vivendo questo passaggio come un’occasione da non perdere sia per migliorare comportamenti e processi di tutta l’organizzazione sia per facilitare la trasformazione della funzione Human Capital nell’essere il business partner delle attività operative – ha raccontato Marco Sala, COO di PwC Italia –. Partendo dalla volontà di dare impulso alla trasformazione, il nostro progetto si chiama “Ignite”, abbiamo deciso di puntare su una soluzione collaudata e user friendly: nel nostro caso la decisione è stata presa a livello internazionale per poi essere estesa a tutti territori. L’input è partito da un profondo cambiamento in ambito HR vissuto negli ultimi
dieci anni: prima il 75% delle attività della nostra organizzazione faceva capo all’audit, e si trattava quindi di gestione di risorse con competenze e con caratteristiche specifiche e qualificate ma sicuramente più omogenee; oggi l’audit costituisce solo il 30% del volume delle attività e si sono aperti, quindi, nuovi scenari completamente diversi in termini di competenze, flussi di lavoro e diversity». IL COINVOLGIMENTO DEL MANAGEMENT COME LEVA DI TRASFORMAZIONE Anche Roche, la multinazionale che opera nel campo farmaceutico e della diagnostica, ha dovuto fare i conti con dinamiche in continua evoluzione e le opportunità da cogliere sulla scia del cambiamento organizzativo, con ricadute interessanti anche sul modo di lavorare. Secondo Paolo Cagnotto, HR Systems Portfolio Manager di Roche: «Per stare al passo e cavalcare l’HR Transformation serve dinamicità, flessibilità e semplificazione dei processi interni. Questo è stato il trigger del programma chiamato ‘People Project’, che racchiude tre iniziative che riassumono le priorità della nostra strategia HR: la People Practices ha messo il collaboratore al centro, rendendolo responsabile del proprio sviluppo in base a interessi, aspirazioni ed esigenze di business; l’HR Agility, volta al potenziamento delle HR skill per affrontare le sfide future; infine l’implementazione di Workday, un volano che semplifica e accelera il recruiting, la crescita delle persone, l’evoluzione del modello organizzativo». La multinazionale è andata live con il progetto il 25 aprile scorso con un ‘big bang’, attivando in contemporanea tutti i moduli in tutti i Paesi, allo stesso tempo: «Per implementare un processo di questo tipo si deve cercare di anticipare quanto www.digital4executive.it
Raimondo Cozzolino (HR Business Development Manager di IBM Italia)
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REPORTAGE | WORKFORCE TRANSFORMATION: COME VINCERE LE SFIDE DELL’INNOVAZIONE NEL MONDO HR
La Direzione HR deve guidare il percorso di cambiamento: per farlo deve essere capace di ingaggiare, anche con l’esempio diretto, le persone con positività, senza avere paura del futuro
più è possibile le decisioni strutturali e coinvolgere sin dalle fasi iniziali i manager: Workday è un software intuitivo e semplice, ma non va trascurato che il cambiamento che introduce è sostanziale soprattutto per il manager», ha concluso Cagnotto. In Sanofi hanno puntato molto sul coinvolgimento del management come leva di trasformazione. «Nel nostro caso l’introduzione di Workday ha dato un forte impulso al processo di cambiamento promosso dal team HR e che ha previsto la definizione di una strategia di change management - ha spiegato Laura Bruno, HR Director Italia e Malta della nota casa farmaceutica, che ha introdotto la soluzione tre anni fa, con l’obiettivo di avere processi sempre più globali e univoci nei 100 Paesi in cui opera. «Workday si è inserito nel processo di digitalizzazione della nostra realtà ed è stato un facilitatore della strategia HR: ha portato una maggiore trasparenza, ha messo il dipendente al centro, ha dato all’HR il ruolo di consulente allontanandola dalla semplice funzione di gestore amministrativo di processi, ma soprattutto ha permesso di abilitare nuove modalità di lavoro, come lo Smart Working, e dare ai dipendenti una flessibilità logistica». Il processo di trasformazione HR del colosso di brokeraggio e servizi consulenziali Marsh & McLennan Companies – cui fanno capo Marsh, Guy Carpenter, Mercer e Oliver Wyman Group – è stato innescato dalla necessità di ingaggiare le persone e motivarle, per accettare con positività un cambiamento ritenuto necessario per avere un’unica piattaforma che permettesse di utilizzare un linguaggio comune all’interno delle funzioni HR. «Siamo partiti a ottobre con il processo di implementazione di Workday. Il nostro
«Per affrontare al meglio questo momento serve coraggio da parte dell’HR, coraggio che viene ripagato dalla soddisfazione dimostrata delle persone di fronte all’adozione di soluzioni insieme semplici e innovative» | 58 |
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gruppo è composto da realtà molto diverse nel modus operandi, localizzate in 130 paesi, per un totale di 60mila dipendenti: per questo avevamo bisogno di una piattaforma per gestire i dati in modo sistemico e servire il business in modo più efficace. ed ecco perché a ottobre siamo partiti con il processo di implementazione di Workday», ha raccontato Elena Massironi, Regional CCG Talent Management Lead di Oliver Wyman. L’esigenza di IBM, invece, era aggiungere un tassello all’HR Digital Strategy che consentisse di completare l’ultimo miglio di un disegno strategico di più ampio respiro, consentendo a manager e dipendenti di accedere al proprio dato. «Se ci voltiamo indietro, troviamo un diverso modo di comunicare e una diversa organizzazione HR, significativamente modificata con il supporto degli HR partner, e soprattutto scopriamo oggi una nuova piattaforma digitale basata sugli Analytics», ha raccontato Raimondo Cozzolino, HR Business Development Manager di IBM Italia. «Volevamo entrare nelle pieghe dell’organizzazione, raggiungere un forte coordinamento tra le varie funzioni HR per pianificare il livello di standardizzazione necessario, che definito in anticipo ottimizza tempo e lavoro all’interno delle funzioni. Workday è stato un valido supporto e ci ha permesso di far interagire vari strumenti verso una maggiore flessibilità, venendo incontro a tutti i bisogni dell’azienda e fornendo servizi personalizzati alle persone, come la gestione del proprio cartellino, la pianificazione delle assenze e la visibilità dei benefit. Noi in Italia andremo live con Workday entro fine anno, e potremo così contare sul supporto di una piattaforma cloud standardizzata e unica, che sarà utilizzata in 170 paesi nel mondo».
ADVERTORIAL
Kaspersky Lab presenta la piattaforma Security Awareness
Le realtà aziendali possono differenziarsi per dimensioni, business o strutture; nessuna, però, può permettersi di ignorare le problematiche legate alla sicurezza informatica, un ambito che può avere impatti, senza distinzioni, sulle piccole imprese e sulle grandi multinazionali. La verità, infatti, è che tutti possono diventare un obiettivo dei cybercriminali. Secondo recenti studi, oltre l’80% degli incidenti informatici che si verificano nelle realtà aziendali è riconducibile a un errore umano. In media, le grandi imprese devono pagare circa 800mila euro per il ripristino dagli attacchi causati da dipendenti negligenti o disinformati, mentre le piccole e medie imprese ne spendono circa 70mila. I programmi di formazione tradizionali esistono, ma spesso si rivelano poco efficaci e di rado portano a risultati soddisfacenti in termini di motivazione e comportamenti adeguati. Considerata la necessità di formare i dipendenti per assicurare un’adeguata protezione alle aziende, Kaspersky Lab ha lanciato il servizio Kaspersky Security Awareness, un insieme di soluzioni dedicate ai diversi livelli della struttura organizzativa aziendale. Forte delle proprie competenze in tema di cybersecurity e di importanti investimenti nel settore R&D, Kaspersky Lab ha l’obiettivo di costruire una cultura della sicurezza digitale e sviluppare solidi modelli comportamentali con un approccio formativo che prevede dinamiche di gioco, prove pratiche e attacchi simulati, comprendendo diversi elementi che si integrano tra di loro. Il primo livello è la formazione KIPS (Kaspersky Interactive Protection Simulation), destinata ai senior manager per renderli consapevoli su rischi e problemi di aziende, banche, pubblica amministrazione e industrie.
CON L’OBIETTIVO DI PROMUOVERE LA CULTURA DELLA CYBERSICUREZZA IN AZIENDA, NASCE UN PERCORSO FORMATIVO SPECIFICO PER I DIVERSI LIVELLI DELL’ORGANIZZAZIONE, PER AUMENTARE COMPETENZE E CONOSCENZE SUI RISCHI
MORTEN LEHN General Manager Italy Kaspersky Lab
La soluzione mette nella condizione di dover affrontare una serie di cyberminacce cercando di massimizzare i profitti e preservare la fiducia. Il secondo livello è il CyberSafety Management Games: un workshop interattivo che sensibilizza i line manager sull’importanza della cybersecurity e trasmette competenze, conoscenze e attitudini essenziali. Il terzo livello fa leva sulla piattaforma di formazione online dei dipendenti per lo sviluppo di competenze in tema di sicurezza informatica: permette di fare pratica e imparare attraverso un portale interattivo, tramite moduli di formazione, valutazione delle conoscenze e attacchi di phishing simulati. Da febbraio 2017 è disponibile in 27 lingue, anche in versione prova con la demo interattiva sul sito di Kaspersky Lab. L’ultimo livello riguarda la valutazione della cultura sulla CyberSafety, per l’analisi e il giudizio reale su comportamenti e atteggiamenti quotidiani. Con i prodotti di formazione Kaspersky Security Awareness la probabilità di applicare le conoscenze acquisite nel lavoro quotidiano sale al 93% e si riduce del 90% la possibilità di incappare in un incidente di sicurezza informativa. Inoltre, i costi legati al rischio di cyberattacchi diminuiscono (-50; -60%) e aumenta di circa 30 volte il ritorno degli investimenti.
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ADVERTORIAL
Brother, stampa e gestione documentale diventano servizi “su misura”
Il mercato delle soluzioni di stampa è cambiato profondamente. Dall’acquisto di prodotti e consumabili si va verso offerte che considerano i costi della copia, in un’ottica di servizio sviluppato sulle specifiche esigenze. Un mercato, quello dei printed managed services, che cresce a doppia cifra, e che richiede un approccio completamente diverso, che parte dall’analisi dei flussi di lavoro per arrivare al disegno di una soluzione su misura. Ne parliamo con Lorenzo Matteoni, Senior Marketing Manager di Brother, multinazionale giapponese presente in Italia dal 1989 e fra i leader di mercato a livello globale del printing, che già da tempo ha colto la sfida puntando su servizi e consulenza. Quali sono le nuove esigenze dei clienti, a livello globale e in Italia? Più efficienza economica, più semplicità e qualità nel servizio: queste sono le nuove esigenze. Oggi, essere all’avanguardia vuol dire offrire soluzioni di qualità che rispondano concretamente alle esigenze dei clienti. Per questo, già da tempo la mission di Brother è sviluppare servizi e soluzioni di stampa e gestione documentale che si integrano con continuità nei flussi di lavoro aziendali, per migliorare produttività, efficienza e per ridurre i costi di gestione, rafforzando così il business. I clienti chiedono strumenti che portino efficienza per lasciare spazio a ciò che conta davvero: fare business. I servizi di stampa gestita sono nati proprio per soddisfare queste esigenze, garantendo non solo un maggiore controllo su periferiche e materiali di consumo, ma anche un migliore governo del ciclo di vita dei docu-
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LA SOCIETÀ GUIDA LA TRASFORMAZIONE DEL SETTORE PRINTED MANAGED SERVICES AFFIANCANDO I CLIENTI NELLO SVILUPPO DI PROGETTI ECONOMICI E COERENTI CON I FLUSSI DI LAVORO. SI AMPLIA L’OFFERTA PER APPLICAZIONI DI SANITÀ, RETAIL, LOGISTICA E ISTRUZIONE
LORENZO MATTEONI Senior Marketing Manager Brother
menti, eliminando i classici confini tra carta e digitale. Benefici riconosciuti dallo stesso mercato, attento a destinare sempre più investimenti a quest’ambito. Cosa spinge i clienti a preferire i servizi di stampa gestita? A spingere gli investimenti in questa direzione c’è soprattutto la promessa di una consistente riduzione dei costi associati ai processi documentali e di stampa, soprattutto attraverso l’eliminazione delle inefficienze: un’operazione capace di generare risparmi al di sopra del 25%, con punte fino al 40%. Si tratta di inefficienze di varia natura, come l’utilizzo di parchi macchine squilibrati rispetto agli effettivi bisogni degli utenti, l’uso incontrollato del colore, il completo inutilizzo del semplice fronte-retro, il dilagare di flotte multivendor, la difficile gestione delle scorte di consumabili, la scarsa integrazione dei flussi documentali e molto altro ancora. Una moltitudine di punti deboli che i servizi di stampa gestita sono in grado di eliminare, offrendo un servizio ‘all inclusive’ dai costi certi e prevedibili. Come è articolato il vostro servizio di consulenza? I nostri servizi di consulenza e la nostra politica commerciale sono due aspetti di una stessa visione
ADVERTORIAL
I servizi di stampa gestita permettono risparmi fino al 40% eliminando l’uso di parchi macchine inadeguati ai reali bisogni, e le inefficienze nell’uso del colore e del fronte-retro, e nella gestione delle scorte di consumabili
strategica basata sulla costruzione di strette relazioni con i rivenditori, che rappresentano la vera spina dorsale della nostra strategia aziendale. La nostra politica punta a valorizzare i punti di forza di tutti gli attori in gioco, facendo leva da un lato sulla nostra expertise in ambito printing a livello globale e dall’altro sulla profonda conoscenza dei dealer e delle dinamiche di mercato, proprie del tessuto imprenditoriale italiano. Di fatto si concretizza in un processo di consulenza che nasce dall’ascolto delle esigenze, le più diverse, e si conclude con l’implementazione dei progetti e successivi follow-up, secondo un percorso di verifica e costante allineamento di bisogni e risposte. Un gioco fatto di sviluppo di competenze interne ed esterne. Mettiamo in campo una squadra di professionisti che costantemente affiancano i Partner nello sviluppo delle competenze più idonee e rispondenti ai continui mutamenti del mercato. Con questo obiettivo è anche nata la Brother Business Academy: per rendere questo know-how ancora più distintivo e qualificato. Cos’è la Brother Business Academy? Incontro, formazione e scambio sono le parole chiave di Brother Business Academy: un luogo dove l’interazione, la tecnologia e l’impegno costante nello sviluppo di prodotti e soluzioni sempre più performanti si incontrano. Ai Partner di Brother è data così la possibilità di acquisire tutte quelle competenze e conoscenze per affiancarsi alle PMI nel ruolo di “semplificatori verso la trasformazione digitale”, un ruolo fondamentale nell’attuale processo di business da loro ricoperto. Attraverso un supporto ad hoc e una consulenza personalizzata, i Partner consentono alle PMI non solo di ottimizzare e personalizzare gli strumenti printing, che restano sempre centrali nei processi di business delle aziende, ma anche di sfruttare tutti i servizi innovativi che completano l’offerta di
Brother sul mercato. Si tratta di applicazioni e prodotti dalle funzionalità di ultima generazione, web-based e cloud, che aumentano la produttività aziendale e, di conseguenza, incrementano il business. L’offerta di Brother è molto ampia e articolata. Quali sono i segmenti di mercato in cui siete più presenti? Una importante direttrice lungo cui si sta muovendo l’evoluzione dell’offerta Brother è rappresentata dalle verticalizzazioni. Nel corso del 2018 la nostra attenzione sarà sempre più focalizzata su cui alcuni settori specifici, come la Sanità, il Retail, la Logistica e l’Istruzione, ambiti in cui la specificità delle esigenze necessita di risposte estremamente mirate. Si inserisce lungo questo stesso asse di sviluppo l’accelerazione nella direzione delle soluzioni calate sulle specifiche esigenze dei clienti. Brother è pronta a mettere a disposizione dei partner il proprio Special Solutions Team, un gruppo di esperti capace di coniugare l’esperienza dei Software Engineer con le competenze dei Business Analyst per realizzare soluzioni sempre più mirate. Ciò che rende unica l’offerta Brother è un mix di elementi che corrono paralleli su diversi binari. Brother è in grado di implementare soluzioni personalizzate per le specifiche esigenze dell’utenza: dalle soluzioni per l’Home Printing d’avanguardia, come la stampa da cloud, fino ai servizi per ogni tipologia di business, come I’MPS, il mobile printing e scanning o il large volume. Inoltre possiamo vantare un’approfondita conoscenza del nostro target di riferimento, le PMI, motore dell’economia italiana. È tale approfondita conoscenza che aggiunge valore alla differenziazione tecnologica definita dall’offering di prodotto e soluzioni; accanto alla qualità riconosciuta dei prodotti, affianchiamo i nostri servizi, innovativi e rispondenti alle reali esigenze del cliente.
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NORMATIVE
di
GABRIELE FAGGIOLI
CHIEF EXECUTIVE OFFICER P4I-PARTNERS4INNOVATION
I sistemi CRM alla luce del GDPR: spunti di riflessione Dalle applicazioni multinazionali all’accesso al database clienti da unità organizzative diverse, ecco alcuni casi concreti che dimostrano perché l’approccio “by design”, imposto dal Regolamento europeo per la Data Protection per progettare e gestire una soluzione di Customer Relationship Management, è essenziale. L’obbligo infatti non è solo di adempiere alla legge, ma anche di dimostrare di aver rispettato ogni prescrizione
I sistemi informativi di CRM (Customer Relationship Management) e i trattamenti di dati personali per finalità di marketing e profilazione sono sempre più diffusi, e molti settori di mercato arrivano ad avere data base anche di milioni di anagrafiche, non necessariamente tutte di cittadini residenti sul territorio italiano. Questi trattamenti, di grandissima rilevanza da un lato per il vantaggio competitivo che possono portare alle imprese, e dall’altro per il rischio di invadenza della riservatezza di individui e famiglie, devono oggi essere progettati, implementati e gestiti in modo conforme al GDPR, il Regolamento Europeo 2016/679 per la Data Protection in pieno vigore dal 25 maggio scorso. IL VINCOLO TEMPORALE NON È UGUALE IN TUTTI I PAESI L’impatto normativo è molteplice e abbraccia tutte le fasi del trattamento. Ed infatti, in fase di progettazione dei sistemi CRM occorre valutare e con| 62 |
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siderare la - o le - normative applicabili, in quanto se la raccolta dei dati effettuata da un titolare riguarda soggetti residenti in diversi paesi del mondo, ci potrebbero essere normative applicabili localmente da tenere in considerazione, indipendentemente dall’applicazione del GDPR al titolare stabilito in territorio dell’Unione Europea. Ma il problema di eventuali normative specifiche applicabili in singoli paesi riguarda anche i paesi membri dell’Unione Europea. Ed infatti, per fare un esempio, se in Italia è applicabile la regola stabilita dall’Autorità Garante per cui i dati personali inerenti gli acquisti possono essere trattati per motivi di profilazione e marketing per un lasso di tempo predeterminato dall’Autorità stessa, lo stesso vincolo temporale non è esistente in tutti i paesi. E comunque non con la stessa durata. Occorre quindi che il titolare del trattamento che intende progettare un sistema CRM a livello sovranazionale, valuti quali, quante, e dove sono localizzate le società coinvolte, con mappatura di tutte le
NOR M AT IV E | I SIST E MI C RM A L L A L UC E DE L G DP R: SP UN T I DI RIF L E SSIONE
eventuali normative rilevanti da tenere in considerazione. L’approccio “by design” imposto dal GDPR per la costruzione di un sistema CRM è quindi assolutamente essenziale. CONSENSI DA TRACCIARE (ANCHE QUELLI RACCOLTI SU CARTA) Al momento della raccolta dei dati occorrerà poi fornire l’informativa e raccogliere gli eventuali consensi che si siano resi necessari in relazione alle finalità che si intende perseguire. Al di là di scrivere testi che siano coerenti con le normative applicabili, di grande rilevanza è la necessità di essere in grado di dimostrare di aver dato seguito agli obblighi normativi. Soprattutto per le raccolte di dati effettuate con strumenti elettronici, occorre quindi valutare come impostare un sistema di tracciatura che permetta di dimostrare quando l’interessato ha fornito i dati e quali consensi ha espresso. Sotto quest’ultimo profilo, potrà risultare opportuno l’invio di e-mail tramite le quali gli interessati potranno confermare la volontà di iscrizione al sistema CRM magari cliccando su un apposito link. Il problema comunque si pone anche nelle raccolte effettuate su supporti cartacei, perché chi raccoglie i dati di milioni di anagrafiche deve poter dimostrare l’adempimento agli obblighi normativi e i consensi espressi dagli interessati, e deve quindi poter ritrovare i moduli cartacei.Un ulteriore problema che si può porre nella gestione dei dati personali è l’eventuale cambio di idea di un interessato nel corso del tempo rispetto ai consensi. Se l’interessato fornisce i consensi, li revoca dopo due mesi, e poi successivamente li fornisce ancora, nel caso in cui l’azienda tracci sempre e solo l’ultima manifestazione di volontà non sarà in grado di dimostrare in quali periodi era titolata a inviare pubblicità e in quali periodi no. MARKETING E CUSTOMER CARE: POTERI D’ACCESSO DIVERSI Ancora: molte realtà si sono scontrate con l’esigenza di fare accedere soggetti di unità organizzative differenti ai dati personali raccolti e detenuti
in un unico database. Si ipotizzi a titolo di esempio il caso della società Alfa che ha sia un ufficio marketing sia un ufficio customer care e utilizza, per queste due macrofinalità, uno stesso sistema informativo. In linea ipotetica ai dati personali inerenti i clienti potranno accedere i lavoratori dell’ufficio marketing ma limitatamente ai soli interessati che abbiano prestato il consenso, con un periodo di visibilità massimo di due anni, come da provvedimento dell’Autorità. Mentre i lavoratori addetti al customer care potranno accedere ai dati di tutti gli interessati, essendo la base giuridica del trattamento il contratto, e non il consenso come nel primo caso. Ma su una base storica di dati probabilmente diversa da quella applicata per il trattamento per fini di marketing. Questo significa che è possibile avere utenti con poteri di accesso differenziati: differenze che devono essere gestite. Sotto un diverso profilo occorre ragionare quando si entra nel merito dei diritti degli interessati, i quali potrebbero agire ai sensi del GDPR per accedere ai dati o chiederne la portabilità. Di estrema importanza è oggi sapere quali dati sono oggetto dei singoli diritti attribuiti agli interessati, comprenderne il campo di applicazione (quali trattamenti, quali basi giuridiche, quali dati) e avere strumenti anche tecnologici a supporto della ricerca dei dati e della loro estrazione. Inutile dire, per finire, che un tema essenziale è quello della sicurezza. I dati devono essere protetti previa analisi dei rischi tramite l’adozione di misure di sicurezza adeguate. Nel caso dei sistemi CRM è necessario effettuare una valutazione di impatto, attività che deve contribuire alla scelta di adeguatezza in merito alle misure di sicurezza da applicare. Gli spunti di cui sopra meriterebbero una trattazione singola molto più lunga di quanto si può fare in un breve articolo. Gli elementi di attenzione sono anche altri, tutti di grande rilevanza. L’importante è che l’approccio a un sistema CRM avvenga in ottica by design, sempre ricordando che il GDPR impone l’obbligo non solo di adempiere alla normativa, ma anche di dimostrare di aver rispettato ogni prescrizione: un caso da manuale di “probatio diabolica” con cui ci si dovrà prima o poi scontrare.
Il titolare del trattamento che progetta un sistema CRM sovranazionale deve valutare quali, quante, e dove sono localizzate le società coinvolte, con mappatura di tutte le normative locali rilevanti www.digital4executive.it
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Il punto di riferimento
per l’aggiornamento Executive sull’Innovazione Digitale Gli Osservatori Digital Innovation della School of Management del Politecnico di Milano sono una fonte unica di informazioni, dati e conoscenza sui temi chiave dell’Innovazione Digitale.
I Percorsi di Aggiornamento Executive
Workshop e Webinar tenuti da analisti ed esperti degli Osservatori Digital Innovation
permettono di stare al passo con i trend di innovazione e con le nuove teconologie digitali per essere sempre competitivi Agenda Digitale e Innovazione nella PA (2018) La trasformazione digitale sta investendo la Pubblica Amministrazione e tenere il passo dell’innovazione è l’unica strada per non perdersi. Gli Osservatori Digital Innovation organizzano un percorso di Webinar con l'obiettivo di supportare i responsabili della PA e i dirigenti in ambito commerciale nella comprensione delle normative in materia di acquisto di innovazione.
Artificial Intelligence (2018-2019) Il percorso di Webinar sull’Artificial Intelligence nasce per rispondere al crescente interesse di aziende pubbliche e private verso le potenzialità offerte dalle nuove tecnologie di Artificial Intelligence (AI). L’obiettivo è quello di indagare le reali opportunità dell’AI, combinando la prospettiva tecnologica con quella manageriale, in un contesto caratterizzato da poca chiarezza sullo stato dell’arte delle applicazioni e delle adozioni da parte delle imprese, sui benefici abilitati e sull’evoluzione attesa del mercato.
13 Webinar
7 Webinar
Per conoscere l’offerta completa dei Percorsi di Aggiornamento Executive visita www.osservatori.net e se sei interessato a percorsi tematici sull’innovazione digitale in lingua inglese contatta Daniela Lecce: email daniela.lecce@osservatori.net | telefono +39 02 2399 9524
Per maggiori informazioni: email matteo.castiglioni@osservatori.net | telefono +39 02 2399 9590 | cellulare +39 392 3821952
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BI Network, trasformare il dato grezzo in valore aggiunto per il business
La parola Big Data è diventata di moda ultimamente, come si dice in epoca social ‘#bigdata’ è un trend topic. Molti però utilizzano il termine con poca cognizione di causa, altri invece pensano sia un’entità oscura in cui è meglio non addentrarsi. Quello che è certo è che tutti avranno sentito o letto di quanti dati ogni azienda dispone e produce, ma anche della crescita esponenziale che avranno nei prossimi anni. Dati dai sistemi ERP, CRM, Database, File di Testo, Social, Log, Internet of Things, ecc. Inoltre, in contemporanea, si è drasticamente ridotto il tempo di analisi e quindi di reazione a uno specifico evento. Non è più sufficiente sapere lo stato al mese scorso, a settimana scorsa, a ieri. Il business chiede l’oggi o l’adesso, alcuni chiedono anche il domani. Ma come è possibile rispondere a queste esigenze? La risposta è abbastanza semplice a livello teorico: ‘dati + competenze + tecnologia’. La sfida è quella di elaborare una soluzione per questa necessità, trasformare il dato grezzo in valore aggiunto per il business. BI Network si inserisce in questo contesto cercando di portare il proprio approccio pragmatico che la contraddistingue. Il cliente, le sue esigenze e i suoi dati sono costantemente al centro, ciò si traduce in un percorso evolutivo di valore grazie al quale vengono trovate le soluzioni più adatte a interpretare le informazioni e i dati aziendali per ottenere spunti strategici per ottimizzare la gestione del business. «Il nostro obiettivo è quello di guidare il cliente per trarre il meglio dal proprio patrimonio informativo aziendale - spiega Davide Massari, Partner & CTO di BI Network -. Non esiste però un software per fare questo, noi infatti crediamo che il valore e la professionalità
PER AIUTARE IL CLIENTE A OTTIMIZZARE IL PATRIMONIO INFORMATIVO, L’AZIENDA OFFRE SOLUZIONI CHE SEMPLIFICANO L’ANALISI E LA GESTIONE DEI DATI, PUNTANDO SU UN GIUSTO MIX DI COMPETENZE E TECNOLOGIA
DAVIDE MASSARI Partner & CTO BI Network
delle persone sia fondamentale al fianco delle aziende per elaborare una strategia. Bisogna trovare il giusto mix tra competenze e tecnologia, cercando sempre di avere una visione trasversale su ogni esigenza per suggerire miglioramenti e/o evoluzioni». In uno dei primi incontri con le aziende, BI Network propone un confronto sugli obiettivi di un progetto di questo tipo, da affrontare passo dopo passo cercando di valorizzare anche gli investimenti già sostenuti dai clienti: minimizzare lo spostamento di dati, minimizzare la copia di dati, minimizzare il numero di posti in cui sono presenti “dati sensibili”, visualizzare dati strutturati e non strutturati, visualizzare i dati in continuo movimento, visualizzare i dati provenienti da diverse fonti, impostare un sistema fluido di indagine sui dati (discovery) per l’utente, impostare un sistema di analisi, impostare un sistema di algoritmi statistici che mettano in evidenza dei fenomeni ricorrenti (machine learning), impostare un sistema di distribuzione e condivisione delle informazioni in azienda. «Le tecnologie nascono e si evolvono per soddisfare le necessità dell’uomo, aiutano le aziende a crescere e a svincolarsi da attività manuali lunghe e ripetitive, così da concentrarsi sul monitoraggio e la crescita di esse. Non bisogna avere il timore di considerarsi non pronti alla sfida, basta un po’ di coraggio nel credere nella propria innovazione», conclude Massari.
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Internet of Things: l’importanza di proteggere e regolamentare
Mentre data center, server, reti e storage sono altamente automatizzati, nella sicurezza IT le soluzioni individuali e l’intervento manuale sembrano ancora prevalere. Per industrializzare la sicurezza IT, è importante valutare la necessità o meno di regolamentare i requisiti minimi di sicurezza per i dispositivi IoT e Industrial IoT. «Da quando i primi firewall di rete sono apparsi sul mercato, volume, varietà e sofisticazione delle minacce sono fortemente cresciuti. Ciò ha moltiplicato i dispositivi di protezione contro un’ampia gamma di attacchi diversi su svariati canali come e-mail, web e social media - spiega Simon Bryden, Consulting Systems Engineer di Fortinet -. Intanto gli utenti chiedono alla tecnologia più semplicità d’uso, il wi-fi diventa di fatto il mezzo per accedere alla rete, e sempre più dispositivi sono connessi e collegati alle reti aziendali, spesso con scarsa protezione. Ciò ha portato a un patchwork di soluzioni di sicurezza composte da strumenti di nicchia, ognuno focalizzato su una parte del problema, la cui gestione crea sovraccarichi. Inoltre i singoli dispositivi potrebbero non avere la visibilità complessiva per rilevare e bloccare un attacco sofisticato». In questo ambiente complesso e ostile, è sempre più importante quindi adottare soluzioni di sicurezza complete e olistiche in cui i componenti lavorino insieme, scambino informazioni, correlino eventi e intraprendano azioni appropriate per rilevare, proteggere, e soprattutto informare i responsabili di sicurezza su eventuali problemi. La visibilità è cruciale e la soluzione deve trasmettere le informazioni pertinenti senza sopraffare i responsabili IT con messaggi di registro o indicazioni false-positive. «Con l’IoT e l’Industry 4.0, vengono immessi sul mercato sempre più dispositivi di rete con livelli di sicurezza IT incredibilmente scarsi. Crescono gli appelli per chiedere regolamenti per proteggere l’IoT
CON L’IOT E L’INDUSTRIA 4.0 VENGONO IMMESSI SUL MERCATO SEMPRE PIÙ DISPOSITIVI DI RETE CON SICUREZZA IT INCREDIBILMENTE SCARSA. LA REGOLAMENTAZIONE È NECESSARIA, MA NON DEVE RALLENTARE L’INNOVAZIONE, NÉ TRASCURARE LA CORRETTA INFORMAZIONE DEGLI UTENTI CONSUMER E DI QUELLI AZIENDALI
SIMON BRYDEN Consulting Systems Engineer di Fortinet
(e l’IoT industriale), ma una regolamentazione ha senso in ambienti in cui gli utenti potrebbero non conoscere i pericoli potenziali e nascosti dell’uso di dispositivi connessi». È il caso del mercato IoT consumer, dove esistono device sempre più potenti e potenzialmente utilizzabili per scopi non legittimi. Le videocamere si possono hackerare per fornire informazioni su contenuto e abitanti della casa, le serrature per dare accesso a malfattori, e qualsiasi smart device per far parte di attacchi malevoli combinati, come gli attacchi DDoS IoT dell’anno scorso. «Poiché i vendor si battono per offrire sempre più funzionalità a costi inferiori, occorrono regole per garantire agli utenti informazioni sufficienti sulla potenziale pericolosità di un prodotto in casa sua. Ciò a sua volta fornirà ai vendor l’incentivo di includere la sicurezza intrinsecamente nella progettazione dei loro prodotti. D’altro canto negli usi professionali dell’IoT, in particolare le applicazioni di infrastrutture critiche e industriali, la regolamentazione non deve limitare innovazione e concorrenza. Però il personale che gestisce tali reti deve avere le informazioni, competenze e strumenti necessari per garantire che le apparecchiature soddisfino gli standard di sicurezza appropriati per lo scopo e l’applicazione specifici. Questi concetti cruciali sono alla base di soluzioni come Fortinet Security Fabric, che unifica prodotti e tecnologie tramite un approccio integrato e automatizzato», sottolinea Bryden.
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RUBRICA | RICERCHE E STUDI
INDUSTRIA 4.0, LE CINQUE LEZIONI DELL’EY MANUFACTURING LAB: «LA SFIDA ORA È COINVOLGERE LE PICCOLE E MEDIE IMPRESE» La fotografia dell’innovazione digitale nel manifatturiero italiano che esce da 4 incontri a Bergamo, Bologna, Padova e Bari con 200 imprenditori e top manager è ambivalente. Ai 2,4 miliardi spesi in tecnologie Industria 4.0 si contrappone il 60% di imprese che non investe. L’innovazione digitale sostenibile secondo EY richiede un percorso in 5 tappe
Una fotografia aggiornata dello stato d’avanzamento di Industria 4.0 in Italia è uscita dal recente convegno EY Manufacturing Lab a Milano, evento conclusivo dell’omonimo forum in 4 tappe (Bergamo, Bologna, Padova e Bari), con oltre 200 tra imprenditori e top manager del manifatturiero italiano coinvolti nei mesi scorsi appunto da EY insieme a Mind the Change, Samsung, Microsoft ed EXS Italia. «Abbiamo raccolto riflessioni e visioni sull’industria manifatturiera italiana, attraverso un format pensato per stimolare la discussione – ha detto Donato Iacovone, AD di EY in Italia e Managing Partner dell’Area Med –. Questo evento è l’occasione per mostrare i risultati emersi dai tavoli di lavoro». Iacovone ha sottolineato la situazione ambivalente dell’industria italiana nei
confronti dell’innovazione. Da una parte gli incentivi del Piano Industria 4.0 hanno letteralmente cambiato il mercato, generando progetti di trasformazione digitale della produzione e delle operations per circa 2,4 miliardi di euro, con una crescita del 30% rispetto allo scorso anno (dati dell’Osservatorio Industria 4.0 del Politecnico di Milano). Dall’altra questa tendenza non si è trasmessa a tutto il manifatturiero, visto che secondo la CDP (“Il sistema produttivo italiano”, 2018) si può definire “dinamica 4.0” solo un’azienda su 8 (il 12%, corrispondente al 31% degli addetti). Queste imprese, spiega CDP, non solo stanno digitalizzando l’intera catena produttiva e distributiva, ma hanno anche trasformato la propria organizzazione nelle fasi successive per realizzare appieno le opportunità dell’innovazione tecnologica.
A fronte di questo 12% di imprese “illuminate”, quasi il 60% (con il 27% degli addetti del manifatturiero), non ha realizzato investimenti e non mostra alcuno sforzo diretto all’innovazione. «Si tratta soprattutto di piccole e medie imprese, non solo del Mezzogiorno, visto che secondo l’Università di Padova addirittura l’81% delle PMI del Nord non ha adottato nessuna delle tecnologie abilitanti di Industria 4.0». Il coinvolgimento delle PMI è quindi la prima sfida decisiva per rendere Industria 4.0 una vera trasformazione di settore in Italia, mentre la seconda riguarda le competenze. «In fondo le tecnologie sono disponibili in tutto il mondo a costi accessibili, una nuova macchina la compro e in 3 settimane è in funzione, il punto è che per costruire le competenze adatte per farla funzionare bene ci vogliono anni».
LA SFIDA DELLE COMPETENZE
Fonti: Elaborazione EY su dati ANPAL-Unioncamere, e McKinsey Global Institute: Skill shift Automation and the future of the workforce
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RU B RICA | RIC E RC H E E ST U DI
IL NODO DELLE COMPETENZE E si tratta di competenze davvero nuove, visto che secondo elaborazioni EY su dati Anpal-Unioncamere in Italia le ore lavorate da skill fisiche e manuali, e da skill cognitive di base (data entry, capacità di calcolo) caleranno del 15% entro il 2030, mentre quelle lavorate da skill sociali e relazionali aumenteranno del 27% e le ore lavorate da skill tecnologiche (programmazione, analisi dati) addirittura del 61%. «Peccato che a fronte di questo quadro l’Italia sta esportando il meglio delle competenze, mentre ne importa a bassa scolarizzazione», ha sottolineato Iacovone. Marco Mignani, Med Industrial Products Leader di EY, è sceso più nel dettaglio dell’EY Manufacturing Lab: «È un percorso iniziato un anno fa, alcune aziende ci hanno chiesto di approfondire il tema Industria 4.0 perché erano all’inizio del percorso di digitalizzazione dell’ambito produttivo, e volevano confrontarsi con altri. Abbiamo coinvolto 50 tra CEO, COO e imprenditori per ogni workshop, di aziende molto diverse per dimensione, settore, assetto proprietario». IL PRINCIPALE OSTACOLO NON È LA TECNOLOGIA: È LA CULTURA Mignani ha poi riassunto i 5 punti più importanti emersi dai 4 incontri. «Il primo è che abbiamo riscontrato molti progetti
interessanti, per esempio di produzione di ricambi con stampa 3D, o di manutenzione da remoto di macchinari presso i clienti, ma ben raramente queste iniziative sono inserite in una strategia digitale pervasiva con una roadmap: questo è l’ultimo passaggio, quello decisivo, che ancora manca». Il secondo è che Industria 4.0 per ora è un discorso limitato quasi solo alle grandi aziende. «C’è forte correlazione tra il volume di investimenti in digital manufacturing e dimensioni aziendali, le poche eccezioni sono piccole aziende inserite in filiere con grandi capifiliera molto innovativi». Terzo: le aziende più attive sono “b2b2c”, «ma iniziamo a vedere un rovesciamento del paradigma, con aziende che partono dall’analisi del mercato e dalle esigenze di cliente, e costruiscono attraverso tecnologie digitali l’offerta, facendo partecipare il cliente al processo produttivo». Quarto: il fattore di rallentamento non è la tecnologia, ma la cultura e le competenze digitali. «Le aziende più avanzate sono quelle che sono partite con una strategia pervasiva di definizione di una cultura digitale». Infine c’è il problema di quale sia il modello migliore per implementare industria 4.0: «Il punto di partenza è definire un “digital business plan”, in cui l’utilizzo delle singole tecnologie digitali assume senso solo nel quadro di un profondo cambiamento di gestione dei processi e dell’amministrazione».
PER L’INDUSTRIA IL DIGITALE È L’UNICO MODO PER INNOVARE Profondo cambiamento realizzabile con un percorso di innovazione digitale sostenibile in 5 tappe, ha spiegato Enrico Terenzoni, Mediterranean Industrial Products Advisory Services di EY: misurazione della maturità digitale e delle opportunità, definizione di una strategia di ecosistema “digital driven”, avvio di singole iniziative digitali su processi chiave, valorizzazione di tali iniziative con allineamento dei 4 abilitatori (strategia, processi, tecnologia, persone), e infine integrazione digitale e definizione di nuovi modelli di business. «Da questi quattro workshop e dalle esperienze presso le aziende abbiamo imparato che Industria 4.0 è un fenomeno davvero complesso: le imprese che non sono native digitali devono necessariamente usare approcci “ibridi”, e la gestione della trasformazione richiede una forte governance». Nel breve termine il digitale agirà sulla competitività, ma nel medio termine si potranno ridefinire i modelli di business, e questa sarà la vera rivoluzione, ha detto Terenzoni, ribadendo la fondamentale necessità di integrare anche le PMI nella filiera di fornitura digitalizzata: «Il digitale deve uscire dai convegni ed entrare nel quotidiano delle aziende manifatturiere, perché per loro è “il” principale modo di fare innovazione oggi».
FUNZIONE FINANCE E AI: CINQUE CONSIGLI PER INTEGRARE ROBOT E SISTEMI ESISTENTI Secondo un’indagine Bain & Co su 500 Chief Financial Officer, nell’area amministrazione finanza e controllo delle aziende c’è entusiasmo per l’Intelligenza Artificiale. Ma le tecnologie digitali di base necessarie per farla funzionare non sono utilizzate adeguatamente. O addirittura non sono ancora state adottate
Sui media, sui social e nei convegni si parla tantissimo di intelligenza artificiale (AI), che sta riscuotendo molto interesse in particolare tra i Chief Finance Officer (CFO) e nell’area Finance (Amministrazione, Finanza e Controllo), per i suoi impatti sulle attività più routinarie e time-consuming, che in tale area abbondano. In molti dipar-
timenti Finance però si sottovaluta il fatto che soluzioni così sperimentali possono dare risultati solo in un contesto in cui le soluzioni digitali e tecnologie già “in casa”, in cui si è investito negli anni scorsi, sono sfruttate al massimo del loro potenziale. È la tesi di Bain & Co, basata su una recente indagine su 501 CFO e specialisti Finance in
USA, UK e Germania. I nuovi tool di intelligenza artificiale hanno già molti estimatori nei dipartimenti Finance, scrive Michael Heric, Partner della practice di Performance Improvement in Bain & Co in un articolo sul sito CFO. «Secondo la nostra indagine, l’adozione di soluzioni di RPA (Robotic Process Automation) e machine learning nella
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RU B RICA | RIC E RC H E E ST UDI
funzione Finance raddoppierà nei prossimi due anni». ROBOTIC AUTOMATION, I CASI FEDEX, FOSSIL E ALLIANZ L’articolo cita come esempi di utilizzo già in corso di soluzioni RPA aziende come FedEx (gestione di imposte, cedolini, tesoreria e riconciliazioni bancarie), Fossil Group (automazione dei processi di chiusura dei conti mensile), e Allianz (riconciliazione dei flussi di cassa tra tre sistemi diversi). L’adozione della RPA rientra in un trend di automazione della funzione Finance che è iniziata dall’OCR (riconoscimento ottico dei caratteri) e dai fogli elettronici, è passata dagli ERP, e sta vedendo anche la copertura di alcuni processi verticali (per esempio pianificazione, tesoreria, budgeting), anche con soluzioni cloud, e la digitalizzazione dei processi di fatturazione (spinta in Italia anche dall’imminente obbligo normativo, ndr). Ma è proprio qui che sta il problema, dice Bain & Co: queste tecnologie si sono affermate l’una dietro l’altra, e i dipartimenti Finance non hanno fatto in tempo ad adottarle tutte, e non hanno ancora sfruttato appieno neanche quelle che hanno adottato. Nel ciclo passivo per esempio il 55% delle aziende intervistate non usano ancora tecnologie basiche come l’OCR o i workflow online di approvazione delle fatture, eppure il 66% di queste pianifica di investire in soluzioni RPA. Nel ciclo attivo, il 43% delle aziende non usa ancora tecnologie basiche come la fatturazione elettronica o i portali selfservice per i clienti, eppure il 63% di queste intende investire in RPA. Investire in nuove tecnologie quando quelle pregresse non sono ancora state ottimizzate, però, rischia di generare problemi di integrazione, e di introdurre ulteriore complessità in un am-
bito – la gestione dei sistemi informativi – che è già notoriamente molto complicato. L’articolo però propone alcuni suggerimenti per risolvere questa situazione.
la RPA, con progetti pilota limitati, testando e imparando gradualmente, e limitando così il rischio di investire subito tanto restando delusi dei primi risultati.
MATURITÀ TECNOLOGICA, CFO PIÙ OTTIMISTI DEI COLLABORATORI
PROCESSI E DATI, GLI INTERVENTI PRIMA DELL’AI
- Non trascurare le tecnologie affidabili e già collaudate. I dipartimenti Finance, scrive Heric, stanno fortemente sottovaluando le tecnologie più collaudate: solo il 53% delle grandi aziende intervistate per esempio ha uno strumento di automazione dell’inserimento e validazione delle registrazioni contabili, e solo il 31% uno strumento di rilevazione dei ricavi (revenue recognition). – Guardare al di là dei costi. Gli intervistati indicano il risparmio di costi come prima motivazione dell’adozione di soluzioni digitali. In alcuni settori – telco, media, tecnologie, business services – prevalgono invece altre priorità: accelerare i processi, migliorarne l’accuratezza, liberare le persone da compiti a basso valore aggiunto. – Definire l’ambito di progetto, e quindi testare e apprendere. Molto spesso nel Finance c’è un problema di sopravvalutazione della propria maturità tecnologica e capacità di utilizzo dei sistemi digitali. Nell’indagine le risposte dei CFO sono più ottimistiche di quelle dei loro collaboratori sul ruolo della funzione Finance in azienda, sulla qualità delle soluzioni tecnologiche a loro disposizione, e sulla adeguatezza degli investimenti nel digitale. Per questo Bain & Co suggerisce ai CFO e Senior Manager Finance un assessment obiettivo dello status quo e degli obiettivi della dotazione digitale della funzione Finance, con input dagli addetti Finance e dai clienti interni. Dopodichè il consiglio è di iniziare a “maneggiare” le tecnologie più innovative, come appunto
– Correggere e semplificare i processi. Prima di pensare all’AI come strumento per ottimizzare un processo occorre valutare se è possibile migliorarlo e semplificarlo già prima, magari anche per rendere meno complesso lo stesso progetto di AI. Per esempio invece di progettare un “bot” in modo che possa estrarre dati da tanti tipi di fatture diverse (magari cartacee) in funzione dei diversi clienti, è sensato cercare di ridurre le tipologie di fattura o addirittura standardizzare su un unico modello di fattura, possibilmente digitale. – Garbage in, garbage out. Neanche un algoritmo di machine learning perfetto può dare buoni risultati se i dati sono di cattiva qualità. In tutti i casi, quindi, una condizione necessaria è di implementare policy e meccanismi di controllo della qualità dei dati dell’area amministrazione, finanza e controllo. Insomma, conclude Heric, i tool digitali sono abbastanza maturi da consentire alla funzione Finance di individuare opportunità di creazione di valore, e non solo di monitorare numeri. E di gestire proattivamente i rischi, e non solo di mantenere il controllo. Tuttavia per poter adottare strumenti di AI senza brutte sorprese occorre necessariamente poter contare su una base di tecnologie consolidate e adeguatamente sfruttate, testando tali strumenti per individuare quei pochi che davvero possono fare la differenza nel caso di una specifica azienda, e integrandoli con calma nell’ambiente esistente.
L’adozione di soluzioni di RPA (Robotic Process Automation) e machine learning nella funzione Finance raddoppierà nei prossimi due anni: il 66% delle aziende pianifica investimenti per il ciclo passivo, il 63% per quello attivo | 70 |
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ADVERTORIAL
VoipVoice: «Non ci sono più scuse, questa è l’ora del VoIP»
«Quella che stiamo vivendo è un’era di nuovi servizi ma anche di nuove opportunità. Ci sono enormi autostrade digitali che possono essere percorse e le aziende devono iniziare a considerarle le vie principali per ottenere benefici». Così Simone Terreni, Managing Director VoipVoice, presenta gli scenari futuri. VoipVoice, il primo provider VoIP business oriented in Italia, è pronto in tal senso a fare la differenza. L’azienda, nata nel 2006 dalla fusione di diverse realtà italiane intenzionate a rappresentare una novità nel mercato Telco, vive oggi una forte espansione. Con più di 8.500 licenze attive, oltre 700 partner tecnologici su tutto il territorio, VoipVoice è per il settore ICT un punto di riferimento serio e competente. Lo testimoniano le tante certificazioni di interoperabilità tecnica con i principali vendor, italiani e internazionali, di hardware e software VoIP, e le partnership tecnologiche con alcuni tra i migliori distributori italiani. «Essere un provider verticalizzato sul canale ci permette di offrire i migliori servizi digitali VoIP e connettività. Collaboriamo con realtà di altissimo livello per garantire una user experience semplificata e chiara ai nostri partner system integrator e installatori, che hanno la libertà di scelta per quanto riguarda servizi e soluzioni da proporre ai clienti». A questo modello di vendita indiretto, VoipVoice associa la formazione accademica per i partner, sia in aula sia con webinar, per rendere professionisti e consulenti sempre più preparati e in grado di cavalcare l’onda della digitalizzazione che si sta diffondendo nel nostro Paese. «Non ci sono più scuse, questa è l’ora del VoIP», afferma il Manager, tenendo ben in mente che tutte le dorsali italiane sono da tempo già cablate in VoIP e che presto
PE R U LT ER I O R I I N F O R MA ZIONI...
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IN AZIENDA IL VOIP NON SOLO PERMETTE UN RISPARMIO DEI COSTI DELLE BOLLETTE (DAL 20 AL 60%), MA È ANCHE UN INVESTIMENTO IN TERMINI DI MOBILITÀ DEI LAVORATORI E SCALABILITÀ DELLA SOLUZIONE, FLESSIBILE NELLA SUA ADATTABILITÀ A DIVERSI PRODOTTI DI UCC
SIMONE TERRENI Managing Director VoipVoice
sarà dato l’addio all’analogico a favore del digitale, così come è avvenuto recentemente in Francia. «FTTH, fibra dedicata, connettività satellitare e connettività wireless, 5G: il mercato sta evolvendo rapidamente e Internet non ha più barriere e ostacoli, nè dal punto vista della connessione nè dal punto di vista del VoIP». Le offerte di telefonia, che riguardano attivazione nuovi numeri, GNR (gruppo a numerazione ridotta) e portabilità, sia a consumo sia flat, rispondono a tutte le esigenze delle aziende clienti, a cui sono sempre proposti anche i servizi di backup per garantire la continuità lavorativa. Il VoIP in azienda non solo permette un risparmio notevole dei costi delle bollette (dal 20 al 60%), ma è anche un investimento in termini di mobilità dei lavoratori e scalabilità della soluzione, flessibile nella sua adattabilità a diversi prodotti di UCC. In questa ottica, ben si associa il ventaglio di servizi di connettività VoipVoice. «Dalle xDSL alle FTTH e Fibra Dedicata ILC, dalla connettività satellitare VoipSat fino al VoipAir, il nuovo servizio di connettività wireless permetterà di raggiungere qualsiasi utenza business, ovviando al problema della mancata copertura broadband. Il nostro obiettivo è essere all’altezza delle sfide che abbiamo davanti, per questo vogliamo rafforzare la nostra rete vendita, identificando una cinquantina di special partner tecnicamente più preparati che possano contribuire insieme a noi alla digitalizzazione dell’Italia», conclude Terreni.
RU B |RICA | N O MNE INE RUBRICA NOMI
CAMBIO AL VERTICE DI FS
Il nuovo presidente del Gruppo Ferrovie dello Stato è Gianluigi Castelli. La sua nomina è arrivata insieme a quella di Gianfranco Battisti come nuovo Amministratore Delegato del Gruppo. Nato nel 1954, Castelli è esperto di inno-
vazione e digital transformation, con una lunga esperienza maturata in Eni, dove nel 2010 aveva raggiunto l’incarico di Executive Vice President ICT. Entrato nel Gruppo FS due anni fa con l’incarico di Direttore Centrale Innovazione e Sistemi Informativi, aveva in parallelo assunto il ruolo di Amministratore Delegato di ‘nugo’, l’app annunciata da FS a giugno 2018 che permette di acquistare in pochi passaggi tutti i biglietti dell’itinerario scelto, combinando le informazioni su orari e corse di circa 400 vettori. Battisti ha lasciato la carica di Amministratore Delegato di FS Sistemi Urbani, il ramo immobiliare del Gruppo FSI, ruolo ricoperto dall’inizio del 2017. Laureato in Scienze Politiche e in Economia, nel 1988 ha iniziato la sua carriera nel Gruppo Fiat Auto, dove è rimasto
fino al 1997 con ruoli di responsabilità nella Direzione Marketing/Commerciale. Nel 1998 è entrato nel Gruppo Ferrovie dello Stato come Responsabile Marketing Operativo e Yield Management del Prodotto Notte, per poi assumere vari incarichi, fino a quello di Direttore della Divisione Passeggeri Nazionale e Internazionale e dell’Alta Velocità di Trenitalia, dal 2009 al 2017.
JÉRÔME FAVIER CEO, GRUPPO DAMIANI
Jérôme Favier è il nuovo CEO del Gruppo Damiani. Il manager è il primo non membro della famiglia a ricoprire questa carica e a lui spetta il compito di definire le strategie per tutti i marchi di proprietà del Gruppo, rispondendo direttamente a Guido Damiani per le scelte di vertice. Favier ha maturato una consolidata esperienza dirigenziale, iniziata in Danone e Unilever, prima di affacciarsi nel setto-
re del lusso: nel 1994 è entrato in Richemont occupandosi delle strategie di Cartier e poi di Jaeger-LeCoultre. A seguito della nomina, Damiani ha modificato anche l’organizzazione commerciale con lo scopo di potenziare la collaborazione con i partner nell’ambito della gioielleria di marca e con la volontà di privilegiare coloro che investiranno nella gamma dei marchi del gruppo.
CLAUDIO PICECH CEO, SIEMENS ITALIA Claudio Picech è il nuovo CEO di Siemens Italia. Il manager prende il posto di Federico Golla, che lascia l’incarico a conclusione del mandato. Picech mantiene anche la carica di Country Division Lead di Energy Management, ruolo che ha ricoperto sin dal suo ingresso in Siemens, nel dicembre 2014, con il compito di rafforzare la struttura commerciale e di marketing e accompagnare la trasformazione digitale delle attività di business. Laureato in Ingegneria con specializza-
zione Elettrotecnica presso la University of Applied Sciences and Arts Northwestern Switzerland, Picech ha iniziato la sua carriera in ABB, dove ha sviluppato competenze specifiche nell’ambito della Power Generation, assumendo nel tempo incarichi sempre più rilevanti. Successivamente, ha maturato esperienze professionali in Svizzera e Svezia con responsabilità a livello globale, e prima di fare il suo ingresso in Siemens, ha ricoperto in Alstom la carica di Managing Director per l’A-
rea Center South East Europe/North Africa e per il local service center Italia.
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R UBRI CA | NO MI NE
RAFFAELE GIGANTINO COUNTRY MANAGER, VMWARE Raffaele Gigantino è il nuovo Country Manager per l’Italia di VMware. Il manager riporta direttamente a Henri van der Vaeren, vice president VMware SEMEA, e avrà il compito di guidare la crescita di VMware Italia, supportando le imprese e le organizzazioni governative del Paese ad abbracciare e accelerare il percorso di trasformazione digitale. Gigantino vanta oltre 15 anni di esperienza in ambito IT: in Cisco Systems Italia ha ricoperto ruoli di responsabilità nella prevendita e vendita e, successivamente, in Microsoft è stato Direttore Vendite per la Pubblica Amministrazione Centrale fino
a diventare Director Solution Sales per Data e Artificial Intelligence – Cloud & Enterprise per l’area Western Europe. «Sono entusiasta di accettare la sfida di far crescere ulteriormente VMware in Italia – ha commentato il nuovo manager –. La nostra priorità sarà aiutare i clienti ad accelerare la trasformazione digitale, guidando la crescita facendo leva sull’intero portafoglio di soluzioni innovative di VMware e attraverso l’ampio ecosistema di partner e alleanze». In occasione dell’annuncio della nomina di Gigantino, VMware ha comunicato anche la promozione di Alberto Bullani da
Country Manager di VMware Italia a Senior Director VMware vSAN e HCI per la Regione SEMEA. Bullani sarà dunque responsabile della strategia di crescita e delll’adozione della linea di prodotti vSAN / HCI.
MICHAEL MANLEY AD FCA-FIAT CHRYSLER AUTOMOBILES ricopre anche la carica di Direttore Operativo della regione NAFTA (l’area nordamericana). Prima del suo ingresso in FCA, Manley è stato Head of Jeep brand da giugno 2009 a luglio 2018, e Head of Ram brand da ottobre 2015 a luglio 2018. In DaimlerChrysler è approdato nel 2000 con la carica di Direttore Sviluppo della rete in UK, ha ricoperto il ruolo di Chief Operating Officer per la regione APAC. Ha, inoltre, diretto le attività internazionali di Chrysler, fuori dall’area NAFTA, con la responsabilità di favorire e gestire gli accordi di cooperazione per la distribuzione dei prodotti del Gruppo Chrysler attraverso
il network internazionale di Fiat. Da fine 2008 è stato Executive Vice President – International Sales e Global Product Planning Operations. Nato 54 anni fa a Edenbridge, in Gran Bretagna, Manley ha conseguito il Bachelor of Science in ingegneria presso la Southbank University di Londra e, successivamente, un Master in Business Administration presso l’Ashridge Management College. Da settembre 2011 è membro del Group Executive Council (GEC), l’organo che riunisce i top manager di FCA e che è responsabile della supervisione operativa del business e di alcune scelte operative.
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Fiat Chrysler Automobiles ha un nuovo Amministratore Delegato. Il successore di Sergio Marchionne è Michael Manley, che
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