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MELHFA



Solo chi vive nel deserto ne conosce il silenzio Che scende da ogni stella palpitante E dalla bianca tomba della luna Si stende senza palpiti il deserto Simile al cuore di una donna morta Che nessuna carezza risveglia Solo chi è perso nel deserto Senza canti di uccelli Né stormire di fronde Nell’arido grigiore di pietra e sabbia La vera solitudine conosce Io mi sono disteso In questa immensità che scava Di sotto ai nostri piedi La cuna della tomba e del vagito Canto dei beduini del Sahara.



nuova collezione

LIMITED EDITION Per te, fiore nel deserto Una collezione ricercatissima con tessuti Made in Marocco che arrivano dal deserto. Design e manifattura italiana per capi iconici come i caftani, abiti sontuosi e comodi che ti accompagneranno in ogni viaggio.













TECNICA BATIK

AMBA-TITIK


Il Batik è una tecnica di colorazione per blocco con cera dei tessuti che ha origine in India circa 2000 anni fa.

cera calda e a modo di penna si tracciano disegni sul tessuto, bloccando il passaggio del colore in queste zone.

L’origine della parola Batik deriva dalla parola giavanese amba (scrivere) e la parola indonese titik (“punto”, “fare

I canting sono fatti nel nostro laboratorio orafo per ottenere diverse misure di tracciato.

punti”).

Il Batik consiste nell’applicare cera calda in alcune zone del tessuto. Il metodo tradizionale di applicazione della cera si fa attraverso uno strumento chiamato canting, attraverso il quale passa la

Si realizzano tessuti molto preziosi, con colori e disegni particolari. I colori resistono molto bene al passo del tempo, ai lavaggi e alla luce del sole, dato che i tessuti s’immergono completamente nella tintura in modo che possono assorbire le tonalità.


In Indonesia, infatti, il batik è parte integrante della vita quotidiana: inizialmente riservato alle donne nobili, da privilegio aristocratico (soprattutto giavanese) divenne costume nazionale indonesiano. Ovunque e in ogni momento della giornata ci si può facilmente imbattere in indumenti colorati col batik: all’alba lo si trova addosso alle tante signore che vendono frutta e verdura per strada; la mattina è l’ora migliore per vedere intere scolaresche che si recano alle proprie scuole con uniformi dalle mille fantasie; durante le importanti Scuola in cui viene festeggiata la giornata del batik. Non bisogna poi dimenticare come tale tecnica sia fondamentale nei vestiti utilizzati nei momenti più sacri, come il matrimonio e la circoncisione. Analogamente tutte le maggiori espressioni artistiche indonesiane (dalla danza alle marionette di pelle – wayang kulit, dalle arti marziali del pencak silat alle inconfondibili orchestre del gamelan) richiedono indumenti tradizionali fortemente

caratterizzati dalla presenza del batik. Una tecnica così viva in una popolazione di 250 milioni di persone e così unica e sublime che esattamente tre anni fa, il 2 ottobre 2009, fu nominata dall’UNESCO ‘capolavoro del patrimonio orale e culturale dell’umanità’. Data che da allora significò per tutto il grande arcipelago asiatico la ‘giornata del batik’, una festività ancora giovane ma che sicuramente avrà modo di radicarsi negli animi con il passare del tempo.



SAHARAWI,

IL PAESE CHE NON C’È



Prima di partire guardo e riguardo l’atlante. Penso che sia datato, del resto chi ne possiede uno nel 2018? Allora cerco online ma nulla. Non c’è traccia della Repubblica Arabo democratica del Saharawi. Ufficialmente non esiste. Da circa trent’anni il popolo Saharawi vive in campi profughi Improvissati tra Marocco e Algeria. Coraggiosamente difende la propria identità senza accettare di piegarsi alle pretese di annessione da parte del Marocco,

interessato a sfruttare le notevoli riserve di fosfati presenti nella zona. I Saharawi sono una popolazione musulmana di origine Berbera. Sono nomadi del deserto e abituati a vivere in tribù matriarcali. A modo loro, per le vicende politiche degli ultimi trent’anni, che li hanno divisi tra campi profughi e paesi stranieri, sono ancora un popolo nomade, in “transito” verso quella indipendenza in cui ancora credono strenuamente.


Deraa e melhfa Un paio di uomini si aggirano frettolosamente mentre prendiamo il tè. Il tempo sufficente per attirare la mia attenzione, chiedo immediatamente alla mia guida il nome degli abiti che indossano. A rispondermi è invece una giovane donna seduta accanto a me. Nata in un campo rifugiati in Saharawi, come molti giovani ha studiato in Spagna e mastica l’inglese. Gli uomini indossano di solito un deraa, una tunica simile ad un gandoura marocchino con degli spacchi laterali per meglio sopportare le roventi temperature del deserto. Il daraa è indossato con i tipici pantaloni quandrissi. Ma ciò che più mi incuriosisce ora ovviamente è capire cosa indossano le donne. Mi guard’arte. Ci sono letteralmente do in giro e la la mia giovane centinaia di modi per indosamica mi spiega subito che sare un melhfa anzi probabiltutte indossano un melhfa. mente ogni donna ha il suo. Non si tratta d’altro che un Ridendo la ragazza mi conampio taglio di stoffa di forma fida che la cosa più difficile rettangolare. Tradizionalmen- è trovare l’abbigliamaento te di colore nero o blu ora si adatto ai vestiti sottostanti. trova nei più svariati colori e E così dicendo mi fa spiare i fantasie. Vere e proprie opere jeans che indossa.


Se si raccolgono i capelli in uno chignon alto è più facile far cadere il melhfa e sistemarlo sul corpo in modo armonico. Molto più di un simbolo religioso, i differenti colori del melhfa indicano appartenenza a determinate tribù. L’origine di ogni capo d’abbigliamento è sempre legata alla funzione protettiva, concetto che spesso viene meno in occidente ma fondamentale nel deserto.

Il sole del deserto da mezzogiorno alle cinque non può essere affrontato senza protezione. Per non parlare del vento e della sabbia. Il melhfa è parte integrante dell’identità saharawi e le donne lo indossano con vero orgoglio. Come resistere al fascino del melhfa e alla possibilità di declinarlo come si vuole?



IL MAROCCO E IL FASCINO DEL CAFTANO



Atterrata a Marrachech la prima sorpresa: sciopero di autobus e tassisti. O almeno questa è l’informazione che mi viene data da un signore che subito dopo si affretta ad offrirmi un passaggio sulla sua motocicletta. L’idea non mi sembra delle migliori ma non vedo alternative valide quindi mi faccio coraggio. Inizia il viaggio con l’improvvisato moto tassista: tiene con una mano il mio bagaglio e guida con l’altra. Evito di guardare. Il clima è caldo e piacevole. Alternanza di strade asfaltate e sterrate, capre che si avvicinano non appena ci femiamo ad un semaforo. Direzione piazza Jamaa el Fna. Appena arriva rimango subito colpita e affascinata dallo spettacolo davanti a me ma non indugio e parto alla ricerca di un hotel. Ne scelgo uno molto modesto proprio dietro la piazza e rimango stupita dall’opulenza del giardino interno e dall’ospitalità araba.

PIAZZA JAMAA EL FNA E IL SOUK Torno con calma alla piazza: un brulicare di turisti, venditori, polizziotti, carrozze, cocchieri che cercano di convincere turisti a fare un giro. Il ricordo più vivo è quello olfattivo: spezie, stallatico, arance, carne alla brace,mandorle carammellate.E i colori, in turbinio vivido di sfumature, soprattutto nei vestiti per noi occidentali indecifrabili ed affascinanti. Trovo un compagno di viaggio con cui dividere l’avventura nel Souk. Ci avventuriamo tra risate e sguardi e motorini guidati da bambini che ci sfiorano. Tutti vogliono venderti tutto. Ad un certo punto qualcuno letteralmente rapisce il mio compagno di viaggio tirandolo in una tenda. Un anziano venditore inizia a ricoprire il mio amico con i tipici abiti marocchini.


QMIS, KAFTAN, DJELLABAH... E MOLTO ALTRO In men che non si dica eccolo indossare un qmis, una lunga tunica, sopra i seural i pantaloni larghi. Ai piedi delle babouche in cuoio giallo che trovo splendide e il tocco fianal, l’mmancabile Fez. Convinco il mio amico a restare vestito così, con gioia del commerciante e decido che farò lo stesso nei prossimi giorni.

Decido di affidarmi a Karima, una ragazza marocchina vissuta per anni in Italia e inizio un viaggio nella moda marocchina. Come in tutti i paesi del mondo l’occidentalizzazione dei costumi a cambiato le usanze tradizionali e gli abiti tipici vengono ormai reinterpretati dalle nuove generazioni con risultati davvero spettacolari. Karima mi spega che le donne marocchine di solito indossano il kaftan, in realtà si tratta di due vestiti lunghi da


sovrapporre. Nel quotidiano si indossano abiti preconfezionati, per le feste e matrimoni è di rigore l’abito su misura, impreziosito dalla cintura tradizionale, la mdamma. Sia uomini che donne quotidianamente indossano una djellabah, una lunga tunica con un capiete cappuccio, chiamato Qob. Il cappuccio protegge dal solo dal vento e qundo non ha questa funzione viene utilizzato come tasca o borsa. I colori delle djellabah utilizzate dalle donno sono di solito più sgargianti e per le occassioni speciali presentano ricami e perline. Di origine berbera il gandoura, una tunica tradizionale dalle maniche corte e dalle tasche laterali.

Da allora è stato declinato in ogni modo possibile ed immaginabile, diventando in alcuni casi simbolo di eleganza ricercata nelle versioni in seta o stoffe pregiate e ricami importanti. E come dimenticare i qandrissi , pantaloni di origine persiana largamente utilizzati anche in Marocco e tipici dell’immaginario relativo al mondo arabo. Per intenderci i classici pantaloni larghi stretti alle caviglie.

Il Marocco è vicino e pieno di fascino in ogni mese dell’anno ma non c’è bisogno di raggiungerlo per provare l’emozione di indossare un abito tipico marocchino. Visitate in nostro online store e decidete voi come indossare questi Lungi dall’essere confinati al pezzi ricchi di personalità. solo Marocco, alcuni di questi capi hanno dettato moda in tutto il mondo. Negli anni sessanta è il caftano a diventare il pezzo essenziale del guardaroba di ogni figlio dei fiori che si rispetti. Rigorosamente indossato sopra un paio di jeans all’epoca ha avuto un incredibile successo grazie a Diana Vreeland, allora direttrice di Vogue.



Afro Fashion Week Milano



Afro Fashion Week Milano



Images by various artist via Unspalsh

Art director&FashionDesign: Ida Chiatante Coordinator: Rubina Calella Photography: Ida Chiatante e Adolfo Carrasco Graphic Designer: Carmelia Cannone Copy: Elena Locatelli Fashion blogger Models: Annamaria Chialà, Antonio Dibello We thank Kifesh Marocco per i tessuti



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