Editrice Veneta Ideale Concepts
2012 &@
2012
&@ Editrice Veneta - Vicenza 2012 id&@le concepts - Vancouver 2012
Nonno Mario Pan nel giorno del suo 80° compleanno, circondato dai quattro nipoti e dal cagnolino Piccolo: a sinistra, Étienne e Luca Pan; a destra, Samuele e Paolo Silvera.
Ai miei figli e nipoti Ida Maria, Davide, Marta Étienne, Samuele, Paolo, Luca & alla memoria dei cari amici Enzo, Giulio, Rinaldo
Amici indissolubili anche dopo la Liberazione: Mario Pan (accosciato) con Enzo Dalla Via, Giulio Piccoli, Rinaldo DiodĂ e - al centro - la guida alpina Germano Kostner.
Mario Pan
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Quando eravamo... I RAGAZZI DEL RAGAZZI TRIANGOLO VERDE
del
tr angolo verde &@ Editrice Veneta - Vicenza 2012 id&@le concepts - Vancouver 2012
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COLLANA NARRATIVA 2012 ISBN 978-88-8449-556-3 1a e d i z i o n e - M a r z o 2 0 1 2 ...............................
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PREFAZIONE Cinquant'anni dopo ...
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ezzo secolo da quella fine estate del 1962 quando ho incontrato per la prima volta Mario Pan. Lui giovane imprenditore alle prese con la neonata fabbrica di acque minerali e bibite, io da oltre un decennio impegnata nel settore della stampa vicentina. Lui reduce da un lungo periodo di degenza in clinica ortopedica a seguito di incidente aereo, io abbastanza capace di esercitare il vizio-virtù di fare domande, di ascoltare e memorizzare risposte. Per imparare e poter poi comunicare. È ancora oggi il mio mestiere. Mario mi fece conoscere la sua storia, il suo mondo. Non tanto quello dell'attività industriale, quanto piuttosto quello dei suoi sogni. Sogni di esploratore giramondo, di dedizione a cause umanitarie, di generosità verso il prossimo. È questo il lato prezioso di Mario. Quello dimostrato fin dagli anni adolescenti, quando si buttò anima e corpo nella Resistenza, con coraggio forse un pochino incosciente ma senza esitazioni e senza calcoli. Un idealismo concreto il suo. Non teoria ma pratica di vita. Cinquant'anni fa Mario - mio marito dalla primavera 1963 - cominciò anche a parlarmi dei suoi ricordi di ragazzo, raccontandomi alcuni degli episodi ora raccolti in queste “note” . Ho potuto così rivivere impressioni e vicende narrate in queste pagine, sebbene nella mia memoria fossero più sfumate. Ho conosciuto personalmente alcuni dei pro9
tagonisti di queste storie, in particolare il brillante comandate “Nino” e il caro amico “Rinaldo”. Mi sono appassionata e insieme divertita a fare l'editing di queste pagine, arricchite da foto d’epoca nel progetto grafico di nostra figlia Ida Maria. Sono sicura che figli, nipoti e amici apprezzeranno il dono che Mario ci fa condividendo le sue memorie di staffetta partigiana negli anni 1943-45. Episodi finora poco conosciuti, una piccola tessera da inserire nell'immenso eroico mosaico della Resistenza italiana; ma soprattutto uno stralcio di vita da meditare ripensando alla nostra non facile vicenda famigliare di esuli accolti tre decenni or sono da una seconda grande patria, il Canada. E la storia continua… Anna Maria Zampieri Pan
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PREMESSA Pe rc h é q u e s te m i e n o te ?
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prile 2004. Mio nipote Étienne, per qualche anno vissuto a Ladner con noi nonni, stava frequentando la locale scuola secondaria. Chiedemmo, io e mia moglie, di incontrare il suo “counsellor”, per uno scambio di idee inteso a capire le ragioni di una discutibile condotta del ragazzo e del suo apparente scarso impegno negli studi. Mister Bourgeois ci ascoltò tranquillo e comprensivo, facendo tuttavia trapelare una certa simpatia per l’allievo. Ad una mia osservazione, palesemente critica nei confronti di Étienne, in tono provocatorio mi chiese: �Ma lei cosa faceva mai a 13 anni?�. Perplesso, quasi sentendomi in colpa e in modo poco convincente balbettai: �Quando avevo 13 anni… il nostro Paese, l’Italia, era nel pieno della guerra�…. e ammutolii. Quella domanda tormentò a lungo i miei pensieri e i miei sonni. Cominciai così - come trattarsi di un film in retrospettiva - a revisionare il mio passato. Questo, cari amici, è il motivo per cui mi sono messo di buona volontà a scrivere queste note. In forma semplice e non certo forbita, da illetterato come da sempre mi considero, “arrugginito” inoltre dal trascorrere del tempo. Ma tutti i fatti di cui vi parlerò sono realmente accaduti. Qualche nome sarà incompleto e magari storpiato, qualche data e luogo scambiati: dovrete perdonarmi, sono passati 11
quasi settant’anni! Quanto scrivo è realtà. Certe immagini di quel periodo sono indimenticabili, sono talmente “a fuoco” da farmi pensare che mi seguiranno per l’intera vita! Raccontando, dovendo quindi volgermi indietro di decenni, considero buona l'occasione per far arrivare il mio messaggio ai miei figli e nipoti, e ai figli nipoti e pronipoti dei miei amici, siano essi a Vancouver o a Vicenza, a San Pietro in Gù o altrove. Desidero anche rivolgermi a coloro che sono stati direttamente coinvolti o testimoni degli episodi ricordati. Credo che molti fatti siano inediti. In quei momenti era tanto pericoloso sapere, sentire, conoscere, bisognava soprattutto tacere e dimenticare. Cari giovani, queste pagine potrebbero aiutarvi a sapere che cosa hanno fatto i vostri nonni e i vostri padri, senza mai chiedere nulla in cambio. Quanti sono stati uccisi, quanti imprigionati, torturati, quante sofferenze, quanti sacrifici. Era il prezzo per abbattere le dittature fascista e nazista, per conquistare pace e libertà, democrazia e giustizia. Voi oggi che…. Mario Pan da Vancouver in Canada, a.d. 2012
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Momenti della prima infanzia e dell'adolescenza: Mario in gita a Venezia con mamma Ida e cuginette, e poi la famiglia Pan al completo; SOTTO con papĂ Giocondo e la sorella Maria.
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PRIMA A SINISTRA in secondo piano, la famosa panchina di Giocondo Pan nel giardino della Birreria Sartea.
Maria & Mario, da sempre affettuosi sorella & fratello.
QUI A DESTRA, Mario pronto per le sue avventure....
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CAPITOLO
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ANTEFATTI (1941-1943) Un ragazzino da "rieducare"
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el 1941, a Vicenza mia città natale, frequentavo la quinta classe presso la scuola elementare di Porta Padova: sezione B, con il maestro Gemmo. Alla sezione A c’era il maestro Rebecchi, del quale era alunno il caro amico Enzo Dalla Via. Ritroveremo in seguito ambedue. Il mio insegnante era un uomo buono e colto. Grande conoscitore della storia di Roma, non perdeva l’occasione per esaltarne i valori. Come quasi tutti i suoi colleghi insegnanti, anch’egli simpatizzava per le istituzioni fasciste. Negli studi non me la cavavo male, sopravvivevo alla meno peggio, emergendo soprattutto in educazione fisica. Qualche tempo prima della scadenza dell’anno scolastico, caddi da una pianta del frutteto di casa e mi fratturai il braccio sinistro. Ingessato a dovere, andai ugualmente a scuola, potevo ben scrivere con la mano destra…. Il maestro pensò di premiare la mia “dedizione” con una croce al merito fascista (tanto a qualcuno doveva pur darla!). Di ritorno a casa, dove i miei erano a tavola per il pranzo, orgoglioso mostrai croce e motivazione. Mio padre ad alta voce lesse: �A Mario Pan, alunno esemplare, questa medaglia al merito fascista perché, nonostante avesse un braccio fratturato, con spirito di abnegazione continuò a frequentare le lezioni�. Papà restò paralizzato! Scoppiò un uragano, credevo mi volesse 15
quasi rompere l’altro braccio.
Finito l’anno scolastico, cominciò per me un intensissimo periodo di rieducazione, antifascista naturalmente. Oltre a mio padre, alcuni suoi amici collaborarono al mio “recupero”. Ricordo Enea Margotti, che da Verona veniva spesso a casa nostra; e il flautista Elsi, famoso per le sue sagaci barzellette oltre che per avere accompagnato la grande cantante Toti Dal Monte in giro per il mondo. C’era poi il mio “santolo”, il nobile veneziano avvocato Giuseppe Cappello, aperto e fiero antifascista; mi ripassava la lezione di domenica nella sua villa di campagna ai Laghi di Cittadella. La “rieducazione” si approfondì al punto tale che mi fecero ripetere la quinta elementare presso il Collegio Baggio. Ambiente non allineato, dove non era obbligatorio partecipare alle riunioni fasciste del sabato. ... Fin da bimbi promettevano bene sia negli impegni che nei passatempi...
... le cantine di Giocondo Pan e ... le partitine a carte e a scacchi degli anni futuri. 16
L a b a n d a d e l Tr i a n g o l o Ve r d e
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ell’autunno 1942 - l’Italia era già in guerra dal 10 giugno 1940 alleata ai tedeschi - cominciai a frequentare la prima classe della scuola media di Piarda Fanton. Il sabato era obbligatorio recarsi, in perfetta divisa, alla G. I. L. (Gioventù Italiana del Littorio) per le adunate fasciste. Volontariamente, ma anche spinto da mio padre, alla mia divisa mancava sempre qualcosa: una forma di resistenza passiva. Era un sabato pomeriggio quando il capo centurione, camerata Ventra, dopo avermi redarguito come sempre ad altissima voce, mi fece accompagnare in prigione per tutto il periodo dell’adunata. Nella piccola cella non ero solo e feci amicizia con un ragazzo, anche in punizione, vestito “da marinaretto”: era Rinaldo Diodà, che in quel periodo abitava in una casetta dietro la proprietà Soave al cavalcavia di Porta Padova.
Enzo Dalla Via, amico mio da oltre sei anni e da tempo amico pure di Rinaldo, di sabato frequenta la GIL. Ma Enzo alle adunate non ci conosce, anzi ci evita. La sua divisa è sempre perfetta! Nei pomeriggi liberi dagli impegni scolastici abbiamo l’abitudine, noi ragazzi della zona di Porta Padova e della parrocchia di San Pietro, di ritrovarci insieme per parlare, giocare e vedere qualche film al ricreatorio di San Domenico. Proprio là comincio a frequentare un gruppetto di ragazzi più grandi di me. Il ricreatorio è, logicamente, un ambiente cattolico 17
e la maggioranza di coloro che lo frequentano non ha simpatia per il regime. Un ragazzo, considerato il leader all’interno del gruppo, propone a me e a Rinaldo d’incontrarci a casa sua per farci una proposta. È Marcello Ciscato, abita a Borgo Casale dove suo padre ha un’officina per il montaggio di biciclette sportive. Conoscendoci da tempo e senza tanti preamboli Marcello ci chiede se vogliamo partecipare ad un gruppo in formazione con il proposito di lottare contro il fascismo e il nazismo. Ci spiega in sintesi i suoi progetti. Non ci pensiamo un attimo a dare la nostra adesione!
La banda si chiamava “triangolo verde” (ancora non saprei spiegarne il significato). Avremmo dovuto diventare un gruppo antifascista armato, di orientamento cattolico, ispirato ai principi “giustizia e libertà” del Partito d’Azione. Ben presto il gruppo si allargò e, di sera o nei giorni festivi, avemmo frequenti incontri clandestini presso l’officina paterna di Marcello. Primi componenti del gruppo: i fratelli Ciscato, Rinaldo Diodà e Mario Pan, Bruno Fabris e Giulio Piccoli, oltre ai due fratelli Toniolo provenienti da Milano ma di origine veneta. Otto in tutto. Il nostro doveva essere un gruppo “armato”, ma armato di che cosa? Marcello disponeva di due rivoltelle e Rinaldo di un revolver a tamburo calibro 12, che era di suo padre sottufficiale in servizio permanente. Dovevamo, quindi, procurarci gli armamenti. A sud est del complesso comprendente la vecchia fabbrica di birra Sartea, affacciata su borgo Casale c’era una caserma della milizia fascista. Scavalcando la rete di recinzione e saltando sopra lo scomparto-gabinetti, attraverso una finestra fatta a saracinesca, avevamo individuato alcune rastrelliere con fucili e munizioni. De18
cidemmo una spedizione notturna: io di guardia e Rinaldo operativo. Come uno scoiattolo egli saltò la rete, salì sopra i gabinetti, scavalcò la finestra, entrò nelle camerate e ne uscì velocemente con tre fucili modello 91 corto, e in più molte munizioni. Tutto andò liscio ma, nello scavalcare la rete di confine, il filo spinato gli provocò uno strappo ai pantaloni oltre che a una parte delicata di pelle proveniente da zone deboli… ohi che male!
A
W
Ragazzi in azione
ltro colpo fortunato – fine estate 1943 - fu quando con il mio amico, in un’altra velocissima azione, riuscimmo a sottrarre, da un automezzo tedesco in sosta, una Pistol-machine con cinque caricatori da 40. Anche l’amico Enzo Dalla Via, ancora all’oscuro della nostra formazione, ma nel frattempo convertito all’antifascismo, contribuì al nostro armamento “distogliendo”una pistola 7,65 Beretta al fratello ufficiale dell’esercito mentre era in visita alla famiglia. Nell’estate 1943 il nostro “arsenale” ammontava a: • 2 pistole anonime • 1 revolver calibro 12 • 1 pistola Beretta 7,65 • 3 fucili 91 corto • 1 Pistolmachine (fucile mitragliatore corto) • alcuni chili di polvere nera (da sparo)
Il “gruppo d’assalto” si incontrava spesso, tanti i progetti, tante le parole ma pochine le vere azioni. Ci di19
vertivamo infatti imbrattando con scritte oscene le case dei grandi fascisti della zona, disegnando la doppia V rovescia al posto di W - abbasso al posto di evviva - sulle scritte murali dedicate al DUCE, tagliavamo qualche gomma d’auto. Ci specializzammo ad introdurre sacchetti di un certo tipo di carta contenenti sabbia finissima (passata e ripassata con il setaccio a maglia fine) nei serbatoi degli automezzi della milizia fascista e dei tedeschi. Il risultato era che la sabbia, col tempo, entrava nelle camicie dei cilindri e i motori venivano in tal modo distrutti. Rubammo una bicicletta senza manubrio ad un tedesco entrato nella trattoria Da Benetto di Porta Padova. Ricordo la faccia di quello sfortunato quando, con il manubrio in mano, uscì dalla trattoria e non si ritrovò il velocipede. Come sempre previdenti, i tedeschi avevano inventato questa bicicletta dallo sterzo smontabile per evitarne il furto. Altra azione, tragicomica, avvenne sempre a Porta Padova, protagonisti Rinaldo, Enzo e io stesso. Era sera, camminavamo sul marciapiede di destra quando un camion di tedeschi rallentò per chiederci alcune informazioni. Dalla Via, come sempre gentile e sorridente, salì sul predellino e prese a parlare con l’autista. Io e Rinaldo, come due razzi, saltammo dietro il camion – che era aperto – e cominciammo a lanciare in strada tutto quanto ci capitava in mano. Giunti al crocevia, all'angolo Porta Padova-Legione Gallieno, data la posizione in curva Enzo ci vide recuperare vari oggetti da terra. Capì e, terrorizzato, saltò giù dal predellino lasciando di stucco l’autista. Lo vedemmo correrci incontro spaventato, e il camion bloccarsi. Fuga a tre.... e dopo pochi secondi una raffica di mitra. Eravamo all’altezza delle 20
case Tiso, sul marciapiede di destra guardando verso il cavalcavia, quando miracolosamente la porta a fianco del panificio si aprì. Ci si infilammo, bloccammo la porta, a velocità supersonica superammo il corridoio, e via nel giardino…. inciampando su dei sassi rustici pieni di piante grasse. Saltammo la rete a sud piombando negli orti Tonello, e avanti sempre di corsa per altri duecento metri fino al confine est della nostra fabbrica. Scalata del “figaro” e finalmente salvi!
Un esperimento mal riuscito
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rima dell’8 settembre 1943 i tedeschi, pur essendo nelle difensive, non osavano fare azioni di ritorsione. Il loro comportamento sarebbe ben presto cambiato. Disponendo di una certa quantità di polvere nera, di alcuni detonatori, di due vecchie bombe a mano Sipe, si decise di preparare un ordigno esplosivo da tenere per ogni evenienza. Rinaldo ci ospitò a casa sua. Era allora sedicenne, frequentava l’Istituto Industriale, abitava solo. Era orfano di madre, suo padre era in servizio permanente e i due fratelli richiamati alle armi. Eravamo i soliti, e se ben ricordo c‘era anche uno dei Toniolo, professatosi esperto in esplosivi. Disponemmo il vario materiale in cucina, su di un piccolo tavolo accanto alla stufa a legna accesa. Non ho idea né come, né perché (frutto certamente dell’inesperienza e della nostra presunzione giovanile) ad un certo punto la polvere nera prese fuoco. Fuga generale nel giardino attiguo e un gran botto! Rientrammo. Povero Rinaldo, povera cucina, tutto 21
era ricoperto di nero, pentole inusabili, piatti a pezzi, un macello. Con evidente assenza di coraggio e di spirito pratico fuggimmo, lasciando solo a sbrigarsela il nostro amico. Per fortuna la casa era isolata e nessuno intervenne, non ci fu alcuna immediata ripercussione. Dopo qualche giorno tuttavia, il proprietario, informato dell’accaduto, invitò il nostro Rinaldo a trovarsi un altro alloggio. Con tristezza, evitando di parlare dell’episodio accaduto, descrissi ai miei genitori la particolare situazione familiare di Rinaldo, la sua solitudine, e li pregai di ospitarlo in un appartamento libero sopra il bar Sartea. Avevano imparato a conoscere e stimare il mio caro amico e lo accettarono di buon grado. Rinaldo si trasferì a gran velocità nella nostra casa. Lo zio pensionato, una carissima e dolce anziana persona, lo raggiunse poco dopo. Rinaldo cominciò da allora a lavorare part-time nella nostra azienda. Zabaglioni al marsala co n u ov a co m p ro m e s s e
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ell’angolo sud-ovest della caserma di Borgo Casale c’erano le cucine della truppa. Fra il muro delle cucine e la nostra rete di confine, era stato inserito - seminascosto agli occhi indiscreti - un bel pollaio con una cinquantina di galline “fasciste”. Il tutto era di proprietà del comandante della caserma, il famigerato maggiore Mantegazzi. 1 I volatili venivano alimentati con gli avanzi del “rancio” dei militari. Con Rinaldo e Giulio - accadeva ancor prima della nostra adesione al 22
Triangolo Verde - facevamo spesso irruzione all'interno dell'aia allo scopo di “confiscare” dozzine di uova compromesse con il regime. Nel nostro rifugio poi, una piccola serra collocata in mezzo al frutteto, preparavamo abbondanti zabaglioni al marsala; il tutto per rendere più “spiritosa” la nostra fede antifascista. Ma un bel giorno, dopo aver cominciato a frequentare gli incontri con il gruppo d’assalto, di fronte alla prospettiva di un ricostituente zabaglione, Giulio fece presente che la nostra era una banda di ladri di polli e non di patrioti! Ci servì a riflettere e da allora cessammo quel tipo di sabotaggio. Rinaldo invece, da libero battitore, ma soprattutto perché nella sua cucina c'era ben poco da mangiare, fece ancora qualche incursione. Ma, da una finestra della cucina della caserma, fu scoperto un giorno a scavalcare la rete. Più militari si precipitarono nel pollaio e lo bloccarono. Chiuso nella cella del carcere, l'intruso venne in seguito condotto all'ufficio del comandante, che cercò di spaventare il ladro di uova gridando come un pazzo. Dopo qualche ora, il detenuto venne tuttavia rilasciato e fatto uscire dalla porta principale. Era meglio non far sapere in giro l'esistenza di un pollaio “privato” all'interno della caserma.
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Tre immagini di Giocondo Pan: arruolato durante la guerra mondiale 1915-18; ritratto nel 1964, poco prima della morte e a San Pietro in G첫 nel 1944, in compagnia degli amici Rigon e Margotti. IN BASSO: "Il generale Rommel con la moglie, Lucie Mollin, e la figlia Gertrud Stemmer Rommel, sposata a Joseph Pan di Kempten". (Cfr. L'appello a Rommel)
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CAPITOLO
2
UN PAESE ALLO SBANDO (1943-1944) Il fascismo è caduto!
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a domenica 25 luglio 1943 eravamo a Recoaro, faceva molto caldo e verso mezzogiorno arrivò la notizia: �Il fascismo è caduto!�. Papà, scioccato, non poteva crederci. Ne seguì una delle sue esplosioni di gioia. Rientrammo immediatamente a Vicenza. Gli amici lo stavano già aspettando. Il bar-birreria Sartea, da sempre punto d’incontro di antifascisti, era affollato da clienti in grande euforia. I festeggiamenti continuarono fino al calar del sole e molti dei presenti, per il grande caldo, si spostarono poi nel retrostante ampio giardino. Cantavano, ballavano, mangiavano e bevevano. Papà Giocondo era seduto come un re al centro di una classica panchina di stile viennese (esiste ancora, all'entrata di casa di mia sorella in via Fusinieri) attorniato dai più accesi dei convenuti. Credo che gli abitanti dei dintorni abbiano poco dormito con il chiasso di quella notte. Mi riferisco in particolare a chi abitava uno degli appartamenti soprastanti la birreria, e cioè al Berenzi 2 allora direttore del quotidiano vicentino “Vedetta Fascista”. Ogni tanto quegli si affacciava cautamente alla finestra, ma solo per ricevere “saluti di colore particolare”! Nel pomeriggio del giorno seguente, con Marcello e altri del gruppo, mi recai alla vicina caserma: tutti i miliziani erano spariti e la popolazione si era precipitata a far razzia di ogni cosa. Noi riuscimmo a recuperare dei 25
fucili, alcune pistole Beretta e parecchie munizioni. C'erano anche fucili 91 lunghi che nessuno aveva preso. Recuperammo zaini, coperte e altro materiale: portammo la refurtiva nel magazzino di Marcello, a circa cinquanta metri in linea d’aria dalla caserma. In quei giorni non ci furono disordini in città, non scaturirono gravi azioni di vendetta; eravamo in piena guerra e la situazione non poteva cambiare un granchè. Sparirono i fascisti, sparirono i loro distintivi (i “bauti”), si abbatterono le insegne costituite da fasci littori e teste marmoree del Duce, si tolsero dai luoghi pubblici le obbligatorie foto di Mussolini, si sostituirono i responsabili nei posti di comando. Tutto sommato fu una rivoluzione pacifica, anzi un tranquillo cambiamento di poteri. Poche furono le persone arrestate. L' 8 s e t t e m b r e e un proclama vigliacco
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lle diciotto e trenta dell’otto settembre 1943 il generale Badoglio, comandante in capo delle forze italiane, annunciò alla radio la resa dell’Italia. Nel messaggio ordinava “la cessazione del fuoco” e diceva di “reagire solo nel caso di eventuali attacchi di qualsiasi altra provenienza”. Il paese era sotto shock, nessuno capiva niente di quel proclama, cosa fare? Difenderci da e contro chi? Non si davano ordini, direttive, informazioni. Era un lasciare tutto allo sbando, una specie di “si salvi chi può!”. Tra il 10 e l’11 settembre, i tedeschi piombarono a Vicenza e la occuparono senza trovare la minima resistenza.
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La mattina del 12 settembre, uscendo dal portone di casa, mi trovai difronte a un’interminabile colonna di soldati italiani prigionieri, diretti verso la stazione ferroviaria, scortati da pochi armatissimi tedeschi. Si capiva che avevano rinunciato a qualsiasi difesa. Camminavano lentamente e in silenzio, apparivano disorientati; qualcuno s'infilò in qualche porta aperta, ma pochi i coraggiosi, ogni tanto qualche sparo, qualche raffica di mitra. Assistere a quel desolante spettacolo e sentirmi salire una rabbia profonda e sorda fu un tutt’uno. “Come si poteva accettare passivamente una situazione del genere?” Il rapporto carcerieri prigionieri era sproporzionato: perché non difendersi, non ribellarsi, non urlare la propria rabbia? Corsi dentro casa e mi nascosi nel granaio e piansi, piansi la mia solitudine e la mia amarezza, vergognandomi per loro!
A guerra finita avremmo imparato che l'intero paese era in quelle stesse condizioni. I tedeschi, informati dai loro efficienti servizi segreti circa le trattative italiane per l'armistizio, avevano preparato l'invasione con circa quaranta giorni di anticipo. Il re d'Italia, suo figlio Umberto, il maresciallo Badoglio e gli alti ufficiali del quartier generale, anzichè predisporre un piano di difesa per salvare il paese, pensarono solo ad organizzare il loro piano di fuga. A poche ore dalla proclamazione della resa, quel gruppo di “coraggiosi” s'imbarcò a Pescara su due navi e si riparò a Brindisi, nel sud Italia.
C'era nel nostro paese circa un milione o forse più di militari italiani, c’erano tutti i cittadini italiani, c’erano i prigionieri di guerra, e c’era tanto desiderio di pace. Come era possibile che i responsabili del governo d’Italia non avessero fatto nulla, dico nulla, per uscire dalla crisi? Fummo abbandonati alla nostra sorte. Si venne a 27
sapere che, durante le trattative per l’armistizio, gli alleati avevano deciso il lancio di truppe aero-trasportate nel nord, per facilitare, insieme con le truppe italiane, il completo controllo del territorio. Documenti storici insegnano che Badoglio e il suo seguito volutamente ignorarono l’offerta. Quanti morti, distruzioni, massacri, saccheggi, sofferenze, umiliazioni, si sarebbero potuti evitare! L' a r r e s t o e l ' i n c a rce r a z i o n e d i m i o p a d re
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on appena i tedeschi ripresero il controllo di Vicenza ecco, come funghi velenosi, rispuntare e moltiplicarsi i fascisti, ai quali si aggiunsero molti avanzi di galera provenienti in gran parte dal sud. Fanatici e sfegatati, riafferrarono tutte le posizioni di comando, dando inizio a vendette, rappresaglie, arresti. Papà fu il primo ad essere arrestato dalla polizia ausiliaria comandata dal terribile capitano Polga. 3 Dopo una serie di meticolose perquisizioni nell'abitazione, in fabbrica, negli uffici e nei magazzini, egli venne incarcerato a San Biagio in compagnia con i delinquenti comuni. Il giorno dopo, il nostro inquilino Angelo Berenzi 2 - ritornato a dirigere la Vedetta Fascista - scrisse a caratteri cubitali: �E uno, il commerciante Giocondo Pan è stato ieri arrestato, accusato di accaparramento di gomme�. Niente era stato trovato di compromettente nel corso della perquisizione, avevano solo individuato, nel granaio, un mucchio di copertoni vecchi, completamente fuori uso. Nato nel 1893, mio padre aveva allora cinquant'anni. Era stato esonerato dal servizio militare perché invali28
do della prima guerra mondiale, durante la quale aveva combattuto con il 6° Battaglione Alpini Bassano. Non era certo fascista, lo sapevano bene, ma era un uomo conosciuto e rispettato per onestà e laboriosità. Grazie a un duro lavoro si era costruito una buona posizione economica. Le sue maggiori attività erano nel settore vitivinicolo. Prima della guerra disponeva di una rete di cantine: ad Alcamo in Sicilia, a Martina Franca e San Severo in Puglia, a Falconara e San Benedetto del Tronto nelle Marche, a Sesso e San Martino in Rio in Emilia, a Valpolicella e a Camposanpiero nel Veneto. La sede di questa rete di attività era a Vicenza, dove c’era un'attrezzatissima cantina sotterranea (ex fabbrica birra Sartea) di una capacità di diecimila ettolitri. A Vicenza, nella zona di Porta Padova, erano state avviate ed operavano anche una fabbrica di bibite gassate e un'imbottigliamento di birra.
Nei primi giorni di prigionia, papà venne portato più volte in questura per essere interrogato. Volevano sapere i nomi di quanti avevano partecipato, nel giardino della birreria Sartea, ai festeggiamenti per la caduta del fascismo. Lui rispondeva evasivamente, ripetendo senza stanchezza che erano presenti i soliti clienti e che la �festa� era una manifestazione spontanea non preventivamente organizzata.
Mamma Ida, dopo un primo momento di comprensibile disorientamento, prese in mano la situazione. Mise in movimento avvocati, sacerdoti, professionisti, amici vari. Ottenne anche l’intervento del pubblico ministero Gerasimo Frassino, un amico d’infanzia, in carica da ben prima del 25 luglio. La motivazione dell'arresto non aveva senso, non era assolutamente giustificata. 29
Professoressa, un giorno me la pagherai!
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!
opo due giorni di assenza, mi recai nuovamente a scuola. Frequentavo allora la medie di Piarda Fanton. In aula sedevo nel secondo banco della fila di sinistra, vicino ad Antonio Noale di Dueville. Appena entrata, l’insegnante di matematica, fissandomi con sguardo cattivo, disse ad alta voce: �Pan, tuo padre è stato arrestato. Certe persone stanno bene solo in galera�. Rimasi di gelo. Antonio, da sotto il banco mi strinse i polsi in segno di solidarietà. Io, a testa alta, la fissai negli occhi ma rimasi in silenzio. Dentro di me il fuoco, e mi ripromisi “me la pagherai!”. 4 Da quel giorno evitai tante lezioni di matematica. Dato lo stato di guerra non era obbligatoria la frequenza continuativa a scuola, erano sufficienti alcuni colloqui periodici. Così avvenne anche nell’anno successivo, il 1944.
Mio padre si fece benvolere anche in prigione. Fin dal primo momento lo assegnarono come scrivano all’ufficio matricole. Attraverso il capo carceri e sua moglie - che abitavano all'interno delle mura, con entrata dalla parte esterna angolo stradella dei Mugnai - riuscivo a portare, quasi ogni giorno, del cibo. Più volte ebbi modo anche di vedere papà dalle finestre di quell'abitazione, durante il cosiddetto “passeggio”. Precedentemente avvertito della mia presenza, cercando di non farsi notare egli mi guardava e mi sorrideva, come per darmi coraggio. Quelle concessioni non erano certo gratuite! La moglie del capo carceri provvedeva regolarmente “all'incasso”. Dopo un intervento 30
del giudice Frassino, che aveva sostenuto la totale inconsistenza delle accuse, a ventidue giorni dall’arresto papà venne rilasciato.
Si intensificarono i bombardamenti nelle grandi città italiane. Per ragioni di sicurezza, ma anche per essere meno in vista, ci trasferimmo a San Pietro in Gù, ospiti in una vecchia grande casa di un amico di papà, Giovanni Rigon, suo compagno d’armi nella prima guerra mondiale. Trasferimmo una parte di mobilia, pure mantenendo funzionante l'abitazione in fabbrica. Secondo arresto di papà e sequestro dell'azienda
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ientrato in Italia dopo essere stato liberato e trasferito in Germania dai tedeschi, Mussolini si stabilì a Gargnano, sul lago di Garda, da dove dette vita alla Repubblica Sociale Italiana. Fu quindi avviata l’organizzazione della Guardia Repubblicana, delle Brigate Nere, della 10ma MAS e di altri gruppi dell’esercito fascista. Furono richiamati alle armi giovani e reduci. A quel punto, parecchi giovani furono posti difronte all’alternativa di adeguarsi all'arruolamento o di andarsene alla macchia, con i partigiani. Difficile imboscarsi! Anche il nostro capo del “triangolo verde”, Marcello Ciscato - era del 1926 e quindi soggetto alla leva - decise con altri giovani del gruppo di rifugiarsi sui colli Berici, portando con sé tutte le armi precedentemente nascoste. Da San Pietro in Gù, con mio padre e mia sorella, mi recavo spesso a Vicenza: papà andava in azienda, noi due a scuola. In bicicletta naturalmente, non avendo autorizzazione per l’uso di nessuna delle automobili di 31
nostra proprietà. In fabbrica disponevamo unicamente di un motocarro Guzzi 500 e di un camion BLR, in uso durante la prima guerra mondiale, e che andava a carbonella, ossia a gasogeno. Verso metà ottobre 1943 - mio padre era in ufficio - ecco arrivare di nuovo la polizia ausiliaria, che per la seconda volta procedette all’arresto di Giocondo Pan. Condotto in questura e interrogato circa le sue attività di antifascista, venne quindi trasferito al carcere di San Biagio. In cella c'erano anche il suo amico flautista Elsi e un conoscente, Romolo Dal Toso, oltre ad altri detenuti per reati comuni.
A Vicenza, i tedeschi avevano organizzato il loro quartier generale nell’ex albergo Roma. La Guardia Repubblicana, comandata dal maggiore Mantegazzi, era a Borgo Casale, nell’ex caserma della Milizia Fascista confinante con la nostra fabbrica. La polizia ausiliaria, al comando del capitano Polga, era in questura oltre che in dislocazioni minori. Poco dopo il secondo arresto di papà, comparve in scena un certo Eugenio Zardo 5, presentandosi come cognato del Dal Toso oltre che come interprete presso il comando tedesco. Disse di poter aiutare ma…. cominciò chiedendo a mia madre denaro. Subito dopo arrivò un ordine di requisizione dell’azienda, che venne trasformata in centro di raccolta vini per distillazione allo scopo di produrre benzina. Commissario con pieni poteri venne nominato un nostro ex dipendente, il veronese ragionier Marchi, naturalmente di provata fede fascista. Alto, magro, dallo sguardo arcigno, portava occhiali con lenti spesse, grosse come cristalli. Contemporaneamente il mio amico Rinaldo continuava a lavorare in azienda. Il bar-birreria Sartea venne requisito e trasformato in 32
posto di blocco per i tedeschi e gli uffici della polizia ausiliaria vennero alloggiati al piano soprastante. Con Rinaldo, prima del sequestro, eravamo riusciti a recuperare una consistente scorta di liquori (cognac Sarti 3 Valletti, maraschino Luxardo e qualche migliaio di bottiglie di Cartizze) nascondendoli dentro il forno di cottura del malto, murandone l'entrata per bloccarne l'accesso.
Sciacalli e sciacallaggi
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a situazione di mio padre si fece molto difficile, i fascisti avevano bisogno di vendicarsi, occorreva gente da sacrificare. Si tentarono tutte le vie possibili per liberarlo, senza alcun esito. Ricordo la disperazione della mamma. Una sera l'avevo lasciata in camera, inginocchiata di fronte al letto di papà , la mattina dopo l’avevo ritrovata ancora sveglia nella stessa posizione. Il clima in carcere era di terrore, i fanatici fascisti non rinunciavano a prelevare i prigioneri politici per fucilazioni di rappresaglia, e spesso qualcuno veniva spedito nei campi di sterminio in Germania. A Verona, vicino al lago di Garda, c’era il comando tedesco di tutte le truppe italiane, sotto la guida del Feldmaresciallo Erwin Rommel: da lui dipendevano quindi anche i miliziani della Repubblica Sociale Italiana. Uno dei cugini del ramo bolzanino della nostra famiglia, Josef Pan di Kempten, era sposato con la figlia di Rommel. Contando su questa lontana parentela, cercammo contatti con il generale, ma tutto fu inutile, non riuscimmo ad avvicinarlo. Si fece avanti invece,
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in quella critica circostanza, un medico “amico di famiglia”, che apertamente chiese - per conto e nome del famigerato capitano Polga - la bella cifra di un milione di lire in contanti, il prezzo stabilito per la liberazione di papà. Per dimostrare la validità della fonte, ci disse che il giorno dopo lo avremmo potuto incontrare nel suo ambulatorio, durante un trasferimento in questura. Mamma fece presente che una somma del genere non era facile da mettere insieme in quattro e quattr’otto e chiese tempo. Il giorno successivo, potemmo vedere papà in stradella dei Mugnai, fra san Biagio e via Riale. Ricordo l’incontro pietoso, mia madre era senza speranza. Nel frattempo, continuavo - compiacente la moglie del capo carceriere - a portare da mangiare a mio padre e riuscivo anche a vederlo, da una finestra, durante “l’aria”. La cifra del riscatto era enorme, e dovemmo con amarezza constatare che tutto il denaro depositato nelle varie banche era stato già prelevato dal commissario ragionier Marchi. Una rapina in piena regola. Alla mamma non restò che bussare a tutte le porte possibili, riuscendo finalmente a racimolare la somma richiestale. Il medico “amico” ne fu avvertito, ma insieme chiedemmo di poter consegnare il milione di lire in contanti al capitano Polga in persona, e a casa nostra. La sera stessa, era buio fondo, si presentarono da noi il medico e il Polga. Consegna dei soldi – eravamo in cucina - poche parole da parte nostra e promessa di immediata liberazione da parte loro. Passarono giorni e settimane, mio padre rimaneva in galera e i due si erano resi irraggiungibili. Oltre quaranta giorni erano trascorsi dall’arresto, e avevamo tanta, tanta paura. 34
L' a p p e l l o a R o m m e l e il suo intervento
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na nostra cugina di Bolzano, la carissima Maria Pan, venuta a Vicenza per procurarsi la documentazione dimostrativa della sua origine “ariana”(cioè non ebrea), apprese della disperata situazione di papà. Pregammo lei, cognata della figlia di Rommel, di cercare gli opportuni contatti al fine di intervenire a nostro favore. La provincia di Bolzano, in sud Tirolo, era zona tedesca amministrata dalle SS. Il 20 novembre 1943 venni a sapere, dalla moglie del capo carceri, che due uomini in divisa della “Feldgendarmerie”, la polizia militare tedesca, si erano presentati con un ordine di consegna relativo al signor Giocondo Pan. Una volta prelevato il prigioniero, erano partiti per destinazione ignota. Realizzammo in seguito che papà era stato affidato ad uno dei nostri numerosi cugini di Bolzano e subito nascosto nell’altopiano di Renon, in una vecchia baita di proprietà della famiglia. A tranquillizzarci era arrivato un messaggio telefonico che ci informava che “papà era al sicuro”. A guerra finita si seppe che il 21 novembre, giorno successivo alla liberazione di mio padre, il Feldmaresciallo Rommel aveva lasciato Verona, dove era arrivato dalla Sicilia, per assumere in Francia il comando delle Armate occidentali.
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Disonesti e ricattatori sotto mentite spoglie
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d ecco a San Pietro in Gú riapparire il famoso Zardo che, con la scusa di un saluto a mia madre, in modo viscido chiede notizie di papà, riaffermando la più completa disponibilità in caso di bisogno. Ebbi la netta sensazione trattarsi di uno sciacallo tuttora in cerca di preda. Sono a Vicenza, è un pomeriggio doposcuola e decido di recarmi nell’ufficio del commissario Marchi, il ragioniere ex dipendente della ditta Pan. Senza tanti preamboli, gli chiedo spiegazione dei prelievi di denaro effettuati dai conti correnti della nostra famiglia. Per tutta risposta mi ride in faccia e mi impone di uscire immediatamente perché quelle: “Non sono faccende per bambini”. Ho tredici anni e mi sento più che responsabile della situazione! Dopo appena una settimana, il caro ragioniere sparì dalla circolazione prelevando anche il poco restante denaro dell'azienda commissariata. Al suo posto subentrò il maggiore Miotti, direttore della Sepral, l'ente di controllo alimentazione. Eravamo a fine novembre e i bombardamenti delle principali città della Germania si stavano intensificando. Anche in pieno giorno, vedevamo il cielo riempirsi di centinaia di “fortezze volanti” americane che, ad altissima quota, disegnavano lunghe code bianche di condensa, con successiva nevicata di argentei nastri d’alluminio per magnetizzare l’atmosfera allo scopo di disorientare i sistemi di puntamento delle contraeree tedesche a terra. Ai primi di dicembre, altra visita del 36
famigerato Zardo, per informarci che una nostra vettura Fiat 1100 era stata prelevata dai tedeschi e requisita, ma che – naturalmente dietro pagamento di una certa cifra - l’auto sarebbe stata restituita. Prendemmo tempo, in bicicletta corsi alla casa di contadini dove l’auto era custodita, niente era successo, la macchina era al suo posto. Qualcosa non aveva funzionato nel programma dello Zardo, ma il suo ruolo di ricattatore ci appariva ora ben chiaro. Natale 1943, bombe su Vicenza
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rrivò Natale, mancava papà, ma lo sapevamo al sicuro. Noi tre stavamo per metterci a tavola quando, a mezzogiorno e mezzo del 25 dicembre, udimmo una spaventosa eco di esplosioni. Ci precipitammo in giardino: Vicenza veniva bombardata per la prima volta. Tre giorni dopo, il 28 dicembre, seconda incursione. Una delle nostre proprietà, un vecchio convento a Santa Caterina, fu in parte distrutta; per fortuna gli inquilini si erano riparati in tempo nel grande rifugio predisposto sotto il colle Berico. L’11 gennaio 1944 compivo quattordici anni (l’età di mio nipote Étienne quando decisi di scrivere queste note diaristiche) e a Verona Galeazzo Ciano, il marito di Edda Mussolini figlia del Duce, veniva fucilato insieme con altri cinque membri del Gran Consiglio del Fascismo. Nella stessa Verona venne avviato un programma di terrore nei confronti degli antifascisti e si intensificò la caccia agli ebrei. Gli amici Margotti, padre, madre e 37
due figli, vennero a nascondersi a San Pietro in Gú. Eva era ebrea-americana e perciò a rischio. Per loro avevamo da tempo prenotato un alloggio sopra il bar-trattoria da Luison, nella piazza del paese. Con Beppino Aguggiaro, Gino Bortolaso e mia sorella, frequentavamo saltuariamente la scuola a Vicenza. Era un inverno freddissimo, con punte di meno 10-13 gradi, nevicava abbondantemente, e noi partivamo da casa alle sette del mattino, subito dopo la cessazione del coprifuoco. Via in bicicletta, lungo i sedici chilometri da cui distava la scuola! Sempre ai primi di gennaio venne a stabilirsi in paese un battaglione di carristi tedeschi. Molte case furono requisite, e fra queste buona parte di villa Rigon, dove abitavamo. Ci furono lasciate a disposizione una piccola cucina e due stanze. Un ufficiale prese alloggio al primo piano - vicino alla mia camera da letto - e un “camerone” venne occupato da una decina di suoi soldati. Due carri armati Tigre furono sistemati sotto un grande porticato dell’attigua casa colonica. Comandante del reparto era il maggiore Nill. Tutti i militari portavano una divisa nera con un “teschio” sulle spalline.
A febbraio era nevicato moltissimo, difficile quindi muoversi in bicicletta. Spesso restavamo in compagnia degli amici Margotti; la signora Eva mi aveva insegnato a fare i tortellini, minuscoli come nella tradizione romagnola di suo marito. Per quanto si riferiva all'alimentazione eravamo fortunati, dal momento che papà aveva comprato, prima della guerra, una proprietà agricola nel comune di Borgoricco, nel padovano, e da là attingevamo molti generi essenziali alla sopravvi38
venza. Con un carrettino trainato dalla bicicletta, io e mia sorella facevamo circa quaranta più altrettanti chilometri per volta, per rifornirci di polli, uova, farina ed altro. Accadde un giorno che, abbordando troppo sportivamente una curva, il carretto si ribaltò e tutti i polli finirono in un campo vicino, e noi due a rincorrerli, e i contadini intorno a ridere nella speranza che qualche volatile potesse evadere …. Avevamo imparato anche a ricavare il burro dal latte, a fare il sapone e a insaccare il maiale. Riuscivamo anche a studiare, non molto a dire il vero, ma soprattutto matematica.
Il 18 marzo, altro bombardamento notturno su Vicenza. Vedo da lontano una massa di fuoco alzarsi nel cielo della città, coperta in ondate successive da spezzoni incendiari. Molti i palazzi antichi colpiti, distrutti, abbattuti o gravemente feriti. La mattina mi precipito in città: indescrivibile il terrificante spettacolo. Sulla nostra fabbrica sono caduti parecchi spezzoni. Nella notte, Rinaldo è riuscito a spegnere alcuni focolai d'incendio. Setacciamo tutte le stanze, soprattutto quelle dei piani superiori, e vi troviamo parecchi spezzoni inesplosi. Ad opportuna distanza e aiutandoci con una pertica, li prendiamo al laccio; con un lungo spago li portiamo quindi allo scoperto, recuperandone oltre una decina. Andiamo poi nella piazza dei Signori. La Basilica Palladiana, completamente scoperchiata, è ancora avvolta dalle fiamme. Alcune persone piangono.
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Dai R inaldo, che andiamo in montagna...
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a primavera del 1944 era alle porte e rivelai a Rinaldo le mie intenzioni: non appena il tempo me l’avesse permesso, avrei raggiunto i partigiani in montagna. Egli non ne fu entusiasta, ma mi disse che non mi avrebbe lasciato partire solo. Avevamo messo da parte notevoli quantitativi di generi alimentari durevoli, soprattutto scatolame, in caso di.... ma il solitario Rinaldo se n'era servito per saziare la fame. Da quel momento, ad ogni mia visita in città, portavo nuovi viveri che avrebbero dovuto servirci in viaggio e in montagna. Procurai anche due zaini con indumenti di lana e oggetti di prima necessità.
Con Gino Bortolaso, anziché andare a scuola, ci recammo un giorno all’aeroporto, lungo la strada di Rettorgole: ci avevano informati che era caduto un grande aereo tedesco. Vedemmo infatti una “vacca volante”, com’era chiamato quel tipo di aereo da trasporto a sei motori. Per il troppo carico era finito, in fase di decollo, dentro il fiume Retrone alla fine della pista. L’aereo si era squarciato, e mostrava il suo carico di decine di migliaia di uova – quintali - una frittata di misure eccezionali! La primavera stava arrivando. Recatomi da Rinaldo per stabilire la data della partenza per la montagna, eccomi la brutta sorpresa! Il mio amico aveva cambiato idea, e per prima cosa mi fece sapere di avere consumato tutte le provviste, perché aveva fame, e poi che non si sentiva di abbandonare casa e azienda, tanto raccomandate alla sua custodia da mio padre. Tutto da ricominciare…. 40
Ai primi di maggio, sono in bicicletta alla volta di Vicenza, pedalando accanto ad una bella ragazza incontrata spesso all’altezza di Bolzano Vicentino. Improvvisamente vedo nel cielo un aereo da caccia in picchiata verso di noi, vicini ad un camion della Satsu (BLR a gasogeno per il trasporto di torba). Urlo alla giovane di buttarsi nel fosso laterale, ma non mi dà ascolto e si rifugia invece dietro il camion. Terribili raffiche lacerano l’aria. Scioccato, dalla fossa dove mi sono tuffato vedo la ragazza morta accanto al camion incendiato. Lei sorride ancora, ha il viso intatto, una pallottola perforante le ha lacerato il petto e un’altra le ha scavato un immenso buco su una gamba. Non perde sangue. Pochi attimi prima parlavamo tranquilli, lei mi sorrideva… conserva ora lo stesso dolce sorriso che l'aveva accompagnata alla morte. …. e allora, v i a c o n Fr a n c e s c o !
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mpressionata dall’accaduto, mamma decise di non mandarmi più a scuola, stava diventando troppo pericoloso. Per essere almeno un poco tranquilla mi fece spostare nella vecchia casa paterna dei Laghi, a Campagnari di Tezze sul Brenta. Colà vivevano tre sorelle di mio padre e con loro c’era un nipote, il bassanese Francesco Pan, nato nel 1927 e quindi di tre anni maggiore di me. Parlai al cugino del mio progetto di raggiungere i partigiani dell’altopiano di Asiago, e subito egli si dimostrò entusiasta dell’idea. Aveva, fra l’altro, abitato per molti anni a Gallio, ne conosceva luoghi e persone. Di nascosto preparammo viveri, indumenti, due zaini, 41
un pò di soldi, scrivemmo un enfatico messaggio per spiegare alle zie che “andavamo a salvare la patria”. A mezzanotte in punto, giù dalla finestra della nostra stanza e via! Eravamo da due ore in viaggio, in direzione Cartigliano, dove una barca faceva servizio di traghetto sul Brenta, quando una pioggia torrenziale, accompagnata da lampi e tuoni, prese a intralciare il nostro cammino. Nel buio notammo una luce accesa in una vicina casa colonica. Entrammo nel cortile per chiedere rifugio e notammo una donna con ombrello (con tutta probabilità stava andando al gabinetto all’aperto). Come ci vide, quella si mise a gridare a tutto fiato e noi allora via di corsa in ritirata strategica. Arrivati al fiume, aspettammo la fine del coprifuoco per essere traghettati. Dopodiché ci dirigemmo verso Bassano, sempre attraverso i campi per evitare la città. Giunti in località “Acque” ci accorgemmo di essere seguiti da alcune persone. Faceva già giorno. Accelerammo il passo, ma quelli dietro non mollavano. Notata una grossa roggia, non esitammo a buttarcisi dentro, tanto eravamo bagnati fradici. Giù in acqua ci mimetizzammo sotto alcune frasche. Mamma mia che freddo! L’acqua era gelida. Tremanti - anche di paura - vedemmo passare alcuni militi delle Brigate Nere. Fummo fortunati, se i nostri inseguitori ci avessero catturati, ci avrebbero prima ammazzati e poi interrogati! Affrontammo quindi, lontani dalla strada, la salita per Rubbio, uno strapiombo sulla pianura, mille metri di dislivello. Quattro ore di dura marcia: arrivammo stanchi morti ma soddisfatti. Unico inconveniente era che, camminando con le scarpe bagnate, la pianta del piede sinistro cominciò a dolermi, l’attrito aveva in42
teressato la parte callosa. Conseguenza questa di una lunga permanenza a “bagnomaria”.
Evitammo il paese di Rubbio, sostammo brevemente per mangiare qualcosa (i viveri in scatola per fortuna non si erano bagnati) e per riposare un pochino. Camminammo poi per altre quattro-cinque ore, in direzione di Gallio. A Campo Mezzavia notammo, discosta dalla strada, una vecchia stalla e vi entrammo con l'idea di passare la notte nel fienile. Prima di noi, forse da tempo, vi aveva preso alloggio un vecchio dotato di una folta barba bianca. Ci chiese dove fossimo diretti, rispondemmo di essere “aiuti malgari”; si disse contento di poterci aiutare, mangiammo ancora qualcosa che dividemmo con lui. La pianta del mio piede era ricoperta di piaghe; con me avevo della tintura di iodio, mi servì a disinfettare ma non a lenire il dolore. Stendemmo gli indumenti bagnati ad asciugare e andammo a dormire sotto il fieno. Non c’era bisogno di sonniferi, eravamo stremati, dopo diciotto ore di percorso e con gli ostacoli incontrati…. Risveglio all’alba, ma ci accorgiamo di non essere soli: una montagna di pidocchi ha preso possesso dei nostri capelli e dei nostri corpi. Il vecchio, poverino, si era abituato, forse gli facevano anche compagnia, ma noi siamo a un’esperienza tutta nuova. Ripartiamo e al primo ruscello ci spogliamo nudi procedendo ad una prima pulizia scimmiesca. Dobbiamo gettare due maglioni strapieni di bestioline. Ma… avanti sempre, non saranno i pidocchi a fermarci!
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In Altopiano tra i vecchi partigiani
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n’altra intera giornata di cammino verso Gallio. Ci nascondevamo quando sentivamo rumore di automezzi, o incontravamo persone. Il piede ulcerato mi dava fastidio, specialmente durante le brevi soste. Al tramonto, sfiniti, giungemmo in vista del paese. Mi fermai, presi in consegna i due zaini, mi allontanai dalla strada. Francesco si recò in centro, dove conosceva gente e aveva parenti. Ritornò dopo circa un’ora con un cugino che ci accompagnò nella sua casa. Ci ospitarono con calore, ma la prima operazione fu quella di trattare i nostri indesiderati ospiti con buone dosi di nafta, repellente non tanto profumato ma molto efficace. I vestiti vennero immersi in acqua bollente. Sostammo un paio di giorni per rimetterci in ordine. Lo stato di salute del mio piede poté migliorare. Il cugino di Francesco era in contatto con i partigiani della zona e ci diede informazioni precise per raggiungerne un gruppo che agiva a poche ore di percorso. Non fu facile trovarli, furono invece loro ad avvistarci e bloccarci. Erano alloggiati in una ex malga sopra un pianoro facilmente controllabile. Non fu un incontro simpatico, ci trattarono come intrusi rompiscatole. Era gente anziana e, a nostro parere, estremamente burbera. Ci dissero che avevano saputo del nostro arrivo e che ci avrebbero rispediti a casa! Erano stati informati dal comando generale di Padova: su ordine dell’avvocato Sabbadin e del comandante Prandina 8 avevano ricevuto disposizioni precise circa il nostro rin44
vio al domicilio di partenza. Seppi in seguito che erano stati mia mamma e il mio “santolo” avvocato Cappello ad avvertire i capi della Resistenza.
Ci fermammo alla malga un paio di giorni, non riuscivo a camminare ancora, la compagnia non era né piacevole né allegra. Per la prima volta - e fu anche l'ultima - fumai delle sigarette, erano Camel e l'effetto fu devastante. Me ne avevano regalato un pacchetto da venti racchiuso in un contenitore di plastica gialla impermeabile. Le sigarette facevano parte del vario materiale paracadutato ai partigiani tramite lanci. Mangiammo polenta e latte e latte e polenta mattina e sera: almeno erano caldi. Ripartimmo all’alba del terzo giorno, non del tutto dispiaciuti. Avevamo fatto esperienze nuove e imparato qualcosa circa la presenza dei ribelli in montagna. Ci fu suggerito un percorso di ritorno più sicuro, in direzione località “Busi”. Dormimmo all’aperto, anche se con un freddo cane. Non volevamo ripetere l’esperienza precedente: avevamo ancora i corpi segnati da tutti quei pidocchi.
Correndo in mezzo a boschi e prati in direzione sudest, arrivammo in vista della Valsugana, e giù come caprioli per la Val Frenzena: un canale selvaggio, strettissimo, che in due ore, senza incontrare anima viva, ci portò di fronte alla centrale elettrica di Valstagna. Sostammo in riva al Brenta per ripulirci, cambiarci, eliminare qualsiasi cosa sospetta nel caso ci fermassero. Avevamo ora un solo zaino. Raggiungemmo la strada nazionale, nel centro del paese, e difronte a un bar avvistammo un automezzo parcheggiato in direzione di Bassano del Grappa. Il camion, completamente vuoto, era un 626 Fiat color grigioverde centinato. Entrai nel bar e vi incontrai 45
un sorridente militare della Guardia Repubblicana. Gli spiegai che eravamo di ritorno da un turno di lavoro in malga e che cercavamo un passaggio per Cittadella. Rispose che stava andando a Padova e ci avrebbe dato volentieri un passaggio. Fu così che avemmo un “servizio a domicilio con taxi della Guardia Repubblicana”. Scendemmo a circa un chilometro dalla villa Dolfin, sede della Gestapo (la polizia segreta tedesca). Era quello un centro di morte, di tortura e di spedizione per i campi di sterminio, tutte attenzioni rivolte a patrioti ed ebrei.
Ringraziamo il nostro ospite e ci incamminiamo per una strada secondaria in direzione di Friola. Attraverso i campi arriviamo, in meno di un’ora, da “Battista” nei campi delle zie. Sono circa le quattro pomeridiane e, come ci fossimo dati appuntamento, vediamo zia Maria, “la maestra”, tra un gruppo di operai che mietono il frumento. Alla nostra vista zia rimane di gelo, ci saluta cercando di nascondere la sua reazione per paura di essere notata da qualcuno degli uomini. E via a casa ragazzi!... lei in bicicletta, noi dietro a piedi. Ci andrà meglio con zia Rita e zia Adele.... che commosse ci baciano e abbracciano. Avvertito, arriva più tardi il mio santolo Cappello, che esplode in un: �Sono fiero di voi!�. Quindi, tutto sommato, è stato un “crescendo”. Ricorda Mario dove siamo più utili...
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l giorno dopo, raggiunta in bicicletta San Pietro in Gù, con grande sorpresa trovai a casa papà, rientrato da Bolzano. Ricordo ancora l’abbraccio senza fine 46
e la gioia di mamma. Tutti insieme, una felicità incredibile. Papà ci parlò a lungo della sua ultima storia: il viaggio, il soggiorno in montagna, la liberazione, il rientro. Purtroppo, ci informò anche della distruzione di una proprietà in Bolzano: un grande immobile ubicato a nord della stazione ferroviaria della città, sulla curva della strada nazionale per il Brennero. Era un edificio di otto piani, quattro sopra e quattro sotto terra: tre di appartamenti, uno di negozi e, interrata al quarto livello, la Cantina Sociale di Santa Maddalena. Un grappolo di bombe ad alto potenziale, sprofondatosi fino al fondo delle cantine, era esploso disintegrando l’intero fabbricato. I tedeschi fecero poi il resto, allargando la strada del Brennero e costruendo un grande piazzale. Informati del nostro ritorno a casa, Giacomo Prandina e Nino Bressan 9 vennero a farci visita. Erano loro i responsabili di gran parte delle brigate partigiane del Veneto; collegati con le varie “missioni” (agenti alleati paracadutati o inviati via mare, tramite pescherecci o sommergibili, a Chioggia e Venezia), da loro dipendevano inoltre i rifornimenti di armi, munizioni e materiali da lanciare di notte su zone prestabilite. Via radio avvenivano i collegamenti con le forze alleate. In particolare, il comandante Nino era sempre in movimento per addestrare i nuovi gruppi di guastatori all'uso degli esplosivi. Queste erano solo parte delle attività dei miei “capi”. E i miei capi quel giorno mi dissero: �Ricordati Mario che siamo molto più utili alla nostra causa qui in pianura che non imboscati in montagna�.
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Tessera CLN rilasciata il 25 aprile 1945 alla staffetta Mario Pan da Nei Bordignon, comandante della Brigata Damiano Chiesa, parte della Divisione Vicenza guidata dal capitano Nino Bressan.
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CAPITOLO
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ESPERIENZE DI UN ADOLESCENTE (1944) Una nottata turbolenta
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l giugno 1944 - dopo dieci mesi terribili – significò per papà un periodo di pace. Trascorreva il giorno in compagnia di Giovanni Rigon ed Enea Margotti. Giocavano a carte, scherzando e ridendo; la sera “scivolavano” al bar Luison, confinante con la villa che ci ospitava, per giocare a “bridge”. Erano forti e accaniti giocatori. Si ritrovavano insieme nel bel giardino della villa e tutto era tranquillo, anche i rapporti con i tedeschi erano cordiali. Purtroppo non durò a lungo. A seguito degli attacchi di sabotaggio alle linee ferroviarie, fatte saltare da guastatori della nostra brigata, i tedeschi con la collaborazione del commissario prefettizio Meloni (fascista arrivato da non si sa dove) crearono un servizio notturno di guardia alla ferrovia. Anziani capifamiglia vennero obbligati a fare turni di notte, camminando disarmati lungo i binari. Avanti indietro, avanti indietro, per tre o quattro notti la settimana, dall'inizio alla fine del coprifuoco, cioè dalle dieci della sera alle sei della mattina. Papà, Enea Margotti e Giovanni Rigon partivano scherzando anche quando si trattava di svolgere quel ridicolo incarico. Una sera, papà, che indossava una mantellina nera, prese una pompetta per il Flit legata con una cordicella e la mise a tracolla come fosse un fucile. La mossa non passò inosservata: era un palese atteggiamento di 49
disfattismo e sfida. Un'altra sera che non erano di turno, dopo cena andarono a giocare a carte. Si trovarono al tavolo da bridge in quattro: papà, Margotti, il commissario Meloni e l’ufficiale tedesco che dormiva nella nostra casa. Tutto andò bene fintantochè il tedesco volle passare al poker. Mio padre ne era contrario, bisognava evitare motivi di discordia. Ma l’ufficiale e il commissario insistettero. Enea e papà erano diabolici giocatori e spennarono i due polli. Solitamente all'ora del coprifuoco il locale chiudeva e i clienti rientravano alle loro abitazioni. Era mezzanotte e papà era ancora fuori. Dormivo quando mamma mi svegliò e mi chiese di accertare perché papà non fosse a casa. Saltai dal letto e corsi al bar, che confinava con la nostra casa, entrai dalla porta del cortile e in sala trovai i quattro giocatori con Marcello Luison, il proprietario. Notai un’atmosfera surriscaldata. L'ufficiale tedesco era ubriaco. Feci presente a papà che era ora di rientrare. Sia papà che Enea mi facevano dei cenni, per farmi capire che i due non li mollavano (veramente erano stati ripuliti di tutte le fish). Insistevo nel dire a papà che mamma era preoccupata. A quel punto, il tedesco scattò in piedi e si mise a gridare: �Mutter mutter mutter� e poi �mia mutter kaput, mio padre kaput, mia famiglia kaput. Deutschland uber alles!�. Di fronte alle urla di quel matto, papà e l’amico si alzarono, lasciando tutte le fish sul tappeto e con lenta e diplomatica ritirata ritornarono alle proprie dimore. Lasciato il bar che era circa l’una, per altre due ore (ce lo raccontò più tardi Luison) il tedesco e Meloni continuarono a bere, criticando ad alta voce mio padre per il gesto “irriverente” della vicenda della pompetta 50
del flit. Intorno alle tre della stessa notte, avvertii delle urla. Sia la mia camera che quella sottostante avevano finestre con balconi di legno rivolte verso la strada. Improvvisamente, tre colpi d'arma in successione. Mi precipitai per le scale, entrai dalla porta laterale nella camera dei miei genitori. Mio padre stava fissando i vetri di una finestra con tre fori: le pallottole avevano attraversato il soffitto e il pavimento in legno della mia camera, andando a conficcarsi sulla tavola, per fortuna di buon spessore, che sosteneva il materasso del mio letto. Dopo pochi secondi udimmo aprire la porta d'entrata, e successivamente battere alla porta a vetri della camera dei genitori, chiusa a chiave. Papà aprì ed ecco apparire il tedesco ubriaco marcio, che non esitò a puntare la sua Walter 7,65 in direzione della testa di mio padre. Fu questione di attimi; papà, in camicia da notte e con una prontezza e agilità che non mi sarei mai aspettato, con la sinistra fendente fece volare la pistola e con la destra, gli sferzò un potente “gancio” sulla pancia. L'inaspettato ospite piombò a terra come un sacco di patate.
Silenzio, momento di massima tensione, con il terrore che si risveglino i soldati tedeschi che stanno dormendo nel camerone. Disarmare e picchiare un ufficiale può essere la fine per tutti noi. Ma forse i militari non hanno sentito o non vogliono sentire, anche perché questo loro superiore è solito a comportamenti del genere. Cosa fare? Tramortito e incosciente, il tedesco tuttavia respira. Decidiamo di portarlo a letto nella sua camera al piano di sopra. Lo prendiamo io per le braccia, papà per le gambe, mia sorella - scesa nel frattempo – ci apre silenziosamente le porte a vetri. Vestito a tutta norma, gli levo solo le scarpe, rimetto la sua pistola dentro la 51
fondina nera, lasciando le pallottole rimaste nel caricatore. A gran velocità e sempre cercando di non far rumore, papà si rivestì e si spostò nella vicina casa dei contadini, più precisamente nella loro stalla, dove alle cinque cominciavano a mungere le vacche. Poco prima dalle sei, fine del coprifuoco, egli era già per strada in bicicletta, diretto ai Campagnari, alla vecchia casa di famiglia. Alle stesse sei del mattino i tedeschi del camerone erano soliti alzarsi. Tranquillamente, come sempre. Il tenente dormiva, e dormì fino alle undici. Lo vedemmo poi, pallidissimo, attraversare il giardino e avviarsi verso il comando nel centro del paese. Che si fosse dimenticato o che avesse voluto dimenticare? Tutto proseguì come nulla fosse successo. Papà trovò alloggio in una casetta interna alla strada tra Campagnari a Belvedere di Tezze. Distava appena trecento metri da casa delle zie, sue sorelle. E là rimase quasi fino alla liberazione; cioè dai primi di luglio del '44 fino alla settimana precedente il 25 aprile del ’45. Enea Margotti e famiglia erano nel frattempo partiti per più sicura destinazione. Eccomi responsabile "staffetta"
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fine giugno 1944 cominciai a fare qualche servizio come staffetta. Imparai a conoscere Giacomo Prandina, Nino Bressan, Nei Bordignon, Alberto Bordignon, Nani Berto, gli Angelini e tanti altri. Gli amici capirono abbastanza presto che non ero proprio stupido e cominciarono ad affidarmi missioni abbastan52
za impegnative. Con la mia bicicletta Liegi - regalo della mamma - tutta argentea, manubrio sportivo e cambio Singer, portavo messaggi ai partigiani della zona: spesso a Vicenza, ma anche a Sandrigo, Pozzoleone, Grantorto, Tavernelle, Montecchio e altre località. Tra le missioni più rischiose ci fu quella di portare da San Pietro in Gù a Vicenza, e poi con Rinaldo a Pianezze sul Lago, una radio trasmittente da riparare (era di color marrone e aveva la forma di una scatola da scarpe allungata). Mi era stato chiesto di portare anche delle batterie d'auto e così, sempre con Rinaldo, caricammo su un triciclo dell’azienda due batterie da 6 watt e la radio, oltre a dei sacchi per mimetizzare il tutto. E poi su per la strada, in terribile salita, che porta a Pianezze, sopra il lago di Fimon, arrivando a destinazione “con la lingua fuori”. Era proprio il caso di dirlo, faceva un caldo da matti. Depositammo il tutto presso la chiesa, anzi presso il campanile della chiesa, dove trovammo una signora la chiamavano maestra - piena di paura, che ci mandò via immediatamente. Non avevamo avuto il coraggio di chiederle un bicchiere d'acqua. Altra operazione - finanziaria in quel caso - fu quando mi dettero due grandi borsoni di stuoia, pieni di denaro, da consegnare al maggiore Malfatti, in via IV Novembre a Vicenza. Il denaro era confezionato in pacchi e coperto di verdura fresca. Di solito, quando andavo in città, per evitare il posto di blocco di Borgo Berga, all'altezza della trattoria “Bocaletto” deviavo a destra per una stradella che girava verso il cimitero. Quella mattina avevano spostato il posto di blocco all'altezza dell'imboccatura della mia stradina, e caddi in pieno nelle braccia della Polizia Ausiliaria. Buon viso a cat53
tivo gioco e…. decido di sorridere. �Passa!� mi dice la guardia senza fermarmi ed io passo. Dopo un attimo di fermezza, mi sento morire dalla paura. Mi tremano le gambe, mi viene la pelle d'oca e - come un razzo – volo sul chilometro di strada che mi separa dalla vecchia casa di Porta Padova. Cerco Rinaldo e sù, nel nostro granaio, apriamo le borse: contengono pacchi di moneta cartacea da cinque e diecimila lire per un totale approssimativo di quattro o cinque milioni. Soldi stampati dai tedeschi, caduti in mano americane e paracadutati ai partigiani. Mi reco in via IV Novembre, al magazzino di mobili Malfatti, mi assicuro di trovare la persona giusta, consegno i soldi più le verdure, comprese nel prezzo, e mi tengo i due borsoni. Un'altra rischiosa missione
�
Va a Tavernelle dietro l'albergo Roma e chiedi di Marco (era il professor Carlo Segato) e consegna questo messaggio�. Sapevo che era l'avviso di un “lancio”di armi e munizioni da paracadutare in posto segreto. Nascosi il biglietto infilandolo in una scarpa e via! Arrivai a Tavernelle al posto stabilito, ma “Marco” non c'era. Ero preoccupato, l'istinto mi dava qualche segnale di pericolo. �Devi andare ad Altavilla� mi dissero due che non avevo mai visto. �Ad Altavilla, in centro, dove c'è il “Forno del Pane”, troverai tre scalini che portano al negozio� continuarono. Altavilla, forno del pane, in curva al centro del paese, tre scalini ed entro nella bottega del forno. Chiedo di Marco. Dalla stanza attigua, esce il professor Carlo 54
Segato. Mentre sto consegnandogli il messaggio, sento l’urlo di una donna avvertire: �Sono le Brigate Nere!�. Marco (nome di battaglia) cioè Carlo vola via, saltando da una finestra dietro casa. Come un cretino, io ho un momento di smarrimento, ma mi sveglio e subito prendo dei pezzi di pane da dietro il banco. “Mani in alto” sghignazzano come belve irrompendo nella casa i militi vestiti di nero con morte, catene, chiodi e mitra. Uno di loro, puntandomi il mitra, mi fa: �Che cosa ci fai tu qui?�. Con aria da deficiente rispondo: �A so vignu a tore el pan, signor!� e, senza aspettare, riparto con il pane in mano. Giù per i tre scalini, hop sulla bicicletta e via - a tutta velocità – lungo i trenta chilometri che distano da casa. Senza mai girarmi a guardare indietro.
Il lancio venne effettuato ma, ahimé, anziché esserci i partigiani ad attenderlo, c'erano i militi della Guardia Repubblicana di Mantegazzi. Tutti i bidoni vennero trasportati nel cortile della caserma di Borgo Casale. Si potevano vedere, il giorno successivo, dalla nostra fabbrica, bene allineati; i militi si stavano divertendo a scoprirne il contenuto. Tr a c a s a , s c u o l a e scherzi di amici
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ltre a svolgere le attività descritte, riuscivo a studiare (non molto a dire il vero) e anche quell'anno ero stato promosso. Rimasto ignorante ma... promosso! Dopo la partenza di papà, mia sorella tornò a dormire con mia madre, al pianterreno. La nostra giornata era così organizzata: sveglia alle sette anti55
meridiane. Chi pensava a farci aprire gli occhi, anzi le orecchie, era una caustica, metallica canzone militare, puntualmente intonata da un centinaio di sottufficiali tedeschi sotto le finestre del loro comandante. Era come sentire, in mezzo ad un grande silenzio, la stridula frenata forzata di un treno in corsa. Alle sette e dieci - e questo si ripetÊ per qualche mese - uno squadrone di aerei Lightning, bombardieri bimotori a due code, iniziava la picchiata, in fila indiana sopra le nostre teste, per scaricare le razioni quotidiane di bombe sui due ponti vicini: la strada e la ferrovia di Fontaniva. Alle sette e trenta colazione. Mamma era già alzata e aveva preparato il necessario. Via poi, in bicicletta, per fare qualche commissione o incontrare amici. Era buona politica farsi vedere con ragazzi non impegnati nella lotta clandestina, per confondere le idee. Fino alle otto mi recavo in casa Prandina o dagli Angelini, dove c'era il comando, ma dove potevo anche mangiare di gusto una fettina di polenta arrostita con salame (sempre disponibile sulla griglia del caminetto). Con i ragazzi avevamo organizzato una squadra di calcio e, la domenica pomeriggio, partecipavamo ad un torneo estivo paesano. Ci spostavamo in bicicletta, in gruppo, giocatori e tifosi. Ricordo i miei amici Gino e Fulvio, Alfeo, Beppino, Eligio, Mario, Mirko e tanti altri. Eravamo tanto affiatati. Di sera facevamo anche qualche incursione nei frutteti di alcune case del vicinato: Meneghetti, Rigon, Pesavento, Casarotto e anche dal parroco, monsignor Castegnaro. Proprio nell'orto dietro la canonica fui vittima di uno scherzo indimenticabile. Uno di loro mi sfida: �Ma tu hai il coraggio di prendere le prugne nel brolo del parroco?� Io, stupido, ci casco. Salto la mura, salgo sulla pianta in mezzo al frutteto. Dopo pochi mi56
nuti si avvicina una persona, la riconosco, è Antonio Prandina, fratello di Giacomo. Vorrei cadere come un frutto maturo e sparire. E lui: �Proprio tu, Mario!� e rientra in canonica. I miei amici avevano suonato il campanello dell'abitazione del parroco e all’Antonio - che era lì per caso - avevano detto che qualcuno stava rubando la frutta…. Che amici!!!
Altre volte, la mattina di buonora, mi recavo in un’azienda agricola trasformata in allevamento di cavalli. Eravamo amici col figlio del direttore, Mario Coeli, e lui mi lasciava cavalcare degli animali bellissimi, erano della famosa “Razza del Soldo”, una delle più pregiate in Italia. L’intero allevamento con la scuderia era stato spostato, da Milano nella nostra zona, per ragioni di sicurezza e per sfuggire i frequenti bombardamenti. I cavalli dovevano essere condotti a passeggio tutti i giorni, uno per uno, ed essere cavalcati. Come dire per me unire l’utile al dilettevole: cavalcare era una delle mie passioni, e cavalcare le bestie più belle e famose era come realizzare un sogno meraviglioso.
Andavamo anche a pescare, ma di notte, e con la corrente elettrica. Si agganciavano al volo i fili di qualche linea elettrica vicina ai fossi e poi si buttava in acqua il cavo che terminava con un pesante pezzo di ferro; il pesce veniva a galla paralizzato. E paralizzato rimasi anch'io quella notte che un'enorme anguilla venne a galla e dall'entusiasmo saltai dentro il fosso per recuperarla. Mamma mia che scossone! mi sembrava di friggere. Per fortuna furono svelti a ritirare il cavo elettrico. In bicicletta e in gruppo ci recavamo spesso a nuotare nel bacino del Brenta, distante una decina di chilometri. Era una grande cava di ghiaia, lunga circa tre 57
chilometri e larga uno. Veniva anche mia sorella con le amiche Chetta e Antonietta De Notti. Si partiva al mattino presto per rientrare al tramonto. Sebbene l'acqua forse freddissima (sempre acqua del Brenta era) nuotavamo molto, divertendoci a gareggiare attraverso l’enorme vasca acquatica. Ma c'è sempre un ma. Un bel giorno, mentre in gruppo stavamo nuotando proprio al centro del bacino, dalla riva opposta, in direzione Fontaniva, una mitragliatrice cominciò a spararci in mezzo. Sentivamo le pallottole colpire l'acqua tutto intorno. Era una Breda, lo capii dal rumore e dalla cadenza dei colpi. Sempre sotto la raffica continua, riuscimmo a raggiungere riva, afferrare le biciclette e fuggire, in mutande, dalla parte opposta. Miracolosamente nessuno di noi fu ferito. Erano stati quelli delle Brigate Nere di Grantorto, gruppo comandato da un brigatista conosciuto come “il gobbo maledetto”. Per loro quel tipo di sparatoria costituiva una forma di distrazione e di esercitazione. Dovemmo purtroppo abbandonare il nostro bel “bacino” e riadattarci ai fossi nostrani. La nostra scelta cadde sul “Bojo delle Boasse”, una pozza d’acqua dove si abbeveravano le vacche al pascolo. Circondata tutto intorno da piante verdi, era sufficientemente profonda per tuffarvisi. Quanta paura! e sempre q u e l g o b b o m a l e d e t t o…
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na brutta avventura, tuttavia a lieto fine, ci capitò un pomeriggio nel corso di una partita di calcio d'allenamento in un campo a nord del paese. 58
Per fortuna eravamo nei pressi di un fosso. Giocavo in porta, l'azione era dall'altra parte del campo. Improvvisamente vidi, in cielo sulla mia sinistra, il riflesso argenteo di due masse metalliche. Capii che erano due aerei da caccia che stavano per picchiare nella nostra direzione. Urlai come un matto agli altri giocatori e mi buttai dietro una grande pianta. I ragazzi si lanciarono tutti nel fosso laterale. Terrificante rumore delle raffiche multiple di mitragliatrice e dei cannoni dei due caccia Thunderbolt, sulla scia delle pallottole traccianti che ferivano il prato. I due aerei risalirono e non ritornarono. Dalle finestre delle case la gente aveva assistito alla scena e alla nostra salvezza. Nessun ferito, solo tanta, tanta paura!
Mamma era spaventata per tutto quello che combinavo ma, poverina, aveva cominciato ad accettare rassegnata. Insisteva nel ripetermi che studiare era indispensabile, anche perché le frequenze alla scuola non potevano essere regolari, data la situazione di pericolo continuo provocata dalla guerra in corso. Un amico laureato in matematica, il professor Ezio Zanini, imboscato per essere renitente alla leva, chiese di fermarsi qualche notte da noi. La casa era tranquilla proprio perché piena di tedeschi. L’ufficiale ubriacone era partito, sostituito da un collega più equilibrato. Nei ritagli di tempo avrei così avuto la possibilità di ripassare per bene e studiare matematica, materia in cui volevo a tutti i costi emergere sui miei compagni di scuola. Mamma e Maria dormivano di sopra, io con Zanini nella camera sottostante. Verso l’una della terza notte, sentimmo battere con violenza alla porta d'entrata. Immediatamente svegli, l'amico, afferrati a gran velocità i vestiti, scappò 59
su per le scale fino al granaio del vecchi edificio per poi, attraverso un passaggio segreto, infilarsi nel sottotetto della vicina casa colonica. E ancora avanti fino al fienile soprastante le stalle (aveva prudentemente provato il percorso in precedenza).
Fu la moglie di Giovanni Rigon ad aprire la porta. Erano i soliti delle Brigate Nere di Grantorto con il “gobbo maledetto”. “Mani in alto” e invasione di tutta la casa. Iniziarono dalla camera dei miei genitori, buttando tutto all'aria. Ogni tanto qualcuno si impossessava di qualcosa, ma niente di compromettente venne trovato. Uno dei brigatisti mi chiese chi dormisse nella mia camera, risposi che ero solo. Senza fiatare quello mise le mani sotto le coperte e sentendo caldo dai due lati: �Bugiardo! Qui ha dormito un altro�. Non persi tempo e risposi che era mia abitudine dormire “di traverso”. Fui fortunato, dal momento che altri della brigata erano contemporaneamente saliti al primo piano facendo irruzione, sempre con le armi puntate, nella stanza del comandante tedesco. Apriti cielo! Quello uscì dal letto in mutande e si mise ad urlare come un ossesso. Tutti si precipitarono al pianoterra, dove arrivarono a salvare la situazione gli otto tedeschi del camerone, chi in mutande, chi vestito, ma tutti armati. Il comandante, sempre fuori di sè, intimò ai brigatisti di uscire dalla casa, altrimenti avrebbe immediatamente ordinato ai suoi uomini di sparare. E, sia pure in un pessimo italiano, disse loro: �Raus da San Pietro in Gù!�, cioè sparite subito dal paese. Più tardi, da alcuni indizi, capimmo che “quei maledetti” speravano di trovare mio padre.
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M ia madre, donna for te e coraggiosa
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n piena estate, un grande “lancio” di armi ed esplosivi venne effettuato a sud-est del paese. Tutto era stato scrupolosamente prestabilito e una parte del materiale venne nascosto proprio nell'ampia stalla della nostra casa (ad una decina di metri dall’alloggiamento dei tedeschi). C'erano alcuni spazi vuoti sotto lo strato di cemento dov’era legata una cinquantina di mucche, il tutto ricoperto da letame e paglia. Il carico d'armi era stato fatto entrare nella stalla su di un carro pieno di fieno. C'erano fucili mitragliatori Bren e Sten, bombe a mano, esplosivi plastici, scatole di matite esplosive da innesco e moltissime munizioni: un piccolo arsenale. Con i tedeschi che facevano da inconsapevoli guardiani, non c'era posto più sicuro di quello!
È metà agosto e spaventatissima arriva zia Ada, sorella di mia mamma, per avvertire che lo zio Mario era stato arrestato con altre persone e portato nel campo di smistamento di Verona. Era quello un punto di raccolta dei prigionieri da inviare in Germania. Riferisce a mamma che un tale delle Brigate Nere di Cittadella le ha fatto capire che, andando subito a Verona con del denaro, si può riscattare lo zio Mario. Mamma non se lo fa ripetere due volte: prende dei soldi, va in bicicletta fino a Vicenza e da là, seduta sul seggiolino di destra di un motocarro Guzzi 500 della ditta guidato dal nostro fidato autista Piero Bertoldo, si reca a Verona al campo di smistamento. Non ho l’idea di come si sia mossa, ma
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debbo dire che di fronte al pericolo mia madre era una donna veramente forte e coraggiosa. Non conosceva nessuno, non sapeva dove andare, non parlava una parola di tedesco, ma tornò con suo fratello Mario vivo e libero.
L a f i n e d e l c a p i t a n o Po l g a
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empre nella seconda settimana di agosto arrivò la notizia dell’esecuzione del capitano Polga. Dopo una lunga serie di appostamenti in gruppo, cinque partigiani avevano messo a segno su di lui un centinaio di colpi dei loro caricatori da quaranta. Egli era stato uno dei primi fanatici comandanti fascisti ad emergere subito dopo l’armistizio dell’otto settembre, distinguendosi per gli orrori, le violenze, le rapine, i furti e i ricatti. Era stato proprio il capitano Polga a incassare da mia madre un milione di lire come contropartita alla liberazione di mio padre, peraltro mai allora avvenuta. Polga comandava la polizia ausiliaria, ma era anche un uomo molto intraprendente. È noto che aveva privatamente organizzato, “fuori orario”, una banda di oltre una decina di agenti che, in borghese e qualificandosi quali partigiani, terrorizzava i contadini abitanti in case isolate dei Colli Berici e del Basso Vicentino con furti, omicidi, e soprattutto violenze alle donne. Era stato il Comitato di Liberazione Nazionale a decidere l’eliminazione del Polga, alla cui scomparsa non ci fu reazione immediata, anche se poi seguirono rappresaglie nei confronti dei partigiani. Si lesse molto più tardi nel quotidiano vicentino che anche una decina di agenti della 62
polizia ausiliaria erano stati processati dal tribunale militare, e alcuni di loro fucilati (forse, anche per i fascisti, quelli avevano un pò esagerato!) Intruppato dai tedeschi per lavori di scavo
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uella domenica d’agosto ero in chiesa, era circa mezzogiorno e la messa stava per concludersi, quando tutte le porte vennero spalancate e, armatissimi, entrarono alcuni tedeschi (ma non quelli residenti nel nostro paese) insieme con dei militi delle Brigate Nere. Senza tanti complimenti, uno dei brigatisti sale armato sull'altare e ordina a tutti gli uomini di uscire dalla porta posteriore centrale, con le mani alzate. In fila indiana, mani in alto, fuori in mezzo alla piazza, provvedono ad una selezione: a casa le donne, i più i vecchi, i più giovani e i malandati. Tutti gli altri su nei camion: tre autocarri con sponde aperte ricoperti di telone. Vengo anch'io accatastato, con una trentina di altre persone, su di un automezzo. E poi un tedesco e un repubblichino salgono, puntando verso di noi i mitra, chiudono le sponde e via.... partenza per le vacanze. Ma quali? Dov'è il bagaglio? Indossavo solo una maglietta e un paio di calzoncini corti, a tasche vuote, sopra un paio di mutandine. In sandali e senza calzetti. Ero il più giovane del gruppo. Fisicamente dimostravo forse più della mia età, ma nella selezione andavano ad occhio e non per età.... C'erano anche tre o quattro giovani, tutti gli altri erano persone anziane, agricoltori e qualche professionista. Dopo meno di tre ore di viaggio, impolverati, raggiungemmo 63
il centro di Albettone, al confine con Padova. Giù tutti! In fila indiana, davanti ad un tavolino dove una guardia delle Brigate Nere – chiamandoci uno dopo l’altro – trascriveva su un registro nomi, cognomi, indirizzi, età eccetera; dopodiché ci veniva consegnato un cartellino (senza foto) con l'ordine di non perderlo. Un segno di riconoscimento dell'organizzazione TODT.
Il nostro gruppo era di circa trenta persone. Non sapevamo dove fossero andati a finire gli altri due autocarri carichi di prigionieri. Concluse le formalità “anagrafiche” ci informarono che saremmo stati impiegati in lavori di scavo per la costruzione di una grande fossa anticarro. L'orario di lavoro sarebbe stato continuativo, dalle sei antimeridiane alle cinque del pomeriggio e per un periodo di tempo da loro stabilito. Il cibo sarebbe stato gratis. Quanto al riposo notturno, ognuno si arrangi! E…. non tentare di scappare o creare altri problemi, perché i nostri nomi e quelli dei nostri familiari sono in loro possesso! Ricaricati sul camion, ci portarono in pianura, ad una decina di chilometri in direzione di Agugliaro. �Qui dormirete!� ci dissero additando il porticato di una casa colonica, dove un centinaio di altri prigionieri si era già accampato. �E per mangiare, seguirete gli altri alle cucine da campo. Imparerete subito!�. Ci guardammo in faccia e rimanemmo senza parole, disorientati e confusi.
Per nostra fortuna emerse, a prendere il controllo della situazione, Aldo Boschetti, un uomo essenziale, pratico e svelto. Per me era “zio Aldo”. �Andiamo al ristorante� disse in tono scherzoso �visto che è l'ora giusta�. Il suo atteggiamento deciso e spiritoso ci infuse un pò di coraggio: ci mettemmo in coda agli altri e via verso le cucine da campo. Si trattava di cucine mobili, rimorchiabili, fatte in serie per le truppe tedesche; assomiglia64
vano a scatole nere con due ruote e camino altrettanto nero fumante. �Minestra, minestra calda� udimmo ripetere. Venne il nostro turno. Pronto di fronte a noi l'inserviente con il mestolo alzato ma... �dove la mettiamo?�.... �Tornate domani sera con un recipiente� e…. avanti! Prendemmo la nostra razione di pane, mai visto un pane così fetente e scuro, anzi “oscuro”. Rientrammo all'accampamento senza parole.
Subito il nostro amico Aldo ci riunì per cercare di “fare il punto”. Eccone in sintesi quanto ricavato: per poter mangiare occorrono dei recipienti dove raccogliere il cibo, quindi qualcuno di noi deve mettersi alla ricerca; bisogna immediatamente mettersi in contatto con le rispettive famiglie dal momento che ci si trova isolati: che ci mandino dei soldi e ci aiutino in questa critica situazione; dobbiamo organizzarci per poter dormire. Almeno avevamo un programma. Non era facile trovare non dico un piatto, ma una qualsiasi cosa che potesse contenere “la minestra”. Problema condiviso forse da circa altri diecimila prigionieri distribuiti nell'area di una decina di chilometri. Io, fortunato, trovo una zucca. La taglio a metà, la pulisco e preparo il mio servizio da sei (la zucca era abbastanza grande). Altri trovano vecchi barattoli di latta e contenitori di varia specie. Buttiamo tutto in ridere. Comunicare con casa è un problema, non c'è un telefono, non una persona che possa fare da tramite o che possa andare ad avvertire la famiglia. Quanto al dormire, abbiamo della paglia che sembra non sia stata adoperata (avevo il sacro terrore dei pidocchi e delle pulci, preferivo la fame ai pidocchi). Mettiamo a posto la nostra paglia nella parte terminale del portico e…. a nanna, meglio dormirci sopra. 65
Alle cinque, sveglia! Non avevamo uno specchio, non un pezzo di sapone né un pettine, ma soprattutto mancava l'acqua per lavarsi e non esistevano gabinetti (c'erano quelli dei contadini, ma l'accesso era severamente proibito). Tutti in fila per la colazione, questa volta con i nostri contenitori di fortuna. Il caffè ci venne servito, anche abbondante ma così cattivo, così amaro da sembrare cicuta, se non altro era bollente. Due fette di pane e un cucchiaio di margarina. Non mangiavamo da due giorni ma... piuttosto di niente! E poi al lavoro. Un capo operaio (era gente pagata) ci guidò alla zona a noi designata. Trovammo un soldato tedesco anziano seduto in mezzo al campo; sul tavolino di fronte a lui c'era un grande foglio sul quale ognuno di noi avrebbe dovuto scarabocchiare il proprio nome. Mi accorsi di alcune firme a forma di croce e questo mi consolò.
E poi giù nel vallo, uno scavo profondo sei-sette metri, largo una quindicina e lungo chilometri e chilometri. Ci danno delle pale, dei picconi e delle carriole. Ogni zona ha un capo operai che distribuisce gli incarichi. Ci insegnano che cosa fare, ma notiamo subito che la gente lavora solo quando si sente l'ondata della parola: “Piove, piove, piove, piove, piove...”. È il segnale che il tedesco di guardia sta per arrivare e allora... sotto! Spedito in cerca di aiuti comunitari
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n terminabili le dieci ore di lavoro. Arrivarono finalmente le cinque del pomeriggio, nuova firma sul foglio e via a cena. La mia zucca sapeva di caffè ma bisognava sorvolare. Minestra: tante patate e carote in 66
tantissima acqua. Almeno era gratis e c’erano in più due fette di pane “nerofumo”. Rientrammo sotto il portico quando Aldo, fissando ora l’uno ora l’altro di noi, disse: �Che cosa fare? Qui bisogna trovare qualche soluzione! Qualcuno deve raggiungere il nostro paese perché ci siano inviati soccorsi, soldi, viveri e rinforzi�.
Nessuno fece un passo in avanti, e così io mi offrii di partire per San Pietro in Gú allo scopo di organizzare gli aiuti. Feci notare che era impossibile accorgersi dell’assenza di qualcuno di noi per due ragioni: i soldati di guardia cambiavano spesso, era quindi impossibile conoscere personalmente tutti i lavoratori; e poi “tutte quelle croci”… come avrebbero fatto, in quel casino di fogli firmati anche con molte croci, a identificare le persone che avevano firmato? Chi erano i crociati?
Chiesi che qualcuno segnasse a mio nome il foglio di presenza e che mi fosse procurata una bicicletta: sarei andato in cerca di soccorsi. Accettarono la mia candidatura, ero il più giovane del gruppo e potevo con più facilità passare i controlli dei posti di blocco lungo il percorso. La bicicletta ci fu prestata su cauzione (raggranellando i soldi rimasti a qualcuno in tasca) e intorno alle sei del mattino dopo, alzato il coprifuoco, partii. La bicicletta era duretta da pedalare, ma la voglia di casa era tanta. Avevo con me anche del denaro che gli amici mi avevano consegnato per il viaggio. Dovetti necessariamente attraversare Albettone, evitando tuttavia la caserma delle Brigate Nere, e mi infilai quindi su strade di campagna. Arrivai a Lovolo, ero affamato. Entrai in una casa di contadini e chiesi se, pagando, potevano darmi qualcosa da mangiare. Furono generosissimi: polenta calda, latte, formaggio, salame e 67
perfino un bicchiere di clinton. Si divertivano a vedermi mangiare. E niente soldi, tutto gratis. Grazie ancora! Rifocillato per bene, risalii felice sul mio velocipide e via! Montegaldella, attraversamento della nazionale Vicenza-Padova a Grisignano di Zocco, aggirando Camisano, e poi Villalta, Lanzé e San Pietro in Gù. Avevo percorso una settantina di chilometri, e a mezzogiorno ero già a casa. Mamma mi strinse fra le sue braccia e non sapevo che cosa dirle, ubriaco di gioia. Le spiegai le ragioni di quella mia presenza e le dissi che avrei dovuto rientrare al campo di lavoro la mattina dopo.
Mi resi conto che il centinaio di famiglie dei “rastrellati” non sapeva dove fossero andati a finire i loro cari. Subito dopo essermi lavato, cambiato e rifocillato, mi recai all’abitazione di uno dei miei compagni d'avventura. In un battibaleno la notizia si diffuse. Prima cominciarono ad arrivare i famigliari di quelli del nostro gruppo, poi anche gli altri. Spiegai che mancavamo di tutto e feci un elenco delle cose di prima necessità, sia individuali che collettive. Durante questa mia assenza di due giorni, gli amici avrebbero individuato un luogo coperto dove dormire, lavarsi e cucinare, logicamente pagando. Tutto si rimediava con i soldi! Purtroppo, alcuni contadini di quelle zone e di quel periodo stavano perdendo ogni sensibilità umana, fuorché per il denaro. Era necessario trovare un carro con un cavallo e un accompagnatore; bisognava assemblare tutto durante la notte per poter partire la mattina successiva, subito dopo il coprifuoco. Sarebbe stato sufficiente arrivare a destinazione verso le cinque pomeridiane, alla fine del turno di lavoro. Raccomandai di provvedere una sola valigia, scatola o sacco di indumenti per ciascuno, e poi 68
coperte e qualche telone. Inoltre abbastanza viveri da conservarsi per una decina di giorni. Mi assicurai che non mancassero carte da gioco (per la briscola!) e un bel pò di vino, dal momento che avevamo bisogno di “risollevare lo spirito”. Era necessario anche allestire una cucina: avevamo bisogno di piatti, bicchieri, posate e pentole per una trentina di persone. Al mattino di buonora, tutti all'appuntamento: quanta grazia di Dio! Impossibile elencare la quantità delle cose raccolte. Fra l’altro, una “caponara” piena di polli e galline vive. Damigiane e damigiane di vino. E una lettera per ognuno, contenente anche denaro. Missione compiuta!
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arro, cavallo, conducente e carico - io al seguito sulla mia Liegi per non rischiare di farmi prendere - partimmo verso le otto del mattino, seguendo all’incontrario il percorso. Mi misi d'accordo con il conducente del cavallo che, se fosse stato fermato a qualche posto di blocco, doveva dire la verità, e cioè: �Porto da mangiare ad un gruppo di lavoratori dell'organizzazione TODT�. Era meglio andare lisci. In sette-otto ore coprimmo tranquillamente il tragitto, arrivando prima delle cinque pomeridiane. Gli amici non erano ancora ritornati dal lavoro. Quando mi videro, e soprattutto videro “i rinforzi”, sembravano diventati matti. In una casa colonica poco distante, avevano già affittata una grande stanza. Era spaziosa e aveva anche un caminetto. Era stata ripulita, e vi era stata installata una vecchia cucina a legna. C'era anche un grande tavolo che poteva accomodare una ventina di persone. Da un lato era stato 69
preparato un grande giaciglio di paglia, che ricoprimmo con un ampio telone.
L’intera comitiva si trasferì immediatamente nel nostro Grand Hotel. Il carro venne velocemente scaricato, e in pochi secondi, la tavola fu imbandita. Salami, formaggi, vivande cucinate in precedenza dalle famiglie e un'infinità di altre prelibatezze erano a disposizione dei convitati, che con la loro fame arretrata fecero presto a ripulire il tutto. E quanto vino clinto, tanto e tanto! Dormimmo un pò stretti, in quel lettone di paglia “pulita”ricoperta dal telone. Grande colazione la mattina dopo. Avevamo anche il latte fresco fornitoci - sempre a pagamento - dal contadino che ci ospitava. Alleggerito per bene, il nostro benefico accompagnatore partì per rientrare al paese. Ci lasciò con la promessa di ritornare, ben carico, la settimana successiva, anche con le biciclette necessarie nel caso ci avessero lasciati liberi.
Dietro pattuito compenso, una donna provvedeva a cucinare e a tenere in ordine il nostro “grand hotel”. E noi… al lavoro, anzi a fingere di lavorare. La mia assenza non era stata notata e, visto che rimanere in buca per dieci ore sotto il sole cocente era piuttosto scomodo, proposi all'amico Carli di fare un giro nella collina che s’innalzava a un centinaio di metri. Avvertimmo i nostri, aspettammo che la guardia tedesca fosse lontana e via come lepri, attraverso i campi fin sulla collina. In “libera uscita” fino alle cinque! Camminammo in lungo e in largo per i campi arrampicati sul colle. Assaggiavamo l'uva che cominciava a maturare, ci stendemmo a dormire al fresco, sotto le piante. Rientrati con molta cautela nelle file, firmammo il foglio e ci dirigemmo al “grand hotel” dove la vita era intensa. La gente arrivava, si rinfrescava e si precipitava a mangiare. Si gio70
cava poi a carte e si chiacchierava in perfetta armonia. Ero diventato amico di tutti, ma in particolare di “zio Aldo” che, pieno di risorse e di brio, aveva attenzioni per ognuno di noi. N o n s e m p re c i a n d av a b e n e
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on l'amico Carli continuammo le nostre escursioni “esterne”, allargando la zona esplorativa. Avevamo trovato delle piante di fico, con frutti maturi, e delle pere precoci. Ci portavamo anche qualcosa da mangiare e da bere: undici ore erano lunghe da trascorrere a pancia vuota. Nel nostro peregrinare avevamo individuato una zona folta di cartelli che segnalavano future installazioni di cannoni anticarro. Pensammo fosse doveroso prendere quei cartelli e distruggerli e così facemmo.
Era ormai trascorsa una ventina di giorni dalla forzata partenza da San Pietro in Gù. Dall'alto della collina si dominava l'intera area dei lavori, un lungo taglio della terra con tutta quella gente (sembravano formiche) che vi lavorava. E noi, tranquilli sotto una pianta, vedemmo apparire un imponente aereo Duncan Mustang che sorvolando radente cominciò a scaricare le micidiali mitragliatrici in linea retta con la fossa. Un breve mitragliamento (forse il pilota aveva avvertito qualcosa di strano), ma certo sufficiente ad un massacro. Ci precipitammo in pianura e vi trovammo il caos. C’erano morti e feriti ovunque, nessuno per fortuna dei nostri. Ritornammo all'accampamento distrutti e impauriti. Perché questi massacri senza senso? Perché 71
fare il tiro al bersaglio su gente inerme?
Un altro pomeriggio, durante una delle nostre brevi fughe, stavamo tranquillamente seduti sotto una pianta a chiacchierare, quando uno, due, tre tedeschi ci circondarono e, con le armi puntate, ci ordinarono di alzare le mani sulla testa e �Raus!�... Era circa l’una del pomeriggio. In assoluto silenzio ci fecero scendere fino al posto di comando, in aperta campagna. Il “comando”, un tipico prefabbricato tedesco, era vicino ad una trattoria. Pochi giorni prima, nell’attiguo cortile, otto giovani erano stati prelevati tra la gente che lavorava: barbaramente fucilati e poi esposti al pubblico, “perché la gente deve imparare!” Al “comando” c'era solo un militare, gli ufficiali erano andati a mangiare. Ad una ventina di metri dalla baracca c'era una piccola capanna di legno dove ci scaraventarono, chiudendo la porta dall'esterno con un lucchetto.
Ci guardiamo subito attorno, la cabina è un ripostiglio per gli attrezzi da lavoro. Notiamo - dalla parte opposta all'entrata - una piccola finestra chiusa da una fitta rete metallica. Con Carli ci intendiamo al volo. Senza parole, con un gran colpo di piccone strappiamo via la rete. Salto fuori per primo. È poi il turno del mio amico che, essendo più grosso di me, passa a fatica e con grande sforzo. Ci buttiamo a terra, nessuno ci ha visti. E via! ancora come lepri per i campi e sempre di corsa fino al “grand hotel”. Preghiamo la donna di avvertire della nostra fuga gli amici e senza prenderci niente da vestire, ci dirigiamo in bicicletta verso San Pietro in Gú. Solito percorso, solite preoccupazioni, solite paure e, verso sera, arriviamo. Ci separiamo e... ognuno a casa propria.
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Va d o a Pa v i o l a e . . . vi incontro i cosacchi
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amma, sempre felice di rivedermi, lo fu un pò meno quando le raccontai i fatti. In attesa di una schiarita alla situazione, decidemmo che un mio allontanamento da casa, sia pure provvisorio, sarebbe stato prudente. Sarei andato, con mia sorella come angelo custode, alla casa paterna di mia madre a Paviola. Partimmo la mattina dopo le sei, appena finito il coprifuoco. Attraversammo il Brenta in barca, perché il ponte di Grantorto era stato bombardato e distrutto. Gli zii furono felici di accoglierci. Casa Rossato, a Paviola, era un'antica villa veneta (la si nota tuttora, restaurata di recente, lungo la strada nazionale Cittadella-Padova) circondata da un grande fossato pieno d'acqua e di pesci. Da un piccolo ponte, limitato da un cancello in ferro battuto, si entrava in un curatissimo giardino all'italiana antistante la villa. Vi abitavano tre fratelli di nostra madre: zio Mario, zio Vittorio e zia Ada. Con loro viveva una donna anziana che aiutava in cucina. Un’altra sorella, zia Lina, viveva a Venezia, sposata al caro Onorato Anselmi.
Nemmeno là fummo disoccupati. Maria studiava e suonava il pianoforte con zia Ada, io seguivo le lezioni di mio zio Mario: mi insegnò a curare i fiori in giardino, a pulirli, abbeverarli, tagliarli. Ancora ricordo siepi di meravigliose dalie multicolori. E poi c’erano i cavalli, grande passione di mio zio (e mia!). Ce n’erano diversi, due in particolare erano formidabili. Al trotto, zio mi portava in “carrozzella” a controllare i lavori nei campi, 73
permettendomi di tenere le redini, cosa che mi divertiva molto. La sera ci ritrovavamo insieme a cena, spesso anche con ospiti di passaggio, intorno al grande tavolo massiccio della cucina, a lato di un focolare da sogno accessibile tutto intorno. Dopo qualche giorno di “bella vita” a Paviola ricevemmo una comunicazione: il gruppo di lavoratori era stato rilasciato e nessuno si era accorto della mia fuga. Decidemmo, perciò, di ripartire l'indomani mattina. Quando, nel pomeriggio, ci arrivarono voci relative alla presenza in zona dei cosacchi e dei rastrellamenti che quelli operavano. Per sentito dire, già conoscevamo le preferenze di quell'orda di scatenatati e ci preparammo all'eventualità che “arrivassero visite”. Mettemmo una grossa catena al cancello d'entrata, bloccata da un luchetto ancora più grosso. Preparammo un posto dove potessero nascondersi le donne. Al tramonto, chiudemmo il pollaio, in modo che le galline fossero obbligate a dormire sui rami degli alberi. Stavamo iniziando a cenare, quando avvertimmo dei grandi colpi al cancello d'entrata. Dalla finestra, vediamo diversi carri trainati da cavalli fermi sulla strada e alcuni uomini con grandi mantelle che stanno cercando di abbattere la catena del cancello. A gran velocità, aiutiamo Maria ed Ada ad infilarsi nel vecchio forno del pane, nascondendone l'imboccatura con oggetti diversi. Eliminiamo i loro due posti a tavola e riprendiamo a mangiare come se tutto fosse normale. Attirati dalla luce, con un pesante calcio sulla porta di legno, entrano i cosacchi, una decina di scalmanati. Ci puntano addosso le armi e ci costringono a sedere attorno al focolare rotondo. Uno di loro sta di guardia, impugnando un Mauser. Erano soldati di origine russa, aggregati alle truppe 74
di invasione. Robusti di costituzione, vestivano divise simili a quelle dei tedeschi e indossavano colbacchi neri. Erano coperti di polvere e avevano barbe incolte. Forniti di “pistolmachine” e fucili Mauser, tutti portavano bombe a mano col manico di legno infilate nel cinturone e negli stivali. Alcuni anche lunghe scimitarre. Ricordo occhi da mongoli su volti olivastri.
�Partizany?� ci chiedono. Noi facciamo segno di no.... Due di loro si mettono a tavola e cominciano a mangiare, mentre gli altri sono in giro per la casa. Sbraitano �Vina! Vina!�. Facile da capirsi, vogliono del vino. Zio Mario si alza lentamente e fa segno di andare a prendere il vino. Sempre con il mitra puntato, uno lo segue fino alla piccola cantina (il “canevin”) accanto alla cucina. Il cosacco addocchia subito le provviste. Si butta sulla fila di salami, ben allineati, appesi ad un palo, e sui vasi di sottaceti. Afferra una grande cesta con manico e la riempie più di quanto possa contenere. Dai piani superiori scendono gli altri, tutti con qualche souvenir. Si sono serviti per bene prima di rimettersi a tavola per continuare a mangiare e bere abbondantemente il Malbec, il vino preferito di zio Mario. Circa un'ora dopo, a pancia strapiena e ubriachi, quei selvaggi lasciarono la casa. Uscimmo anche noi per vedere i carri, trainati dai grandi cavalli, partire in direzione di Cittadella. Nuova catena e nuovo lucchetto al cancello, e…. aria alle due donne ancora nascoste, terrorizzate, nel forno. Il mattino dopo mancavano all'appello, oltre a molti oggetti asportati dagli invasori, anche i due cavalli preferiti dello zio Mario e quattro mucche. Pazienza, la guerra è guerra!
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IN ALTO A DESTRA - La piccola Ida Rossato con la mamma, a Paviola di San Giorgio in Bosco; giovane sposa a Giocondo Pan a metĂ anni Venti e nonna negli anni Sessanta. ... "proseguendo sulla Valsugana troviamo sul-
la destra, l'elegante VILLA ROSSATO, costruita agli inizi del 1800 in stile neoclassico, su progetto dell'architetto Giuseppe Japelli.." http://www.co-
mune.sangiorgioinbosco.pd.it/web/storia-territorio/articles/le-frazioni-del-comune-paviola.html
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CAPITOLO
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BISOGNA RESISTERE (1944-1945) Un incontro clandestino in casa Pan a Vicenza
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aria ed io ritornammo in bicicletta alla casa di San Pietro in Gù. Dopo quasi quattro settimane di assenza forzata, mi feci finalmente vivo con i miei amici partigiani. A casa Angelini, oltre a Nei, Angelo e qualche altro, trovai anche Giacomo Prandina. Aveva rotto la sua bicicletta e subito gli offersi di usare la mia, sentendomi felice che l'accettasse. Venni a sapere che si stava organizzando un incontro “ad alto livello” e che erano sorte difficoltà nel localizzare, in Vicenza, un posto adatto ove tenerlo. Proposi la mia fabbrica: c’era il posto di blocco dei tedeschi al bar Sartea, la polizia ausiliaria aveva uffici al primo piano, la fabbrica era requisita e dall'altra parte di Borgo Casale si confinava con la caserma delle guardie repubblicane di Mantegazzi. Non poteva esserci posto più tranquillo! Tutti si misero a ridere, pensando che la mia proposta non fosse stupida. Suggerii inoltre che Rinaldo, già da loro conosciuto per precedenti collaborazioni, avrebbe potuto organizzare il tutto. Così avvenne. L'incontro si fece di domenica negli uffici della fabbrica. Sette anonime persone furono fatte passare da Rinaldo, una alla volta, dal portone al civico 74 di Porta Padova. Egli rimase fuori, a guardia. 77
Settembre 1944. Si apriva l’anno scolastico 44-45: con mia sorella e altri amici riprendemmo a frequentare la scuola a Vicenza. Valeva sempre la regola delle presenze saltuarie e del colloquio periodico.
A metà ottobre, uno dei presenti alla riunione di Porta Padova viene arrestato e non resiste alle brutali torture del tenente Usai. Vuota il sacco. Grande ondata di arresti, soprattutto nella città. Rinaldo il primo di questa nuova ondata. Lo attendono in casa, sulle scale. In strada ci sono ben dodici agenti della Guardia repubblicana, alcuni in divisa e altri in borghese. Tranquillo, sta tornando dalla scuola industriale di Santa Caterina. Si avventano su di lui, lo legano e lo portano alla caserma di ponte San Michele. Prelevano dagli uffici della fabbrica le macchine da scrivere usate durante la riunione dei capi partigiani. Altro non possono sequestrare, perché tutto era già sotto sequestro. A riceverlo, a San Michele, c'era il tenente Usai 6: proveniva da Firenze e faceva parte della banda Carità di Padova 7, il famigerato gruppo che annoverava tra i suoi un fior fiore di delinquenti. Violentare le detenute, passare con il ferro da stiro bollente sulla loro pelle nuda, provocare scosse elettriche sulle parti delicate del corpo; bastonare, strappare le unghie ai prigionieri erano le loro specializzazioni, ben note in tutta Italia. Senza aprire bocca e con un pugno di ferro, Usai assestò un potente gancio sullo stomaco di Rinaldo, che era a mani legate dietro la schiena. Svenuto, il mio amico venne riportato in cella in attesa dell'interrogatorio.
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Rinaldo tor turato e destinato in Germania
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inaldo venne più volte interrogato e torturato, si volevano i nomi di chi aveva partecipato alla riunione negli uffici Pan. Egli non conosceva assolutamente i nomi delle persone presenti all'incontro, e nemmeno gli argomenti trattati. Mai ebbe un momento di debolezza, mai una parola che potesse danneggiarmi uscì dalla sua bocca. Lo ricorda in un suo libro Neri Pozza, che venne pure arrestato e portato nella stessa cella. Lo trovò a terra, svenuto dopo un ennesimo interrogatorio, e si prese pietosamente cura di quel povero ragazzo. Rinaldo venne destinato ai campi di sterminio in Germania. A Verona, dov'era il centro di smistamento e dove i prigionieri dovevano attendere la disponibilità dei treni (la linea del Brennero era continuamente interrotta dalle incursioni degli alleati) egli venne assegnato ad una squadra di detenuti che, dopo ogni bombardamento, dovevano disinnescare - mediante chiavi di ottone a due denti - le bombe inesplose, svitandone le spolette. Non tutti tornavano vivi da quel rischioso lavoro. Il 31 gennaio 1945, oltre tre mesi dopo l’arresto, partì per la Germania. A Trento, bombardamento alla stazione. Il treno era in transito e una bomba esplosa vicinissima sventrò il carro merci. Lui non si fece certo pregare e scappò con tutte le forze che aveva. Corse su per la collina, sempre attraversando prati e campi, e raggiunse
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la strada per Carbonare. Si fermò solo tre ore dopo e, sfinito, entrò in una casa di Vigolo Vattaro. Una signora anziana lo accolse maternamente: lo invitò a lavarsi, gli diede indumenti per cambiarsi, gli preparò da mangiare. Prima di ripartire, Rinaldo la ringraziò riconoscente e nel salutarla le chiese il nome. �Polga� rispose lei.... Era la mamma del capitano Polga che a Vicenza comandava la Guardia repubblicana. Da Vigolo Vattaro alla Val d'Astico a piedi e di corsa. Riuscì a recuperare una bicicletta probabilmente a Forni, dove i Dalla Via avevano una casa, e giù lungo la valle fino a San Pietro in Gù. Da noi si fermò alcuni giorni, il tempo di riprendere forza. Ci pensò mamma ad alimentarlo. Gli procurammo nuovi documenti (tramite Nani Berto, “lo specialista”). Una carta d'identità del Comune di San Pietro in Gù, una carta di lavoro e.... Rinaldo è di nuovo per strada, diretto a Trieste questa volta: duecento chilometri in bicicletta per andare a casa del fratello. Dopo qualche settimana trascorsa a Trieste, venne inviato in Slovenia a tagliare boschi per la TODT. Anche da là riuscì a fuggire, raggiungendo i partigiani di Tito: al loro fianco partecipò alla liberazione di Trieste. Solo a guerra finita, sarebbe finalmente ritornato a Vicenza. La cattura d i G i a c o m o Pr a n d i n a
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iamo verso fine ottobre e un altro lancio viene effettuato alla nostra brigata, ma qualcosa va storto. Ezio Zanini viene catturato e trasferito in una casa colonica dove le Brigate nere e la Guardia repubblicana 80
avevano rinvenuto, vuoto, un bidone cilindrico da lancio. Non visto, assisto alla terribile scena (in bicicletta avevo seguito l’automezzo che si allontanava). Viene trascinato vicino al bidone e interrogato. Non essendo soddisfatti delle spiegazioni, due brigatisti gli scaricano in faccia e sulla testa una serie di pugni. In pochi secondi il capo gli si gonfia come un pallone. In quelle condizioni è trasportato in piazza quale “esempio da ricordare”. Svenuto, viene poi sbattuto nel camion e trasferito al carcere di San Michele. Per puro caso, proprio nella cella dov’era rinchiuso anche l'amico Rinaldo. Anche Giacomo Prandina 8 venne catturato. Le Brigate Nere di Sandrigo, sicuramente informate da quanche spia, accerchiarono la sua casa in San Pietro in Gù, dove momentaneamente si trovava in visita alla madre malata, e lo arrestarono. Li vidi passare per la strada che va verso nord, tutti in bicicletta. Lui - con la mia Liegi in mezzo al gruppo di brigatisti - mi vide e mi sorrise. Allarme venne dato per liberarlo, ma si valutò anche il grande pericolo di rappresaglie alle famiglie e - su suo stesso invito - si soprassedette a qualsiasi tentativo. Da Sandrigo lo portarono a Vicenza dove lo consegnarono ad Usai. Dopo interrogatori e torture, venne trasferito nel carcere di San Biagio. Qui, date le particolari conoscenze fatte durante la prigionia di mio padre, riuscii ad avere dei contatti, a scambiare informazioni e a portargli più volte da mangiare, tramite la moglie del capo carceri, di nuovo regolarmente ricompensata. In cella con Prandina c'erano anche i Fraccon, padre e figlio. Stavo appunto per portare del cibo caldo a Giacomo, quando quella mattina notai un camion tedesco, un Opel verde con telone e sponda allentata, che stava ca81
ricando a bordo alcuni detenuti. Sopra e in piedi c'era l’ingegner Prandina che stava aiutando a salire Torquato Fraccon, il padre di Franco. Mi avvicinai. Giacomo mi vide e sorridendo mi disse: �A presto!� Ma dove? Forse all'altro mondo. Finì martire nei forni crematori di Mauthausen. Come i Fraccon e tanti altri. Bressan 9 rimase solo al comando della divisione partigiana di Vicenza. La mia bicicletta - nel frattempo recuperata dai familiari di Giacomo alla caserma delle Brigate Nere di Sandrigo - divenne il cavallo di battaglia di Nino. 9 A d d i o a l l a s t o r i c a Fi a t 2 8 0 0 !
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ravamo ancora a fine ottobre quando al cancello di villa Rigon si presentò un gruppo di militi delle Brigate nere di Grantorto con a capo il famoso “gobbo” (tutto nero, con mitra Berretta corto, e sul testone un copricapo con visiera sormontato dal solito simbolo di morte). Ricordando il trattamento ricevuto in altra occasione dal comandante tedesco (quando li aveva sbattuti fuori) suonarono al campanello del cancello laterale e chiesero gentilmente dei Pan. Mi mostrarono subito un ordine di requisizione per una autovettura Fiat 2800 berlina-turismo e mi chiesero di essere accompagnati a prenderla. Non mi restò che obbedire. In bicicletta, li guidai alla fattoria Biasia, dove la vettura (regolarmente denunciata) era stata ricoverata. Mi obbligarono a spingerla fuori dal capannone e dovetti anche aiutarli a togliere la polvere: addio berlina 2800! Venni molto più tardi a sapere che l'auto sostò a Verona per poi finire in prefettura a Milano a disposizione 82
del Duce. Con la stessa, Mussolini con l'amante Claretta fuggì verso Dongo. Dopo avere perso le tracce dell'autovettura, appresi che negli anni Novanta l'automobile fu battuta all'asta Brooks di Ginevra per 190 milioni di lire, dato il grande interesse storico. M a i a l e e “m a s s o l i n” fuori combattimento!
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ell'ottobre ’44 avevamo comperato un maiale già cresciuto, affidandolo alla cura dei vicini contadini Zilio che l’accolsero nel loro porcile. Per alimentarlo, portavo tra l’altro i resti di cucina. A metà dicembre, il maiale aveva quasi raggiunto i duecento chili ed era quindi pronto per il “sacrificio”. Avevamo, da tempo, prenotato un esperto del mestiere (in veneto era il “massolin” che ammazzava il maiale, lo preparava per il giorno dopo, quando l’avrebbe sezionato e insaccato). Stiamo lavorando nella grande cucina, quando avvertiamo raffiche di mitraglie, il boato di due bombe e il frastuono di due aerei da caccia in volo radente sopra di noi. Continuiamo il nostro lavoro ma…. arriva trafelato un ragazzo ad avvertire il “massolin” che una bomba ha centrato in pieno la sua casa. L’esperto corre via, rimangono gli improvvisati allievi a continuare l’opera (cioè a confezionare salami, soppresse, coppe e pancette da asciugare, appesi ad appositi pali, nella cucina riscaldata). Finimmo l'operazione a notte fonda, stanchi ma soddisfatti. Per due anni avremmo avuto una scorta di insaccati preparati da mani maestre! 83
S otto massacranti bombardamenti
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ra la notte del 18 novembre. Fummo svegliati di soprassalto, tutti i vetri della casa tremavano. Un potente bombardamento stava colpendo Vicenza, a circa dieci chilometri in linea d’aria. Il mattino dopo, con Maria e Beppino Aguggiaro, ci precipitammo in città. Per fortuna era stato bombardato pesantemente, con bombe dirompenti, solo l'aeroporto. Centinaia di persone furono in seguito rastrellate dai tedeschi per chiudere le buche provocate dal bombardamento. Ci recammo alle rispettive scuole, quando alle undici suonò l'allarme aereo. Fuga a grande velocità verso casa. All’altezza di Anconetta e precisamente a duecento metri fuori dal paese, dove inizia la strada che va a Monticello Conte Otto, avvertii l'arrivo di un'ondata di bombardamenti in ritmica successione. Spingendo mia sorella terrorizzata, mi tuffai - con bicicletta e tutto - nel fosso di destra. Beppino anche si buttò. Mi misi di peso sopra Maria che tremava dallo spavento e vidi, vidi tutto. Il cielo costellato di aerei che bombardavano a bassa quota, le nuvolette delle batterie contraeree che sparavano dalla stradella del Meggiaro, le scie delle pallottole traccianti, delle mitragliere da 20mm a canne multiple e una grande nevicata di striscioline argentee che riempivano il cielo per magnetizzare l'atmosfera e neutralizzare i sistemi di puntamento da terra. Vedevo, nitidamente, i grappoli di bombe che si staccavano dagli aerei mettendosi in linea retta nella nostra direzione e la sequenza delle esplosioni avanza84
re a terra. Proprio difronte a noi - al di là della strada - una bomba fece volare in cielo un gruppo di mucche al pascolo. Una pezzata bianco-nero navigava nel cielo apparendo intatta. Era come una “roulette russa”, non sai mai se il prossimo colpo sia il tuo. Un’altra bomba in pieno campo, alle nostre spalle, ci coprì di terriccio. �Siamo salvi!� urlai e scattai in piedi di corsa, invitando gli altri a fuggire per evitare l'ondata successiva in direzione di Ospedaletto. Quel bombardamento fu un “barbaro massacro”, servì solo ad uccidere. Era stata sganciata una moltitudine di bombe a spillo che esplodevano a mezzo metro da terra in linea orizzontale con migliaia di schegge. L'allineamento dell'ondata di bombe avveniva da ovest ad est centrando in pieno l’aeroporto e provocando centinaia di morti e di feriti, straziati dalle micidiali schegge. Per fortuna, le “nostre” bombe erano del tipo dirompente, altrimenti sarebbe stata la fine.
Altre sconvolgenti esperienze
È
sera, poco prima del coprifuoco, sto rientrando da Lanzè e attraverso i binari della ferrovia vicino alla stazione di San Pietro in Gù. Vedo un treno con vagoni merci, fermo, circondato da soldati tedeschi. Mi avvicino, è quasi buio, sento un odore rivoltante e odo lamenti provenienti dall'interno dei vagoni sigillati. È un treno di prigionieri: ”Erano ebrei” mi disse più tardi il capostazione. L'ultimo carro è aperto e si intravvede un ammasso di cadaveri. Ne ricordo uno, sembrava pie85
trificato, con le gambe tese per aria aperte. Le SS avevano fermato il treno in un posto isolato per svuotarne i vagoni dai cadaveri, che buttavano di peso, afferrandoli per mani e piedi, nel vagone terminale. Scappai piangendo! Come fa l'uomo ad arrivare tanto in basso? Non dissi niente a mamma e a Maria, ma quella notte non riuscii a dormire. Un’altra notte di fine novembre: grandi botti nel pieno del sonno. Era il nostro gruppo guastatori che aveva fatto saltare i tre ponti a Lisiera. Un treno scortato da tedeschi era deragliato e finito nella scarpata. Il mattino dopo, recandomi a Vicenza, vidi la locomotiva infilata nel fosso con i vagoni al seguito. I tedeschi avevano abbandonato il treno, e la popolazione, accortasi delle grandi scorte di zucchero diretto in Germania, era partita all'assalto per farne razzia.
Sono nella piazza del paese con amici, quando vedo passare un milite della polizia portuaria in divisa sopra la mia bicicletta argentea. Corro spaventato dai Prandina temendo che qualche cosa di brutto sia capitato a Nino (era lui infatti che stava usando la Liegi dopo la cattura di Giacomo). Ma Antonio Prandina mi rassicura: �Nessun allarme Mario! Il milite che hai visto è uno dei nostri con una divisa a prestito�. A fine guerra sarei venuto a conoscenza che il milite travestito era un capo partigiano, Giovanni Battista Comacchio. Curiosa la storia di questa mia bicicletta! Finita poi in mano tedesche e quindi americane…. la recuperai un bel giorno in piazza a San Pietro in Gù cavalcata da un giovane soldato americano che me la restituì sorridendo.
Anche la MAS venne a farci visita. Otto militi, bene armati, nella tipica divisa della Decima, si presentaro86
no in cerca dei Pan con un ordine di requisizione per una auto Lancia Augusta cabriolet che dai documenti risultava essere ricoverata in una casa di contadini. Anche questa volta dovetti ubbidire, salire in macchina, accompagnare i militi nella fattoria lungo la strada Marosticana e consegnare l'automobile. Pratici di razzie, i suddetti militi cambiarono la batteria scarica con una nuova che s’erano portata. Un pò di benzina nel carburatore e la macchina partì per sempre. Venne destinata ad Osvaldo Valenti, uno dei capi della X Mas. Non mi lasciarono sul posto, furono cari e gentili offrendomi di riportarmi a casa. Appena due chilometri dopo, notano un folto gruppo di anitre mute, che scivolano sull’acqua ghiacciata del fosso alla destra della strada. Bloccano le macchine, scendono e, a raffiche di mitra, fanno strage di tutte le povere bestie. Per recuperarle, semplicissimo: mi prendono e mi spingono nell'acqua gelata a raccoglierle e buttarle a riva. E non mi riportano poi a casa, ma mi lasciano, grondante d’acqua e gelato, in mezzo alla strada. Raggiungo la prima abitazione, dove mi conoscono; mi asciugano, mi fanno bere un vin brulè caldo e mi accompagnano in paese. Si sta avvicinando l'arrivo della fine
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fine dicembre arrivò un nuovo ufficiale tedesco, era un giovane di Monaco di Baviera, già provato dalla guerra. Il maggiore Nill affidò al “tenente Carlo” (alloggiato in casa Pesavento) il comando del87
la zona. I soldati, ormai residenti da quasi un anno in paese, avevano pian piano familiarizzato con la gente. Molti dormivano nelle case requisite, e avevano finito per consumare i pasti nelle famiglie. Il tenente afferrò la tacita intesa che era nell’aria e…. “Non disturbateci e noi teniamo lontani i fascisti”. I vecchi soldati tedeschi, reduci e provati dalle battaglie d'Africa, di Sicilia, d'Anzio... avevano capito che la guerra era persa e il loro comportamento si stava adeguando alla realtà. Dopo i continui bombardamenti notturni dei vari “Pippo” - aerei angloamericani utilizzati a innervosire gli occupanti e la popolazione 10 - gli stessi tedeschi si prestavano a cercare e far esplodere le bombe a farfalla seminate nei campi, per salvaguardare la vita dei contadini e degli animali al pascolo.
A Natale, in bicicletta, andammo a casa delle zie ai Laghi e incontrammo papà che di nascosto era arrivato alla vecchia dimora di famiglia attraverso i campi. Era molto stanco e impaziente, non resisteva più a rimanere chiuso in una stanza “in volontaria prigionia”. Era ottimista circa la fine della guerra. Con cautela ascoltava ogni sera Radio Londra con i resoconti del colonnello Stevens, e questo lo incoraggiava. Almeno per un giorno potemmo essere riuniti. L’ultimo dell’anno 1944 lo trascorremmo di nuovo in casa Rigon a San Pietro in Gù, tra i tedeschi che festeggiavano con potenti sorde ubriacature, forse per dimenticare l'arrivo della fine.
Metà gennaio 1945. La mattina, arrivando trafelato in bicicletta, si presenta il figlio dei contadini cui erano stati affidati “a balia” tre nostri cavalli. A balia significa che potevano usare i cavalli per lavoro provvedendo ad alimentarli. Ci informa che due militari tedeschi avevano prelevato i cavalli e un calesse a due ruote, partendo 88
in direzione di Lanzè. Con l’assistenza di mia sorella, che parla con padronanza la lingua tedesca, informo del fatto il comandante, che immediatamente ordina al suo autista e a un altro soldato di caricare il ragazzo in macchina - una Volkswagen anfibia - e correre in cerca dei soldati, arrestandoli. Trovano i due tedeschi seduti sulla carrozzella, le loro biciclette legate dietro, un cavallo alle stanghe e altri due che seguono tirati da corde. Ma c'è anche una terza persona che, in bicicletta, segue i due, con una mano poggiata sul fianco del calesse... è lo Zardo. Condotti al comando, i due militari - non fornendo alcuna logica giustificazione al loro operato - vennero consegnati alla Feldgendarmeria, e lo Zardo spedito direttamente in prigione a San Biagio, da dove uscirà solo alla liberazione perché considerato prigioniero politico.
Le posizioni alleate erano sulla “linea Gotica” ad una distanza, in linea d'aria, di circa duecento chilometri. Di giorno le azioni degli aerei da caccia si intensificavano in modo incredibile, il cielo era tutto loro. Di notte Pippo non mancava agli appuntamenti. Tutto era paralizzato, la gente che lavorava nei campi temeva i mitragliamenti. Gli automezzi militari circolavano solo al calare della notte e a fari spenti. Purtroppo il comandante di divisione Nino Bressan 9 a febbraio cadde in una trappola, venne preso e consegnato nelle mani del famigerato Carità. Torture, interrogatori e ancora torture. E poi in prigione a Thiene. Con uno stratagemma, a metà marzo venne liberato e ritornò al comando della divisione. Ai primi di aprile i caccia Thunderbolt mitragliano il paese a volo radente. Alla seconda incursione l'aereo è così basso che sembra entrare in casa. Abbiamo il ter89
rore che siano stati scoperti i giganteschi carri armati Tigre e che gli aerei tornino per sganciare qualche bomba. Con mamma decidiamo di spostarci da casa Rigon e troviamo, a un chilometro dal paese, due stanze nell'azienda agricola degli amici Boschetti, da zio Aldo. Siamo in aperta campagna, in un casolare isolato. I militi fascisti sentono di avere i giorni contati e cominciano a disertare e scappare. Pensiamo che papà non corra pericolo a rientrare. Vado nel suo nascondiglio di Belvedere e insieme rientriamo a San Pietro in GÚ. Dormiamo in quattro su uno stanzone, siamo felici, la guerra sta per terminare, è questione di giorni. Un giovanissimo Rinaldo Diodà , reduce dalla tortura, dall'imprigionamento e dalla guerra per la liberazione di Trieste. Amico fedele e indimenticabile, deceduto ottantaquattrenne in dicembre 2011. (Cfr: Rinaldo torturato e destinato in Germania) Un ritaglio stampa dalla Voce dei Berici in ricordo dell'eroico Giacomo Prandina, nato a San Pietro in Gu' nel 1917
e morto a Gussen di Mauthausen nel 1945. (Cfr. La cattura di Giacomo Prandina) 90
CAPITOLO
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NON SOLO LIBERAZIONE (1945) �a nemico in fuga ponti d'oro�
I
l comandante Nino Bressan trasmetteva ordini precisi a tutte le brigate: �Attaccate solo se è necessario - a nemico in fuga ponti d'oro�. Questo era il messaggio da portare a tutti i distaccamenti dei partigiani. Contemporaneamente venivano distribuiti sacchi e sacchi di chiodi a cinque punte da buttare di notte sulle strade per bloccare gli automezzi. Se infilava un chiodo di quel genere, il copertone era distrutto; per me, questo non andava molto d'accordo con l'ordine di lasciare fuggire il nemico. Ma… gli ordini sono ordini. Tra il 22 e il 24 aprile anche i tedeschi acquartierati a San Pietro in Gù partirono verso la Germania. Alcuni, che da oltre un anno erano ospitati nelle case requisite, facendosi benvolere e avendo maturato rapporti di amicizia, furono nascosti dalle famiglie con il benestare del comando partigiano. Rientrarono in Germania a guerra finita. Uno di loro si fermò e si sposò con una ragazza del paese.
24 e 25 aprile 1945. Migliaia di tedeschi in fuga transitavano per il paese con ogni mezzo, carri con cavalli, biciclette, camion quando avevano benzina. Nonostante gli ordini ci fu qualche sparatoria con morti e feriti. Alcune disgrazie furono frutto di imprudenza, come accadde ad un nostro amico che udendo sparare in stra91
da si affacciò alla finestra e fu colpito a morte. Nella notte del 28 aprile arrivano gli americani della Quinta Armata. La popolazione è tutta per le strade ad accoglierli, impazzendo dalla gioia. La mattina del 29 aprile mio padre incontra i primi tre soldati americani fermi fuori dal paese con un cannone anticarro. Scende dalla bicicletta e corre ad abbracciare e baciare un gigante di colore.
Della locale scuola elementare, che disponeva di un ampio cortile recintato da alte mura, si fece un campo di concentramento per i tedeschi (gli italiani repubblichini si erano volatilizzati). I soldati catturati dagli alleati e dai partigiani venivano prima perquisiti (incarico che condivisi per due giorni) e da là smistati nei campi di raccolta predisposti in Emilia. Nel corso della perquisizione venivano ritirati coltelli, denaro e oggetti pericolosi. I tedeschi disponevano di somme immense di denaro italiano in biglietti da cinque e diecimila lire, appena stampati da loro. All'entrata della scuola, nel luogo dove avvenivano le perquisizioni, era acceso un grande fuoco dove veniva bruciato il denaro: tutti erano convinti che quella moneta non avrebbe avuto più validità. Mi trattenni per ricordo un piccolo pacchetto da cinquemila. Qualcuno se ne mise da parte qualche chilo! Non ho mai capito perché l'inetto governo italiano del Sud non avesse deciso il cambio della moneta.
I famosi chiodi a quattro punte (Cfr. A nemico in fuga....) 92
All'ufficio matricola in Vicenza liberata
F
ine aprile: una ventina di partigiani della brigata Damiano Chiesa fu inviata a Vicenza. Nostro comandante era Ermes Farina. Prendemmo alloggio all'albergo Due Mori. Fui subito destinato all’ufficio matricola delle carceri. Rimasi là solo due giorni (proprio alle carceri dovevo finire, con tutti quei brutti ricordi…). Dopo un’incresciosa scenata da parte di un vecchio partigiano dell'altopiano di Asiago che sbronzo marcio ci tenne in ostaggio per un’ora dentro l'ufficio - con me c’erano altri quattro partigiani - minacciandoci con una bomba a mano, chiesi di andarmene. Servendoci del nostro vecchio camion BLR a carbonella, provvediamo a ritrasportare mobili e accessori da San Pietro in Gù alla nostra abitazione in Vicenza. Dopo quasi due anni di peregrinazioni siamo finalmente a casa!
Papà non perse tempo, cercò subito di rimettere in sesto l'azienda che anche per merito dei fedelissimi Rinaldo Diodà, Piero Bertoldo e Adele Marcolongo non era stata del tutto svuotata. Subito ricostruì la birreria Sartea, durante l’ultimo anno occupata dai tedeschi: era quello il punto d'incontro di tutti gli amici, specialmente degli antifascisti. Rinaldo rientrò la prima settimana di maggio, provato ma contento soprattutto per avere partecipato con i titini alla liberazione di Trieste. Per festeggiarlo, con Enzo, Giulio e un gruppetto di altri amici andammo alla pasticceria San Lorenzo, dove comprammo – con il pacchetto da cinquemila lire messo da parte – l’intera scorta di dolciumi in vendita: tutta la pastic93
ceria! Dopo quattro anni di guerra la voglia di dolci era tanta ma…. un'indigestione collettiva ci accompagnò per più giorni. I due fratelli di Rinaldo rientrarono dalla guerra ma suo padre, deportato in Germania dai Balcani, morì in un campo di concentramento. Rinaldo rimase a vivere con lo zio, sempre nell'appartamento sopra il bar Sartea. Anche Marcello Ciscato, il capo della nostra banda Triangolo Verde, tornò da Mauthausen, miracolosamente sopravvissuto al campo di sterminio.
I n visita alle cantine distrutte
A
metà maggio papà decise di fare un viaggio in Emilia e nelle Marche, per vedere cosa era rimasto delle sue aziende di Sesso, San Martino in Rio, Falconara e San Benedetto del Tronto. Delle varie automobili era salva solamente un’argentea Lancia Ardea. La preparammo con cura: pieno di benzina, due taniche di scorta, due copertoni di ricambio in caso che le strade disastrate ci riducessero a terra. Dal comando divisione partigiana ottenemmo permessi per circolare e portare armi (io avevo un mitra Berretta corto calibro 9 e Rinaldo un Thompson calibro 12). Bande di rapinatori e sbandati spesso fermavano le macchine in transito. Il comandante Bressan ci fece inoltre avere - dal maggiore Lolar della V Armata americana stanziata a Vicenza un'autorizzazione per poter circolare in tutta Italia e un certo numero di buoni benzina Esso per poter prelevare carburante in tutti i territori liberi. 94
Papà era felice di guidare liberamente la sua auto, recandosi ovunque senza paura. Passammo il ponte di barche sul Po a Pontelagoscuro, l’unico transitabile, tutti gli altri erano distrutti. Visitammo dapprima Sesso. La villa dov’era collocata la cantina era requisita dai partigiani comunisti, che ci vietarono categoricamente l'accesso. Altra sorpresa spiacevole a San Martino in Rio. Avevano asportato tutto, comprese le porte. Purtroppo venimmo a sapere che poco prima della liberazione il nostro incaricato, Erasmo Caffagni, era stato trucidato dai comunisti. Era persona gioviale, generosa e caritatevole. Lo ricordo quando, durante la guerra, veniva a Vicenza con una vecchia Lancia scoperta alimentata a carbonella. Anche per prendere e farci coraggio, papà ci condusse da una sua vecchia conoscenza, l’anziana proprietaria di una trattoria in aperta campagna. Tagliatelle fatte a mano, lambrusco di Sorbara e un generoso “lesso”all'emiliana ci vennero abbondantemente serviti sotto una pergola del giardino. Pernottammo in quella trattoria-alloggio e ripartimmo all'alba in direzione Marche. Era meno pericoloso viaggiare alla luce del giorno. Abbastanza facile il percorso fino all'Adriatico, ma dopo Rimini le strade erano disastrate. Ponti rotti, sostituiti da strutture in ferro Bailey, a senso unico. Le zone di combattimento erano ancora piene di buche e lungo la strada vedevamo segnali di campi minati. Arrivammo ad Ancona, attraversammo la città, distrutta da bombardamenti aerei e cannoneggiamenti dal mare. Raggiungemmo finalmente Porto San Giorgio, zona controllata dalle truppe polacche del generale Andersen aggregate alla VIII Armata inglese. Ci fecero aspettare 95
per un paio d'ore prima di lasciarci passare: volevano un permesso degli inglesi e non degli americani! Finalmente, il buon senso di un ufficiale che parlava italiano prevalse e così proseguimmo. Ci fermammo a pernottare in una casa di contadini, dirigendoci poi a Falconara, dove la sede della nostra azienda era stata colpita dai bombardamenti e non esisteva più neanche il fabbricato. Proseguimmo per San Benedetto del Tronto. Andammo all'Ortofrutticola Marchigiana dov’erano le nostre cantine di trasformazione, ma anche là trovammo solo muri senza porte. Non avevamo toccato cibo per tutto il giorno e - dopo aver trovato da dormire per la notte - papà ci condusse da vecchi amici proprietari di una trattoria alla stazione.
Fu un incontro cordialissimo. Mio padre ordinò “pesce a volontà per tre, anzi per sei”. Saremmo tornati dopo un'ora, perché prima avevamo tanta voglia e bisogno di un gran bel tuffo nelle acque dell’Adriatico là vicine. Erano anni che non facevo un bagno in mare. Ci prepararono “ogni ben di Dio”. Inimmaginabili qualità di pesce, una maratona gastronomica indimenticabile, bagnata dal tipico vino rosato della zona. Anche se aveva perso tutto, papà era felice, stava riscoprendo la vita e la libertà. Non l'avevo mai sentito cantare, ma quella sera lo fece. Prima di andare a letto, altro bagno in mare per me e Rinaldo. Ci fermammo ancora un giorno, il tempo per mio padre di riallacciare i suoi collegamenti commerciali. Il giorno dopo decidemmo di rientrare a casa. Ma non dopo esserci riforniti al mercato di una abbondante quantità di pesce che, ben ricoperto di ghiaccio, portammo a mamma, insieme anche con una cassa di prelibate albicocche. 96
B a s t a M a r i o, la guerra è finita….
M
amma fu felice. Eravamo tornati sani e salvi. Il pesce e le albicocche erano doni rari. Ma fu meno felice quando ci vide scaricare dalla macchina anche i due mitra. Il giorno dopo, a tu per tu, lei mi fece un discorso molto chiaro: �Mario, la guerra è finita e lo sai quanto io abbia sofferto. Tu avevi fatto delle scelte, da noi in parte condivise, ma ora è il momento di tagliare con il passato. Non voglio più vedere armi in casa. Basta partigiani, basta resistenza. Devi pensare ai tuoi studi e al tuo futuro�. Che cosa mi restava da fare? Avevo solo 15 anni. �Hai ragione, mamma!� - mi rimisi il grembiule e tornai a scuola.
Po s c r i t t o
L
e armi non le consegnai, anzi dopo avere svuotato dal famoso ripostiglio le migliaia di bottiglie di Cartizze e di Cognac a suo tempo nascoste sotto i forni del malto, Rinaldo ed io riempimmo quello scantinato con una quantità di armi sufficienti a dotare una trentina di persone. Avevamo ricevuto indicazioni precise in merito e papà ne era a conoscenza. Le armi furono distrutte dopo le elezioni del 1948. 97
NOTE 1 - Maggiore Mantegazzi
pagina 22/32/55/77
Comandante della Milizia Fascista e successivamente comandante della Guardia Repubblicana. Condannato dal Tribunale penale di Verona a 20 anni di carcere. “Tristemente noto per la sua crudeltà” . I fascicoli della Corte d’Assise Straordinaria di Vicenza testimoniano che lo stupro reiterato con l’uso di cocaina era “normale” all’interno del carcere di S. Michele da parte del maggiore della G.N.R. Antonio Mantegazzi. www.istrevi.it/donne/RESIDORI-identita-femminile.pdf
2 - Angelo Berenzi
pagina 25/28
3 - Capitano Polga
pagina 28/32/34/62/80
Direttore del quotidiano di Vicenza “Vedetta Fascista”. Con le dimissioni e l'arresto di Mussolini del 25 luglio il quotidiano “Vedetta Fascista” diventò “Il Giornale di Vicenza” e il poeta Antonio Barolini fu nominato direttore. Il 28.6.1945 il Tribunale di Vicenza condannò Angelo Berenzi a 30 anni di reclusione (amnistiato il 22.6.1946).
Il capitano fascista Giovan Battista Polga era comandante del reparto di Polizia ausiliaria in forza alla Questura di Vicenza. Era noto per il suo fanatismo, per aver diretto molte operazioni di rastrellamento contro i “ribelli” e per essersi reso responsabile di varie esecuzioni, anche di civili. (cfr. Anpi Vicenza) Fu giustiziato da un gruppo di partigiani il 28 novembre 1944 in località Ronare poco lontano da Priabona. http://www.anpi-vicenza.it/storia_Priabona_1_12_1944.htm
4 - Professoressa
pagina 30
Il regolamento di conti con la mia insegnante di matematica avvenne per interposta persona, e cioè tramite il suo allora fidanzato, l'insegnante di educazione fisica professor Rebecchi. L’avevo incontrato per la prima volta al carcere di San Biagio dopo la liberazione, io partigiano all'ufficio matricole, lui tra i fascisti arrestati. Era con suo 98
padre, maestro alle elementari di Porta Padova. Me lo ritrovai come insegnante all’Istituto di ragioneria Fusinieri dove non perdeva occasione per insultarmi. In ginnastica mi aveva classificato con il voto più basso possibile, uno! (modestamente ero un invidiabile ginnasta). A parte il voto, erano le continue provocazioni a disturbarmi. Un giorno inviò a mia sorella, allora insegnante di tedesco nello stesso Istituto, un biglietto provocatorio, che Maria subito mi consegnò. Nel corso di una lezione in palestra, difronte all’intera classe di studenti, ad alta voce Rebecchi avviò uno strano discorso sulla disponibilità finanziaria della mia famiglia. Eravamo nel seminterrato della scuola. Lo pregai, visto che si trattava di argomenti privati, di proseguire il suo dire in una saletta attigua. Accettò, entrammo e chiusi la porta. Dopo qualche minuto uscii e ai miei compagni: �Voi non avete visto e sentito niente�. Dopo tre giorni egli rientrò a scuola con il volto ammaccato e una serie di certificati medici. Furono sospese le lezioni. Generale riunione dei docenti in sala consiglio, tema da discutere la proposta Rebecchi per “l’espulsione di Mario Pan da tutte le scuole del Regno”. Presiedeva il professor Nicoletti, ex partigiano, già incarcerato come antifascista. Dopo due ore la sentenza: �Mario Pan viene condannato.... alla totale assenza dalle lezioni di ginnastica per tutti gli anni che rimarrà all'istituto e a un giorno di sospensione morale� (che cosa questo morale significasse nessuno sapeva).
5 - Eugenio Zardo
pagina 32-37/89
Dopo la Liberazione, avevamo presentato una denuncia a suo carico per la lunga serie di reati commessi nei nostri riguardi. Ma la denuncia venne “restituita al mittente” perché lo Zardo collaborò con la Questura e perché, a loro detta, “era una persona onesta”. Lo incontrai un giorno in tram, ero con Enzo Dalla Via - all'altezza di Ponte degli Angeli - e Zardo stava per scendere di fronte alla pasticceria Marzotto. Nel vedermi si precipitò sul marciapiede. Mi tuffai, lo afferrai e lo tempestai di pugni. Se alcune braccia robuste non mi avessero fatto smettere.... sarei ancora a pestarlo. Da allora non lo notammo più in circolazione, avrà pensato bene di cambiare aria!
6 - Tenente Usai
pagina 78/89
Dalla voce Usai in Banda Carità: “.... in collaborazione con il tenente Umberto Usai, ... realizzarono ... formalmente come agenti UPI 99
e del BdS (per le SS italiane), l'opera più riuscita di contenimento e di contrasto del movimento partigiano in città e provincia, naturalmente “col sussidio delle peggiori torture” e “alle dirette dipendenze delle forze armate germaniche”, ma senza mai trascurare ulteriore eccesso di sadismo e di violenza (che nel marzo '45 costrinse le stesse autorità di Salò ad inquisirli e a rinchiuderli, per poco tempo in verità, in fortezza)”. http://www.studistoricianapoli.it/dettaglio_ente.php?id=759
7 - Mario Carità e la sua Banda
pagina 78/89
Era un militare italiano. Membro della Repubblica Sociale Italiana guidò un manipolo di squadristi e repubblichini, il “Reparto di servizi speciali” (RSS) della 92ª Legione Camicie Nere: un reparto talmente autonomo e feroce da essere noto solo come Banda Carità. Dopo l'attività svolta a Firenze si trasferì prima nel rodigino e successivamente, su richiesta del questore Menna, a Padova dove operò presso Villa Giusti, dal luglio del 1944 fino alla fine della guerra. Era il braccio armato dell'antiresistenza. I suoi metodi erano brutali e includevano attentati, infiltrazioni, provocazioni, esecuzioni sommarie e l'uso costante della tortura. Inoltre cercavano di corrompere i fiancheggiatori e persino i partigiani. Un caso classico era l'infiltrazione nelle bande partigiane o l'assassinio dell'élite intellettuale (come fece all'Università di Padova). http://it.wikipedia.org/wiki/Mario_Carità
http://it.wikipedia.org/wiki/Banda_Carit%C3%A0
8 - Giacomo Prandina
pagina 44-80
Nato a San Pietro in Gù (Padova) nel 1917, morto nel campo di sterminio di Gusen il 20 marzo 1945, ingegnere, Medaglia d'oro al Valor militare alla memoria. Cattolico fervente, era studente all'Università di Padova quando fu chiamato alle armi nel Genio. Passò poi all'Aeronautica come sottotenente di complemento. Al momento dell'armistizio - si era nel frattempo laureato in ingegneria elettrotecnica a Padova e in costruzioni meccaniche a Torino - Prandina si trovava presso il Comando della 2ª Zona aerea territoriale di Padova. Datosi alla macchia, il giovane ingegnere si diede all'organizzazione delle prime bande partigiane nel Vicentino e nell'alto Padovano, oc100
cupandosi in particolare dell'allestimento di campi d'aviolancio, ma partecipando anche con gran coraggio a molte azioni di guerriglia. Era commissario politico della Divisione partigiana “Vicenza” quando, il 31 ottobre del 1944, cadde nelle mani dei tedeschi, che lo torturarono a lungo senza riuscire a piegarlo. Deportato a Mauthausen e poi a Gusen, vi morì poco prima dell'arrivo degli Americani. Questa la motivazione della ricompensa alla memoria: “Di casa in casa, di paese in paese, ancora ricordato con commosso pensiero da quanti ascoltarono la sua parola, fu apostolo di fede che insegnò ai giovani, che scosse i dubbiosi. Le prime squadre partigiane dell'alto Padovano e del Vicentino furono da lui amorosamente curate e potenziate, i primi campi di aviolancio da lui impiantati, i primi servizi di raccolta notizie da lui organizzati. Uomo d'azione partecipò a centinaia di atti di sabotaggio, emergendo per ardire e sprezzo del pericolo. Arrestato subì disumane torture che, se piegarono il suo corpo, ne rafforzarono l'anima e mantenne spirituali rapporti con i compagni di fede che non volle spendessero per salvarlo energie e forze da riservare solo alla lotta per la Patria oppressa. Deportato in Germania e rinchiuso in un campo di annientamento, soccombette alla fame, agli stenti e alla pena che fino alla morte consumò il suo cuore in un'ardente fiamma di amore per la Patria lontana”. A Giacomo Prandina è stata intitolata una strada di Vicenza. (Cfr. ANPI Vicenza) http://www.anpi.it/donne-e-uomini/giacomo-prandina/
9 - Nino Bressan e la Brigata Damiano Chiesa pagina 44-94
La “Brigata Damiano Chiesa” fu una formazione partigiana di carattere apartitico ed autonomo. Era formata da 3 Brigate: la 1a operante a Cittadella e sul Monte Grappa, la 2a a San Pietro in Gu, la 3a nei pressi di Padova; nelle varie formazioni era forte la presenza di exmilitari. Tant'è che il primo sindaco di San Pietro in Gù sarà il generale dell'aeronautica Raffaele De Notti. Fra i fondatori delle Brigate, e loro commissario politico, si annovera Gavino Sabadin, rappresentante nel CLN Veneto, successivamente prefetto di Padova designato dal CLN, decorato di medaglia d'argento al valor militare. Tra le personalità legate alla brigata Gaetano Bressan, nome di battaglia “Nino”. http://www.istrevi.it/doc/BRESSAN-Nino-10Martiri-VI[2001].pdf
.... Nella pianura vicentina, in città e nei paesi limitrofi, nel cuore delle grandi vie di comunicazione viarie e ferroviarie con l’Italia del Nord tra Venezia e Milano, adeguandosi alle condizioni di lotta permesse dall’ambiente geografico, si era formata la Resistenza “ter101
ritoriale”; la pianura era stata suddivisa dagli organi della Resistenza provinciale, C.L.N.P. (Comitato di Liberazione Nazionale Provinciale) e C.M.P. (Comitato Militare Provinciale), in Settori, che cooperavano con le formazioni partigiane di montagna e si dedicavano all’opera di sabotaggio della produzione industriale, dei trasporti militari, delle cabine elettriche, delle linee telefoniche, dei ponti, delle ferrovie e delle strade principali. Non erano partigiani alla macchia i sabotatori, ad eccezione dei quadri dirigenti e dei comandanti. Mandata ad effetto l’azione di sabotaggio, eseguita di notte, essi tornavano alle loro occupazioni. Nel mese di maggio, unendo le esperienze fatte nel corso di vari colpi di mano soprattutto a Vicenza e nella sua immediata periferia, nacque il “Battaglione Guastatori” della futura divisione “Vicenza” dalla collaborazione di tre valenti dirigenti della Resistenza: Luigi Cerchio “Gino”, comunista, che aveva formato numerose squadre di gappisti, Gaetano Bressan “Nino”, capitano della Guardia di Frontiera addetto all’addestramento degli uomini, e Giacomo Prandina, cattolico, che a San Pietro in Gù aveva organizzato la raccolta degli aviolanci forniti dalle missioni alleate. Essi furono i comandanti del “Battaglione Guastatori” e misero in crisi in diverse occasioni il sistema di comunicazioni e di trasporto nazifascista. Memorabili furono alcune notti di fuoco, preparate in località lontane l’una dall’altra contemporaneamente per disorientare i nemici e neutralizzare le rappresaglie. (Cfr. ANPI Vicenza - La Resistenza e la lotta partigiana)
10 – Chi era Pippo?
pagina 88
A partire dal 1944, i cieli notturni dell’Italia centro-settentrionale iniziarono ad essere solcati da un velivolo con rombo inconfondibile. L’immaginario collettivo lo ricondusse ad un singolo apparecchio e, con chiaro riferimento alla sua nazionalità, lo soprannominò Pippo. In realtà Pippo era rappresentato da diversi apparecchi e per giunta anche di differenti modelli e nazionalità. Gli aerei in questione erano dei bi-
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motore appartenenti all’USAAF (United States Army Air Force), alla RAF (Royal Air Forces) o alla SAAF (South African Air Forces) predisposti per compiere voli notturni. I modelli che vennero utilizzati a questo scopo furono Martin A-30 Baltimore, Douglas A-20 Havoc, Douglas A-26 Invader e Northrop P-61 Black Widow in dotazione all’USAAF e De Havilland DH98 Mosquito, Bristol Beaufighter e Douglas A-20 Boston in dotazione alla RAF e alla SAAF. Le missioni affidate a questo tipo di velivoli avevano il compito di pattugliare i territori nemici durante le ore di buio, intervenendo per obbiettivi di opportunità . Gli interventi potevano consistere in semplice lancio di bengala, oppure in azioni di mitragliamento e bombardamento. Non bisogna inoltre escludere che le sporadiche sortite notturne dei bimotore tedeschi Junkers JU88 della Luftwaffe potevano essere fonte ulteriore di equivoco. (Simone Guidorzi) http://www.museofelonica.it/?page_id=7#10
La localizzazione di San Pietro in Gu' nella zona di operazione della brigata Damiano Chiesa.
103
Due prototipi delle macchine sequestrate dalle brigate Nere a Giocondo Pan: QUI A LATO
la L a n c i a
Augusta Cabriolet destinata ad Osvaldo Valenti ...
&
IN BASSO A DESTRA - la famosa
Fiat 2800 Berlina
utilizzata per la fuga del Duce a Dongo. QUI SOTTO La sola automobile recuperata dopo la guerra... l'argentea
Lancia Ardea
AL CENTRO - il camion Fiat 626 N M L centinato in uso alla Guardia Repubblicana, e il motocarro Guzzi, unico mezzo lasciato a disposizione della fabbrica di birra e bibite Pan.
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INDICE
P R E FA Z I O N E ( a cura di Anna Maria Zampieri Pan ) P R E M E S S A ( a cura dell’autore ) 1 ▷ A N T E FAT T I -
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(1941-1943)
Un ragazzino da “rieducare”
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15
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La banda del Triangolo Verde Ragazzi in azione
15
Un esperimento mal riuscito
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Zabaglioni al marsala con uova compromesse
......
2 ▷ U N PA E S E A L L O S B A N D O ( 1 9 4 3 - 1 9 4 4 ) -
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Il fascismo è caduto!
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L'arresto e l'incarcerazione di mio padre ...................
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30
Secondo arresto di papà e sequestro dell'azienda ..
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33
Professoressa, un giorno me la pagherai! Sciacalli e sciacallaggi
L'appello a Rommel e il suo intervento
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Disonesti e ricattatori sotto mentite spoglie Natale 1943, bombe su Vicenza
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37
Dai Rinaldo, che andiamo in montagna... ... e allora, via con Francesco!
35
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40
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In Altopiano tra i vecchi partigiani
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Ricorda Mario dove siamo più utili...
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3 ▷ E SP E R I E N Z E D I U N A D O L E SCE N T E ( 1 9 4 4 ) -
22 25
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L'8 settembre e un proclama vigliacco
21
44 46 49
Una nottata turbolenta .................................................................
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Eccomi responsabile “staffetta” 105
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Un'altra rischiosa missione
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Tra casa scuola e scherzi di amici
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Quanta paura! e sempre quel gobbo maledetto... Mia madre, donna forte e coraggiosa La fine del capitano Polga
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62
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63
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66
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69
Non sempre ci andava bene
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Vado a Paviola e vi incontro i cosacchi
......................
4 ▷ B I S O G N A R E S I S T E R E (1944 -1945)
71 73 77
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Un incontro clandestino in casa Pan a Vicenza
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Rinaldo torturato e destinato in Germania
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La cattura di Giacomo Prandina
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Addio alla storica Fiat 2800
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Maiale e “massolin” fuori combattimento!
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Sotto massacranti bombardamenti
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Altre sconvolgenti esperienze
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Si sta avvicinando l'arrivo della fine
....
77
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79
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80
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82
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5 ▷ NON SOLO LIBER A ZIONE (1945) -
“a nemico in fuga ponti d'oro”
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All'ufficio matricola in Vicenza liberata
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In visita alle cantine distrutte
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Basta Mario, la guerra è finita...
-
Poscritto
87 91
............................................
91
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94
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97
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97
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98
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105
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INDICE F O TO
58 61
Spedito in cerca di aiuti comunitari
N OTE
55
..........................
Intruppato dai tedeschi per i lavori di scavo Missione compiuta!
54
I N D I CE A N A LI T I CO
............................................................................
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25 aprile 1945 per chi l'ha dimenticato... PARTIGIANI
ESERCITO DI LIBER A ZIONE
caduti
caduti
69.774 dispersi 6 2 . 3 5 4 mutilati 3 6 . 6 1 0
dispersi mutilati
35.149 16.922 11.411
FINALE
I
l Consigliere Bourgeois, allora mi chiese: “Ma cosa faceva lei a 13 anni?". Spero mi perdonerà se non sono stato svelto a risponderle. Come vede avevo bisogno di un pò di meditazione. 107
Quattro tra gli otto ragazzi del gruppo: “Il Triangolo verde” - Mario Pan, Giulio Piccoli, Rinaldo Diodà, e Enzo Dalla Via - sempre più unito anche in momenti di attività sportive.
La 1ma foto in ALTO A SINISTRA, di Mario scalatore, andrebbe indirizzata al famoso insegnante di ginnastica (Cfr. nota 4 Professoressa) 108
A DESTRA: Ida Pan taglia il nastro inaugurale della Fonti Staro di Valli del Pasubio l'8 settembre 1962, vicino a lei il sen. Giuseppe Zampieri. Mario e genitori in visita alle “zie Pan”, Rita, Maria e Adele, nella vecchia casa di famiglia a Belvedere di Tezze sul Brenta. Giocondo Pan tra Giuseppe Zampieri ed Enea Margotti il 4 maggio 1963 allo Chalet Fonti Staro.
Mario papà di Ida Maria, luglio 1964. SOTTO: i nonni Mario & Anna con il nipotino Étienne, a Vancouver nel 1990.
Rimpatriata a Vicenza, qualche anno fa, di quattro del Triangolo verde: Mario Pan, Giulio Piccoli, Rinaldo Diodà, Enzo Dalla Via.
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MARIO PAN
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Quando eravamo
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INDICE ANALITICO 111
INDICE ANALITICO Chi, dove...
A -
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ACQUE, Località Acque, Minerali Ada, ROSSATO zia Adele, MARCOLONGO Adele, PAN - zia / sorella di Giocondo ADRIATICO AFRICA AGUGGIARO, Beppino AGUGGIARO, Eligio AGUGLIARO Albergo DUE MORI Albergo ROMA ALBETTONE ALCAMO Aldo, BOSCHETTI Alfeo ALPINI ALTAVILLA ANCONA ANCONETTA ANDERSEN, Generale ANGELINI Anna Maria, ZAMPIEIRI PAN ANPI ANSELMI, Onorato Antonio, NOALE di DUEVILLE Antonio, PRANDINA ANZIO ARDEA, LANCIA ARMATE OCCIDENTALI ASIAGO AUGUSTA, LANCIA
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Bacino del BRENTA BADOGLIO, Maresciallo - Generale BAGGIO, Collegio BAILEY BALCANI BANDA CARITÀ di Padova Bar-Birreria SARTEA BAROLINI, Antonio - poeta Basilica Palladiana
42 9 vedi R vedi M vedi P 95, 96 88, 103 38, 56, 84 56 64 93 32, 54 64, 67 29 vedi B 56 29 54 95 84 95 52, 56, 77 vedi Z 98,101, 102 73 vedi N vedi P 88 vedi L 35 41, 93 vedi L
57, 58 26, 27, 28 16 95 94 78, 99, 100 14, 18, 22, 25, 29, 32, 77, 93, 94 98 39
112
£ n £ £ £
n n n
n
Quando eravamo... i ragazzi del triangolo verde -
BASSANO DEL GRAPPA Battaglione 6° ALPINI BASSANO Battaglione GUASTATORI BAUTI BdS BELVEDERE DI TEZZE Beppino, AGUGGIARO BERENZI, Angelo - dir. "Vedetta Fascista" BERETTA, Pistole BERICI, Colli BERTO, Nani BERTOLDO, Piero BIASIA, fattoria Birreria Bar SARTEA BLR, camion BOCALETTO, Trattoria BOJO delle BOASSE BOLZANO BOLZANO VICENTINO BORDIGNON, Alberto BORDIGNON, Nei BORGO BERGA BORGO CASALE BORGORICCO, Comune di BORTOLASO, Gino BOSCHETTI, Aldo - zio Aldo BOURGEOIS BREN, mitragliatore BRENNERO, Strada Nazionale BRENTA BRESSAN, Nino BRIDGE Brigata DAMIANO CHIESA
-
BRIGATE NERE - B.N.
-
BRINDISI BRITISH COLUMBIA BRISTOL Beaufighter BROOKS di GINEVRA BUSI, Località
MARIO PAN
42, 45 29 102 26 100 41, 52, 90, 109 vedi A 25, 28, 98 19, 26 31, 62 52, 80 61, 93 82 vedi Bar-Birreria 32, 41, 93 53 58 35, 46, 47 41 52 48, 52 53 18, 22, 32, 55, 77 38 38, 40 64, 65, 67, 71, 90 11, 107 61 47, 79 41, 42, 45, 57, 58, 73 47, 48, 52, 82, 89, 91, 94, 101, 102 49, 50 48, 93, 101, 103 31, 42, 55, 58, 60, 61, 63, 64, 67, 80, 81, 82 27 retro copertina 103 83 45
C CAFFAGNI, Erasmo -
C.L.N. - Comitato di Liberazione Nazionale C.L.N.P. - Comi. di Liberazione Naz. Provinciale C.M.P. - Comitato Militare Provinciale CAMEL CAMISANO CAMPAGNARI di TEZZE sul BRENTA CAMPO MEZZAVIA CAMPO SANPIERO CANADA Candida (Ida) ROSSATO-PAN CANEVIN - piccola cantina
113
foto
95 48, 62,101, 102 62, 102 102 45 68 41, 52 43 29 8, 10, 12, retro copertina vedi MAMMA 75
n
n
n
n n
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INDICE ANALITICO
-
CAPPELLO, Giuseppe Avv. - santolo CARBONARE CARITÀ, Mario CARLI, amico Carlo, SEGATO prof. CARTIGLIANO CARTIZZE CASAROTTO CASTEGNARO, Monsignor CERCHIO, Luigi - Gino Chalet, FONTI STARO Chetta, DE NOTTI CHIOGGIA CIANO, Galeazzo CISCATO, Marcello CITTADELLA CITTADELLA-PADOVA, strada nazionale Claretta, PETACCI COELI, Mario COGNAC Colli BERICI COMACCHIO, Giovanni Battista CORTE D'ASSISE COSACCHI
16, 45, 46 80 78, 89, 99, 100 70, 71, 72 vedi S 42 33, 97 56 56 56, 102 109 vedi D 47 37 18, 25, 26, 31, 94 16, 46, 61, 73, 75, 101 73 vedi P 57 97 31 86 98 73, 74
D da BATTISTA -
10ma MAS da BENETTO, Trattoria da LUISON, Bar-Trattoria DAL MONTE, Toti DAL TOSO, Romolo DALLA VIA, Enzo
-
Davide, Pan DAMIANO CHIESA, Brigata
-
Divisione VICENZA DOLFIN, Villa DONGO
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DE HAVILLAND DH98 Mosquito DE NOTTI, Antonietta DE NOTTI, Chetta DE NOTTI, Raffaele - Generale Decima DIODÀ, Rinaldo
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DOUGLAS A-20 Havoc / Boston DOUGLAS A-26 Invader DUCE DUE MORI, Albergo DUEVILLE DUNCAN MUSTANG
114
46 31 20 38, 49 16 32 5, 6, 15, 17, 19, 20, 80, 93, 99, 108, 109 vedi P vedi B 103 58 58 101 86 5, 6, 10, 17, 18, 19, 20, 21, 22, 23, 32, 33, 39, 40, 53, 54, 77, 78, 79, 80, 81, 90, 93, 94, 96, 97, 105, 106, 108, 109 48 46 83, 104 103 103 20, 26, 37, 83 93 30 71
n
n
n
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Quando eravamo... i ragazzi del triangolo verde
E -
F -
Edda, MUSSOLINI Eligio, AGUGGIARO ELSI, Flautista EMILIA Enea, MARGOTTI Enzo, DALLA VIA Erasmo, CAFFAGNI Étienne, PAN Ezio, ZANINI
foto
Fabbrica FABRIS, Bruno FALCONARA FARINA, Ermes comandante FELDGENDARMERIE, Polizia mil tedesca Feldmaresciallo, Erwin ROMMEL FIAT 1100 FIAT 2800 Berlina-Turismo FIAT 626 FIRENZE Flautista, ESLI FLIT FONTANIVA FONTI STARO, Valli del Pasubio Forno Del Pane Fortezze Volanti FRACCON, Franco FRACCON, Torquato Francesco, PAN cugino FRANCIA FRASSINO, Gerasimo - Giudice FRIOLA, Frazione Fulvio, amico FUSINIERI, Istituto di Ragioneria
G Gaetano, Nino BRESSAN -
MARIO PAN
foto
vedi M vedi A 16, 32 29, 92, 94 vedi M vedi D 95 vedi P vedi Z 9, 18, 21, 28, 29, 31, 32, 39, 47, 55, 77, 78, 96, 109 18 29, 94, 96 93 35 vedi R 37 82, 104, 106 45, 104 78, 100 vedi E 49, 51 56, 58 9, 109 54, 74 36 81, 82 81, 82 vedi P 35 29, 31 49 56 99
n
n
n
vedi B 20 41, 43, 44 31 vedi S 15 100 vedi F 31, 33, 36, 61, 79, 86, 91, 94, 101, 106 n 46 17 83 n vedi C vedi P
GALLIENO, Legione GALLIO GARGNANO, sul Lago di Garda. Gavino, SABADIN GEMMO, Maestro GENIO Gerasimo, FRASSINO GERMANIA GESTAPO, polizia segreta tedesca G.I.L. - Gioventù Italiana del Littorio GINEVRA Gino, amico Giocondo, PAN - mio padre
115
INDICE ANALITICO
-
I
-
J -
Giovan Battista, POLGA Giovanni Battista, COMACCHIO Giulio, PICCOLI GOBBO MALEDETTO G.N.R. GRAN CONSIGLIO del FASCISMO GRANTORTO GRISIGNANO DI ZOCCO Guardia di Frontiera Guardia Repubblicana GUIDORZI, Simone GUSEN GUZZI 500, motocarro
Ida, ROSSATO in PAN - mamma Ida Maria, PAN IDEALE concepts &@ ITALIA
L -
foto
JAPELLI, Giuseppe
76 103
KOSTNER, Germano
foto
LADNER, British Columbia - Canada LAGHI di Cittadella Lago di GARDA LAMBRUSCO LANCIA ARDEA LANCIA AUGUSTA LANZÉ Legione GALLIENO LIBERAZIONE
24, 33 6
11 17, 41, 88 31, 33 95 94, 104 87, 104 68, 85, 89 vedi G 6, 34, 35, 47, 52, 62, 80, 89, 90, 91, 93, 95, 98, 99, 102, 106, 107 53, 69, 81, 86 56 89 86 94 67 38, 49 50 103 33
LIEGI, bicicletta LIGHTNING, Aerei Linea GOTICA LISIERA LOLAR, Maggiore V Armata LOVOLO LUISON, Bar LUISON, Marcello LUFTWAFFE LUXARDO, maraschino
75 54
MALFATTI, magazzino mobili
116
n
vedi MAMMA vedi P 7, 8, copertina 11, 17, 26, 27, 31, 57, 78, 94, 101, 102 n
Junkers JU88
M MALBEC, vino -
foto
foto
K KEMPTEN, Germania -
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vedi P vedi C vedi P 58, 60, 82, 106 98 37 53, 58, 60, 73, 82 68 102 31, 32, 46, 55, 78, 80, 98 103 100, 101 32, 61, 104
n n n
n
n
Quando eravamo... i ragazzi del triangolo verde -
MALFATTI, maggiore MAMMA, Ida (Candida) ROSSATO in PAN
-
MANTEGAZZI, Antonio Marcello, CISCATO Marcello, LUISON MARCHE MARCHI, Ragionier Marco MARCOLONGO, Adele MARGOTTI, Enea Maria, PAN - cugina di Bolzano Maria, PAN - Giuseppina / sorella Maria, PAN - zia / maestra Mario, amico Mario, COELI Mario, PAN Mario, ROSSATO zio MAROSTICANA Marta, PAN Martin A-30 Baltimore MARTINA FRANCA MARZOTTO, pasticceria MAS MAUSER, fucile MAUTHAUSEN MELONI, Commissario Prefettizio MENEGHETTI MILANO MILIZIA FASCISTA MIOTTI, Maggiore Mirko, amico MONACO DI BAVIERA MONTECCHIO MONTEGALDELLA MONTE GRAPPA MONTICELLO CONTE OTTO Moto GUZZI MUSSOLINI MUSSOLINI, Edda - figlia del Duce
foto
foto foto foto
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foto
N Nani, BERTO -
MARIO PAN
53 13, 18, 29, 33, 34, 41, 42, 45, 47, 50, 53, 56, 57, 59, 61, 68, 73, 76, 86, 90, 96, 97 22, 32, 55, 77, 98 vedi C vedi L 29, 94, 95 32, 34, 36 54, 55 93 16, 49, 50, 52 vedi P vedi P vedi P 56 57 vedi P vedi R 87 vedi P 103 29 99 86 74, 75 82, 94, 101 49, 50 56 18, 57, 82, 101 18, 20, 25, 32, 33, 98 36 56 87 53 68 101 84 vedi G 26, 31, 37, 83, 98 37
vedi B vedi B vedi P 99 38, 87 vedi B 30 103
Nei, BORDIGNON Neri, POZZA NICOLETTI, professor NILL, maggiore Nino, BRESSAN NOALE, Antonio NORTHROP P-61 Black Widow
117
n
n
n
n
n n n
INDICE ANALITICO
O Onorato, ANSELMI -
P -
vedi A 81 85 96 vedi V
OPEL OSPEDALETTO ORTOFRUTTICOLA Marchigiana Osvaldo, VALENTI
PADOVA PAN, Adele zia PAN, Davide PAN, Étienne PAN, Francesco PAN, Giocondo - Papà
foto
foto
-
PAN, Ida PAN, Ida Maria PAN, Joseph PAN, Luca PAN, Maria cugina di Bolzano
-
PAN, Maria Giuseppina (Mariolina)
-
PAN, Maria zia - maestra
-
PAN, Mario
-
PAN, Marta PAN, Rita zia Paolo, SILVERA PARTIGIANI
-
PARTITO D'AZIONE PAVIOLA PESAVENTO PESCARA PETACCI, Claretta PIANEZZE DEL LAGO PIARDA FANTON PIAZZA DEI SIGNORI PICCOLI, Giulio PICCOLO Piero, BERTOLDO PIPPO PISTOL-MACHINE PO, fiume POLGA, Giovan Battista - Capitano fascista POLIZIA AUSILIARIA PONTE DEGLI ANGELI PONTELAGOSCURO PORTA PADOVA PORTO SAN GIORGIO
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n
15, 44, 46, 64, 68, 73, 78, 100, 101 46, 109 5, copertina 4, 5, 11, 37, 109 41, 44, 105, 109 13, 14, 16, 24, 25, 28, 29, 30, 31, 32, 33, 35, 36, 37, 38, 46, 47, 48, 49, 50, 51, 52, 55, 76, 88, 90, 93, 94, 95, 96, 97, 104, 105, 109 vedi Mamma (o) ROSSATO Ida 5, 10, 109, copertina 24 4, 5 35 13, 14, 25, 31, 38, 39, 51, 55, 58, 59, 61, 73, 74, 76, 77, 78, 84, 86, 89, 99, 46, 109 4, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 13, 14, 15, 16, 18, 46, 47, 48, 56, 57, 61, 62, 76, 86, 97, 99, 105, 106, 108, 109, copertina 5, copertina 46, 109
foto
118
foto foto foto
31, 40, 41, 44, 45, 53, 54, 55, 62, 77, 78, 80, 91, 92, 93, 94, 95, 97, 98, 100, 102, 105, 107 18 73, 74, 76, 106 56, 87 27 83 53 17, 30 39 5, 6, 18, 108, 109 5 61, 93 88, 89, 102 19, 76 95 28, 32, 34, 62, 80, 98, 106 28, 32, 33, 53, 62, 77, 98, 99 95 15, 17, 20, 29, 54, 77, 78, 99 95
n n n
n
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Quando eravamo... i ragazzi del triangolo verde
MARIO PAN
-
POZZA, Neri POZZOLEONE PRANDINA, Antonio
-
PRANDINA, Giacomo - comandante
-
PRIABONA PUGLIA
79 53 30, 57, 86 44, 47, 52, 56, 57, 77, 80, 81, 90, 100, 101, 102, 106 98 29
Q QUINTA ARMATA
92
foto
R RADIO LONDRA -
S -
RAF Royal Air Forces Ragionier MARCHI di Verona RAZZA DEL SOLDO REBECCHI, maestro RECOARO REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA - RSI RETRONE, fiume RETTORGOLE RIALE, Via RIGON, Giovanni RIMINI Rinaldo, DIODÁ ROMA ROMA, Albergo ROMMEL, Erwin - Gen. Feldmaresciallo Romolo, DAL TOSO RONARE, Località ROSSATO, Ada (zia) ROSSATO-PAN, Ida (Candida) ROSSATO, Lina (zia) ROSSATO, Mario (zio) ROSSATO, Vittorio (zio) RSS - Rep. Servizi Spec. 92ª Legione Camicie Nere RUBBIO
SABADIN, Gavino Avvocato SAAF - South African Air Forces SAN BENEDETTO DEL TRONTO SAN BIAGIO, carcere SAN DOMENICO, ricreatorio SAN GIORGIO IN BOSCO SAN LORENZO SAN MARTINO IN RIO SAN MICHELE SAN PIETRO IN GÙ SAN PIETRO, Parrocchia SAN SEVERO SANDRIGO SANTA CATERINA, Convento
119
foto foto
foto
foto
88 103 vedi M 57 15, 98, 99 25 31, 33, 100 40 40 34 24, 31, 38, 49, 56, 60, 82, 88, 90 95 vedi D 15 32, 54 24, 33, 35, 105 vedi D 98 61, 73, 74 76 vedi anche Mamma 73 61, 62, 73, 75 73 100 42, 43
44, 101 103 29, 94, 96 28, 32, 34, 81, 89, 98 17 76 93 29, 94, 95 78, 81 36, 38, 67, 72, 80, 88 17 29 53, 81, 82 37, 78
n
INDICE ANALITICO
-
SANTA MADDALENA, Cantina Sociale SANTOLO SARTEA. Bar-Birreria SARTI 3 VALLETTI, Cognac SATSU, camion SEGATO, Carlo SEPRAL, ente di controllo alimentazione SESSO SICILIA SILVERA, Paolo SILVERA, Samuele SIPE - bombe a mano SLOVENIA SOAVE SORBARA STAFFETTA STARO, Fonti STEN, mitragliatore STEVENS, Colonnello STRADELLA DEI MUGNAI STRADELLA DEL MEGGIARO
foto foto
T TAVERNELLE -
TEDESCHI
-
Tenente, Carlo Tenente, USAI THIENE THOMPSON, calibro 12 THUNDERBOLT, Caccia TIGRE, Carri armati TIROLO TISO TITO TODT TONELLO, orti TONIOLO, fretelli Toti, DAL MONTE TRIANGOLO VERDE, banda TRIBUNALE MILITARE TRIBUNALE, di VERONA TRIBUNALE, di VICENZA TRIESTE
foto
U UMBERTO, figlio del re d'Italia -
UNIVERSITÀ di Padova USAI, Umberto - Tenente USAAF - United States Army Air Force
120
47 16, 45, 46 14, 18, 22, 25, 29, 32, 77, 93, 94 33 41 54, 55 36, 29, 94, 95 29, 35, 88 4, 5 4, 5 21 80 17 95 10, 48, 52, 105 9, 109 61 88 30, 34 84
53, 54 17, 20, 21, 26, 27, 31, 32, 33, 37, 38, 47, 49, 51, 52, 54, 63, 56, 59, 60, 61, 72, 73, 75, 77, 84, 85, 86, 88, 89, 91, 92, 93, 101, 103, 106 87, 88 vedi U 89 94 59, 89 38, 90 35 21 80 64, 69, 80 21 18, 21 vedi D 0, 7, 17, 18, 23, 31, 94, 105, 108, 109 63 98 98 80, 90, 93
27 100 78, 81, 99 103
Quando eravamo... i ragazzi del triangolo verde
MARIO PAN
V V ARMATA -
VIII ARMATA VAL FRENZENA VAL DASTICO VALENTI, Osvaldo VALLI DEL PASUBIO VALPOLICELLA VALSTAGNA VALSUGANA VANCOUVER VEDETTA FASCISTA, quotidiano vicentino VENETO VENEZIA VENTRA, camerata VERONA via FUSINIERI via IV NOVEMBRE via RIALE VICENTINO VICENZA
-
VIGOLO VATTARO Villa DOLFIN Villa GIUSTI Villa RIGON Villa ROSSATO VILLALTA Vittorio, ROSSATO (zio) VOCE DEI BERICI VOLKSWAGEN
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W Walter 7,65 - pistola X Z -
92, 94 95 45 80 87, 104 109 29 45 45, 76, 7, 8, 12, 109, back cover 25, 28, 98 29, 47, 83, 101 13, 16, 47, 73, 17 16, 33, 35, 37, 61, 79, 82, 98, 25 53, 54 34 25, 62, 100, 101 7, 12, 15, 25, 26, 28, 29, 31, 32, 35, 36, 37, 38, 41, 53, 61, 68, 77, 78, 80, 81, 82, 84, 86, 93, 94, 95, 98, 101, 102, 105, 106 80 46 100 38, 82 73, 76 68 vedi R 90 89
51
X MAS
87
ZAMPIERI PAN, Anna Maria ZAMPIERI, Giuseppe Maria Sen. ZANINI, Ezio professor ZARDO, Eugenio Zia, Lina ROSSATO Zia, Maria PAN Zia, Rita PAN Zie ZILIO Zio, Aldo BOSCHETTI Zio, Mario ROSSATO Zio, Vittorio ROSSATO
foto foto
foto foto foto
121
9, 10, 105, 109 109 59, 80 32, 36, 37, 89, 99 vedi R vedi P vedi P 42, 46, 52, 88, 109 83 vedi B vedi R vedi R
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Quando eravamo
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RAGAZZI del
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I V E R B
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2003
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1 edition March 2012... Available on ebay, Amazon, Ibs, Unilibro, in some bookstores and by requesting it to Editrice Veneta Sas. English edition will follow. 122
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ALE CO IDE NC
G
1ma edizione Marzo 2012... Disponibile tramite ebay, Amazon, Ibs, Unilibro, Pagine, in alcune librerie vicentine e, naturalmente, richiedendolo ad Editrice Veneta Sas. Seguirà edizione in lingua inglese.
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t r angolo verde I T A
B R E V I S º
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INDICE ANALITICO
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2003
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1st edition March 2012... Available on ebay, Amazon, Ibs, Unilibro, in some bookstores and by requesting it to Editrice Veneta Sas. English edition will follow. 125
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1ma edizione Marzo 2012... Disponibile tramite ebay, Amazon, Ibs, Unilibro, Pagine, in alcune librerie vicentine e, naturalmente, richiedendolo ad Editrice Veneta Sas. Seguirà edizione in lingua inglese.
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