Personaggi & Persone

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Ida Maria, Davide, Marta & alle persone ritratte in queste pagine

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Anna M. Zampieri Pan

Personaggi & Persone

Ital Press Publishers - Vancouver 2008

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ISBN 0-9809040

1a e d i z i o n e - G e n n a i o 2 0 0 8 Tutti i diritti riservati all'autrice e-mail: amzpan@dccnet.com Edito da Ital Press Publishers Ltd. 3853 Hastings St. Burnaby BC V5C 2H7 CANADA tel. +1 604 294 6621 www.italiandirectory.com

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PRESENTAZIONE a cura di Ray Culos

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nna Maria, razza rara di giornalista, ha creato una nicchia attraverso cui esprimere un singolare stile di scrittura investigativa. La sua passione è di catturare con sensibilità la storia culturale dell'italiano medio emigrato dall’Italia nelle Americhe in cerca di migliori opportunità di vita. Motivata soprattutto dal desiderio di informare i lettori, in Italia e nel mondo, sull'odissea sperimentata dai compatrioti, l’avvincente prosa di Anna scintilla di illuminante realismo.

L'ambito di questi informativi ritratti è esteso ad includere realtà professionali di discendenti da pionieri italiani di seconda e terza generazione. Immigrante ella stessa con origini in Vicenza, Anna gode di una naturale affinità con la gente che descrive. Grazie alla sua passione, tesa a documentare l'esperienza migratoria, siamo venuti a conoscenza di molte, speciali e talora private, memorie di espatriati che vivono all'estero: la vita fuori d'Italia.

Da prolifica e straordinaria cronista di gente dal carattere esemplare, Anna realizza brillantemente la sua missione adottando un professionale metodo di lavoro. A tale scopo completa estese ricerche prima di condurre un'intervista raccogliendone anche documentazione fotografica. Spesso, accompagnata dal marito Mario, viaggia coprendo grandi distanze dalla sua abitazione di Ladner in British Columbia per trovare la sorgente di un argomento o la trama di una storia. Individuatole, le interviste sono condotte per lo più in italiano, ma quando necessario an7


che in inglese. I saggi sono tuttavia pubblicati esclusivamente in italiano.

Personaggi & Persone costituisce unĚ“incredibile raccolta di articoli scritti nell'ultimo decennio, tra la splendida Vancouver e varie localitĂ di California, Messico, Brasile. Ăˆ una testimonianza dello stile di vita di tanta gente che ha contribuito in passato e opera costruttivamente e pacificamente oggi per la crescita del mondo.

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Raymond Culos, storico comunitario, pgg. 71-76

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PREMESSA a cura dell’autrice

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ersonaggi & Persone: che cosa hanno in comune i protagonisti di queste storie? Il riferimento costante è all’identità di origine innestata sulle dinamiche delle successive realtà di vita. Personaggi storici, come i navigatori Giovanni Caboto e Alessandro Malaspina che, sia pure al servizio di potenze europee, hanno toccato per primi il suolo canadese e quello britishcolumbiano; o pionieri della prima emigrazione e loro discendenti, che hanno dato e stanno dando contributi vitali alle società di insediamento, per tutti il denominatore comune è l’italianità. Ma ancor più e ancor meglio sono oggi le caratteristiche di umanità - cioè di sensibilità, di apertura agli altri, di servizio alle comunità, di condivisione di doni e talenti - a farli essere persone più che personaggi. Non campioni di demagogia, egocentrismo, profitto e potere, ma eroi del quotidiano. È il loro muoversi nella normalità, inseguendo con intelligenza sogni possibili, realizzando con misura progetti concreti, che li rende accessibili e insieme esemplari.

Un giorno, più o meno lontano, tutti o quasi si sono staccati dalla terra natale per affrontare le vie del mondo. Là dove le etnie si incontrano e si incrociano, dando vita a nuovi affascinanti modelli di famiglie e di comunità. Uno sguardo al passato e un’indagine sul presente non escludono attese per il futuro: che in ogni caso sarà il loro, quello dei nostri figli e nipoti ai quali affidare messaggi di speranza. Certi che da ognuno di questi Personaggi-Persone c’è qualcosa da imparare. 9


Qualche mese fa, marzo 2007, di passaggio a El Rosario in Baja California, ero a colloquio con una donna leggendaria, Anita Grosso de Espinosa. Figlia di un ingegnere genovese e di un’indiana dei Pima messicani, una vita tribolata ma ricca di esperienze umane, la quasi centenaria mi benedì e mi fece un triplice augurio chiedendomi di trasmetterlo a quanti lo vogliano accettare: “Salute fisica e spirituale, denaro onesto quanto basta per condurre una vita dignitosa, famiglia unita”. Un filo invisibile lega tutto ciò agli essenziali messaggi, per esempio, di Sandy Santori, oriundo lucchese nato a Trail, quando dice: “Aiutati che il ciel t’aiuta” e “sii grato ai tuoi genitori”. Ma anche all’inno alla vita di Mena Martini quando si augura: “Se è vero che il futuro del mondo dipende da quello che i bambini diventeranno, la società dovrebbe investire tutte le sue forze nella famiglia”. E di Joseph Ranallo, che afferma: "L'universo sarà in equilibrio solo quando uomini e donne assumeranno i propri ruoli da partner uguali in ogni aspetto della vita". Per saldarsi infine nel più ardente desiderio di Michaelle Jean, l’esule haitiana diventata governatrice generale del Canada: “Che si stabilisca tra le culture del mondo un patto di solidarietà e un sentimento di appartenenza comune a tutta l’umanità”. Come Missioni di ieri, Frontiere di oggi anche Personaggi & Persone consiste in una raccolta di articoli selezionati tra quelli pubblicati nell’ultimo decennio dal diffusissimo mensile il Messaggero di sant’Antonio, nella edizione italiana per l’estero diretta da padre Luciano Segafreddo al quale va la mia gratitudine perché - promuovendone le storie in giro per il mondo - ha reso possibile la conoscenza di donne e uomini spesso trascurati quando non del tutto sconosciuti nella patria di origine. (amzpan)

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GIOVANNI CABOTO astronauta del nuovo mondo

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uropa e America, due continenti legati da cinque secoli di storia. La rivoluzionaria scoperta, realizzata da grandi navigatori: il genovese Cristoforo Colombo, primo europeo in Centroamerica nel 1492, il veneziano Giovanni Caboto, primo europeo in Nordamerica nel 1497, il fiorentino Amerigo Vespucci primo europeo in Sudamerica nel 1499. La controversa conquista, con pagine amare per i popoli nativi e lotte di predominio fra potenze europee. La civilizzazione, con splendidi episodi di dedizione soprattutto da parte dei missionari. L’affascinante esplorazione di Paesi abitati da civiltà ancora per molti aspetti sconosciute, come quelle dei Maya, degli Aztechi e degli Incas, e la recente attenzione alle società tradizionali dei nativi, come nella costa nordoccidentale del Pacifico (dove nel 1791 sbarcò il parmense Alessandro Malaspina, primo italiano nel Canada occidentale). Il tutto come premessa all’interscambio delle merci, ma anche dei valori umani, per merito delle grandi migrazioni avvenute negli ultimi due secoli che hanno cambiato il volto sia dell’America che dell’Europa. Per celebrare questo legame storico e culturale, il Canada si è mobilitato per ricordare lo sbarco di Giovanni Caboto a Terranova, sulla costa nord orientale, avvenuto il 24 giugno 1497. Caboto aveva immaginato di poter raggiungere l’Asia, luogo d’origine delle spezie, navigando verso occidente. Realizzò l’intuizione solo dopo il ritorno di Colombo, ‘meravigliando i contemporanei con la più bella storia di pesca dell’Europa occidentale’, come ha scritto Donald Creighton nella sua storia del Canada. ‘He had – in fact – discovered one of the greatest fisheries in the world’ (egli scoprì uno dei luoghi più pescosi del mondo), e in particolare il prolifico cod (l’italiano mer13


luzzo, cioè il baccalà) considerato ‘the beef of the ocean’ (il ‘manzo’ dell’Oceano). Non si consideri dissacrante e prosaica la scoperta di Caboto: per i canadesi la pesca è una delle principali risorse. Nell’attuale Newfoundland, la ‘nuova-terratrovata’ di cinque secoli fa, si combattono tuttora battaglie sociali e politiche per la difesa e la valorizzazione dell’immenso patrimonio ittico. La pesca era ed è tuttora importante anche per i Paesi europei: i pescatori inglesi, portoghesi e baschi si inoltravano nei mari del nord, fino alle coste della Groenlandia e al di là, nel mare del Labrador. Caboto, dunque, oltre alle capacità del navigatore e alla curiosità dell’esploratore, doveva possedere il fiuto commerciale del mercante. Poco si conosce della vita del navigatore. Perfino luogo e data di nascita sono incerti, anche se Genova, Venezia e ultimamente Gaeta se ne attribuiscono la primogenitura. Più celebre fu il figlio Sebastiano, esploratore e cartografo, nato a Venezia da madre veneziana: Mattea, da cui prese nome il veliero Matthew su cui fu effettuata la traversata da Bristol a Terranova nel 1497. Dalle notizie su Sebastiano, imbarcatosi ventenne con i 18 componenti dell’equipaggio della nave paterna, si deducono gli elementi essenziali dell’impresa di Giovanni Caboto. Nato forse a Genova intorno al 1450 (coetaneo, quindi, di Colombo), emigrato a Venezia ancora giovinetto e naturalizzato veneziano nel 1476, dopo quindici anni di lavoro per la Serenissima, Giovanni aveva visitato i Paesi d’oriente e la Mecca, prima di trasferirsi trentacinquenne in Inghilterra, cercando appoggio per il suo progetto transoceanico. ‘Genoves como Colon’ lo definisce un dispaccio spagnolo a Londra nel 1498, ‘citezen of Venes’ si dichiara egli stesso con i figli Luigi, Sebastiano e Sante nella petizione del 1496 a Enrico VII d’Inghilterra, che lo autorizzò ‘a viaggiare via mare per scoprire isole, paesi e popoli... ancora sconosciuti ai cristiani’. Partito dal porto di Bristol il 2 maggio 1497, toccò terra il 24 giugno successivo, nel giorno di san Giovanni Battista, da cui prese 14


nome la capitale del Newfoundland. Tra gli avvenimenti cinquecentenari, il 24 giugno una replica della nave Matthew arriverà a Capo Bonavista per sbarcare poi a St. John in occasione del Canada Day, il primo luglio. Caboto tornò a Bristol tre mesi dopo la sua impresa: ‘Accolta in Inghilterra con grande giubilo, mentre destava qualche preoccupazione in Spagna’ dicono i documenti del tempo. Fu ricompensato dal re con la somma di 10 sterline e più tardi con una pensione annua di 20 sterline. Nel 1498 Enrico VII autorizzò una nuova spedizione: sei navi, al comando di Giovanni Caboto, salparono nell’estate di quell’anno dirette a nord e a nordovest; ma i ghiacci galleggianti del Labrador le costrinsero a ripiegare a sud per far ritorno in Inghilterra in autunno. Di Giovanni non si seppe più nulla: era morto in viaggio? Morì poco dopo il ritorno? Da quel momento la sua figura venne offuscata da quella di Sebastiano, ‘uno dei primi e più audaci continuatori di Colombo’, avendo per primo progettato i grandi viaggi di scoperta verso nordovest che favorirono il predominio inglese in Nordamerica. ‘Navigatore ed esploratore italiano’ viene definito Giovanni Caboto dall’Enciclopedia britannica. ‘Esploratore italiano in servizio all’Inghilterra’ da quella americana. ‘Navigatore ed esploratore anglo-italiano’ da quella canadese, mentre le Treccani ne parla come di uno ‘fra i grandi navigatori del tempo delle prime scoperte americane... lontano da una sistemazione storica che ce ne offra la figura sotto una luce ben definita’. Il cinquecentenario, insieme con le grandi celebrazioni, richiamerà un maggior impegno degli studiosi sul personaggio conosciuto finora come John Cabot, da cui il Cabot Strait, canale di 97 chilometri tra Newfoundland e Cape Breton in Nova Scotia con il suo Cabot Trail, nell’omonimo parco nazionale, percorso di collegamento delle locali comunità di contadini e pescatori. Nella sua storia di Venezia La Repubblica del Leone, Alvise Zorzi parla del Quattrocento, secolo di viaggiatori e navigatori 15


famosi, fra cui Alvise da Mosto (il Cadamosto) che per conto di Enrico il Navigatore, infante di Spagna, scopre Senegal e Isole del Capo Verde; secolo ‘di Giovanni Caboto che scopre per conto del re d’Inghilterra, l’isola di Terranova e vi pianta, accanto alla bandiera inglese, la bandiera col Leone di San Marco perché – dice il cronista Sanudo – era veneziano...’. Da parte sua, lo storico americano Samuel Eliot Morison, in ‘The european discovery of America’ scrive: ‘John Cabot landed, formed a procession behind a ship’s boy carrying a crozier, took formal possession for King Henry VII, and planted the banners of St. George for his sovereign, and of St. Mark as a reminiscence of Venice’ (Giovanni Caboto approdò, organizzò una processione dietro un mozzo che portava un bastone pastorale, prese possesso formale delle nuove terre per conto di Enrico VII, e piantò le insegne di San Giorgio per il suo sovrano, e di San Marco per ricordare Venezia). Figlio del Rinascimento, pieno di coraggio e di curiosità come i grandi navigatori italiani del tempo, possiamo immaginarlo come un moderno ‘astronauta’ in viaggio verso nuovi mondi, rimanendo stupiti per le sue doti di coerenza e magnanimità. Vancouver, maggio 1997

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ALESSANDRO MALASPINA esploratore del West

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hissà se Michelle, la guida indiana che mi accompagna in visita a Friendly Cove - nome inglese del villaggio nativo Yuquot - si sente ancora “padrona di casa” in questi luoghi. Fino a duecentovent’anni fa un suo antenato, il famoso Maquinna, era il capo incontrastato delle popolazioni del vasto territorio costiero ad occidente dell’Isola di Vancouver, lo storico Nootka Sound. Rilevazioni archeologiche fanno risalire gli insediamenti umani a 4300 anni fa, mentre le cronache indicano nella primavera del 1778 il primo incontro tra i nativi e gli esploratori inglesi guidati dal capitano James Cook, sbarcato qui in cerca di acqua fresca per gli equipaggi delle navi Resolution e Discovery. Come altri navigatori del tempo, anche Cook era alla ricerca del leggendario passaggio a nord-ovest, e intanto allargava i possedimenti di re Giorgio III. Gli spagnoli erano arrivati qualche anno prima, senza però sbarcare. Avevano “battezzato” dal mare, con nomi tuttora in uso, canali, coste, isole e baie (Juan de Fuca, San Josef, Esperanza, Hernando....). Più tardi nasceranno aspri contrasti per il dominio di queste terre. Prevarranno gli inglesi, con la firma della Nootka Convention nel 1794. Nootka non è il nome originale dei nativi, ma quello con cui capitan Cook chiamò il luogo ed i suoi abitanti. Aveva male interpretato le indicazioni degli uomini in canoa che, guidandolo all’ancoraggio, gli gridavano “gira intorno alla baia”, un suono inteso come “Noo-t-ka” appunto. In questa baia intatta e solitaria è nata la British Columbia, la provincia dell’ovest canadese estesa tre volte l’Italia e diventata il cuore pulsante del Pacific Rim. Se non fosse per quella minuscola costruzione bianca di stile europeo sul cocuz17


zolo della collina, si direbbe che qui il tempo si è fermato. La natura appare incontaminata: prati coperti di fiori multicolori e cespugli ridondanti di bacche profumate, ciuffi di ginestre a perdita d’occhio, abeti e betulle fino a lambire i sassi e la sabbia dell’oceano, alberi di acero e di cedro dove le aquile hanno i loro nidi dai quali si tuffano fulminee a catturare i salmoni di passaggio. Gli unici percorsi tra le pochissime abitazioni rimaste sono costituiti da stretti sentieri in terra battuta: collegano al pontile di attracco, alla chiesetta-museo, al cimitero, ai ruderi del forte. Michelle risponde con precisione alle mie domande e si lascia anche fotografare. Nella chiesa, chiusa al culto, vi sono parecchie repliche di antichi totem riproducenti figurazioni della tradizione Mowachaht. Interessanti, ai lati dell’entrata, le due finestre in vetro colorato donate a Yuquot dal governo spagnolo nel 1957, in riconoscimento dell’antico legame con il popolo nativo. In una è raffigurato padre Magin Catala in atto di predicare agli indigeni: il francescano era il cappellano della guarnigione spagnola insediata per un certo periodo nell’attuale Friendly Cove. Questa “baia amichevole”, raggiungibile via mare o con idrovolanti (dall’interno vi si arriva unicamente navigando attraverso fiordi e canali) accolse nel 1791 il primo italiano sbarcato nel Canada occidentale: l’ammiraglio Alessandro Malaspina, nato nel 1754 a Mulazzo, nel granducato di Parma. Cittadino della Spagna dunque. Uomo colto e lungimirante, figlio dell’Illuminismo, nel 1782 aveva proposto al governo un piano di esplorazioni scientifiche nei possedimenti dell’alto Pacifico: desiderava documentare vita e costumi delle popolazioni native, natura dei terreni, specie animali e vegetali. A bordo delle corvette gemelle Descubierta e Atrevida, appositamente costruite e attrezzate, aveva imbarcato con gli equipaggi di bordo anche artisti e botanici, astronomi e cartografi, naturalisti e scrittori. Lasciata Cadice il 30 luglio 1789, doppiato Capo Horn, 18


dopo una prolungata sosta ad Acapulco, aveva veleggiato anch’egli segretamente in cerca del favoloso Stretto di Anian - fino al 59mo parallelo di latitudine nord, raggiungendo Mulgrave Sound (Yaculat Bay) in Alaska nel giugno del 1791: qui aveva raccolto campioni e documentato la cultura dei nativi Tlingit. Una volta ripreso il mare navigando a sud lungo le coste dell’Alaska, Malaspina arrivò a Yuquot, Nootka Sound - sulla costa esterna della grande isola dove ha sede Victoria, la capitale britishcolumbiana - il 12 agosto dello stesso 1791, accolto con simpatia dal capo Maquinna e dal suo popolo, che con gli europei aveva avviato un ricco interscambio di merci, facendo del luogo il punto strategico del mercato delle pelli. Tra fine Settecento e inizio dell’Ottocento gettarono qui l’ancora, scendendo a mercanteggiare, inglesi e francesi, americani e portoghesi. Maquinna invitava tutti alla sua tavola: è stato descritto come intelligente, generoso, nobile di portamento ma anche mutevole di umore, con scatti di ira improvvisa. Il suo famoso prigioniero inglese John R. Jewitt, diventatone amico e confidente, ha lasciato un dettagliato diario, scritto tra il 1803 e il 1805 (The adventures and suffering of John R. Jewitt, captive of Maquinna) che rimane ancora oggi il testo fondamentale per la conoscenza di usi e costumi delle popolazioni Nootka. Anche Malaspina documentò ampiamente la vita dei nativi; ed è tra l’altro opera dell’artista spagnolo Suria, imbarcato con la prima spedizione scientifica, un famoso ritratto a carboncino del capo Maquinna. Dopo aver visitato Nootka, l’ammiraglio Malaspina si recò in Messico da dove organizzò le spedizioni che permisero i viaggi di Sutil e Mexicana nel 1792, in coincidenza con l’arrivo nel territorio britishcolumbiano del capitano inglese George Vancouver. Proseguì quindi il suo viaggio visitando le Marianas, le Filippine, la Nuova Zelanda e l’Australia prima di tornare in Spagna nel 1794, via Sud America. Nonostante il grande successo delle spedizioni, un intrigo di corte distrusse la 19


sua carriera e impedì la pubblicazione dei dettagliati resoconti (diario di bordo e altro) fino al 1885, quando solo in parte furono diffusi: Malaspina era morto a Pontremoli nel 1810, settantacinque anni prima. A lui sono dedicati, in British Columbia, un ghiacciaio, uno stretto e un collegio. Portano inoltre il suo nome strade, piazze e un’antica tipografia. Oggi i discendenti di Maquinna sono poche centinaia e non sono più i padroni assoluti di queste terre, anche se vi gestiscono attività varie. Il processo di integrazione ha avuto costi altissimi, e le pagine più oscure sono state scritte, come altrove, dagli europei dominatori. Non c’è però traccia di rancore in questa gente, solo tanta malinconica rassegnazione. Hanno dovuto rinunciare perfino ai loro nomi, anglicizzati dalla legge. Il cognome della giovane Michelle, la mia guida indiana, è da almeno quattro generazioni James. Michelle James è una studentessa che durante il tempo libero lavora per pagarsi gli studi: come quasi tutti gli studenti canadesi, tutti come lei con un’origine etnica, anche se solo suo è il diritto di primogenitura. La pesca è la principale risorsa di questa gente, come lo sta diventando il turismo da quando è progressivamente aumentato il numero degli appassionati esploratori di una natura intatta, da visitare in silenzio e contemplazione. Yuquot (Vancouver Island), giugno 1997

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IDA TOIGO emigrata per amore

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finita o no l’emigrazione italiana? Si può definire emigrazione quella attuale, fenomeno numericamente ridotto rispetto ai periodi dei grandi esodi? Ed è da considerare tra le migrazioni anche la cosiddetta “fuga di cervelli”, cioè l’espatrio di studiosi, scienziati e tecnici, tra cui molti giovani specializzati, che cercano - e spesso trovano - migliori opportunità fuori dell’Italia? Sono forse domande inutili, perché, comunque sia definito il fenomeno, resta il fatto che persone e popoli in migrazione sono sempre esistiti e continueranno ad esistere. Da un punto di vista sociologico, storico, politico, economico o religioso, il fenomeno continuerà ad essere oggetto di analisi e studi più o meno approfonditi. Compito del giornalista è di raccogliere le cronache, raccontare i fatti, fornire alla storia le sue pezze d’appoggio. I mille episodi della vita quotidiana, le difficoltà e le conquiste, i dolori e le gioie. Parlare di emigrazione significa anche raccontare tante piccole storie, personali e di gruppo. Messe insieme, esse possono descrivere e documentare esaurientemente il fenomeno, far meglio capire l’importanza, anzi il dovere, di non dimenticare. Quella che segue è una storia di oltre settant’anni fa. Racconta di una giovane partita da un paese del nord Italia ed emigrata in Canada per amore. Mi piace collegarla alle vicende delle ragazze di oggi, così dinamiche, e pensare che ci sia un denominatore comune che unisce le storie di tutte quelle donne che, in ogni epoca, hanno voluto essere sé stesse. Powell River è un piccolo centro industriale nato agli inizi del secolo scorso sulla frastagliatissima Sunshine Coast, ad un centinaio di chilometri da Vancouver. Data la conformazione montana della zona, i collegamenti avvengono per via marit21


tima o aerea. Raccordi stradali interni si dipanano nell’ampio territorio verso il nord della British Columbia. Nel luogo, in mezzo alla foresta vergine, esistevano fin dal 1883 due accampamenti di boscaioli. Vecchi documenti parlano di una trentina di boscaioli, che “utilizzavano i servizi di dodici buoi, per trascinare i tronchi dalla zona di disboscamento, lungo percorsi da slitta frettolosamente costruiti”. Il bosco era ancora intatto e si estendeva per molte miglia all’interno della costa. La selvaggina era abbondantissima e i lupi ogni notte assediavano i porcili dei boscaioli. Nella zona, lungo il Lois River, era insediata una tribù di nativi, gli Eagle River, che cacciavano prevalentemente cervi, le cui pelli vendevano a un dollaro l’una. Nella vicina isoletta di Harwood, un certo Timothy Moody allevava bestiame e vendeva carne ai boscaioli. Un cinese percorreva la costa con la sua bottega galleggiante e faceva affari sia con gli italiani che con gli altri boscaioli. Pare che all’epoca la vicina isola di Texada, una delle più grandi del golfo (è lunga 50 chilometri), non fosse abitata. Solo in seguito diventò sede di due piccole miniere e di una distilleria che forniva bevande alcoliche agli Stati Uniti durante gli anni del proibizionismo. Nel primo decennio del secolo scorso il luogo fu scelto come località ideale per una cartiera, una delle tante nate successivamente nell’ampio territorio britishcolumbiano. Cominciarono i lavori di disboscamento e di preparazione, seguiti nel 1910 dall’avvio della costruzione del complesso. C’era bisogno di manodopera ed ebbe quindi inizio l’immigrazione. A slavi, scandinavi, polacchi, irlandesi, scozzesi, russi, si unirono anche operai italiani. Vivevano in baracche di legno, lavoravano dall’alba al tramonto, non avevano famiglia, preparavano il futuro con determinazione e speranza. Qui si inserisce la nostra storia, pubblicata settantacinque anni fa dal “Digester”, periodico della Powell River Company. La storia è emblematica di un aspetto dell’emigrazione tipico di quegli anni: gli uomini partivano da soli, facendosi raggiungere in un secondo 22


momento da mogli e fidanzate. Una usanza che registrò una certa ripresa nel secondo dopoguerra, relativamente soprattutto all’emigrazione in Australia, assumendo addirittura forme più radicali, poiché spesso i matrimoni venivano organizzati per corrispondenza. Ma ecco il racconto, datato New York 2 luglio 1924 e fedelmente tradotto dal testo originale inglese. “Il vecchio detto, secondo il quale l’intero mondo gira intorno alla donna, ha trovato conferma oggi ad Ellis Island, quando una minuta giovane italiana dagli occhi blu, la signorina Ida Toigo (questo il suo nome) arrossendo ha ammesso di essere a metà del suo viaggio intorno alla terra, per sposare un uomo che vive nelle foreste dello sconfinato nordovest canadese. Non fermatemi ha implorato la signorina Toigo - non avete bisogno della mia piccola quota di immigrante da aggiungere alle altre, poiché io sono solo in transito attraverso gli Stati Uniti. Questo paese significa per me soltanto tremila miglia delle settemila che sto percorrendo per sposarmi. Accontentatevi di annotarmi in transito e ditemi qual è il prossimo treno diretto in British Columbia, dove proseguirò il mio viaggio fino a Powell River. In quella città Luigi Scarpolini mi attende per sposarci. Per favore, sbrigatevi, perché sono già in ritardo. Sono lontana quattromila miglia dalle montagne della mia madrepatria, l’Italia, e Luigi sarà preoccupato per me”. “Una rapida comunicazione con i rappresentanti dell’immigrazione in Canada, e la signorina Toigo è passata dalla custodia dell’assistente italiana a quella di assistenti canadesi, che l’hanno messa sul treno per il secondo percorso del suo lungo viaggio romantico per terre e per mari. Non sapeva esattamente dove avrebbe trovato il suo promesso sposo, né come avrebbe viaggiato dopo aver raggiunto Vancouver. Quando gli agenti della ferrovia la interrogavano circa la sua destinazione, doveva frugare nella piccola borsa per estrarne un foglietto di carta dove c’era scritto soltanto: Luigi Scarpolini, Powell River B.C. So bene che tutto ciò può apparire molto strano - ha 23


dichiarato la giovane - e che la gente può pensare che è insolito per una ragazza girare il mondo come una matta per sposare un uomo. Ma il mondo sta cambiando. Le ragazze oggi fanno cose che avrebbero sconcertato le loro madri. Luigi era soldato. La mia casa, in provincia di Belluno, è stata testimone della guerra fra le truppe italiane e quelle austriache. Ci siamo incontrati in quel periodo di emergenza e, prima che la guerra fosse finita, eravamo già fidanzati. Alla ricerca di opportunità, come moltissimi altri giovani europei, Luigi partì per il Canada. È da là che mi ha chiamata. Andrei in capo al mondo per essere sua moglie. La vita è opaca quando sono lontana da lui e so che lui mi vuole con sé.” È una testimonianza di coraggio, che ci fa comprendere come l’intraprendenza femminile non sia legata solamente al movimento femminista. Da sempre esistono donne intrepide, che sfidano rischi e fatiche sorrette dai loro ideali: nel caso di Ida Toigo l’unione con l’uomo amato e una vita da pionieri in un paese sconosciuto. Il nome dei coniugi Scarpolini, deceduti quarant’anni dopo a Vancouver in un incidente stradale, resta scritto con molti altri nella storia della primissima emigrazione veneta in British Columbia. Powell River, gennaio 1995

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RINA D’AMICO donna-medico nel mondo

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a quando è in pensione ha potuto dedicare più tempo a se stessa, alla prediletta lettura, all’ascolto della musica, alla conversazione intelligente con gli amici più cari. È nonna felice. Non dice mai di no alle richieste di aiuto e di consiglio. Rina D’Amico è quasi una favola per le donne della comunità italiana di Vancouver, specialmente per quelle giunte con il grande esodo degli anni Cinquanta; ma è un punto di riferimento anche per le loro figlie, delle quali è stata spesso una seconda madre e sempre un’amica. Laureata in medicina all’università di Roma nel 1947, fece un severo apprendistato in una clinica irlandese di Dublino e successivamente negli Stati Uniti, in New Jersey, per approdare poi ad Ottawa, capitale del Canada, dove lavorò presso l’Ospedale generale. Ad Ottawa si era scontrata con una dura realtà: l’accettazione di medici “stranieri” era allora limitata ai maschi. La giovanissima dottoressa D’Amico avrebbe forse potuto stare con le infermiere.... Su tutti i pregiudizi ebbero ragione pazienza, intelligenza e innata modestia di questa donna dal carattere forte e determinato, che aveva deciso di lasciare - nemmeno ventenne - Siderno Marina in Calabria, dove fin dalla fanciullezza aveva individuato la sua vocazione: voleva essere medico e voleva esserlo nel mondo. Dopo il tirocinio e l’abilitazione all’esercizio della professione, si trasferì a Vancouver, dove per vent’anni prestò la sua opera nei reparti di ostetricia e pediatria del St. Paul Hospital, in centro città. Decise quindi di aprire un ambulatorio a Vancouver East, nel cuore della comunità italiana. Sposata ad un bassanese, l’ingegner Ruggero Alberton, ex ufficiale di marina incontrato a Vancouver, ha avuto tre figli: Eileen, veterinario 25


e madre di due ragazze; Bruno, medico condotto a Gaspè in Quebec e padre di tre bambine; e Rita, insegnante di lingue. Anche se può essere raccontata come un’avventura alla scoperta del mondo, la vita di Rina D’Amico è stata e continua ad essere una missione. Intervistata sul tema del ruolo della donna in emigrazione, ha dato risposte brevi ma illuminanti. Alla luce della sua esperienza, qual’è il ruolo della donna in emigrazione? Prima di emigrare sentivo dire: ah, l’America... là una donna è veramente regina. Invece non è vero niente. In Italia la donna è regina. In emigrazione la donna è soprattutto la collaboratrice del marito, anche se ha una professione diversa dalla sua. L’impegno è comunque duplice: collaboratrice del marito e perno della famiglia. La donna in emigrazione ha sempre lavorato sodo: se le famiglie sono rimaste unite ed hanno raggiunto il benessere, possiamo dire che lo si deve soprattutto alla donna. Quali sono le aspirazioni della donna in emigrazione e che cosa può fare per realizzarle? Avere una casa propria e poter dare ai propri figli quanto non si sarebbe potuto dare rimanendo in Italia. Io volevo viaggiare, conoscere il mondo, esercitare la professione medica all’estero, imparare le lingue (tante guerre sarebbero evitate se gli uomini imparassero a comunicare nei rispettivi linguaggi...). Come realizzare queste aspirazioni? Lavorando: con l’impegno nella professione e nella famiglia. La vita è diventata costosa in tutti i sensi. Generalmente parlando, le donne che io conosco hanno soprattutto aspirazioni pratiche. Qual’è la patria di una donna emigrata, quando i figli sono cresciuti ed hanno formato le loro famiglie in terra di emigrazione? Per me, la mia patria è il mondo. Però, quando arrivo in Italia, sento una grande commozione. Altrettanto posso dire per i miei ritorni in Canada. E allora, nonostante la vocazione internazionale, posso riconoscere due patrie: quella dove sono nata 26


io, e quella dove sono nati i miei tre figli. Questo amore per le due patrie ritengo che sia comune a gran parte delle donne. Quelle che io conosco, lo condividono tutte. Che cosa rimane della propria giovinezza e della propria memoria nel cuore di una donna, dopo tanti anni di lontananza dalla terra natale? Rimane tutto. Ricordi, esperienze, sentimenti, impressioni.... Devo dire anche che i giovani di un tempo non avevano tante esigenze, e quindi tutto ciò che rimane nella loro memoria, filtrato dagli anni, è chiaro ed essenziale. Ho conosciuto meglio l’Italia dopo averla lasciata, perché ci sono tornata quasi ogni anno con mio marito e con i figli. Ciò è servito ad arricchire la mia memoria. Con risultati molto positivi. Che cosa le costò partire dalla sua terra? Non è stato uno strappo, come poté esserlo per altre donne. La prima volta che ne uscii, nel 1948, mi recai in Irlanda: intendevo perfezionare il mio inglese e fare esperienza medica in ospedale. Doveva trattarsi di emigrazione temporanea: un solo anno. E invece, al termine di quell’anno, mi trasferii in Canada. E l’emigrazione diventò definitiva. Non mi costarono molto le due partenze, per quella mia vocazione a girare il mondo e a svolgervi la mia missione, cui ho fatto cenno prima. Però so che molte donne hanno sofferto a lungo, mentre altre hanno apprezzato il miglioramento delle condizioni di vita e hanno accettato serenamente la realtà. L’emigrazione ha arricchito o mortificato la sua personalità? L’emigrazione non può che arricchire. Si apprendono altre lingue, si conoscono altri paesi e altre culture, si conquista una visione più ampia della realtà. Anche se esistono le eccezioni, la donna emigrata ha il vantaggio di vivere esperienze più composite e più profonde. Per me rappresentò l’accesso al mondo del lavoro e la qualificazione professionale senza lunghe attese, senza ritardi, senza impacci burocratici. Certo è che la via dell’emigrazione mi ha consentito di essere veramente 27


me stessa. Ci sono dei fatti o dei momenti particolari della sua vita che ama ricordare? Quando avevo quarant’anni ed è nata la mia terzogenita.... Ero affermata come medico, avevo la mia casa, tutto andava bene. Anche ora tutto va bene, ma non ho più quarant’anni.... E poi vorrei ricordare due donne, come me allora quarantenni, che volevano a tutti i costi abortire ed io fui felice di convincerle a non farlo... Ora i loro figli, sani e forti, quando mi incontrano mi abbracciano e mi baciano.... Tutto ciò è molto bello. Vancouver, marzo 1995

Rina D'Amico, Canolo (RC) 29.12.1921 † Williams Lake BC 19.12.2007

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SVEVA CAETANI una illuminante eredità

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migrata bambina in Canada con il padre Leone, esule politico, Sveva Caetani trascorse anni di isolamento e di solitudine, raggiungendo alte vette del pensiero e dell’arte. Nella serie pittorica intitolata Recapitulation, donata all’Alberta Art Foundation di Edmonton, ha descritto il viaggio dell’anima. Ha destinato la sua casa di Vernon in British Columbia, dove era vissuta per ben oltre settant’anni, ad un centro culturale civico che includesse un laboratorio d’arte per i giovani. Era l’ultima erede di una famiglia romana: quella dei Caetani, che ha dato papi alla chiesa, statisti all’Italia e uomini di pensiero al mondo. Ecco come l’artista riassunse poeticamente la sua vita, il suo lavoro e la sua fede poco prima della morte, avvenuta a Vernon, in British Columbia, il 27 aprile 1994: Ognuno di noi è solo, alla fine. Prima saluti quelli che ami, poi attraversi la lama dell’amara realtà, affrontando male e debolezza che sono dentro di te. Allora senti la voce di Dio e la voce di Dio ti dice: Tu non potrai mai conoscere o capire, puoi solo amare. Nata a Roma nel 1917, figlia del celebre orientalista e deputato radical-socialista Leone Caetani, Sveva “emigrò” in Canada all’età di quattro anni, quando il padre, convinto antifascista, decise di mettere al sicuro nell’ovest del Canada la propria famiglia, composta dalla figlioletta e dalla seconda moglie, Ofelia Fabiani. Il matrimonio con Vittoria Colonna, 29


appartenente alla famiglia dei principi Colonna - per secoli acerrimi nemici dei duchi Caetani - si era rivelato un fallimento. “Mio padre si rese conto che la tendenza al fascismo cresceva in maniera ormai allarmante. Volle per noi una vita nuova, lontana dai turbamenti politici e sociali che vedeva avvicinarsi sempre più - mi raccontò Sveva anni fa - precisando che “egli conosceva già la British Columbia. Vi si era recato nel 1890 con un amico, per cacciare gli orsi nel Kooteney, una valle parallela all’Okanagan. Era rimasto affascinato dalla bellezza del paese. La sua ascendenza era per metà anglosassone; la madre inglese lo aveva reso particolarmente sensibile alla libertà di parola, di pensiero e di espressione. Voleva che io crescessi in un’atmosfera di genuina libertà, in una società proiettata verso il futuro”. Leone Caetani acquistò alla periferia di Vernon (oggi una bella cittadina nella valle dell’Okanagan) una casa di campagna con annesso frutteto. Trascorreva le giornate tagliando legna nei grandi boschi, studiando, scrivendo e soprattutto dedicandosi all’educazione della figlioletta. Attraverso una fitta corrispondenza, era in contatto con gli esuli italiani in altri paesi. Ogni tanto, qualche viaggio in Europa: Londra, Parigi.... ricordati dalla figlia come un sogno. Un sogno, per lei, era anche la villa di famiglia sui colli romani. “Mio padre aveva costruito la sua casa sul punto più alto del Gianicolo.... e la mia stanza era sotto il tetto. Ogni mattina, alzandomi dal letto, correvo da una finestra all’altra, ammirando da un lato Rocca di Papa con gli Appennini innevati sullo sfondo e dall’altro lato la basilica di San Pietro”. Sveva ricordava anche le visite a Palazzo Caetani, in via delle Botteghe Oscure, dove viveva la nonna paterna e dove c’era un busto marmoreo della bisnonna polacca dai lineamenti straordinariamente simili ai suoi. Tutto questo un giorno finì bruscamente. Rimasta orfana a 17 anni del padre adorato, fu costretta in casa dalla bellissima ma autoritaria madre malata, che mai aveva accettato il radicale cambiamento di vita e s’era chiusa 30


in una amara solitudine. Fino al 1960, quando la madre morì, Sveva visse venticinque anni di “reclusione”. Unici diversivi consentiti la lettura e la musica, mentre era scoraggiata la sua maggiore vocazione: la pittura. Autodidatta, coltissima e sensibilissima, Sveva era 42enne quando potè uscire dall’isolamento e dal silenzio. Finalmente potè accedere a quel mondo artistico solo teoricamente conosciuto. Si trovava anche nella necessità di guadagnarsi da vivere e così accettò di insegnare nella scuola elementare della parrocchia. In breve, la sua fama di educatrice e di comunicatrice la dirottò alle scuole superiori, dove insegnò arte, letteratura, filosofia, scienze sociali. Tutto ciò nonostante ella fosse priva di diploma, laurea o certificato di abilitazione all’insegnamento, più tardi conseguiti all’Università di Victoria, dove - anche là - le fu chiesto di salire in cattedra. Riprese a dipingere, e poté dare libero sfogo alla sua passione repressa. Dopo tante sofferenze e tante rinunce, come per catarsi esplose in lei un canto struggente sul bene e sul male della vita. Concepì una grandiosa opera: Recapitulation. Sulla traccia della Divina Commedia, immaginò se stessa nelle vesti del “sommo poeta” ed elesse a maestro e guida l’amato genitore. “Per me non c’era modello migliore da seguire. Ma per dipingere eroi e mascalzoni di un’epoca diversa da quella di Dante: un’inferno non di punizioni ma di malvagità, un purgatorio dove l’espiazione consiste nell’impotenza, un paradiso non di tranquillità ma di conquiste dello spirito. Alla fine di tutto ciò c’è sempre l’amore che supera di gran lunga qualsiasi conoscenza”. In quattordici anni di lavoro appassionato, con la tecnica dell’acquerello a pennello asciutto realizzò cinquantasei grandi dipinti che lei, mai sposa a mai madre, definì ”figli” e per i quali trovò una casa grazie alla disponibilità dell’Alberta Art Foundation di Edmonton, dove le opere della Caetani sono tuttora a disposizione di gallerie ed istituzioni che le vogliano noleggiare ed esporre. “La serie è intesa come una specie di 31


poema pittorico, comprendente una vita di esperienza, meditazione, amore, dolore e rassegnazione” mi spiegò un giorno la Caetani. Ogni dipinto ha vari livelli simbolici e rappresenta non solo alcuni concetti, ma anche le emozioni che ne derivano. Inizia con un’invocazione a Dio, “potere invisibile”, della cui grandezza e del cui amore ella si sente povero strumento, e di cui intende porsi al servizio. E si conclude con le parole dell’antico saggio persiano: “Tamam Shud”, tutto è compiuto, concetto figurativamente rappresentato da una forma evanescente, scarnificata: lei stessa negli ultimi anni di vita, consumata dal fuoco interiore (oltre che dall’artrite) ed avviata verso la pace infinita di Dio. “Se c’è un legame tra il supremamente grande e il supremamente piccolo, l’esercizio di vivere ne costituisce il ponte” aveva scritto tra l’altro nel suo commento all’opera. Sveva Caetani, oltre agli straordinari dipinti, ha lasciato anche scritti filosofici e poetici, pubblicati a poco più di un anno dalla morte dalla Coldstream Books della fotografa e designer Heidi Thompson. La nobildonna mi confidò un giorno di sentirsi “romana per sempre”, nonostante la naturalizzazione e gli oltre settant’anni di vita canadese. Eppure è rimasta pressoché sconosciuta agli italiani: quelli del Canada, che l’hanno “scoperta” solo di recente; quelli in Italia, che nel 1994 hanno liquidato con due righe sui giornali la scomparsa “dell’ultima dei Caetani”. Non è tuttavia troppo tardi per raccogliere la sua eredità ideale. Vernon, gennaio 1996

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GILBERT GUELLA sindaco dei ‘Namgis

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on capita tutti i giorni che un bambino di sei anni collabori a un servizio giornalistico. Quanto segue è in parte frutto del lavoro di “inviato speciale” di mio nipote Etienne (prima elementare) dopo la sua visita alla scuola T’lisalagi’-Lakw di Alert Bay, uno dei più antichi insediamenti al largo della costa nord orientale di Vancouver Island. Nel piccolo villaggio di pescatori - una gemma dell’isola dei Cormorani a 180 miglia marine dalla città di Vancouver - con la sua storia di indiani nativi e con il suo sindaco italiano, si è verificata negli anni un’incredibile fusione tra la popolazione indigena, i ‘Namgis, e i discendenti degli emigrati europei, giunti quaggiù nella seconda metà dell’Ottocento per lavorare con la Hudson Bay, la potente organizzazione inglese che deteneva il monopolio del mercato delle pelli in Canada. Nella lingua dei nativi il villaggio si chiama ‘Yalis, o Alert Bay, nome derivato nel 1858 dalla corvetta costiera HMS Alert in servizio lungo la costa orientale della British Columbia. Alla fine del diciassettesimo secolo gettò l’ancora nella baia anche capitan Vancouver che considerava l’isola disabitata mentre da sempre il territorio era zona di pesca e di convegno dei ‘Namgis. La tradizione del Potlatch, o cerimonia comunitaria dei doni, ha in queste zone una storia antica e sofferta. Vietato per molti anni dai dominatori e dai missionari europei, vissuto in clandestinità e persecuzione, il Potlatch è stato più tardi riconosciuto ufficialmente come espressione importante dell’identità della First Nation. C’è una notevole istituzione qui - l’U’mista Cultural Centre, museo e centro culturale - che ospita una delle più significative collezioni di oggetti e maschere cerimoniali delle tribù delle coste del Pacifico. Sono autentici “tesori”, 33


confiscati ai legittimi proprietari negli anni delle leggi repressive (1921-1951) e solo recentemente, e solo in parte, recuperati e classificati. La parola U’mista significa appunto “ritorno a casa dopo la cattività”. Alert Bay ha anche un cimitero dei ‘Namgis: su ogni tomba sorge un totem, nume tutelare della famiglia del defunto. Scolpite su pali totemici, e decorate con vivaci colori di origine vegetale, vi sono figurazioni simboliche mutuate dalla natura: aquile, corvi, rane, orche marine, orsi grigi, thunderbirds (mitici uccelli del tuono) ed altri. Non si può passeggiare tra le tombe, è considerata profanazione. A nord dell’isola, lunga appena cinque chilometri e larga ottocento metri, c’è un totem di 57 metri, “il più alto del mondo” dicono gli isolani. È stato intagliato e decorato negli anni Settanta da un gruppo di sei artisti Kwakwakwak’wakw, che vi hanno raffigurato la storia delle proprie famiglie: vi appaiono figure umane oltre che animali, tra cui il lupo e il salmone. Viene ora il contributo di Etienne che, munito di una lista di domande, di registratore e di molto entusiasmo, s’è recato - accompagnato dal sindaco del villaggio, Gilbert Guella Popovich - alla scuola elementare T’lisalagi’Lakw. Apprendiamo così che Alert Bay ha 1300 abitanti distribuiti in 200 famiglie; ci sono 130 bambini al di sotto dei 10 anni, la popolazione è costituita per il 50 per cento da Namgis First Nation e per l’altra metà da etnie differenti. La storia dell’insediamento si sviluppa in tre tempi: all’inizio c’è il villaggio dei nativi che più tardi diventa sede di una piccola fabbrica per la salatura e la conservazione del salmone (1870). Infine, a tutt’oggi, c’è un villaggio di pescatori e di tagliaboschi. Gli “isolani” sono collegati da diversi traghetti giornalieri per e da Port McNeill (40 minuti di traversata) e da idrovolanti per e dalla vicina isola di Vancouver, sede dell’aeroporto internazionale di Victoria. L’isoletta dei Cormorani è anche dotata di una pista di atterraggio per piccoli aerei. Ci sono due scuole: la T’lisalagi’Lakw, elementare della First Nation, e la distret34


tuale n. 85 comprensiva di elementari e secondarie. Ci sono 150 studenti, 10 insegnanti e un preside. Viene data molta importanza all’educazione, e i ragazzi “emigrano” da Alert Bay per frequentare corsi di specializzazione, l’università o più tardi per ragioni di lavoro. Nel villaggio ci sono negozi, ristoranti, una stazione di polizia, i vigili del fuoco, l’ufficio postale, un teatro, una galleria d’arte, un museo, un centro sanitario e due ambulatori medici. L’orientamento religioso è cristiano: anglicani, cattolici e pentecostali. Ci sono tre chiese: la cappella di San Giorgio del 1925, la chiesa di Nostra Signora dell’Assunzione, edificata dai cattolici ed aperta al culto in occasione della Pasqua del 1943; la chiesa di Cristo costruita presso la prima non continuativa missione del 1878 e aperta dal Natale 1892. Le principali attività culturali ruotano intorno ai Potlatches, cerimonie di grande richiamo - oltre che per il loro significato tradizionale - per i costumi indossati, le danze e la musica: viene data particolare importanza all’ospite, oggetto di laudativi discorsi e di doni. Come vivono la loro identità gli abitanti di Alert Bay? Sicuramente “l’identità culturale è forte e positiva”. Etienne è fiero delle notizie raccolte e della sua amicizia con Gilbert Guella, primo cittadino di Alert Bay da oltre vent’anni. Nato a Bolzano, emigrato in Canada dopo gli studi secondari e accolto come un figlio da uno zio dalmata, Gilbert Guella-Popovich ha realizzato ad Alert Bay un servizio di rifornimento carburante per barche ed idroplani; ha sposato una nativa, e con lei la causa della popolazione indigena, diventando un paladino dello sviluppo sociale, umano ed economico dell’isola. I suoi interventi per l’educazione e la scuola, le sue battaglie per i servizi sociali e il lavoro, le iniziative nei settori caseario, della pollicoltura e dell’orticoltura, soprattutto la difesa dei pescatori contro le leggi restrittive del governo federale, i progetti di potenziamento del turismo ecologico e sportivo (pesca del salmone, escursioni per ammirare le orche marine, gli orsi grigi, le miriadi di aquile e molto altro) gli hanno valso 35


la fiducia non solo della sua, ma anche delle altre comunità native della regione. Le figlie di Guella hanno impressi sul volto i lineamenti dei nativi, ma il loro linguaggio è misto ad espressioni italiane e cadenze trentine: da bambine il papà le mandava in vacanza a casa della nonna paterna, a Riva del Garda. Alert Bay, aprile 1997

Gilbert Guella Popovich, Bolzano 1935 † Alert Bay 2005

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ALBERTO GIROTTO e la Uchuck III

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old River è un piccolo villaggio sorto circa trent’anni fa nel cuore selvaggio dell’isola di Vancouver. Vi abitano pescatori e tagliaboschi, è sede di piccole attività commerciali e sta diventando un punto di richiamo per gli appassionati degli sport all’aria aperta. È il punto di passaggio obbligato per raggiungere Nootka Sound. Dove infatti finisce la strada, c’è il porto di attracco della motonave Uchuck III, l’unica a fare servizio passeggeri e merci (oltre che postale) nella vasta zona costiera Nootka ad occidente dell’isola. Lungo queste coste frastagliate e magnifiche è ancora possibile convivere con aquile, orsi, delfini, lontre e balene... Me lo conferma l’esperienza del capitano Alberto Girotto, comproprietario della motonave Uchuck III. Girotto è nato a Port Alberni (una cittadina dell’isola dove vive una consistente comunità italiana) il 9 ottobre 1963 da genitori trevigiani: di Spresiano il papà, di Onigo la mamma. “Anche se i rispettivi paesi di nascita erano abbastanza vicini, loro si sono incontrati a Port Alberni”, racconta Alberto. “Ero molto più giovane di lui quando ho conosciuto Antonio Girotto - confida la mamma di Alberto, Edda De Luca - e oltre ad Alberto, il primogenito, abbiamo avuto altri due figli: Ron di 32 anni, artista che opera nel campo del design e della decorazione d’interni, e Dino di 31. E siamo anche nonni...” È una nonna giovane Edda Girotto, 53 anni appena: felice di coccolare i piccoli Kyle e Marcus, 5 e 3 anni, figli di Alberto, che con la moglie Cathy ha anche una figlia adottiva, Ashley, di 13 anni. Che cosa l’ha portata a navigare ed operare tra questi fiordi dell’isola di Vancouver? Tutto cominciò circa undici anni fa quando, dopo il primo anno di università, avevo bisogno di un lavoro estivo per pa37


garmi le tasse di frequenza. Feci domanda e ottenni un posto di marinaio presso navi costiere in servizio da Port Alberni. Non avevo mai fatto nulla di simile, ma mi piacque molto. I miei datori di lavoro erano soddisfatti di me: ne risultò un impiego a tempo pieno. E così finirono i miei progetti per una carriera negli affari e ne iniziò una di lavoro sulle navi. Dopo qualche anno di attività, decisi di frequentare l’istituto nautico e così conseguii il diploma di capitano. Nonostante fossi felice del mio lavoro, volevo un’attività tutta mia: dentro di me conservavo il desiderio di entrare in affari... Durante gli otto anni di lavoro a Port Alberni, avevo avuto l’opportunità di incontrare e conoscere i precedenti proprietari della Uchuck III: ero anche riuscito a lavorare per loro con una posizione di responsabilità quando ne avevano avuto bisogno. Così quando essi decisero di andare in pensione, con altri due soci acquistai la Uchuck. Era il 1994: il mio desiderio di mettere insieme business e vita di mare era soddisfatto. Con moglie e tre figli mi trasferii a Gold River, la casa-porto della Uchuck III. I miei soci conducono la nave, mentre io lavoro in ufficio promuovendo il turismo e il cargo merci. Qualche episodio particolarmente curioso della vita di bordo? Ce ne sono parecchi... Ne racconterò uno accaduto di recente. Nell’ottobre scorso, qui a Gold River, gli uomini dell’equipaggio dormivano e il comandante è stato svegliato da strani rumori provenienti dall’interno della nave. Sceso sottobordo in pigiama, si è trovato di fronte un grosso orso che stava mangiando quanto era rimasto di un dolce di riso lasciato dal nostro cuoco al bar. Disarmato com’era, il comandante è scappato in direzione opposta mentre l’orso, imboccata questa volta la porta della cucina rimasta socchiusa, non ha potuto resistere al profumo dei cibi... Nonostante tutto, non c’è stato alcun danno: l’orso aveva trovato da cibarsi senza rompere nemmeno una ciotola. 38


E riguardo alla sua identità , che cosa ha da dirmi il capitano Girotto? Essendo nato in Canada, decisamente io mi sento e mi considero prima di tutto canadese, e in secondo luogo italiano. Nonostante io sia stato una sola volta in Italia, laggiÚ ho cugini e parenti, e sono molto interessato a tutto quanto vi accade. Sono orgoglioso della mia origine italiana specialmente quando dell’Italia si parla a livello mondiale. E poi sono un tifoso di calcio: seguo le partite di coppa e i mondiali... senza dimenticare Alberto Tomba! Gold River, giugno 1997

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Il rompighiaccio Samuel Risley e il superferry Spirit of British Columbia

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VITO TREVISI costruttore di navi

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iviamo in una città portuale. Il nostro orizzonte è l’oceano infinito. Le acque del Pacifico toccano, mescolandosi, quelle dell’intero emisfero. Dalle montagne che alle spalle la proteggono, con le due cime sorelle per tradizione antica garanti di pace, Vancouver la bella, Vancouver “città della pace”, si stende fra baie e insenature, penisole e isole: di fronte l’isola regina, Vancouver Island, con la capitale Victoria. È di poche settimane fa il varo di un potente aliscafo, costruito a Nord Vancouver, per potenziare i già buoni collegamenti con l’isola. Fino a qualche anno fa vi aveva provveduto un trevigiano doc, Vito Trevisi. Le ultime sue creature sono state le navi super-traghetto tuttora in servizio fra terraferma e isola. Due magnifiche realizzazioni, prima della malattia e della morte: Spirit of British Columbia e Spirit of Vancouver Island, che avranno forse contribuito a prosciugargli l’anima. Il corpo no, era già asciutto ed essenziale, provato dalla tensione costante dell’impegno e del lavoro. Era emigrato ragazzo, dalla marca trevigiana, in cerca di un futuro di speranza in terra sudamericana. Era poi giunto quassù, dove aveva potuto realizzare i suoi sogni. Dai cantieri “Vito” sul delta del fiume Fraser erano usciti i primi battelli, e poi - commissione su commissione - i rompighiaccio per l’immenso nord, e infine le navi traghetto. Tutto intorno oggi è silenzio. C’è ancora il suo nome però, inciso sul capannone più alto: “Vito”. Vito Trevisi, un appassionato imprenditore navale, un veneto da non dimenticare. Non avevo mai assistito, in tanti anni, al varo di una nave. O perlomeno non vi avevo assistito dal vivo. La televisione era stata l’unico tramite di un avvenimento tanto emozionante. 41


Perciò, quando Vito Trevisi mi ha fatto sapere che “era giunto il momento” non mi sono fatta sfuggire l’occasione. Il varo di una nuova rompighiaccio della Guardia Costale Canadese (stazza 1.590 tonnellate lorde, costo 35 milioni di dollari), sarebbe avvenuto tra le otto e trenta e le nove di venerdì mattina, 22 febbraio, al punto più alto della marea. Sveglia alle sei e mezzo, un’ora abbondante di guida per coprire il tragitto da West Vancouver al Delta, arrivo al cantiere di River Road perfettamente in tempo. “Lei” è ancora lá, un grosso ma elegante bestione rosso e grigio, che si alza imponente sulle strutture portanti dov’è stata costruita. Tutt’ intorno un fermento di operai e tecnici pronti alla prova più difficile. Centinaia di persone giunte da ogni dove, disseminate intorno al recinto del cantiere, arrampicate su reti ed alberi, in bilico su putrelle di cemento e di ferro per avere una vista migliore, attendono con ansia. All’interno del cantiere, sul piazzale in riva al fiume, ancora gente, amici, invitati, parenti degli operai, fotografi, cineoperatori, pronti per il grande attimo. “Lei” scenderà sulle acque dello storico Fraser di fianco, sarà una discesa prima lenta e solenne, poi improvvisamente si piegherà di lato, l’impatto con l’acqua potrà essere molto brusco, lo schiaffo sarà ricambiato con energia, ma ciò le permetterà di raddrizzarsi e sarà “nel suo elemento”. Sarà quasi pronta per la sua missione. Navigherà nelle acque gelide dei Grandi Laghi, potrà arrivare al Nord grazie ai suoi giganteschi coltelli capaci di vincere la resistenza dei ghiacci, aprirà la strada ad altri battelli, porterà assistenza e soccorso, vigilerà le coste patrie. Fa freddo, il clima è ancora invernale. L’umidità penetra nelle ossa, ma nessuno se ne accorge. Gabbiani volano bassi sull’acqua e si alzano poi tra le transenne della nave, dove ancor nessuno può arrivare. Si avverte il rombo sordo di qualche aereo di linea sopra le nubi. Chiatte ricolme di segatura transitano lente lungo la sponda opposta del fiume. I rimorchiatori sono pronti, al largo, le lunghe robuste corde d’acciaio 42


agganciate alla fiancata della nave. Dal lato interno, compressori e carrelli sono in funzione. Decine di uomini in casco e tuta da lavoro assomigliano a formiche attivissime: ognuno ha un compito preciso, sa quello che deve fare. I responsabili sono collegati via radio con i vari punti strategici. Vito Trevisi, “il capo”, è apparentemente tranquillo, attentissimo a tutto, ma fuma in continuazione (unico segnale di nervosismo e di tensione avvertibile). Mi avvicino e lo saluto, ma non voglio distrarlo ora con domande. Ci sarà tempo dopo. Gli dico solo “deve essere ogni volta come partorire”. Parlo evidentemente da donna, ma anche un uomo conosce - se non le doglie - le ansie dell’attesa e la frequenza in crescendo dei battiti del cuore nell’imminenza della nascita di un figlio. Mi sorride. Sono convinta che per questo piccolo grande uomo, questo veneto di origine che ha vinto con tenacia la sfida dell’affermazione in un Paese nuovo, diventandone protagonista grazie alle capacità imprenditoriali, anche questa nave che sta varando sia un figlio. Non il primo, certo, altri hanno visto la luce prima di adesso, e navigano sicuri nel Grande Nord del Canada. Tutto mi fa pensare ad un parto, peccato che il cielo oggi sia così grigio, così poco festoso. Si muove. Ecco, appena appena. Pochi centimetri. Il cavo di un rimorchiatore si spezza, qualche cuneo anche. Resiste. Non è ancora il suo giorno. Intanto la marea scende. “Lei” ha deciso che i suoi ammiratori dovranno tornare domani, di nuovo alle otto e mezza, con l’alta marea. Il sabato mattina è ancora più freddo ed umido. Stessa scena, ancora più gente. Verso le dieci un sussulto: si muove, scende. “Go, go, go!” è il grido corale di incoraggiamento. Due metri? Tre metri? Ora va. Una pena. Niente. Si ferma, resiste, rompe i cavi, delude. Sembra farsi beffe di noi. Ed io là, per ore, con l’indice poggiato sul pulsante della mia Leica, gli occhi arrossati, il naso gelato, le labbra livide, i piedi da non sentirli più... ma là, perché l’emozione è più forte di qualsiasi disagio. E “lei” che fa? Decide che vuole il sole, vuole il vento, vuole l’azzurro stupendo con i gabbiani rilucenti contro gli alti 43


pennoni, vuole nascere quando vuole lei e come vuole lei. È bizzosa, questa guardiacoste. S’è scelta la domenica mattina, 24 febbraio, giorno di festa. Un sole splendido, un cielo così terso da dare il capogiro, un vento che ti spazza via. Alle nove, quando arrivo con la mia macchina fotografica, non la vedo. È già sul fiume, e i rimorchiatori la stanno trainando a riva. È successo da pochi minuti. Facilmente. È scivolata giù come un olio. Disgraziata, me l’hai fatta! Non volevi darmi l’emozione di quell’attimo. Ma sei bella, così adagiata sul fiume, scortata dalle due damigelle che ti stanno riconducento a riva. Sei bella, Samuel Risley, e fai onore a chi ti ha dato vita. Delta, gennaio 1998

NOTA: Dopo la Samuel Risley, Vito Trevisi ha realizzato negli anni 1992-1993, su commissione della “B.C. Ferries” e in joint venture con altra ditta locale, i due superferries Spirit of British Columbia e Spirit of Vancouver Island. Si tratta di gigantesche navi traghetto, aggiuntesi alla già consistente flotta in servizio, capaci di trasportare 470 macchine e duemila passeggeri ciascuna. Trevisi, deceduto il 15 gennaio 1997, era nato il 18 giugno 1926 a Bavaria del Montello, una frazione di Nervesa della Battaglia, in provincia di Treviso. Era emigrato negli anni 50 in Venezuela, e vent’anni dopo aveva deciso di trasferirsi in Canada, lavorando prima in Quebec e quindi dando vita, in British Columbia, al cantiere navale “Vito” sul delta del fiume Fraser, a sud di Vancouver.

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ANGELO BRANCA avvocato e giudice

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er la sua vibrante personalità e soprattutto per la sua testimonianza di cattolico, il Papa lo aveva nominato Knight Commander dell’ordine di San Gregorio il Grande. Per il contributo dato al dialogo e alla collaborazione tra cristiani ed ebrei nella regione del Pacifico, aveva ricevuto - secondo solo a John Diefenbaker la medaglia del Presidente dello Stato di Israele. Per almeno mezzo secolo era stato l’elettrizzante protagonista dei tribunali penali dell’ovest canadese e l’idolo di uno stuolo di legali che lo ammiravano e lo seguivano. Avvocato e giudice di Corte Suprema, e negli ultimi anni di Corte d’Appello, si occupava, spesso gratuitamente, dei casi più disperati: su 63 accusati di omicidio, solamente quattro furono ritenuti colpevoli. “Qualsiasi parte rappresentasse - è stato affermato - combatteva per vincere, usando tutti i mezzi legali a disposizione ed un grande potere persuasivo”. Tra i crimini che non giustificava e per i quali avrebbe applicato l’impiccagione (lui, strenuo oppositore della pena capitale, ritenuta un residuo di barbarie) erano il sequestro di persona e lo spaccio di droga tra i ragazzini delle scuole. Rievocando i suoi “anni ruggenti” di giudice - i CinquantaSettanta - ebbe a dichiarare di se stesso: “Sono senza alcun dubbio il più compassionevole dei magistrati: la mia tendenza, specie con i giovani, è di essere clemente. Non m’importa se si sono messi nei guai otto, nove o dieci volte. Spesso non hanno avuto famiglia, nè amore, nè sicurezza, nè consigli da genitori, sacerdoti o insegnanti. Allora di chi è la colpa? La sicurezza crea carattere, e senza di essa le probabilità di crescere buoni e di essere onesti sono quasi impossibili”. Campione dilettante di pugilato negli anni giovanili, già 45


ottantenne fu definito “un grande e famoso virtuoso, il gladiatore delle Corti....”. Un protagonista, non un osservatore. Era Angelo Branca, nato da genitori di origine italiana: lombardo il padre, veneta la madre. La loro storia costituisce già un’epopea. La storia di Branca (straordinariamente ricca, difficile da catturare brevemente) è intessuta di generosità, di intelligenza e di rara armonizzazione di valori italiani e latini nel contesto canadese. Angelo nacque il primo giorno di primavera del 1903 in una località di montagna dell’isola di Vancouver: Mount Sicker, ottanta chilometri a nord di Victoria. Il paesino contava allora duemila abitanti, oggi è praticamente deserto e raggiungibile solo tramite una mulattiera. “L’unica spiegazione per aver scelto quello strano luogo di nascita - ha scritto un biografo - è il suo comprensibile attaccamento alla madre, la quale a sua volta desiderava essere vicina al marito”. Filippo, il padre, era nato a Turbigo, in provincia di Milano, dove la famiglia Branca conduceva una piccola attività nel settore del legno. Quarto di otto fratelli, sette maschi ed una femmina, poi emigrata con il marito a Buenos Aires, nell’ultimo decennio del secolo Filippo era partito per gli Stati Uniti. Aveva lavorato come minatore in Michigan e nello Utah e aveva quindi chiamato dall’Italia la fidanzata, Teresa, una veneta “irredentista” nata al confine con il Tirolo. Dopo la traversata dell’Atlantico e l’arrivo a New York, dove non era riuscita a recuperare il baule della sua dote di sposa (per il quale ricevette solamente 100 dollari di indennizzo: un vero e proprio insulto all’assiduo e prezioso lavoro di anni!), Teresa aveva sposato il suo Filippo e nel 1897 aveva dato alla luce il primogenito, Giuseppe. Gli sposi avevano quindi deciso di mettersi in cammino per recarsi nell’ovest canadese, dov’erano arrivati molto in anticipo sul primo consistente flusso migratorio di italiani. Qui era nata, nel 1901, Anna. Filippo continuava a fare il lavoro di minatore e contemporaneamente, aiutato dalla moglie, gesti46


va a Mount Sicker un piccolo spaccio alimentare. Il 21 marzo 1903 nacque dunque Angelo, e nel 1906 Giovanni. L’ultimogenito sarebbe arrivato nel 1910 (e venne chiamato Giuseppe per perpetuare il nome e la memoria del primogenito, deceduto prematuramente l’anno prima). Era il periodo del mitico Klondike e della febbre dell’oro: cui non si sottrasse l’avventuroso e determinato Filippo che, setacciando i detriti del fiume Fraser alla ricerca di pepite, in una stagione realizzò diecimila dollari, una fortuna per quei tempi. Ciò gli permise di fare progetti per il futuro della famiglia e dei figli: sarebbe andato a Vancouver, città in espansione e dalle sicure promesse. Qui i Branca, in società con l’amico Giovanni Crossetti (anch’egli minatore a Vancouver Island), aprirono un negozio di generi alimentari in Main Street. Qualche tempo dopo poterono affrontare, da soli, la gestione di un altro negozio in Nord Vancouver. Più tardi venne l’ingrosso di generi importati dall’Italia e l’acquisto di una fattoria di campagna in quello che è oggi il grande agglomerato urbano di Burnaby. In piena guerra mondiale, sarebbe stato opportuno produrre cibo, oltre che importarlo! I genitori lavoravano sodo, ma anche i figli non scherzavano: scuola, educazione cattolica in parrocchia, consegne di merce a domicilio, cura del bestiame e dell’orto.... Intanto per Angelo e per i fratelli, con lo sviluppo fisico si delineavano le personalità. Parlando dell’esperienza di quel tempo, Angelo ebbe un giorno a confessare: “Quella fattoria è stata uno dei piccoli miracoli della mia vita.... Il terreno era alluvionale, e per anni non c’è stato bisogno di letame.... I cavoli pesavano fino a sette chili, i fagioli erano enormi! Facevamo due raccolti all’anno.... Avevamo cinquanta capi di bestiame da latte: ho sviluppato i miei muscoli mungendo ettolitri di latte....” Per lui era un lavoro ed uno sport. A proposito del quale - una volta diventato campione dei pesi-medi della British Columbia (era già avvocato!) - pensava e dichiarava: “Lo sport rende l’uomo migliore in tutti i sensi, non importa ciò che fa. Impari le rego47


le, impari ad essere leale, impari che ogni gara è governata da regole. E impari ad obbedire a quelle regole. La tua disciplina diventa l’obbedienza”. Riguardo all’ambito familiare, importantissimo per il personaggio, va rilevato che tra padre e figlio c’era un’incredibile affinità. Un parallelo può essere costituito dalla fondazione, da parte di Filippo, della Società Veneta, con finalità comunitarie e di mutuo soccorso: nel 1911 aveva centinaia di aderenti. Nel 1966 Angelo darà vita - più o meno con gli stessi scopi - alla Confratellanza italo canadese, fusione di diversi gruppi regionali emergenti: migliaia gli associati, molti dei quali tuttora viventi. Padre e figlio erano ambedue innamorati della cultura italiana. Angelo parlava e scriveva la lingua italiana a livello colto: molte restano le documentazioni, pungenti e vivide, pubblicate e non, nella nostra lingua. Ambedue mettevano però al primo posto la lealtà al Canada, patria accogliente e generosa. Notoria la critica di Angelo Branca alla politica del multiculturalismo, che secondo lui - finanziando i gruppi etnici - ne favoriva la ghettizzazione a scapito dell’integrazione. “È compito della famiglia e non del governo tramandare la cultura e favorire l’apprendimento della lingua d’origine” ripeteva senza stanchezza, discutendone per ore anche con l’amico Trudeau. È stata forse l’unica battaglia persa della sua lunga carriera di lottatore e vittorioso difensore di cause ritenute impossibili. Inesauribili da raccontare sarebbero episodi, storie, aneddoti della sua vita, sia pubblica che privata, conclusasi serenamente il 3 ottobre del 1984. Vale la pena riprenderne qualche aspetto. Trentunenne, Angelo aveva sposato l’innamorata dei suoi anni adolescenti: una giovane nobile americana di Olympia, la capitale del vicino stato di Washington. Viola Miller è stata per Angelo una compagna dolce e forte: ricca di umanità, dedizione e spirito di sacrificio, non c’è opera sociale od umanitaria di Vancouver che l’abbia vista ritrarsi. Così è stato per le loro due figlie: Dolores Rose, che ha seguito la carriera paterna diven48


tando essa stessa avvocato e giudice, e Patricia, promotrice e testimone di realtà cattoliche nell’arcidiocesi di Vancouver. Ventun anni fa, quando Angelo Branca si ritirò dalla Corte d’Appello per raggiunti limiti d’età, il giudice capo John Farris pronunciò un discorso d’addio definito dai biografi “una piccola perfetta gemma”. I mezzi di comunicazione ne parlarono a lungo, con commenti lusinghieri, nonostante l’invidia di qualche piccolo detrattore all’interno della comunità italiana. Eccone uno stralcio: “La devozione del giudice Branca alla sua famiglia, alla sua chiesa, alla sua professione e alla sua comunità è ben conosciuta. Questa devozione ha ricevuto la sua ricompensa nei figli, nei nipoti, in alti incarichi, in premi e lauree ad honorem. Ma oggi è come giudice che noi lo onoriamo. Ogni Corte d’Appello ha bisogno di un Angelo Branca. I verbali sono ripieni dei suoi giudizi. Essi costituiscono l’evidenza secondo la quale la storia giudicherà il giudice. Ma noi, che siamo vissuti con lui, abbiamo lavorato con lui, scherzato con lui, non abbiamo bisogno di attendere il verdetto della storia. Noi sappiamo che egli è grande e questo per molte ragioni. Egli è grande per la sua completa integrità. Nessun giudice l’ha mai superato in onestà intellettuale. Egli è grande per la qualità della sua mente e la sua capacità di lavoro. E, forse l’aspetto più importante, egli è grande per il calore del suo cuore. Il criminale più incallito, lo spacciatore di droga, hanno avuto un trattamento sbrigativo, ma il giovane criminale, il trasgressore di una volta, la vittima di un momento di passione o di un’insostenibile pressione, hanno ricevuto da lui una giustizia che riflette i veri valori cristiani”. E ancora: “Il giudice Branca è la prova vivente che le cose serie possono essere condotte con un senso di gioia. Per moltissimo tempo nel nostro corridoio, tra i giudici, sono risuonate le risate provocate dalle sue battute di spirito, pregnanti e pungenti per natura..... Sono fermamente convinto che ogni volta che un uomo sorride, e ancor più quando si fa una bella risata, aggiunge qualcosa a questo frammento di vita. In questo vec49


chio edificio che ha visto tanta angoscia e disperazione, la sua natura felice è stata un’assoluta delizia”. Vancouver, marzo 1998

Branca e gli antifascisti Nel 1940, durante gli infausti mesi dell’internamento nel Campo di Petawawa, Angelo Branca prese fermamente in mano la leadership degli italiani in British Columbia. Per alcuni anni prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, egli aveva percorso il territorio della provincia, fermandosi a parlare in seminterrati di chiese e piccole sale italiane, e con la sua chiara voce aveva messo in guardia la sua gente contro l’ascesa del fascismo e contro il programma di Mussolini di usare i diplomatici italiani in Canada come strumenti di sovversione di gruppi tipo i “Sons of Italy”, i “Figli d’Italia” nati nell’anteguerra. Nel maggio 1940, prevedendo l’imminente alleanza dell’Italia con Hitler, Branca formò un comitato perché ogni italiano in British Columbia firmasse un impegno di fedeltà al Canada. Diffuse migliaia di volantini invitando gli italiani ad un convegno la sera del 10 giugno a Vancouver. Per ironia della sorte, proprio quel pomeriggio Mussolini si era affiancato all’Asse, e al crepuscolo la retata nazionale di italiani era già in moto. Tuttavia, il raduno continuò; il dinamico avvocato emerse di fronte a quattrocento uomini impauriti e disse: “Il mondo è sconvolto da un atto di perfida vigliaccheria. Questa dichiarazione di guerra da parte di Mussolini sarà ricordata dalla storia come una delle azioni più codarde e traditrici fin qui commesse dall’inizio dei tempi”. I quattrocento furono d’accordo nel formare un’associazione guidata da Branca, per spalleggiare lo sforzo difensivo dei canadesi. Quest’associazione si diffuse attraverso tutta la British Columbia, e fu la ragione per cui gli uomini arrestati e spediti al Campo Petawawa furono, in proporzione alla popolazione, meno di quelli dell’Ontario e del Quebec. Per mesi e mesi, l’ufficio di Branca a Vancouver divenne il centro di frenetiche chiamate telefoniche. Egli vegliò molte notti esaminando lettere arrivategli da famiglie in pena e discutendo con il governo centrale ad Ottawa per il rilascio di mariti e padri che erano stati internati.

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TONY MAZZEGA l’arte raffinata del legno

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nato 74 anni fa all’ombra della basilica antoniana di Padova, in via del Santo. “Al numero 58 - sottolinea sorridente - dove c’era la pasticceria della mia famiglia. Quante volte, con papà, sono andato a portare biscotti, cioccolato e caffé ad alti prelati in visita al Santo! Conservo una foto con papa Ratti e ricordo papa Pacelli quand’era nunzio apostolico...” (Pio XI e Pio XII, nda). Lo scultore Tony Mazzega, friulano di origine per parte di genitori, padovano doc, sposato dal 1957 con una veneziana (“abbiamo celebrato il nostro matrimonio nella chiesa di San Luca, qualche mese prima di emigrare in Canada”, dice la signora Nadia) e vancouverita per scelta di lavoro e di vita, racconta sobriamente le tappe del suo itinerario umano e artistico. Da ragazzo collaborava nella bottega di famiglia “vicina al ristorante sant’Antonio, in canton, non so se c’è ancora...”. Lì aveva appreso la raffinata arte dei dolci per poi, da giovanotto, applicarla in proprio a Venezia, dove gestì per qualche tempo una sua rinomata pasticceria. Alla conclusione del periodo veneziano, durante il quale s’era guadagnato un’affezionata clientela (“con grande sacrificio, perché dovevo alzarmi alle tre di mattina e lavorare ininterrottamente fino a sera”, ricorda) appartiene la fantasiosa creazione della propria torta di nozze. Due metri di altezza e, al momento del taglio, la sorpresa-regalo per la sposa: una coppia di bianche colombe spiccare il volo dal cuore del capolavoro, dov’erano nascoste da qualche ora. Un episodio che il nostro protagonista ama spesso rievocare e diventato famoso quanto il suo ideatore, innato artista nell’anima oltre che nella rara abilità manuale. Una volta in Canada, i novelli sposi Mazzega, pieni di sogni e di speranza perché giovani, ma anche per aver creduto, 51


forse illusoriamente, alla rapida fortuna di un conoscente emigrato poco tempo prima, dovettero adattarsi come molti altri a “mille e un lavoro” afferma lui, mentre lei precisa che fecero tra l’altro i cuochi viaggianti per la BC Rail, la ferrovia che attraversa l’immenso territorio. Lavorarono inoltre in un albergo a Jasper sulle Montagne Rocciose, stupende d’estate ma a parecchi gradi sotto lo zero d’inverno. Le tre figlie: Deborah, Sabrina e Audry, nasceranno più tardi a Vancouver. La primogenita è del 1963, è sposata e mamma, così come la trentenne terzogenita, in attesa del secondo bimbo; in mezzo c’è Sabrina che vive con i genitori. Tutte e tre sentono molto la loro origine italiana, conoscono l’Italia per averla visitata e mantengono, grazie all’educazione ricevuta dai genitori, tradizioni e valori familiari importanti. Pasticciere, Mazzega riprese ad esserlo a tempo pieno una volta assunto dalla catena alimentare nordamericana Safeway, per la quale ha lavorato fino al pensionamento, nel 1990. “Per almeno 22 anni, dei 25 trascorsi alle loro dipendenze, ho fatto esclusivamente il decoratore di dolci”, precisa con ironia ma anche compiaciuto. Sia pure con motivi e ritmi diversi di esecuzione, l’arte dolciaria imparata da bambino gli ha permesso di vincere la non facile sfida dell’emigrazione, dedicandosi al lavoro, alla famiglia e coltivando pazientemente l’insopprimibile voglia di esprimersi per altre vie: quelle dell’arte pura, alla quale è approdato oggi, da pensionato. Tony Mazzega si illumina quando gli nomino il Messaggero di sant’Antonio. “Lo conosco bene. A diciassette anni ho anche lavorato nella tipografia, allora appena aperta”. Credo di intuire un legame antico e chiedo maggiori particolari. Provvedeva ad imprimere mediante le apposite targhette metalliche gli indirizzi dei moltissimi abbonati alla rivista, in Italia e nel mondo. “Nel 1935 cantavo nel coro della basilica, come voce bianca. Allora avevo 10 anni. I miei fratelli maggiori Guido e Ugo cantavano da soprano. Ci dirigeva il maestro Ravanello”. Ricorda di avere anche modellato in plexiglass, prima degli 52


anni Quaranta, centinaia di souvenir ispirati al Santo per le bancarelle dell’omonima piazza e destinati ai devoti in visita alla basilica. E fin da allora lavorava per hobby la cartapesta, la creta e la ceramica, realizzando statuine per il presepio di famiglia, immancabilmente premiato dal parroco della vicina chiesa di san Francesco, “la mia parrocchia” aggiunge con tenerezza. L’amore per il Presepio e per il culto della Natività sono cresciuti in lui con gli anni: oggi la grande scena natalizia creata dal Mazzega - animata da centinaia di personaggi ed esposta annualmente a dicembre in differenti luoghi pubblici della città, specialmente nella zona di Burnaby, dove l’autore vive - è diventata un importante richiamo a scopo benefico oltre che educativo. Come è approdato all’arte pura, da lui tuttavia definita hobby? “Da sempre ho desiderato intagliare e scolpire il legno... anche se ho lavorato con altri materiali, come pietra tenera e onice”, risponde Mazzega. Per i lettori, c’è da aggiungere che nelle grandi foreste dell’ovest canadese e dell’Alaska il legno abbonda (è una delle principali risorse) e qui eccelle la ricca tradizione e continuità artistica della West Coast Art, originale espressione dei nativi, creatori di fantasiosi pali totemici e di maschere cerimoniali, di gioielli e di altri oggetti finemente decorati con motivi di profondo e spesso misterioso simbolismo. “Ma io non volevo fare orsi e totem” - prosegue Mazzega con un lampo di furbizia – “perciò mi sono ispirato ad oggetti della quotidianità, al semplice vestiario mio, di mia moglie, delle figlie. Perché non una giacca, una maglietta, una cravatta?”. La prima scultura del suo nuovo periodo creativo è stata una giacca da uomo ricavata da un blocco unico di cedro giallo: due mesi di lavoro e primo premio al Richmond Carver Show 1991. Altre opere sono seguite; i riconoscimenti sono aumentati. Ad una recente mostra organizzata dalla Richmond Art Gallery erano esposte trentasei sculture, eseguite nel corso 53


degli ultimi otto anni: una più raffinata dell’altra nella scelta e nella lavorazione dei materiali e delle vernici, nell’accuratezza delle rifiniture, nell’originalità dell’interpretazione degli oggetti più banali, come strofinacci da cucina, guanti di gomma, indumenti intimi da uomo e da donna, berretti stropicciati. Impiega legni di varia qualità e grana, come cedro giallo o rosso, quercia, pino, ma anche rari legni brasiliani. Sbozza, intaglia, smeriglia, adoperando con grande abilità gli attrezzi dello scultore ma anche quelli del dentista, come trapani più o meno sottili con i quali realizza particolari di incredibile minuzia, come i pizzi dei reggiseni, le asole e i bottoni di giacche e camicie, perfino le spiritose targhette col marchio di fabbrica: Tony Mazzega, la data, e poi magari Pure Canadian Wood Size S (“S” sta per Small su una camicia), oppure Vero cuoio - Made in Italy sulla suola di un paio di scarpe apparentemente usate. L’illusione ottica è perfetta. Un paio di pantaloni ripiegati sullo schienale di una sedia sembrano pronti da indossare. Il montgomery da bambino appeso vicino alla giacca del papà è a disposizione per la passeggiata all’aria fresca. Ombrello, cappello e guanti hanno il calore dell’uso e dell’utilità. La biancheria stesa ad asciugare sembra muoversi al vento e lampeggiare al sole. Ma come fa quest’uomo a rendere eccezionali le cose ordinarie? L’arte evidentemente non ha né età né confini, non conosce ostacoli. E poi.... e poi c’è quella valigia così reale nel suo immaginario, così immaginaria nella sua realtà da riportarci indietro nel tempo, tanto è ricca di simbolismi. Chissà se Mazzega s’è ispirato a quella usata quarantadue anni fa per venire in Canada? Vancouver, luglio 1999 Antonio Mazzega, Padova 1925 † Vancouver 2004

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RINO RIGHELE la passione del liutaio

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nvitato dalla direzione del Centro culturale italiano di Vancouver ad esporre una serie dei suoi strumenti ad arco, il liutaio Rino Righele ha realizzato - nell’ambito della recente Settimana italiana - una mostra di tutto rispetto. Sui pannelli disposti in biblioteca, viole, violini e violoncelli sostituivano i quadri delle usuali esposizioni pittoriche. Lungo un’intera parete, una sintetica storia del violino e dei suoi principali protagonisti, illustrata da disegni, fotografie e manoscritti. Sul bancone dell’artigiano gli attrezzi del mestiere con un campionario di semilavorati: legni di varia provenienza, spessore e stagionatura. Ed archetti preziosi, materiali decorativi, vernici dalle formule segrete. Il liutaio ha così festeggiato, all’insegna di un’italianità affermata in terra canadese, le nozze d’argento di un mestiere a lungo sognato e diventato realtà solo in emigrazione. 19741999: Celebrating 25 Years of Violin Making era scritto all’entrata della mostra. Venticinque anni di passione, di dedizione e di sacrificio che gli hanno meritato il riconoscimento del paese di accoglimento. Perché Righele - con sorpresa ma anche forse a demerito dei connazionali - è soprattutto conosciuto e lavora in ambito canadese e nordamericano. Sono rarissimi se non inesistenti qui sia i maestri che gli studenti di origine italiana dediti a strumenti musicali classici, in particolare al principe degli strumenti, il violino. Qualche speranza potremmo riporre nei giovanissimi dell’ultima generazione, stimolati dai numerosi esempi di ragazzi orientali che affollano accademie musicali e sale da concerti. Essenziali sono in ogni caso la vocazione alla musica e l’incoraggiamento degli educatori: ma non si possono inventare. Per ora il nostro liutaio italocanadese serve egregiamente un mercato più vasto, 55


anche se a lui meno affine per origini e tradizioni. Righele riassume sobriamente la sua storia personale. Nato 57 anni fa a Santa Caterina, piccola frazione delle prealpi vicentine in comune di Schio, conseguito il diploma all’istituto tecnico professionale don Bosco di Verona, trascorse un breve periodo alla Lane Rossi di Schio. “Dopo il servizio militare, nel 1966 emigrai in Canada dove lavorai come meccanico” dice senza tanti dettagli. Sappiamo che aveva ventiquattro anni e un sogno insopprimibile in cuore: quello di potersi dedicare alla musica. “Cominciai a prendere lezioni di violino” aggiunge. Nel 1971 la svolta decisiva. “Il maestro mi fece conoscere il manuale di Heron Allen - Violin Making - e l’anno dopo, nel 1972, cominciai la costruzione del mio primo violino”. Il lavoro gli divenne più facile dopo aver acquistato (e letteramente assimilato, lascia intendere) il libro di Sacconi “I segreti di Stradivari”. Cominciò allora anche i suoi esperimenti con vernici e sistemi di graduazione. Sei anni dopo affrontò il giudizio degli esperti e del pubblico partecipando ad una competizione internazionale tenuta a Vancouver: era il 1978 e vinse due primi premi (viola e violoncello) ed un secondo premio per il violino. “Decisi allora di dedicarmi completamente alla costruzione ed al restauro degli strumenti ad arco, fino a quel momento solamente un hobby”. Seguirono altri concorsi ed altri premi. Nel 1980 cominciò a produrre anche archetti: per violini, viole e violoncelli. Di nuovo ebbe riconoscimenti e premi. La casa-bottega - dove lui lavora, e dove la moglie Clara e le figlie Elisa ed Elena condividono fatiche e successi - insieme con gli attestati d’onore racchiude tra l’altro una collezione di preziosi violini vecchi e nuovi, creati o restaurati con abilità e pazienza. Se non proprio come il maledetto “violino rosso” del film di Francois Girard, con le sue avventure ed i suoi personaggi - verosimili o immaginari - attraverso quattro secoli in luoghi diversi (Cremona, Vienna, Oxford, Shanghai, Montreal e New York) ognuno dei violini di Righele ha una sua storia originale da raccontare. Inizia con la scelta e la stagionatura 56


delle tavolette di acero e delle striscie di abete, alle quali si sono aggiunti negli anni e nel corso della lenta ed appassionata lavorazione materiali preziosi, come l’ebano e l’argento. Senza dire della tastiera, delle corde, della vernice e delle sue componenti. Nell’equilibrio armonioso di tutti questi fattori sta il segreto del suono inconfondibile dello strumento musicale. Il procedimento per far nascere un violino è lungo, complesso e delicato. “I violini - si dice - sono come le persone: non ne trovi due eguali”. All’origine resta però sempre l’Italia, con Brescia e soprattutto Cremona. Brescia, dove vissero i primi grandi liutai, costruttori di violini dal disegno piccolo, come Gasparo da Salò (ca. 1542-1609) e Giovanni Paolo Maggini (ca. 1580-1632). Cremona, dove nel medesimo periodo Andrea Amati fondò una dinastia di eminenti liutai, contribuendo a fare della sua città il più importante centro mondiale della liuteria violinistica. Il nipote Nicola, ritenuto il più grande artista della famiglia Amati, è stato maestro di Antonio Stradivari (ca. 1640-1737), definito “artista massimo d’ogni epoca e paese”. Attorno allo Stradivari fiorirono altri nomi importanti, come Carlo Bergonzi e Giuseppe Guarneri del Gesù. Righele dunque è in un certo modo legato indissolubilmente a Cremona, dove tra l’altro ha soggiornato anche di recente. “Fino ad oggi ho costruito 52 violini di quattro forme diverse, ispirandomi a modelli di Stradivari, Guarneri del Gesù ed elaborando una forma personale su stile Guarneri” dice con orgoglio. Ha inoltre al suo attivo nove viole di quattro dimensioni, sei violoncelli di tre forme diverse (Stradivari, Montagnana e Ruggeri) ed ha costruito una sessantina di archetti con montatura in argento. “Ancor oggi - dice a completare la descrizione del suo creativo mestiere - sto migliorando la formula della vernice basandomi su vecchie ricette di liutai italiani oltre che più moderne americane. Ma mi consolo pensando che anche Stradivari produsse i migliori violini dopo i sessant’anni....” Vancouver, ottobre 1999 57


Il Lions Gate Bridge visto da West Vancouver

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ALESSANDRA BITELLI vocazione di pittrice

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migrare a vent’anni può essere, oltre che una necessità, un’avventura. Le energie della giovinezza sono totalmente impegnate a sfidare l’ignoto, a vincere con slancio le difficoltà quotidiane in vista di un futuro sognato, tutto da costruire. La sofferenza del distacco dal proprio Paese e dalle cose care viene assorbita dall’entusiasmo della scoperta e dal bisogno di lavorare sodo e subito per vivere. Non c’è tempo e spazio per la nostalgia: la nostalgia è roba da vecchi, è un lusso per chi non ha niente da fare o si lascia andare ai sentimentalismi, rifugiandosi nel passato e perdendo così di vista questa-vita-qui, con legami e responsabilità assunti nel Paese di accoglienza. Emigrare a cinquant’anni è diverso, anche se non molto diverso: ci vuole un grande coraggio, specialmente quando la scelta avviene per necessità e sottende situazioni di disagio. All’entusiasmo e allo spirito di avventura (e senz’altro alla ridotte energie: trent’anni di consumo non sono pochi!) si contrappone la tormentata consapevolezza di dover “ricostruire” la propria vita e quella della propria famiglia in un contesto pur sempre estraneo, anche se teoricamente conosciuto e magari in precedenza esplorato. In ambedue i casi non è facile. Vi sono coinvolte persone degne di comprensione e rispetto. La storia dell’emigrazione italiana negli anni di piombo, fenomeno numericamente ridotto rispetto a quelli dei grandi esodi post-guerre mondiali, si sta rivelando importante agli effetti della presenza nel mondo della più moderna e aggiornata cultura italiana. Sono stati, quelli tra i Settanta e gli Ottanta, anni di guerra civile, di brigate armate non solo “rosse”, di vittime innocenti e di morti (valga di esemplificazione il delitto Moro, mai onestamente approfondito ed illuminato da 59


poterne conoscere, oltre alle apparenze politiche, le vere motivazioni). Di quel periodo e di quell’esodo - di professionisti, di imprenditori, di studenti, di ricercatori, di artisti - sarebbe ormai giustificato un approfondimento che corregga giudizi sommari, spesso superficiali, e ristabilisca la verità sulle realtà umane di tanti esuli sparsi per il mondo. Crediamo che l’Italia democratica e repubblicana abbia un dovere di giustizia e di riconoscenza anche verso questi suoi figli, respinti o perduti in anni difficili, tuttavia accettati e valorizzati dalle società di accoglimento, nelle quali testimoniano e sviluppano cultura, impegno e vitalità non indifferenti: lo fanno all’insegna di una italianità sofferta, ma dialogante al contatto con altre civiltà e culture, in uno scambio fecondo che significa multicultura in crescita qualitativa. Non solo perché, da artista qual è, scorge e valorizza la luce anche laddove gli altri vedono banale normalità, ma anche per la sua storia personale e familiare ricca di esperienze significative, Alessandra Bitelli costituisce una dimostrazione esemplare di quanto appena affermato. Tipica figlia della sana borghesia piemontese, arrivando cinquantenne in Canada con il marito medico e i due figli universitari, dovette “ricostruire” la propria vita e quella della propria famiglia in un contesto assolutamente differente da quello di nascita e di educazione. Lo fece con innegabile stile. Superò le inevitabili difficoltà rimanendo saldamente ancorata ai valori della fede che avevano illuminato fin dai primi passi il suo cammino. E mai abbandonò il sogno di rincorrere la bellezza attraverso l’arte pittorica, in cui e per cui era nata e cresciuta. Nel 1977 suo marito, il dottor Renato, era ormai in età pensionabile. I giovani Alessandro e Giovanni rincorrevano la realizzazione del proprio futuro cercando di sottrarsi alle improbabili dispute all’interno di università fortemente politicizzate. La famiglia Bitelli decise di trasferirsi in Canada. Appare evidente che la decisione di emigrare avvenne - come per altre 60


famiglie arrivate a Vancouver o altrove in quel periodo - in funzione dei figli, oggi professionisti affermati. Alessandra, che da sempre aveva posposto la propria attività di artista all’impegno di moglie e madre, trovò finalmente tempo e spazio per realizzare compiutamente la propria vocazione pittorica. Scoprì l’affascinante ricchezza degli acquerellisti nordamericani e si rimise a studiare. In breve quell’allieva dotata e sensibile, esigente e determinata, divenne esperta maestra. I suoi corsi, seminari e workshops sono ambiti e frequentati ovunque in British Columbia. Il suo stile pittorico è inconfondibile, tutto armonia e profondità di visione. Ogni sua mostra personale si rivela di grande successo. La sua presenza vale a qualificare le collettive dei colleghi. Ha ottenuto numerosi premi e riconoscimenti. Nel 1997 è stata anche nominata presidente della Federazione degli Artisti Canadesi, incarico cui ha rinunciato solo qualche mese fa. Oggi Alessandra Bitelli è un nome riconosciuto e rispettato nel mondo artistico non solo canadese, ma nordamericano. Secondo la professoressa Grazia Merler, direttrice della galleria d’arte della Simon Fraser University e docente di francese presso la stessa università, la visione della Bitelli è contraddistinta dal canone della bellezza, oltre che dal prediligere l’aspetto del sacro insito nella realtà creativa. Nel catalogo dedicatole in occasione di una personale alla SFU, è bene illustrato questo punto. Vi è anche sottolineata - stavolta dal critico d’arte Flemming M. Larsen - l’energia impiegata dall’artista per fare di ogni opera un lavoro perfettamente compiuto: “Alessandra Bitelli explores and expands contemporary art without fear of traditional influences or practices” (Alessandra Bitelli esplora ed espande l’arte contemporanea senza temere la tradizione). Uno dei segreti è quello di bilanciare sapientemente realtà e astrazione, riuscendo a coinvolgerci emozionalmente, intellettualmente e sensualmente. Di Tradition, Reality, Abstraction - così era intitolata la recente mostra alla Simon Fraser - facevano parte alcune pre61


ziose miniature e alcuni disegni in bianco e nero del periodo torinese, oltre che una trentina fra recenti acquerelli, acrilici e misti. Notevoli in particolare per il significato filosofico oltre che per l’accuratezza di esecuzione le Stone Stories: da quelle grigio-azzurrine del 1991, dove la pietra con la sua luce fredda e astratta sembra ancora tutta da rivelarsi, a quelle giallo-ocra della grotta del pastore del 1996, alla brunita consistenza di una ruvida e bellissima scala dipinta nel 1997 (dove il mistero del dolore è oltre quella luce da raggiungere in salita), per concludere con i caldi colori delle pietre assemblate in apparente disordine ma bilanciate con disinvolta confidenza nella storia numero tredici, eseguita nel 1999. Viene spontaneo un riferimento alla Lettera agli artisti di Giovanni Paolo II - egli stesso artista perché poeta, scrittore, attore e commediografo - diffusa nel giorno di Pasqua 1999. “Nel modellare un’opera, l’artista esprime di fatto se stesso a tal punto che la sua produzione costituisce un riflesso singolare del suo essere, di ciò che egli è e di come lo è”. E ancora: “Nell’arte egli trova una dimensione nuova e uno straordinario canale d’espressione per la sua crescita spirituale. Attraverso le opere realizzate, l’artista parla e comunica con gli altri. La storia dell’arte, perciò, non è soltanto storia di opere, ma anche di uomini. Le opere parlano dei loro autori, introducono alla conoscenza del loro intimo e rivelano l’originale contributo da essi offerto alla storia della cultura”. Fra il 1990 e il 1992 Alessandra Bitelli si era dedicata alla realizzazione di 26 grandi vetrate per la nuova chiesa del Cristo Redentore (Christ the Redeemer Church) in West Vancouver. “Per due anni - ricorda il figlio Giovanni - mia madre ha lavorato in un piccolo garage, sforzandosi di unificare l’espressione artistica con il messaggio divino. Lassù in alto, sopra i banchi dei fedeli, le sue vetrate riflettono delicate luci colorate: sono insieme arte e silenziosa preghiera”. West Vancouver, gennaio 2000 62


MARIO BERNARDI la musica è la sua vita!

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uongiorno, maestro. Tutt’intorno si parlava solamente inglese, in quel primo pomeriggio di una domenica di fine estate al Chan Centre for the Performing Arts della UBC. Numerosi ammiratori del celebre direttore d’orchestra si accalcavano per salutarlo, o solamente vederlo da vicino, durante l’intervallo di un prezioso concerto dedicato interamente a Mozart, il suo autore preferito. Mario’s Mozart era, infatti, il titolo del programma. “Buongiorno... ma lei è italiana?”.
“Italiana e canadese, vivo a Vancouver... e lei...”.
“Sono nato in Canada da genitori trevisani. Mamma e papà erano di Asolo...”.
“Allora conosce anche la lingua veneta, io sono di Vicenza”.
“Mio zio è stato vescovo di Vicenza! Don Arnoldo era fratello di mia mamma, Rina Onisto e ...el xe sta el me primo maestro de musica”. La seconda parte del concerto stava per iniziare. Le poche battute scambiate con il maestro Mario Bernardi mi avevano aperto uno squarcio di luce su un personaggio ricco di umanità e disponibile al colloquio. Da anni seguivo e ammiravo il suo straordinario impegno in campo musicale. Pur essendo spesso a Vancouver - tra l’altro è dal 1983 primo direttore dell’orchestra locale della CBC (Canadian Broadcasting Corporation) non lo avevo mai avvicinato personalmente. Da anni andavo ai concerti da lui diretti e ascoltavo alla radio le sue squisite interpretazioni di Mozart, Stravinsky, Mendelssohn, dei capolavori barocchi. Tuttavia provavo il vago timore di essere indiscreta, anche se una certa indiscrezione fa parte del mestiere di giornalista. Stavolta quel deciso anche se sommesso “Buongiorno, maestro” mi aveva portato fortuna. Infatti ci saremmo incontrati di nuovo il mese dopo, ad un altro concerto da lui diretto. Ancora durante l’intervallo, ma stavolta per una chiacchiera63


ta in camerino (una specie di semi-intervista) alla presenza di qualche amico. Altre confidenze, altre note biografiche italiane e venete. E tanta intelligente spontaneità. “In collegio a Treviso i miei compagni mi chiamavano il figlio del padre spirituale... che era mio zio”. Più tardi suo zio divenne rettore del collegio Pio X. “Dopo la morte del papà, la mamma andò in Italia ad aiutare lo zio. Quando si ammalò dovemmo riportarla in Canada per curarla. Era nata ad Asolo nel 1904 ed è morta a Toronto circa 10 anni fa”. Che cosa straordinaria ascoltare un linguaggio così essenziale, così ricco di profonda semplicità, dal più celebre direttore d’orchestra del Canada. Mario Bernardi non mi parla della sua carriera artistica, non dice nulla delle centinaia di opere e di concerti diretti, in Canada e nel mondo, non della ricca discografia che lo riguarda, né delle numerose onorificenze ricevute. Due fra tutte: nel 1972 era stato chiamato a far parte dell’Ordine del Canada e, appena nello scorso dicembre, ha ricevuto l’ambito premio del Governatore generale per l’eccellenza nell’arte dello spettacolo (Governor’s General Award for the Performing Arts). Assolutamente singolare il suo contributo alla vita culturale del Canada: è stato ideatore e fondatore nel 1969 della famosa National Arts Centre Orchestra a Ottawa, da lui diretta per tredici stagioni e fatta conoscere nel corso di tournée musicali negli Stati Uniti, in Messico, Europa e Russia. È stato direttore artistico del Summer Opera Festival canadese: venti opere messe in scena tra il 1971 e il 1982. Possiamo appena immaginare la mole di lavoro svolto tra il debutto nel 1957 come direttore d’opera - con Hansel e Gretel di Humperdinck - e il più recente tour europeo con Cecilia Bartoli. Per non dire dell’appena conclusa stagione operistica in Alberta, dove ricopre l’incarico di Conductor Laureate della Calgary Philarmonic. All’inizio del suo curriculum artistico appaiono Un ballo in maschera e Boheme con la San Francisco Opera, e il Rinaldo al Metropolitan. Il suo repertorio operistico 64


è enorme e comprende Auber, Beethoven, Bizet, Britten, Delius, Donizetti, Haendel, Massenet, Monteverdi, Mozart, Puccini, Rossini, Johann Strauss, Richard Strauss e Verdi. “Hanno deciso che, come italiano, dovevo dirigere l’opera”, dice sorridente. Aveva studiato al Conservatorio musicale di Venezia dove era diventato un eccellente pianista, logica conseguenza delle prime lezioni impartitegli dallo zio prete. “Mio zio - racconta il maestro Bernardi - era un uomo di ammirevoli qualità. Non aveva mai un soldo in tasca perchè dava tutto quello che aveva ai mendicanti che lo seguivano dappertutto. Mi ricordo che quando era parroco del duomo di Treviso, il suo cappellano aveva una macchina: mio zio invece andava in bicicletta. Era un avido amatore della montagna e i nostri soggiorni a San Martino di Castrozza e in altri posti sono tra i miei ricordi più vividi e piacevoli degli anni passati in Italia, dal 1936 al 1947. Più che da zio, mi fece da padre, confidente, maestro e amico”. 1 E di suo padre che cosa ha da dire Mario Bernardi? “Mio papà ebbe il coraggio e il genio di insistere che i suoi figli venissero educati in Italia, anche se ciò richiese enormi sacrifici per lui. Infatti visse da solo per undici anni! Si può immaginare quanto deve aver sofferto, specialmente durante la guerra, senza notizie dalla sua famiglia. È grazie a lui se oggi sono un musicista: certo, questo non sarebbe stato possibile se fossi rimasto in Canada”. Rientrato a Toronto dopo undici anni di soggiorno in Veneto, il giovane Bernardi completò gli studi al locale Royal Conservatory. Erano gli anni Cinquanta. La seconda ondata migratoria italiana si stava riversando anche sul Canada, dove i suoi genitori erano arrivati oltre vent’anni prima. “Mio papà aveva assunto la cittadinanza canadese prima di sposarsi con mia mamma ad Asolo nel 1929 - racconta ancora Mario Bernardi - perciò anche lei fu considerata canadese al momento di toccare il suolo canadese. Ergo: sono figlio di due canadesi!”. Bernardi è sposato con la mezzosoprano lirica Mona Kelly, 65


di origine irlandese: hanno una figlia, Julia Lisa Purdy, nata a Londra nel 1969. “Si è sposata circa due anni fa con un bravo ragazzo” informa paternamente. Aggiunge anche di avere una sorella, Clara, che “fino all’anno scorso ha lavorato al municipio di Toronto come traduttrice e interprete per i molti italiani che vivono qui”. E poi a Montréal c’è il fratello Joseph, “cinque anni più giovane di me e già in pensione. Fece carriera come ingegnere, lavorando in varie cartiere nel Quebec: ha due figli anche loro ingegneri”. È bello scoprire un tale senso della famiglia in un uomo così esposto alla vita spesso fatua di tante celebrità dell’arte e dello spettacolo. Il suo approccio umano lascia sbalorditi. Il segreto sta forse nella ricca formazione spirituale ricevuta oltre che nella consapevolezza di potersi naturalmente esprimere e quindi comunicare nel linguaggio universale della musica. Quella musica di cui non ha bisogno di parlare perché lui ne è parte inscindibile, basta osservarlo mente dirige: sembra un fine cesellatore di gioielli da far brillare affinché tutti ne godano. Nulla su di sé, nessun gesto spettacolare, solo un grande e profondo rispetto per l’autore e per il pubblico di appassionati e intenditori. Il Maestro manifesta apertamente l’orgoglio delle origini. “Sono fiero di essere suo figlio - mi aveva detto parlando di suo padre - e fiero di essere italiano. Il mio solo rammarico è di non poter avere la cittadinanza italiana, o almeno così mi hanno detto”. Se la legge è davvero in funzione dell’uomo perché dunque non provvedere? Vancouver, marzo 2000

Arnoldo Onisto (1912-1992). Vescovo di Vicenza dal settembre 1971 al febbraio 1988. Per 14 anni direttore spirituale nel collegio vescovile San Pio X di Treviso e rettore dello stesso dal 1962 al 1971.

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BORTOLO MAROLA destino d’autore

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nni cinquanta. Una compagnia nazionale di assicurazioni bandisce un concorso di disegno tra gli scolari delle elementari italiane. “Gli uccelli della vostra zona” il tema. Un bimbo di sette anni esegue tre dipinti, uno per sé e due in aiuto a compagni di classe. Il giorno dell’annuncio della selezione, nella piccola scuola del chiuppanese, in provincia di Vicenza: terzo premio ad uno dei due amici.... secondo premio all’altro... Il piccolo autore a questo punto esplode, alza la voce e protesta: “Quello è mio! l’ho fatto io quel disegno!! e anche quell’altro!!!”. La maestra interviene: “Buono, Bortolino... sta calmo... ora viene il primo premio: l’hai vinto tu!” Così è iniziata la rivelazione pittorica di Bortolo Marola, la cui recente “personale” al Centro culturale italiano di Vancouver ha richiamato il consueto interesse di pubblico e di critica. Sono trascorsi decenni e ci troviamo a diecimila chilometri da quel luogo e da quel significativo episodio. “Ho sempre creduto - dice Marola - che uomini e donne siano al mondo per compiere un destino. Alla nascita gli individui sono nudi e piangenti, ma già contengono doni e abilità conferiti loro dal Creatore. Il resto è nelle loro mani: scoprire questi doni e utilizzarli al meglio, non sperperandoli. Mi accade talora di dipingere tele ed acquerelli come non ne fossi io stesso l’artefice, ma chi invece crede in me. Sono sentimenti intimidatori, ma mi danno anche la forza di proseguire”. E dopo aver rievocato un brutto incubo notturno sofferto anni indietro, conclude affermando: “Mi svegliai e mi sentii finalmente bene: da quel momento seppi come non mai che il mio destino sarebbe passato attraverso la mia arte”. Marola è nato nel 1947 a Marola di Chiuppano. Aveva nove 67


anni quando con la madre, Maria, e un fratello minore lasciò l’Italia per raggiungere a Dawson Creek, nel nord delle foreste britishcolumbiane, il padre emigrato. Con laboriosità e preveggenza, Ermenegildo Marola stava predisponendo la strada del futuro per la giovane famiglia: la desiderava lontana dai giorni oscuri della dittatura e dalla prove sconvolgenti della resistenza, che l’avevano visto direttamente coinvolto. Bortolo trascorse gli anni dell’adolescenza e della giovinezza studiando e lavorando. Si diplomò alla Kootenay School of Art e si perfezionò poi alla American School of Art in Minneapolis, Minnesota. Trasferitosi più tardi a Vancouver, si iscrisse anche i corsi di belle arti del Douglas e del Kwantlen College, dove ottenne il Fine Arts Diploma. Per decenni grafico pubblicitario presso la Pacific Press, editrice dei due importanti quotidiani locali (The Vancouver Sun e The Province), è riuscito a far convivere l’impegno professionale con l’attività pittorica, mostre e commissioni incluse, decidendo solo di recente - e in età non ancora pensionabile - di dedicarsi esclusivamente alla ricerca artistica. “Per me - confida l’artista - questa “personale” al Centro è molto importante. Da cinque-sei anni non espongo così estesamente: è la prima consistente esibizione dopo aver lasciato il lavoro al giornale per perseguire la mia arte a tempo pieno. Dipingere, sia ad acquerello che ad olio che in acrilico, non mi è mai venuto così spontaneo. Composizione, combinazione di colori e reazione del pubblico non sono più elementi di preoccupazione e ostacoli al mio procedere: semplicemente accadono”. A Dawson Creek Bortolo aveva sposato, ventunenne, la ragazzina dei suoi sogni, Judy, una compagna di scuola diventata nel tempo un’efficiente businesswoman. Vivono a White Rock, la cittadina canadese sul 49mo parallelo lungo la costa del Pacifico, al confine con gli Stati Uniti. Hanno due figli: Carmen, di 28 anni, laureata in lingue e belle arti, sposata dall’anno scorso, e il ventitreenne Aron, studente di ingegneria. Padre e figlio sono reduci da un recente “viaggio della memoria” in 68


Italia, Francia e Spagna. Insieme sono andati alla riscoperta oltre che della civiltà europea che ambedue avvertono come parte importante di identità - delle antiche radici del casato dei Marola: ne hanno trovato tracce non solo nel paesino omonimo delle colline beriche, in visita ai parenti, ma anche nel territorio francese della riviera ligure. Il cognome potrebbe inoltre avere un’antica derivazione spagnola: onda del mare (“mar-ola”). La famiglia Marola è infatti orgogliosa di un simbolo araldico risalente al tredicesimo secolo. Lungo l’affascinante percorso Bortolo ha preso appunti ed eseguito schizzi di paesaggi mediterranei: costituiscono l’essenza di questa sua mostra vancouverita, comprensiva di un grande olio (Mission roses) ispirato all’architettura spagnola, sei acrilici di intensissimo colore (tra cui Gold on a Tuscan hillside, French poppies e Poppies along a roman road) e diciannove sognanti acquerelli dettatigli dalla natura della West-coast, un ambiente meglio conosciuto dall’autore e realizzati nella tecnica sicuramente a lui più congeniale. Egli stesso afferma: “Gli acquerelli sembrano venirmi più facilmente.... ma sono davvero felice di misurarmi anche con gli acrilici”. “Ho voluto tornare ad esporre al Centro culturale italiano perché esso mi ha sempre portato fortuna, perché la comunità italiana mi ha sempre incoraggiato e sostenuto, ma soprattutto perché volevo condividere questa occasione con la mia gente e con tutti coloro che, attraverso la mia arte, mi sono diventati amici.... Se un messaggio c’è, è il seguente: il mio lavoro è quello che è, o è diventato, perché - essendo io sia italiano che canadese - non sono totalmente né questo né quello, ma offro la mia personale interpretazione del mondo che mi circonda attraverso molte, anche se tuttora sconosciute, destinazioni. Vorrei non costituire una stella che brilla e scompare, ma lasciare una testimonianza del mio impegno e del mio contributo. E guardando indietro, poter dire un giorno I made a difference”. L’ultima affermazione contiene un segreto non ancora rivelato al pubblico. Bortolo Marola sta scrivendo un libro attra69


verso il quale si propone di dimostrare come e quanto la maggioranza degli italiani, anche quelli costretti ad andare esuli per il mondo, abbia lottato per la libertà e la democrazia. Dedicato ad episodi della resistenza nella pedemontana vicentina (raccolti dalla viva voce del padre e della madre, di parenti e compaesani oltre che frutto di ricerche storiche) è la riflessione di un uomo che non vuole vada dimenticato nulla di un passato che ha preceduto la sua stessa nascita e l’emigrazione fanciulla. Sono pagine - come la descrizione immaginaria del supplizio e della morte del comandante partigiano “Silva”1 - di suggestiva forza e poesia. Marola scrive come dipinge, o addirittura meglio. La letteratura canadese di lingua inglese potrà trarne beneficio: ma sarà soprattutto, la sua, una preziosa testimonianza per le più giovani generazioni. White Rock, luglio 2000

1 Francesco Zaltron, nato a Marano Vicentino il 14.3.1920, morto a Calvene il 28.3.1945. Comandante della “Mazzini” che operava nell’altopiano dei Sette Comuni e nella Pedemontana. Medaglia d’oro al valor militare (con Giacomo Chilesotti, Giovanni Carli, Rinaldo Arnaldi ed altri).

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RAYMOND CULOS storico comunitario

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o storico della comunità italiana, Raymond Culos, il cui libro Vancouver’s Society of Italians tanto interesse ha suscitato e non solo in ambito italocanadese, sta lavorando alla messa a punto del secondo volume, che dovrebbe uscire l’anno prossimo. L’attesa è grandissima, anche perché più vicina è la storia, più vivo è l’interesse dei suoi protagonisti, molti dei quali tuttora attivi nella comunità. Illustrerà e documenterà gli anni che vanno dal 1966 al 2000: dall’unificazione delle prime società (Figli d’Italia, Veneta, Vancouver Italian-Canadian) alla nascita turbolenta, nel 1977, dell’Italian Folk Society funzionale alla creazione del Centro culturale italiano, nel quale confluiscono oggi una quarantina di associazioni.
 Il primo volume, frutto di un’accurata e lunga ricerca in archivi privati e pubblici, contiene cronache, commenti, interviste, documentazione fotografica e bibliografica sull’origine e sulla dinamica delle locali associazioni italiane dall’inizio del secolo al 1966. È la storia dei pionieri e del loro coraggio. Fornisce esempi di fraternità e solidarietà in un contesto difficile se non ostile, per nulla paragonabile all’attuale, che è di ammirazione per gli italiani e la loro identità culturale. Il clima odierno è di aperto riconoscimento per i contributi dati alla crescita della metropoli e della società multiculturale. Allora, invece, essere italiani nel mondo costava spesso emarginazione, rigetto, umiliazione. Alcuni modificarono i loro cognomi, anglicizzandoli. Erano i tempi in cui le famiglie emigrate erano abbandonate a se stesse: cessava spesso la comunicazione con gli stessi parenti rimasti in Italia, e dalla madrepatria non arrivavano certamente aiuti. Unici punti di aggregazione erano la chiesa e l’associazione. Nella fede e nell’unione stava quindi la 71


forza di vincere la sfida di un mondo ignoto, seppure per molti aspetti accogliente. La nuova casa, agli inizi precaria, sarebbe diventata solida. Sarebbe col tempo diventata la nuova patria. È interessante a questo proposito riandare ad alcuni particolari della storia personale dell’autore e della sua famiglia. Raymond Culos - Ray per gli amici - è nato a Vancouver nel 1936 da genitori attivamente impegnati nella Sons of Italy Mutual Aid Society, prima associazione italiana di Vancouver (fu fondata nel 1904). Dopo gli studi superiori ha lavorato per 37 anni in posizioni manageriali per i quotidiani Vancouver Sun e Province. È ora in pensione e si dedica alla ricerca storica, favorito in questo da una naturale predisposizione ed anche dal libero accesso alla miniera di informazioni contenuta negli archivi messigli a disposizione dal gruppo editoriale Southern Newspaper e Pacific Press, suo ex datore di lavoro. Fattori importanti della sua esperienza sono senza dubbio l’educazione ricevuta, il tirocinio fatto in famiglia, la conoscenza delle vicende comunitarie e l’associazione a due importanti organismi quali il Centro culturale italiano e la Confratellanza italocanadese.
 “Ho deciso nel 1992 di documentare la storia sociale della nostra comunità per parecchie ragioni, la più importante delle quali era il desiderio di comunicare in profondità con i miei anziani genitori, testimoni oculari degli anni passati”, mi confida Ray. “Mio padre Marino e mia madre Phyllis hanno contribuito in modo davvero significativo alla vita dell’originaria comunità italiana di Vancouver. Papà entrò nella Figli d’Italia nel 1926 e continuò a servirla come consigliere per molti dei rimanenti 40 anni della società. Per nove anni ne fu anche presidente. Mia madre fu tra le fondatrici, nel 1926, della Lega Femminile Italiana, della quale divenne presidente, incarico che mantenne a lungo. In seguito presiedette anche la Lega affiliata nel 1966 con la Confratellanza Italo-Canadese”. Il primo breve capitolo del volume Vancouver’s Society of Italian è intitolato Farewell Marino (Addio Marino), e de72


scrive il generale rispetto manifestato al funerale di Marino Culos, deceduto a 91 anni il 15 settembre 1995. Più di recente, il 6 agosto scorso, se n’è andata anche Phyllis (Felicetta), rimpianta da una folla di parenti, amici ed estimatori. Era nata nell’Illinois nel 1910 e aveva appena quaranta giorni quando fu portata a Vancouver dai genitori, Artemisia e Saverio Minichiello, anch’essi tra i pionieri della prima emigrazione italiana nell’America del nord. Marino aveva sei anni quando con la mamma Fiorina, uno zio e tre fratellini giunse a Vancouver, dove Pietro Culos (il nonno di Ray) li aveva preceduti. Era il 1910 e venivano da San Giovanni di Casarsa, in Friuli. All’inizio del 1900 il clan dei Culos era costituito da cinquanta componenti, troppi per un’abitazione di soli due piani. Il “patriarca” della numerosa famiglia aveva chiesto ad alcuni dei figli di lasciare la casa natale... non è la prima volta che in emigrazione sentiamo raccontare storie simili. Oggi i discendenti vanno alla ricerca delle origini, vogliono conoscere le ragioni di fondo della diaspora che ha allontanato tanta gente laboriosa e onesta, senza prospettive di sopravvivenza se non di affermazione nella propria terra. Pur essendo cittadini leali di altre patrie, hanno dentro di sé una sorta di curiosità e di affetto per i luoghi da cui sono partiti i loro antenati. Vogliono vedere e sapere. Ray Culos appartiene fondamentalmente a questa specie, anche se il suo itinerario, e soprattutto il suo impegno, sono del tutto eccezionali.
 “Nonostante sia stato arruolato nella sezione giovanile della Figli d’Italia, quando avevo nove anni, non ho scoperto il mio amore per il retaggio italiano fintantoché non ho visitato l’Italia, nel 1976”, mi dice. “Essere in Italia, incontrare i parenti, è stata per me un’esperienza di assoluto risveglio. Ha profondamente influenzato me stesso e le mie prospettive. Anche Judy, mia moglie, ne è stata positivamente impressionata: una felice coincidenza”. Anche per questa ragione il nostro autore si è messo al lavoro: per non lasciar perdere nulla della storia passata, per documentare “la magnifica era dei pionieri italiani 73


di Vancouver”. L’ha fatto con amore e riverenza filiale uniti a rigore scientifico. La giudice Dolores Holmes, figlia del famoso Angelo Branca, fondatore nel 1966 della Confratellanza Italo-Canadese, nella prefazione al primo volume dell’opera ha scritto che la ricerca di Culos costituisce un’impellente storia sociale, essendo il primo esauriente libro di questo genere: un osservatorio privilegiato dall’interno di un’essenziale e interessante componente della tradizione culturale di Vancouver. “Il libro preserva per la posterità i nomi dei molti individui che hanno lottato per conquistare l’accettazione della loro unica eredità culturale da parte della grande comunità canadese. Non è giusto che siano ricordati? Dopotutto - afferma Ray sono stati loro a pavimentare la strada per le successive generazioni di italocanadesi che possono oggi godere, in partnership quali cittadini, una delle più invidiate società del mondo!”. Vancouver, novembre 2000 Vancouver’s Society of Italians Volume II La comunità italiana di Vancouver ha accolto con grande interesse il secondo volume della propria storia, quella compresa tra il 1967 e il 2001: Vancouver’s Society of Italians by Raimond Culos, Harbour Publishing 2002. Come il primo volume, anche il secondo è in edizione rilegata: 308 pagine suddivise in due parti, trenta capitoli corredati da 350 fotografie e il contributo di ben 115 personaggi attivi nella comunità, oltre a un dettagliato indice di nomi e località. La prefazione è a cura della scrivente. E intende suggerire un orientamento e un modo per una serena e costruttiva lettura delle pagine, alcune particolarmente scottanti, ricostruite e documentate da Ray Culos “ad interesse di quanti sono orgogliosi della loro discendenza italiana e considerano importante lasciare un’eredità di storia comunitaria alle successive generazioni”. In questo secondo volume di Vancouver’s Society of Italians, la locale comunità viene descritta attraverso le moltepli74


ci associazioni e i moltissimi personaggi che vi hanno operato e vi operano. La narrazione prende avvio dalla cessazione, nel 1966, della Sons of Italy Mutual Aid Society e la contemporanea fondazione della Confratellanza Italo-Canadese con le sue attività e i suoi programmi, in parte rivolti alla realizzazione di una Casa d’Italia. E rievoca la nascita, nel 1974, della Italian Folk Society of British Columbia diventata nel 1977 il Centro Culturale Italiano di Vancouver, importante punto di riferimento per gli italiani qui residenti e per la più vasta comunità multiculturale. Mediante un’accurata e ricca documentazione, l’autore esplora, in maniera brillante e scrupolosa, i trentacinque anni che ci separano da oggi, mai perdendo di vista lo scopo costruttivo della sua impresa. Mi sembra tuttavia opportuno richiamare l’attenzione del lettore su quanto segue. Se i contenuti del primo volume riguardavano la storia comunitaria, quelli del secondo si riferiscono in gran parte all’attualità. Qui ci si muove nella cronaca, nel divenire. Resta tuttavia fondamentale il dovere di equilibrio e di obiettività. Ray Culos ha risolto il difficile problema ricorrendo, oltre che ai molti ritagli-stampa, alle interviste dal vivo: la particolarità dei personaggi – con le idee da loro direttamente espresse e gli episodi narrati – risalta in maniera fedele, suscitando curiosità e interesse, ma soprattutto lasciando libero il lettore di esprimere o meno giudizi di merito. Vancouver, marzo 2002 Vancouver’s Society of Italians Volume III È stato messo in diffusione da metà settembre 2006 il terzo volume di Vancouver’s Society of Italians di Ray Culos, a cura dell’editore Cusmano di Montreal. Duecento pagine di cronaca e documentazione riguardanti soprattutto la più visibile istituzione italiana di Vancouver: il Centro culturale italiano. Alla vigilia dei 30 anni dalla fondazione, la realtà e gli interrogativi 75


sul futuro del Centro vengono esplorati in dieci capitoli e 40 profili di personaggi, il tutto arricchito da decine di fotografie. Il filo conduttore di questo terzo volume appare essere una sorta di interrogativo: quale il futuro del Centro comunitario? come e quale, dopo trent’anni di presenza e di impegno, di speranze e delusioni, di attese e realizzazioni? quale e come il futuro difronte alla quasi-totale assenza delle più giovani generazioni? Il libro costituisce perciò un esame di coscienza e nello stesso tempo dovrebbe essere di stimolo agli onesti e ai volonterosi per inventare e percorrere nuove e feconde vie di apertura, senza con ciò rinnegare il passato, cioè la storia sulla quale si basa il presente che è naturale fondamento del futuro. Vancouver, settembre 2006

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ERVIO SIAN fotografo della natura

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ato a Udine alla vigilia degli anni Trenta, emigrato poco più che ventenne in Canada, si è conquistato in Nord America la fama di straordinario fotografo della natura. “Ci sono molti fotografi in possesso del talento dell’osservazione, ma ce ne sono pochissimi che sanno unire iniziativa entusiastica e perseveranza: Ervio Sian è di questa razza rara”, ha scritto tempo addietro l’autorevole critico Janis A. Kraulis. La Federation of British Columbia Naturalistis ha definito Sian “uno dei più importanti fotografi della natura del Canada”. Fotografie da lui scattate sono apparse su National Geographic, New York Times, Audubon Encyclopedia. Ha collaborato all’illustrazione di pubblicazioni prestigiose, come Island at the Edge, con prefazione di Jacques Cousteau, dedicato alla preservazione della natura unica delle Queen Charlottes Islands. Altri libri di successo (Artic Mountain in Canada, The Canadian Rockies, Orcas Eagles & Kings) contengono splendide immagini da lui catturate. Tra i numerosi premi e trofei ottenuti nel corso di una lunga carriera, annovera una medaglia d’oro degli Stati Uniti per una Best Picture of the Year e l’ambitissimo Four Star Award for Best Nature Photograph, rilasciatogli dalla Photographic Society of America. Se gli italiani in Italia fossero davvero informati sulla realtà degli italiani nel mondo, quale tesoro di conoscenza potrebbero aggiungere a quanto imperfettamente sanno dei loro fratelli esuli! Gli emigrati nei vari Paesi hanno contribuito, lavorando e testimoniando, alla crescita delle società di accoglienza diventandone parti attive e feconde. La conoscenza è invece carente per mancanza di reciproca e onesta comunicazione, ma anche a causa della scarsa informazione, generalmente ispirata a stere77


otipi, volutamente disinteressata alle nostre vicende, snobbate spesso con aria di superiorità. In Italia ci si preoccupa solo delle rivendicazioni politiche ed economiche, quelle sì fanno notizia. Non senza malinconia vediamo invece minimizzati i contributi nei settori dell’arte, della cultura, dell’informazione, delle relazioni sociali. Il dubbio che la sovrabbondanza italiana sia tale da non accogliere null’altro, da non riservare curiosità e interesse per quanto avviene altrove, nasce quindi legittimo. Di ex-emigranti meritevoli e sconosciuti è tuttavia pieno il mondo, basta saperli scoprire. Ma occorre avere la pazienza e la costanza del cercatore d’oro. Ervio Sian è come una pepita mimetizzata tra la ghiaia e i ciottoli trascinati dalla corrente del grande fiume. Perché è un uomo modesto, che non si vanta dei propri conseguimenti professionali e artistici, da lui considerati normalità. Nelle sue foto tuttavia (ne ha un archivio immenso, catalogato in anni di certosina e silenziosa dedizione) non c’è solo documentazione fedele e perfezione tecnica, c’è tutta la magia derivante da un insopprimibile amore per la natura e le sue creature. Francescano? Può anche essere, quando quest’amore si sposa all’assoluto disinteresse per la speculazione economica, all’assenza totale di venalità. Per alimentare e mantenere una passione diventata arte, Ervio Sian ha lavorato per un trentennio - fino al recente pensionamento - come orticoltore alle dipendenze della City of New Westminster, una vasta municipalità a sud-est della Vancouver metropolitana. Opera sua sono le magnifiche aiuole dei giardini pubblici, i mosaici floreali ispirati a varie specie di volatili, gli angoli fioriti dei parchi e le fantasiose decorazioni delle zone gioco per i bambini, per le quali ha perfino scolpito dei totem, meritandosi il riconoscimento ufficiale della locale comunità di indiani nativi, gelosi conservatori dei pali totemici delle tribù di appartenenza. È interessante anche ricordare che, alla vigilia del pensionamento, questo impareggiabile personaggio aveva dichiarato: “Debbo proprio andare in pensione, ho troppo lavoro da fare!”. Potrebbe apparire strana questa reciprocità di 78


interessi: da una parte il lavoro che alimenta e mantiene l’hobby, dall’altra l’hobby che diventa qualificata attività professionale. Ma anche questo è il Canada. Quando i naturalisti della U.B.C. richiedevano la presenza di Sian per fotografare, nei luoghi più strani del territorio britishcolumbiano, specie rare di anfibi, mammiferi, rettili, uccelli, telefonavano alla City of New Westminster e.... “l’orticoltore” si metteva in viaggio... per giorni, per settimane. Con tutta la fatica, la pazienza e i rischi connessi ad una vita di isolamento, all’interno di foreste incontaminate e sconosciute, appeso per ore ed ore con le sue macchine fotografiche e le sue attrezzature telescopiche e telecomandate ad altissimi fusti di piante millenarie, o mimetizzato sotto il suolo ad aspettare in silenzio l’arrivo dell’animale predatore. Nelle fotografie più significative di Ervio Sian (una scelta delle quali è stata esposta recentemente al Centro culturale italiano nella mostra dal titolo Magic of Nature, curata da chi scrive) emerge la commovente predilezione dell’autore per i gruppi familiari degli uccelli. Le immagini dei nidi di aquile, falchi, anitre e oche selvatiche sottendono una speciale tenerezza per il senso di maternità/paternità insito in queste creature e insieme il feeling creatosi con il fotografo: sono in difesa per proteggere i loro piccoli, ma anche disponibili al contatto umano. Sian racconta che, quasi a tastarne l’inoffensività, capitava che gli volassero a lungo intorno per planargli finalmente in mano. Un volatile infreddolito si infilò un giorno nel risvolto della giacca a vento, riposandovi tranquillo. “Sian attribuisce l’entusiasmo per il proprio lavoro all’amore per gli uccelli radicato nella cultura italiana”, ha scritto tempo addietro un giornalista inglese, che ha però anche aggiunto: “Può sembrare strano da una parte amare gli uccelli e dall’altra amarli al punto di mangiarli”... L’italocanadese di origine friulana Ervio Sian, con la sua testimonianza professionale e poetica, ha frantumato la favola (ma è poi tale? o in Italia si continua impunemente a cacciare?). 79


La sera dell’opening della mostra Magic of Nature, organizzata quale parte delle celebrazioni per il 22° anniversario di fondazione del Centro culturale italiano di Vancouver, Ervio Sian è stato ufficialmente accolto nella Hall of Fame della Italian Cultural Centre Society, galleria di personaggi distintisi nelle arti, nella cultura, nello sport, nelle attività socio-umanitarie. Era il 15 settembre, al tramonto: eccezionalmente, inaspettato tra i molti illustri ospiti presenti con dirigenti e soci alla festosa serata, è apparso il premier della British Columbia, Ujjal Dosanjh, accompagnato dalla vice premier Joy MacPhail e dal deputato Pietro Calendino. Alla loro presenza, Sian ha fatto dono al presidente del Centro, Joe Finamore, di due ponderosi volumi in parte sponsorizzati dal governo provinciale: Birds of British Columbia, 472 specie finora documentate. L’ottanta per cento delle fotografie è firmato dal fotografo della natura Ervio Sian. Vancouver, dicembre 2000

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GRAZIA MERLER francese e arte alla SFU

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l complesso architettonico della Simon Fraser University costituisce una delle attrazioni culturali e turistiche della Greater Vancouver. A dodici chilometri dal centro della città, esso copre, con le sue essenziali strutture in cemento a vista cadenzato da legno e cristallo, l’ampia cima della verdeggiante Burnaby Mountain e vi si inserisce esaltando il paesaggio circostante. Domina a nord ovest le acque del Burrard Inlet provenienti dal Pacifico e a sud est la valle del fiume Fraser. Principale progettista ne è stato Arthur Erickson, one of Canada’s most renowed architects com’è universalmente conosciuto, autore tra l’altro delle magnifiche sedi del Museo di Antropologia alla UBC University of British Columbia, e del complesso urbano di Robson Square, comprendente le Corti di Giustizia e con punto focale l’edificio classico della Vancouver Art Gallery. Per realizzare il complesso della Simon Fraser 1 Erickson si è ispirato all’acropoli greca di Atene ma anche alle cittadine italiane di collina. L’intercomunicabilità dei padiglioni, divergenti dal quadrangolo accademico, sottolinea l’interdipendenza delle discipline che vi sono insegnate, con gli studi umanistici e d’arte, le scienze e le scienze applicate, l’economia e il commercio, la pedagogia dell’educazione: oltre cento programmi per una popolazione accademica di circa 17.000 studenti, la dimensione media di un’università canadese. La Simon Fraser è una cittadella pulsante di vita e di gioventù, nelle aule accademiche e nelle biblioteche, nei teatri, negli auditorium, nelle gallerie d’arte, nei campus residenziali e nei servizi che vi ruotano intorno. In questa cornice ho incontrato (non certamente per la prima volta!) Grazia Merler, da anni full professor di Lingua e letteratura francese e del Quebec francese. 81


Grazia Merler è emigrata appena adolescente dalla natia Trento, nel 1952, insieme con i genitori, Tommaso e Maria Stella, e la sorella Elly. Tre suoi fratelli erano in Canada già da qualche anno per continuarvi gli studi universitari. La ragione era che il capofamiglia – indimenticabile figura di medico, oltre che di saggio consigliere comunitario - “a quell’epoca non vedeva un avvenire promettente per loro tre, specialmente nella zona del trentino”. Laureatasi all’Università Laval di Quebec nel 1969, Grazia iniziò la carriera accademica insegnando all’Università di Austin, in Texas, poi di nuovo in Quebec, successivamente alla UBC di Vancouver e, dopo “un breve e felice scambio con l’Università degli studi di Bologna”, da trentatré anni insegna Letteratura francese alla Simon Fraser. Le ho posto alcune domande dirette ad illustrare, e soprattutto ad individuare, il ruolo che lo studio della lingua e della cultura italiana ha attualmente, e quello che potrebbe avere in futuro alla Simon Fraser. Perché ha scelto di studiare e, poi, di insegnare il francese? Perché consideravo il francese più divertente dell’inglese. Frequentando una scuola di lingua inglese in un Paese nel quale io e i miei eravamo degli illustri sconosciuti, percepivo lo studio della lingua francese come una boccata d’aria fresca. Giunsi all’università nel periodo in cui il Quebec cattolico era considerato, dall’allora maggioranza protestante che mi circondava all’Università della British Columbia, come il demonio delle superstizioni e degli imbrogli (era l’epoca di Duplessis). Ciò mi servì di stimolo per decidere di andare a vedere e di imparare in Quebec, il Paese “proibito” dove, tra l’altro, c’era mio fratello Claudio che si stava specializzando in Medicina. Provenendo da una famiglia di “scientifici”, scelsi istintivamente una specializzazione più “emotiva”, e così la letteratura francese, di espressione sistematica e concisa come mi appariva allora, mi dette la famosa emozione che cercavo. Non posso dire con ciò di aver lasciato lo studio della letteratura 82


italiana in favore di quella francese o inglese. Alla University of British Columbia, che avevo frequentato, era stato avviato un programma di italiano con la professoressa Rachel Giese (successivamente continuato da Stefania Ciccone), ma negli anni sessanta sarebbe stato assurdo andare a studiare l’italiano in Quebec.

Da un recente sondaggio condotto sull’insegnamento della lingua italiana a livello accademico in Canada non risulta che la Simon Fraser offra credenziali in Italiano (laurea in Italiano o Italian studies). Tuttavia ci sono state alcune iniziative nell’ambito dell’università tese a realizzare corsi di lingua italiana. Vogliamo parlarne? Premetto che lo studio formale delle lingue, oggi, nel 2001, è stranamente in declino sia in Canada che negli Stati Uniti, nonostante la globalizzazione e l’universalità della cultura. Quando cominciai ad insegnare alla Simon Fraser, nel 1969, c’erano programmi completi di lingua, letteratura e linguistica in francese, spagnolo, tedesco, russo. Oggi esiste solamente un programma completo di francese. Vengono insegnati a scelta, ad uso di comunicazione orale, cinese, giapponese, greco moderno, tedesco, spagnolo e altre lingue. Da circa un decennio viene offerto anche l’italiano, dal maggio 1999 di competenza del dipartimento di Francese dopo esserlo stato della divisione di Interdisciplinary Studies. Sovvenzionati in un primo tempo dalla Fondazione Corra, i corsi (due, semestrali: ITAL 100 e ITAL 101 nda) sono ora parzialmente finanziati dal governo italiano tramite il Consolato generale d’Italia e l’Istituto italiano di cultura. Ciò permette di mantenere una nostra sia pure modesta presenza all’università. La mia ambizione è quella di contribuire quanto prima a realizzare due altri corsi, con contenuti letterario e artistico-culturale, assicurando agli stessi una sovvenzione permanente. Esiste, tra gli studenti della Simon Fraser, una domanda di Italiano, e quanto è consistente? Come e con l’aiuto 83


di chi potrebbe essere concretizzata una maggiore offerta, potenziata dai nuovi corsi sunnominati? Certo non manca l’interesse per l’Italiano tra gli studenti della Simon Fraser. Occorre tenere presente che l’università è situata in una municipalità, Burnaby, che accoglie moltissimi italo-canadesi oltre a franco-canadesi, sudamericani e tanti altri emigrati interessati a mantenere legami con l’Europa oltre che con l’Oriente. Ma la politica universitaria nordamericana è purtroppo condizionata dalle leggi del mercato... e in questo senso temo che la libertà accademica, anche qui da noi, stia diventando un privilegio del passato. È ovvio che un programma d’Italiano (come di altre lingue non ufficiali), sia costoso, implicando corsi di pochi studenti. E non essendo immediatamente redditizio, non è facilmente finanziabile. Ci sarebbe bisogno di una grossa spinta da parte di iniziative private in collaborazione con l’università. C’è bisogno inoltre di personale docente ben preparato. Nonostante il valido aiuto delle nuove tecnologie, niente sostituisce la presenza di un buon insegnante che personalizza e fa vivere l’espressività della lingua. Lo dico per esperienza personale, avendo avuto modelli di uomini e donne di grande vivacità e raffinatezza intellettuale e umana che mi fecero amare il francese, l’inglese, lo spagnolo e l’italiano. Fu poi la lettura di Stendhal e lo studio non solo dei romanzi, ma delle critiche d’arte e musicali di quest’autore che tanto amò l’Italia, che mi spinsero a specializzarmi nelle espressioni letterarie e artistiche del XIX secolo. L’ultratrentennale impegno accademico di Grazia Merler “docente di francese” è ben noto e profondamente apprezzato anche dalla comunità italiana. Forse è meno nota l’ampia conoscenza e sensibilità artistica che l’hanno condotta all’incarico di direttrice della Galleria d’Arte dell’università. Lo studio dell’arte mi ha sempre appassionato, e fui felice nel corso degli anni di collaborare alle molte iniziative della 84


Galleria d’Arte, avendo tra l’altro il privilegio d’incontrare alcuni artisti italiani che lavorano a Vancouver. Del resto la comunità italo-canadese può essere fiera del suo contributo alla vita artistica e letteraria del Paese. Di recente ho avuto la gioia di contribuire a far accettare all’università una straordinaria donazione di opere dello scultore Severino Trinca: sette sculture realizzate tra il 1978 e il 1989. Ammiro l’opera di Trinca prima di tutto perché ha una capacità insolita di rinnovare la sua ispirazione tramite materiali nuovi e stili diversi, in una visione eclettica che tende all’esperimento senza esitazione. Ammiro inoltre le sue sculture anche perché l’uomo è al centro della sua ricerca, e per me questo rimane fondamentale. Vancouver, luglio 2001

1 Dall’esploratore americano di origine scozzese Simon Fraser, che nel 1808 percorse in 36 giorni i 1.368 chilometri del fiume britishcolumbiano battezzato poi con il suo nome. Il Fraser nasce dalle Montagne Rocciose e sfocia nell’Oceano Pacifico, a sud di Vancouver.

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Vedute di Vancouver

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ROMANO PERTICARINI poeta della nostalgia

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pesso avevo abbinato, nei miei articoli per il giornale comunitario, Romano Perticarini a Severino Trinca. “Due artisti italiani in esilio a Vancouver” ricordo di averli definiti nel lontano 1993. Trinca è tornato nella sua baita di montagna nel comasco, dove “sta lavorando come un matto” mi ha detto il figlio architetto Emanuele. Prima di rimpatriare in Italia, Trinca aveva donato le sue più belle opere alla Simon Fraser University dove rimarranno a testimonianza del suo contributo all’arte italocanadese generata nella westcoast del Paese. Romano Perticarini è rimasto invece fisicamente a Vancouver, ma la sua anima, il suo pensiero, i suoi ricordi sono legati a Fermo, la città marchigiana che gli diede i natali e lo vide crescere, scalzo e felice, insieme a Quelli della fionda, la sua prima raccolta di poesie scritte in Canada, e ai Ragazzi di ieri, quarta raccolta uscita fresca di stampa per i tipi della Ital Press di Burnaby, la casa editrice della famiglia Cupo che da anni produce la Guida telefonica italiana di British Columbia, Alberta e Washington State. Il libro è un altro dono di Perticarini alla comunità italocanadese, ed è inoltre arricchito dalla traduzione in lingua inglese del professor Pasquale Verdicchio dell’università californiana di San Diego. Non occorre dire che I ragazzi di ieri sono il sessantasettenne Romano e i coetanei di avventure: Lello, Pino, Tony, Mario, Luigi, Gastone, Ele, Vincenzo. Quanta nostalgia, velata addirittura di gelosia, per i vecchi tempi! quando, come in Avevo un amico... “venivamo dalla polvere/delle strade di periferia/scalzi, ribelli, senza pane/e amara era la nostra fame/ avevamo il dovere di amare...”, o in A Mario “Graffierò sulle mura del tempo/che cancella l’intonaco dei ricordi/per rivive87


re i nostri incontri.../Nella parete del tempo che va/scriverò a grandi lettere/l’incancellabile ricordo di voi/tanto per non morire di nostalgia”. Non solamente gli amici costituiscono il mondo sentimentale e ideale di Romano Perticarini. Dominanti nelle sue pagine poetiche vi sono tre figure di donna: la madre, la maestra, la moglie. Egli dedica la prima pagina della raccolta: Alla mia maestra che aveva capelli d’oro, oggi, con gli anni, ingentiliti d’argento. “Ragazzo di ieri mi hai chiamato/vecchia e cara maestra, ora che anni/di grigio hanno dipinto i miei capelli.../A piedi scalzi non corro più sulle zolle/ogni cosa si perde all’ombra del dolore./Lontano dalla mia terra ho contato anni/come margherite, tornerò non tornerò /sazio di spazi, di avventure, di grigiore/ho gettato dal cuore l’ultimo petalo..../Mi aggrapperei ad ali di gabbiano/sperando di ritrovare il mio lido:/sognare non costa nulla”. La madre, riferimento fondamentale nella vita dell’autore, è liricizzata anche in quest’ultima raccolta, dalla brevissima “Madre mia/del tuo stesso amore/vivo/grande ricchezza/e non ho altro/e soffro a perderlo” all’intimo mai interrotto colloquio... “parlo con te madre mia lontana.../e oggi ti vorrei viva e io morto...”, alla commossa promessa... “alla tua tomba/ che immaginavo di rose.../portandoti fiori di campo/profumati di primavera.../verrò un mattino o forse/all’imbrunire della sera.../Verrò, verrò, madre mia”. Se le prime due sono cantate nel pregnante ricordo del passato, la terza figura di donna è la presenza ispiratrice di decenni di vita insieme, prima in Italia e poi in Canada. Sauro e Lucia ne sono i frutti e il completamento: essi stessi avendo vissuto bambini lo strappo dell’emigrazione e l’esercizio dell’integrazione. Alla madre dei suoi figli Perticarini dedica le più belle poesie “forse d’amore o di pianto”. “Vorrei sciogliere la mia anima/per ritrovare la tua, insieme, sempre...” dice a Graziella. La stessa donna cui cinquant’anni fa, sedicenne, si azzardò a 88


dire... “dove corri occhi azzurri?/Alla tua voce ho risposto./ Anche oggi donna mia, oggi...” Quella che lui celebra non è una donna angelicata, è la fedela compagna di percorso, colei cui ha riservato amore e desiderio, intesa e rispetto, insieme amando e soffrendo - anche atrocemente - perché la vita, fatta di gioie e di dolori, di pene e di speranze, di concretezza insomma, non è mai facile. “Vorrei che le mie parole/e le mie mani dure di fatica/e questo amore per te/frantumassero i rovi/ che tormentano il tuo cuore/e quelle stelle che cadono/dai tuoi occhi acquamarina/fossero cristalli di felicità...” Vancouver, gennaio 2002

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Ottawa, Museo delle civiltà e (nell’inserto) la valigia di Tony Mazzega

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MAURO PERESSINI curatore al Museo delle civiltà

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inalmente, dopo anni di interviste e colloqui con oriundi italiani di età diverse, una risposta originale e articolata sul problema dell’identità! Me l’ha data Mauro Peressini, dal 1992 curatore del programma per il sud-ovest Europa e America latina al Museo canadese delle civiltà, motto significativo: Multae culturae una patria. Ho incontrato Peressini durante una sua recente visita a Vancouver in previsione della grande mostra “Italiani in Canada” che sarà inaugurata nel giugno del 2003 a Ottawa, nella sede del prestigioso museo, dove resterà aperta per dieci mesi prima di diventare, si spera, itinerante. Nell’ovest canadese ci si sta preparando da oltre un anno: focalizzato e pubblicizzato l’evento, sono state raccolte adesioni, testimonianze, ecc. Un comitato ad hoc – di cui faccio parte – presieduto dallo storico Ray Culos e assistito da Donatella Geller, dirigente delle attività culturali del Centro italiano, è in permanente contatto con il curatore della mostra. La giovane ricercatrice Laura Quilici è stata incaricata di coordinare il progetto, cioè di provvedere una prima selezione e illustrazione del materiale localmente individuato. Ma di come si articolerà la mostra scriverò in futuro. Vorrei lasciar parlare ora il suo ideatore. Nato a Montréal nel 1957 da genitori friulani arrivati quattro anni prima da Maiano di Udine, nel corso dei suoi studi di Antropologia, con specializzazione in Etnologia, all’Università di Montréal prima, e a quella della Calabria poi, Mauro Peressini si è sempre più interessato alle questioni legate all’immigrazione e all’identità, argomenti approfonditi nelle tesi di laurea e dottorato. Ecco la ragione dell’ampia argomentazione provocata dalla domanda che segue. È la risposta di un esperto che ha indagato, partendo da se stesso e dalla propria storia 91


personale, motivazioni universali. Costituisce un esempio illuminante per quanti come noi – emigranti, esuli, erranti per le vie del mondo – siano alla ricerca di un senso vero della propria identità.

Come oriundo italiano con una collocazione di leadership culturale nel contesto multiculturale canadese, come definisce la sua identità? È una questione complessa, difficile da riassumere in poche parole. Ciò che ciascuno di noi è (la propria identità), nessuno sa veramente, perché siamo fatti di tutte le esperienze sociali – incontri con altri individui, gruppi, istituzioni – vissute dalla nascita in poi. Innanzitutto, dire che io sono “italiano”, “canadese” o “italo-canadese” è semplificare molto la realtà. Da una parte l’Italia, come ogni altro Paese, è fatta di un’infinità di culture regionali e sub-regionali. Se, dunque, debbo parlare della mia origine, dovrei dire non che io sono “italiano” ma che sono “friulano”. Ma questo non basta, è semplificare troppo: dovrei precisare che i miei genitori sono originari di quella particolare zona del Friuli, le colline friulane – ben diverse da montagne, pianure e litorali. Potrei continuare precisando indefinitamente le mie origini: dire che i miei genitori vengono non dalla città ma dalla campagna e appartengono quindi a quel mondo agricolo friulano fatto di piccoli proprietari terrieri; e aggiungere che mio padre era anche falegname e mio nonno materno era impiegato in una distilleria, ciò che ha molto influenzato mia madre nelle sue aspirazioni per i figli. Potrei continuare enumerando all’infinito le caratteristiche delle mie origini che hanno sicuramente marcato la mia identità. Ma non contano solo le origini. La cultura umana di ciascuno di noi – gusti, valori, conoscenze, preferenze, ecc. – non cessa mai di modificarsi. Io sono stato perciò influenzato dalle persone incontrate dalla nascita in poi e dalle esperienze vissute. Perciò dovrei dire, prima ancora, che io sono nato a Montréal, ho frequentato una scuola francofona, ho trascorso parte 92


della mia vita giocando con bambini dei quartieri popolari, in seguito ho avuto amici di molte nazionalità (italiani, cileni, portoghesi, brasiliani, arabi, ecc.), ho sposato una francese “di Francia”, nata a La Rochelle, dove trascorro quasi tutte le mie vacanze, ecc. Risultato: mangio spesso cibi italiani, ma anche brasiliani, cinesi e giapponesi, ecc. Amo ascoltare musica italiana, ma anche la radio algerina o alcuni cantanti francesi e così via. La mia vera identità (ed è così per la maggioranza di noi) è dunque questo ed altro ancora. È perciò difficile definirla semplicemente con un aggettivo (“italiana”, “canadese” o “italo-canadese”). Allorché si utilizzano tali espressioni per definirsi, si dovrà sempre tenere presente che si tratta di costruzioni utili, ma alquanto semplificative di ciò che siamo.

Qual è il suo rapporto con l’Italia? Con l’Italia in generale, ho piuttosto un rapporto “intellettuale” fatto dei miei studi, delle mie ricerche e del mio lavoro: seguo quanto succede, quanto si pubblica, ecc. Debbo anche dire che, dal momento che mia figlia – 10 anni – è nell’età in cui può far tesoro dei viaggi, spero di farle vedere e conoscere questo Paese, come già conosce la Francia, paese materno. Mantengo anche rapporti affettivi e amicizie in Italia: con colleghi e amici universitari, ma anche con le persone incontrate in Calabria durante le mie ricerche di dottorato.

Com’è nata in lei l’idea della mostra dedicata agli italiani in Canada, in programma per l’anno venturo al Museo delle Civiltà? L’idea della mostra è nata da un’insoddisfazione. A lungo (prima della Seconda guerra mondiale e durante gli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta), gli italiani in Canada sono stati visti, dagli anglo-canadesi e dai franco-canadesi, come persone appartenenti ad un mondo contadino superato nei confronti del Canada e dell’America “moderni”. Di fronte a tale svalorizzazione degli italiani in Canada, la reazione di molti italocanadesi (specialmente di quanti hanno conosciuto una certa 93


mobilità sociale: uomini d’affari, intellettuali, artisti, ecc.), è stata quella di affermare: “Ma no! Noi, gli italo-canadesi, non siamo più come quelli, non siamo più dei contadini! Smettiamola di parlare delle nostre origini rurali! Mettiamo in mostra, piuttosto, gli italo-canadesi affermatisi negli affari, nelle scienze, nelle arti, ecc.”. Sono molto insoddisfatto di questa reazione, perché sottintende che dovremmo vergognarci delle nostre origini rurali. Tale reazione significa che ciò che i nostri genitori e nonni sono stati – e il 90% proviene dal mondo contadino – non può contribuire alla nostra fierezza di essere italocanadesi. Tale reazione dice che non dovremmo essere fieri di quanto i nostri genitori e nonni hanno costruito in Canada, pur non essendo in maggioranza diventati uomini d’affari, intellettuali e artisti. Perchè? Chi ha stabilito che le origini rurali della maggior parte degli italo-canadesi non abbiano valore? Di conseguenza, ho deciso di reagire esattamente all’inverso: piuttosto di evitare di parlare delle origini rurali della stragrande maggioranza degli italo-canadesi, mi sono detto che avrei dovuto orientare la mostra soprattutto sulle origini rurali per dimostrare che quanti le svalorizzano lo fanno per ignoranza: per ignoranza dell’immensa ricchezza di conoscenze, di saper-fare, di valori, ecc. che gli emigrati italo-canadesi hanno apportato dalle loro campagne friulane, venete, molisane, calabresi, siciliane, e così via. Per ignoranza della grande influenza che queste culture popolari d’origine rurale hanno, ancor oggi, sul mondo moderno e sul Canada contemporaneo: guardiamo al successo della gastronomia italiana esploso dagli anni Ottanta, osserviamo come “i canadesi” imitano oggi gli italiani nel realizzare i loro giardini, come “i canadesi” apprezzano la socievolezza degli italiani, il loro spirito di festa, l’ambiente dei loro caffé, e così via. Vancouver, luglio 2002

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JOSEPH RANALLO educatore di educatori

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ocente universitario, poeta e scrittore, Joseph Ranallo definisce la propria vicenda personale “una modesta somma di esperienze vissute prevalentemente in Canada nell’ultimo mezzo secolo: il periodo più entusiasmante, stimolante e dinamico nella nostra storia”. Avrebbe potuto benissimo non usare l’aggettivo “modesta” perché tutto in lui parla di questa rara qualità: la voce sommessa, i modi affabili, la disponibilità all’ascolto e alla condivisione, l’analisi chiara e semplice dei sentimenti, e poi il fatto di considerarsi “benedetto e fortunato”, una lezione per quanti insoddisfatti vivono di nostalgia e rimpianto. Nato a Vinchiaturo in Molise, nel 1940, prematuramente orfano di padre, Giuseppe arrivò in Canada undicenne con la mamma, risposatasi per procura con uno sconosciuto canadese di origine italiana. “Lei sacrificò la sua vita per promuovere la mia – dice con infinita gratitudine – e si assunse il rischio di portarmi in Canada per risparmiarmi un futuro senza speranza di avanzamento. Virtualmente non scolarizzata, mia madre seppe affrontare incredibili difficoltà in una terra amata intensamente, anche se rimastale estranea”. Dopo il trauma della traversata atlantica su una nave di linea italiana, e il transito livellatore del Pier 21 di Halifax, madre e figlio vennero a vivere nella British Columbia, a Rossland, un minuscolo villaggio sul fianco di un vulcano estinto nella selvaggia e frastagliata zona montuosa dei Kootenays. Qui un secolo prima erano arrivati i cercatori d’oro. E con l’oro avevano trovato in abbondanza argento, piombo e zinco. A Trail, dieci chilometri più giù lungo il Columbia River, funziona tuttora una delle più grandi raffinerie del mondo, la Cominco, dove trovarono lavoro molti italiani. 95


“Negli anni Cinquanta, con la mia formazione italiana, ho accettato i valori tradizionali che tuttora nutro: l’importanza di un’educazione formale, la necessità di orientamento spirituale, il rispetto per la dignità altrui, il significato della famiglia, l’esigenza di dare generosamente...”. Su queste solide fondamenta poggiano le successive esperienze di Ranallo. Con originalità, le cataloga per decenni. Assegna agli anni Sessanta l’aver capito il ruolo della politica nell’educazione superiore. Dopo la laurea in Lettere all’Università di Victoria, la capitale britishcolumbiana, consegue un master alla Washington State negli Usa. Contemporaneamente si sposa e avvia una gratificante carriera di insegnante a vari livelli, da maestro elementare a “educatore di educatori”, suo compito attuale. Insegna infatti Teacher Education Program alla UBC West Kootenay, distaccato presso il Selkirk College di Castelgar, dove era stato professore di Inglese e Scrittura Creativa. Negli anni Settanta ha imparato “che cosa significhino paternità e vita familiare” mentre gli Ottanta l’hanno spinto a ridefinire abitazione e carriera professionale, facendogli provare “la prima sensazione di separazione dai figli”, ormai pronti ad uscire di casa. Attribuisce a quel periodo un’intensa e duratura attrazione per filosofia, spiritualità e medicina orientali, oltre che il riaccendersi di interesse in due aree rimaste a lungo latenti: la scrittura – letteraria e poetica – e il fascino delle radici italiane. Negli anni Novanta, con la gioia di poter trasmettere il meglio della propria esperienza ai nuovi insegnanti, Joe Ranallo – nel frattempo diventato nonno di due nipotini – ha anche ricevuto “la più conturbante lezione sulla politica della transitorietà”. Non senza tristezza, egli vede nel frammentato mondo attuale la perdita della memoria del passato. Il nuovo millennio, tuttavia, sta già modificando la sua prospettiva. “La vita può essere fragile, bella e breve. Alcuni miei goals giovanili resteranno forse irraggiungibili, ma rimango ottimista e riconoscente. Cerco di affrontare ogni esperienza come fosse insieme la pri96


ma e l’ultima. Come Zorba il Greco, ho imparato che, mentre la cima della montagna è coperta di neve, il vulcano all’interno può ancora covare e bruciare”. Qual è dunque il suo suggerimento fondamentale ai giovani? È abbastanza facile dare consigli ai giovani, altro è essere ascoltati. I giovani vivono oggi in un mondo molto più complesso del nostro e debbono prepararsi ad affrontarne i continui cambiamenti. Ma non tutto cambia alla stessa velocità. Tecnologia e moda cambiano rapidamente e sono effimere. Morale, valori, principi e ideali sono permanenti e si modificano più lentamente o non cambiano affatto. I giovani – sia pure dovendo apprendere e scaricare velocemente nuove tecniche – hanno bisogno di distinguere ampiamente tra valori da mantenere e valori da abbandonare. Debbono saper apprezzare alcuni desideri essenziali che non cambiano: il bisogno di amare ed essere amati, di rispettare ed essere rispettati, la necessità di uno scopo nella vita e di un senso di appartenenza. Dovrebbero anche vedere nei loro anziani – seppure non sempre tecnologicamente aggiornati – una ricca risorsa ove attingere valori e comportamenti duraturi. E un consiglio basilare agli educatori di giovani? Gli insegnanti, a qualsiasi livello, debbono apprezzare i cambiamenti avvenuti negli studenti nel corso degli ultimi decenni. È cambiato il punto di vista sugli studenti e la cultura. In passato c’era la tendenza a vedere i ragazzi come recipienti vuoti pronti ad essere riempiti di conoscenza esterna. L’insegnante possedeva la conoscenza e semplicemente la “travasava” allo studente, la cui responsabilità era di ricevere l’informazione, digerirla e rigurgitarla, in un ruolo spesso passivo. Oggi i ragazzi non accettano e non vogliono memorizzare fatti isolati. Vogliono costruire la propria conoscenza collegando nuovi concetti a passate esperienze e progetti futuri. Vogliono un apprendimento personale, pertinente e soprattutto piacevole. 97


Gli insegnanti hanno bisogno di ridefinire il proprio ruolo alla luce delle persone che si trovano di fronte. Oltre ad esigenze intellettuali, debbono indirizzare bisogni sociali ed emozionali dei loro studenti. Anziché “sapienti in cattedra”, i nuovi studenti vogliono “guide al fianco” per essere aiutati ad apprezzare l’importanza di apprendere, di discernere tra quanto è critico e quanto non lo è, e soprattutto di celebrare insieme il piacere della conoscenza. Ripensando a sua madre, qual è la sua concezione della donna? Senza l’educazione e la retorica delle femministe contemporanee, mia madre fece l’impossibile per rimanere padrona del proprio destino, nonostante il limitato spazio vitale. Durante la guerra, assente mio padre per ben sette anni, da sola si prese cura di me e della sua piccola fattoria. Volontà, autonomia e determinazione parlano più delle parole. Non sembri perciò strano che, alla sua morte, il suo cuore abbia continuato a battere per alcuni minuti dopo che i polmoni avevano cessato di funzionare. Ma mia madre apparteneva ad un’altra epoca. Come donna, ha voluto accettare sfide e sofferenze in silenzio, non conoscendo altre opzioni. Al pari di innumerevoli sconosciute legioni di donne represse della sua generazione, aveva sviluppato un complesso da martire. Le donne di oggi hanno lavorato sodo per i diritti che godono. E la loro lotta continua. Hanno cambiato drammaticamente il mondo, valorizzando l’aspetto emozionale della vita. Hanno documentato i contributi delle donne del passato e facendo ciò hanno alterato la nostra percezione della storia. Ci hanno dimostrato che per l’umanità c’è molto più che soppressione, conflitto e conquista. A pari opportunità, eccellono in ogni impresa umana. Inoltre fanno moltissimo per migliorare le condizioni di vita di donne e bambini del terzo mondo. L’universo sarà in equilibrio solo quando uomini e donne assumeranno i propri ruoli da partner uguali in ogni aspetto della vita. Vancouver, ottobre 2002

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SANDY SANTORI impegno sociale e di governo

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iutati che il ciel t’aiuta ma anche sii grato ai tuoi genitori. Così si potrebbe sintetizzare la saggia filosofia di Sandy (Armando) Santori, oriundo lucchese, unico italiano a far parte dell’attuale governo provinciale. Era da poco nato ai tempi di Phil Gagliardi, com’è passato alla storia Filippo Gagliardi, l’eccentrico attivissimo ministro delle autostrade del governo socialdemocratico retto dal vecchio Bennett tra gli anni Cinquanta e Settanta. Dopo mezzo secolo, finalmente un altro nome italiano al più alto livello governativo della British Columbia, la regione dell’ovest che copre per circa il 10% la superficie del Canada e ne ospita, con oltre 4 milioni di abitanti, il 13% della popolazione. Dove la prima presenza dell’uomo risale a 11.500 anni fa, dove vivono 197 tribù della First Nation e vengono accolti annualmente circa 35 mila immigranti. Dove le lingue più parlate sono inglese, cinese (cantonese e mandarino), punjabi, tedesco, francese, olandese, italiano, tagalog, spagnolo e giapponese. Sandy Santori è stato eletto nel 2001 a rappresentare il riding del West Kootenay-Boundary e immediatamente nominato Minister of Management Services. Era manager dei Kootenay Savings Insurance Services. Per tredici anni, otto dei quali come sindaco, aveva fatto parte del consiglio comunale di Trail, la cittadina dei Kootenay popolata per metà da italiani. Nel suo curriculum appare la frequenza alla Cornell University di Ithaca (New York) grazie ad una borsa di studio per meriti atletici. Tra i vari incarichi pubblici, c’era stato anche quello di presidente della Cristoforo Colombo, la quasi centenaria Società di mutuo soccorso. Lo avevo conosciuto in quegli anni e non ha avuto alcuna esitazione quando gli ho chiesto di intervistarlo. In lingua italiana. Ora Sandy vive facendo la spola fra Trail e 99


la capitale Victoria. Sposato con Wendy, hanno due figli: Tracy studentessa universitaria e Kevin aspirante pompiere. Che cosa significa per te, oriundo italiano, essere nato a Trail? Credo che essere nato in una famiglia italiana fuori dall’Italia mi abbia dato l’opportunità di conoscere meglio la cultura italiana e di capire che cosa rappresentano gli italiani in questo Paese, che cosa hanno conseguito arrivando qui. Sono cresciuto ascoltando storie di un passato di difficoltà, di gente che viveva in miseria e che ha raggiunto la prosperità. Quanti sacrifici hanno fatto e quanto hanno conquistato! Essere nato e cresciuto qui mi ha insegnato tanto, soprattutto la necessità dell’impegno personale e del sacrificio, perché se anche le cose ora vanno bene, ci sono ugualmente sacrifici da fare, per te stesso, per il benessere dei tuoi figli e della comunità. Diceva mia mamma: “sei nato col cucchiaio in bocca”, e intanto mi dava un’altra indicazione importante: se uno ha la passione e vuole lavorare forte, i suoi sogni possono realizzarsi. Se vuoi progredire conta soprattutto su te stesso, non aspettarti aiuto dagli altri. Questo ho imparato dai miei genitori e dagli italiani di Trail. Quando emigrarono i tuoi genitori, e da dove? Mio padre è venuto qui nel 1949; è arrivato insieme con un amico, Oreste Unti. Dalla Francia sono andati ad Halifax e da lì in treno, e come tanti altri italiani sono arrivati a Trail per lavorare nella ferrovia, nelle miniere, in fabbrica. Mamma era rimasta in Italia, a Segromigno in Piano con i miei due fratelli maggiori, ora di 60 e di 58 anni, finché papà non ha trovato lavoro e un po’ di denaro, e nel ‘50 sono venuti anche loro. Io sono nato qui anni dopo, nel 1954 (hanno detto che era uno sbaglio, ma penso sia stato un buon sbaglio). Quali valori italiani (in particolare toscani) ti hanno trasmesso i tuoi genitori? Il senso del dovere e del lavoro. 100


Sei andato a visitare il luogo d’origine dei tuoi? Che impressioni ne hai ricevuto? Sono stato in Italia solo due volte. In Toscana mi ha colpito soprattutto la laboriosità della gente, lavoratrice, industriosa. Nel 1987, con mia moglie, siamo stati anche a Roma, Firenze, Venezia... Cinque settimane meravigliose! E la cucina italiana, poi, non ne conosco una di migliore! Tu parli un bellissimo e fluente toscano con il tipico suono dell’entroterra lucchese. L’hai appreso fin da bambino? Hai poi studiato l’italiano e dove? La lingua l’ho imparata perché mamma, papà e cugini la parlavano sempre a casa. Il mi’ (mio) fratello maggiore, poi, che aveva lasciato casa diciottenne per arruolarsi nella Royal Canadian Mounted Police, scriveva sempre tante lettere a mamma. Ho imparato a leggere e a scrivere alla meglio da quelle lettere. Ho studiato l’italiano nell’ultimo anno delle Superiori e alla Cornell University. Dal tuo curriculum vitae intuisco una predisposizione naturale per il servizio pubblico: promotore e dirigente di enti per il credito sociale, presidente di una delle più antiche società italiane di mutuo soccorso, civico amministratore, sindaco di Trail per otto anni, deputato al Parlamento provinciale, da oltre un anno Ministro dei Management Services. Fin dai primi anni d’età, non ho avuto paura di aiutare e di partecipare ad attività comunitarie. Innanzitutto da ragazzo ho fatto tanto sport e credo che lo sport, oltre a mettermi in relazione con gli altri, mi abbia spinto ad apprezzare l’impegno di tanti volontari che si dedicano ai giovani. Quando, più tardi, ho deciso di coinvolgermi con la Società Cristoforo Colombo e, successivamente, con l’amministrazione civica, la ragione non è stata politica ma morale: sentivo il dovere di restituire alla mia gente e al Comune di Trail quanto avevo ricevuto. Sono stato anche molto incoraggiato. Ricordo il mio primo proget101


to pubblico: realizzare un parco per la Cristoforo Colombo. Il comune ci assegnò un lotto di terra: era sporco, pieno di sabbia, di sterpi e in neanche due mesi l’abbiamo trasformato. Ero giovane e pieno di entusiasmo. Mi è stato detto: “hai l’abilità di organizzare, di delegare, perché non provi a candidarti. Abbiamo bisogno di consiglieri giovani”. E così, nonostante il mio totale disinteresse per la politica, è cominciata la mia vita politica. L’esperienza fatta mi porta a credere che, specialmente ora, in un mondo in veloce trasformazione, i giovani debbano impegnarsi a livello dei vari governi, proprio perché sono loro i principali interessati, loro e i loro figli. Questa è la difficoltà che ci troviamo ad affrontare attualmente in questa provincia in cui si stanno tentando cambiamenti che richiedono sacrifici. Siamo stati abituati ad un sistema confortevole. Negli ultimi anni si è speso troppo facendo debiti enormi. Oggi che la popolazione sta invecchiando e c’è bisogno di nuovi provvedimenti nel settore della sanità, non ci sono abbastanza risorse finanziarie per farvi fronte. E, purtroppo, quando alla gente si richiede qualche sacrificio, non l’accetta. Questa è una delle sfide di questo governo. Che significa Management Services e in che consiste il tuo lavoro nell’ambito del governo della British Columbia? Sono ministro responsabile per i servizi di supporto a tutti gli altri ministeri del governo. Per mezzo secolo ogni ministero era dotato di un reparto servizi (informazione e tecnologie, paga del personale, proprietà varie, servizi correlati, ecc.). Oggi abbiamo unificato il tutto per snellire, sveltire e nello stesso tempo risparmiare. Sono anche responsabile per il collegamento telematico in tutte le 154 municipalità britishcolumbiane. La libertà d’informazione e l’accesso ai documenti – nel rispetto della privacy – passa oggi per Internet. Anche l’educazione nelle località più sperdute e lontane è facilitata dall’accesso alla rete, è questo che sto perseguendo. 102


Il contenuto di quest’intervista è diretto a migliaia di famiglie italiane, emigrate all’estero, ancora capaci di leggere e parlare la lingua italiana. Che cosa consigli loro di trasmettere a figli e nipoti per mantenere identità e lingua d’origine, pure nell’esercizio di partecipazione e fedeltà alle nuove patrie? Si deve fare tutto il possibile per incoraggiare i figli a conoscere l’importanza della cultura italiana e la necessità di tramandarla. I nostri vecchi stanno scomparendo, e se noi delle nuove generazioni non continuiamo a mantenere lingua e cultura, nel giro di vent’anni andranno perdute. Sarebbe un peccato per gli italiani, ma più ancora per il Canada che nella sua diversità ha ricevuto e sta ricevendo tanto anche dagli italiani. Ad ogni giovane vorrei dire: “non avere vergogna delle tue origini e della lingua che parli, ogni tanto fermati e pensa: pensa a chi sei, a come sei arrivato ad esserlo, e a chi ti ha aiutato ad arrivare fin qui. Se puoi dire “i miei genitori”, allora non c’è bisogno di vergognarsi di nulla, non hai nulla da nascondere, devi solo da essere orgoglioso della tua identità”. Vancouver, gennaio 2003

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Dalla mostra La mano non mente , Davide Pan 1998. Vecchi arnesi di lavoro trasformati in simboli dallo scultore che vi ha innestato le proprie mani fuse in bronzo. Incise e dipinte sui lati della pala (W O P & i n g T o o l ) le bandiere italiana e canadese. 1

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ITALIANI IN CANADA una presenza che conta

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egli oltre 30 milioni di abitanti del Canada, gli italiani costituiscono circa il 4%. La percentuale relativa al nostro gruppo etnico è ricavata dall’ultimo Census della popolazione. Non è né molto né poco. Una realtà che è andata espandendosi, diventando Presenza, ora ufficialmente documentata nella grande esposizione in corso al Museo delle Civiltà a Ottawa. La mostra prende avvio dalle prime presenze - risalenti al 1880 - che hanno preceduto le grandi ondate migratorie successive alle due guerre mondiali. È noto che l’emigrazione italiana in Canada era un tempo costituita per lo più da forza-lavoro reclutata in paesi di campagna o di montagna delle varie regioni. All’inizio erano squadre di operai generici impiegati per costruire le ferrovie e scendere nelle miniere. Più tardi manovali assorbiti nei cantieri edilizi. Rari i piccoli e, meno ancora, i grandi imprenditori, come ne sono maturati a decine, per non dire a centinaia, nel tempo. Intraprendenza, orgoglio e spirito di sacrificio hanno stimolato molti muratori a diventare costruttori in proprio, bravi artigiani a trasformarsi in industriali, cuochi e camerieri in ristoratori di grido, e così via. Di questi esempi ce ne sono a iosa in ogni settore di attività. Parallelo, indispensabile, il lavoro silenzioso, costante, eroico delle donne: fondamentale anche se poco riconosciuto e spesso dato per scontato. Il tutto costituisce una palese smentita di certe tesi sostenute da qualche esperto d’emigrazione con conoscenze teoriche e nessuna immersione pratica. Altro che donne prostitute e prostituite o masse di emigranti maltrattati e straccioni, illegali e in combutta col crimine, come quelli descritti ne L’orda, quando gli albanesi eravamo noi! 105


Meno ancora, in passato, si contavano in Canada letterati, intellettuali e piccolo borghesi di provenienza italiana: non emigranti in cerca di lavoro e di miglioramento economico finalizzato al riscatto culturale e sociale dei propri figli, ma spesso esuli in fuga da situazioni di disagio politico. Quanto agli artisti, quei pochi provenivano da zone in cui non si sentivano, per varie ragioni, avvantaggiati o incoraggiati (di arte in Italia ce n’è anche troppa, e tale da intimidire oltre che da ispirare, mi ha confidato di recente un giovane artista italiano). Qualcuno di loro ha lasciato opere insigni. Nomi famosi e rispettati nella storia del patrimonio artistico di questo Paese sono, ad esempio, quello dell’isontino di Trieste Carlo Marega (1871-1939) scultore di importanti opere pubbliche a Vancouver, dov’era vissuto dal 1909 - fondatore della prima scuola d’arte di questa città, oltre che della locale società degli scultori - e del toscano di Prato, Guido Nincheri (1885-1973), maestro vetraio e affrescatore, creatore nel suo laboratorio di Maisonneuve di oltre 2 mila fantastiche vetrate al piombo, decoratore di chiese non solo in Montréal, dov’era arrivato nel 1914. Due esempi eccellenti sviluppatisi sulle opposte sponde del Canada: quella del Pacifico e quella dell’Atlantico. La grandezza degli emigrati italiani è tuttavia costituita dalla loro normalità: quella maggioranza di gente umile e laboriosa il cui nome non sarà mai scritto su lapidi, enciclopedie o siti web, ma che ha il merito di avere aggiunto nuovo sapore alle abitudini quotidiane della più vasta popolazione canadese. Un contributo di comportamenti e di valori importanti, provenienti dalla saggia e antica cultura popolare delle regioni italiane, innestato nel tessuto canadese. Un ricamo intessuto sulla trama di una realtà sconosciuta, esplorata con coraggio e pazienza. Un lavoro basato sull’iniziativa autonoma, non ispirato né assistito dalla madrepatria (a differenza di quanto avvenuto più di recente, dopo la rivelazione della risorsa costituita dagli italiani nel mondo). Frutto di adattamento e di necessità, 106


porta con sé il guizzo dell’originalità e della fantasia, proprie degli italiani. Ed ha il sapore semplice della terra amata e mai dimenticata. Il mondo italocanadese d’origine soprattutto rurale, esplorato e descritto da Presenza mediante documenti, video-interviste e 300 reperti scelti tra i moltissimi individuati in ogni parte del Paese, ha contribuito ad insegnare ai canadesi la gioia di vivere, la convivialità e la socievolezza. Ha diffuso - precorrendo le tendenze delle mode ecologica ed organica attuale - il gusto del cibo fatto in casa: il pane, il vino, la pasta, le salse, i dolci preparati secondo ricette antiche. Ha fatto conoscere danze e musiche dei Paesi d’origine. Ha diffuso e fatto apprezzare l’arte artigiana propria di alcune regioni d’Italia. Tramite consumi e commerci ha favorito e incrementato l’importazione di prodotti dalla penisola. Ed ha indicato la concezione della famiglia, la cultura del lavoro, il valore della religiosità popolare, il senso della coesione comunitaria. Su questi concetti e su queste realtà si fonda e si sviluppa la multimediale esposizione al Museo delle Civiltà. Sia chiaro perciò che la mostra non descrive l’Italia in Canada passando attraverso istituzioni e voci ufficiali, e nemmeno tramite il più moderno contributo di qualche migliaio di nuovi arrivati, ma documenta essenzialmente l’apporto concreto di quella generazione di italiani emigrati in passato, che sono i genitori e i nonni dei nuovi italocanadesi. Da quella generazione di strenui lavoratori e cultori di valori tradizionali provengono gli attuali oriundi, tra i quali vanno annoverati numerosi liberi professionisti, imprenditori, docenti, artisti, amministratori, politici, e così via. Questi sono gli eredi-comunicatori, come lo è - e va sottolineato - il curatore della mostra Presenza, l’antropologo Mauro Peressini, intervistato sull’argomento giusto un anno fa. La riproduzione di un passaporto rilasciato a Udine il 25 maggio 1927 in nome di sua maestà Vittorio Emanuele III per grazia di Dio e volontà della nazione Re d’Italia, fa da sfondo al manifesto ufficiale della mostra Presenza. In negativo, 107


bianco su rosso, la silhouette di due avambracci, le cui mani reggono due tazzine da caffé espresso. La mano che scende dall’avambraccio sulla destra è una mano gentile, ma scarna nella sua offerta; la mano che sale da sinistra, in un cin-cin significativo, quale incrocio di piacevole esperienza, è una mano curata, con unghie cresciute e affilate... Sono simboli di una realtà evolutasi ma tuttora in movimento. Come sono simboli la presenza, al Museo delle Civiltà, di una gondola veneziana, di un carretto siciliano, di una vecchia Topolino, vistosi in mezzo ai molti oggetti della quotidianità degli emigrati: tra i quali c’è anche la significativa valigia di Tony Mazzega. A documentazione di un’epopea da non dimenticare e la cui memoria, sentimentale e storica, è affidata a chi verrà dopo. Vancouver, luglio 2003

Illustrazione di pagina 104. WOP è un termine dispregiativo coniato per definire gli immigrati italiani indocumentati. L'espressione sembra avere più di una spiegazione: alcuni sostengono sia deformazione fonetica di "guappo", altri che sia semplicemente una sigla: WOP = Without Official Permission, cioè persona senza passaporto.

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LORETTA ZANATTA enologa e imprenditrice

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a BC paese del vino? British Columbia Wine Country è il titolo di una recente pregevole pubblicazione curata da John Schreiner scrittore e da Kevin Miller fotografo: vi si illustrano le realtà dell’industria vinicola nelle tredici locali regioni di produzione. Si è lontanissimi dal fenomeno californiano, anni di esperienze e di lavoro ci distanziano dall’eccezionale fioritura della storica Napa Valley, ma il movimento del settore è in crescendo sicuro e costante. I vigneti della temperata idillica Vancouver Island (estesa ben più del Veneto), con i più antichi dell’Okanagan e Similkameen ed i recenti della Fraser Valley, richiamano attenzione e rispetto non tanto per il relativo volume di vini prodotti quanto per la loro qualità competitiva, ormai riconosciuta in gare internazionali. Vent’anni fa in BC c’erano appena 14 wineries, oggi i vigneti qualificati sono oltre un centinaio. Non è azzardato affermare che la Vigneti Zanatta - una realtà venetocanadese sorta nel cuore dell’isola - ha avuto e mantiene un ruolo importante nella affermazione del settore. L’enologa Loretta Zanatta, che col marito Jim Moody dirige l’azienda di famiglia, è considerata un’autorità nel campo. La chiamano a dimostrazioni e seminari, fa parte di capitoli ed organizzazioni, appare in numerose pagine web. Lei lavora con gusto e passione alla “creazione” (il termine è appropriato!) di vini personalizzati, come i frizzanti naturali tipo prosecco, e contemporaneamente è mamma felice di Gina, Luca e Matteo, i suoi bimbi di sette, cinque e tre anni d’età. La ricordo giovanissima, quando con i fratelli Ivo e Ileana frequentava i miei figli suoi coetanei. Ha mantenuto la stessa grazia gentile, la stessa composta semplicità, lo stesso sguar109


do curioso e intelligente. Alle mie domande ha risposto come segue. Come definisci la tua identità? e che cosa è significato per te, canadese di origine veneta, il periodo di studi e di esperienze trascorso in Italia? Mi è impossibile dire che cosa mi definisce come persona: in parte è il mio lavoro, in parte la mia cultura integrata, in parte la mia famiglia. Essere canadese di prima generazione con origini venete influisce senz’altro sulla mia concezione del cibo, del vino, del modo di socializzare, dello stile di vita. Non sono “veneta” nel vero senso della parola, poiché qualsiasi mia realizzazione rientra in una prospettiva canadese, tuttavia il riferimento ad una cultura veneta viene spontaneo. Il mio soggiorno di studio in Italia ebbe avvio a Valdobbiadene tramite un cugino di mia madre, il dr. Edoardo Trevisiol, enologo di seconda generazione, conoscitore eccezionale del settore grazie ad approfonditi studi e gestione dell’azienda vinicola di famiglia. Egli mi suggerì di frequentare il programma “Master in Enologia” presso la sede di Piacenza dell’università del Sacro Cuore. Nei fine settimana tornavo a Valdobbiadene per esercitare il lavoro “tecnico”, effettuando test sui vini per conoscerne la presenza di ferro, solfiti, zuccheri, acidi, la stabilità ecc. Spesso avevo l’opportunità di assistere a lezioni teoriche e pratiche sui vari aspetti di un “buon vino” da parte di esperti vinificatori. Oltre alla conoscenza teorica, sono stata esposta ad una completa cultura del vino, della poesia, del cibo, della vita in mezzo agli straordinari vigneti di una pulsante azienda vinicola, e ciò per un anno intero, fino al conseguimento del mio Master.

Com’era nata in te la scelta di specializzarti in enologia? Vi sei stata trasportata dalle circostanze o è maturata in te come vera e propria ragione di vita? Si tratta di un complesso di circostanze e desideri. Da bambina sono cresciuta in una dairy farm. A dire il vero, non 110


eravamo una famiglia orientata all’allevamento di bestiame, si trattava di una scelta di vita temporanea fatta dai miei genitori. Ero decenne quando decisero di vendere le mucche e tenersi la fattoria. Ho gustato il sapore dello stile di vita in campagna, non l’interesse per gli animali. Facevamo il vino nella maniera tradizionale, ricavandolo dalle uve della California e senza interventi tecnici. Se buono lo si beveva, se non diventava un eccellente aceto! Sempre io aiutavo mio padre. Mia nonna, vissuta con noi, si prendeva cura insieme con papà delle poche viti della nostra proprietà. Ero anche felice di aiutare nonna Gina nei lavori di giardinaggio. Papà era ben deciso a coltivare vitigni per ricavarne il proprio vino, anziché acquistare ogni anno uve californiane. La difficoltà era di avere varietà di viti che producessero buon vino! Nel 1981, conseguito il diploma di maturità, pensavo agli studi universitari senza tuttavia nulla conoscere dell’educazione post secondaria. C’erano pochissimi corsi in materia agricola disponibili in BC, nessuno a Vancouver Island. All’orizzonte si stava profilando il Free Trade ¹. La nostra agricoltura era a rischio: era necessario diventare competitivi con il resto del mondo anche nel settore vinicolo. Il governo avviò la ricerca di vitigni europei e finanziò gli agricoltori perché sostituissero le coltivazioni di varietà americane con altre di Vitis vinifera europea. Mio padre, in permanente contatto con il centro di ricerca di Saanich, captò la direzione del vento e divenne uno dei molti ricercatori di nuovi vigneti per conto del governo locale.

Assistetti negli anni ottanta ad un incontro di tuo padre, Dionisio Zanatta, con l’allora ministro dell’agricoltura Savage: credevano fermamente nei loro progetti, stavano ponendo le basi dell’attuale sviluppo...

... e proprio quale risposta alle possibilità, decisi di iscrivermi a Scienze, focalizzando i miei studi in chimica e microbiologia, fondamenta di una qualsiasi specializzazione 111


agro-enologica futura. Frequentavo già l’università quando fui informata da uno specialista proveniente da Kelowna ² che alla UBC si poteva ottenere la laurea in Agricoltura. Mi impiegai durante l’estate al centro sperimentale di Saanich che si occupava del problema vinicolo. Attraverso queste esperienze e il progetto di ricerca condotto nell’azienda di mio padre, nel 1989 ottenni la laurea in scienze dell’agricoltura (Plant Science con major in Grape pests). Mi tenni lontana allora dalla vinificazione, perché in BC tutta la microbiologia è correlata alla salute umana, io invece ero interessata alla “scienza” della fermentazione che all’epoca non si studiava. Volevo specializzarmi in enologia, ma non potevo trasferirmi all’università di Davis in California ³. Fu così che il cugino di mia madre, a Valdobbiadene, mi prese sotto le sue ali e mi istruì! Rientrai l’anno dopo a Vancouver Island perché nel frattempo il governo aveva modificato le leggi in materia di produzione vinicola: era ora permesso aprire e gestire una “farm winery”, un vigneto legalmente riconosciuto. Oggi la legislazione è di nuovo mutata, tutto è cambiato. Anche la mia conoscenza del settore è di molto cambiata rispetto a quella di un ventennio fa... Concludendo, la mia scelta è frutto di tempismo, desiderio e di... politica. L’importanza e il ruolo del buon vino: come si colloca in ciò la Vigneti Zanatta, azienda modello da te diretta?

Penso che la giusta risposta sia la seguente: la via per ottenere un buon vino è innanzitutto la conoscenza del clima, dei terreni e del potenziale delle viti. Perciò abbiamo scelto varietà e stiamo tuttora cercando varietà. Partendo da ciò io poi creo, con la mia mente e i miei sensi, la mia personale versione del prodotto finito. L’orientamento che in tal modo un vino prende, la sua caratterizzazione, è realmente ciò che ci rende unici nel settore. I tradizionali vigneti del Veneto e i più recenti di Van112


couver Island, in particolare la zona di Valdobbiadene e la Cowichan Valley dove tu operi: somiglianze e differenze. Il clima è simile, come lo è la topografia, ma le viti disponibili per la piantagione non lo sono, e soprattutto non sono simili i “gusti” dei nostri consumatori! Duncan, gennaio 2004

¹ Free Trade: accordo interamericano di libero scambio, diventato effettivo nel 1989.

² Nella valle dell’Okanagan, capoluogo Kelowna, la prima vite fu piantata nel 1859 dal missionario oblato Charles M. Pandosy. Qui è nata la prima industria vinicola della BC: dagli estesi vigneti del pioniere proveniente dalla Iowa J.W. Hughes, cui succedette la famiglia di origine cecoslovacca Dulik.

³ Prestigioso centro di studi e ricerche nel campo della viticoltura e dell’enologia.

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Vedute di Ottawa, capitale del Canada, sede del Parlamento federale

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CARLO CACCIA una vita in difesa dell’ambiente

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o incontrato per la prima volta l’onorevole Charles Caccia vent’anni fa, quand’era Ministro dell’Ambiente nel Governo liberale retto dal leggendario Pierre E. Trudeau. L’amore per il Canada, Paese d’adozione in cui era arrivato venticinquenne dopo gli studi in Forestry Economics all’Università di Vienna, la conoscenza dei problemi ecologici dell’immenso territorio, la visione del futuro, l’idealismo legato ad una concreta capacità operativa, avevano fatto di Caccia l’uomo giusto al posto giusto. E Trudeau non se l’era fatto scappare. In precedenza, nel 1981, l’aveva nominato Ministro del Lavoro: anche qui l’oriundo milanese Carlo Caccia aveva dimostrato preparazione e abilità. La sua carriera politica era iniziata nel 1964, quand’era stato eletto nel Consiglio della Toronto metropolitana. Quattro anni dopo, trentottenne, entrava alla Camera dei Comuni come deputato per la Circoscrizione di Davenport . Da allora i suoi elettori se lo sono tenuto caro. E ogni volta è un trionfo crescente di voti per quest’uomo schivo e semplice, lavoratore instancabile, che da quasi mezzo secolo è al servizio del Canada e della sua gente. Oggi è Presidente dello Standing Committee on Environment and Sustainable Development oltre che della Canada-Europa Parliamentary Association. Caccia – riconosciuto come un veterano dei parlamentari italo canadesi – non ha mai dimenticato la sua origine italiana: una delle sue prime realizzazioni, negli anni Cinquanta, fu la co-fondazione del Centro organizzazione scuole tecniche italiane, diretto a promuovere e a migliorare l’educazione degli emigrati, sia giovani che adulti. “In Canada non siamo ospiti ma comproprietari “, è stato da sempre uno dei suoi semplici, mirati messaggi. Nonostante la 115


mole di lavoro richiestagli dai suoi incarichi, nazionali e internazionali, da anni, puntualmente, diffonde – tramite la rete dei mass media comunitari – articoli e trasmissioni in lingua italiana: brevi, chiari e profondi messaggi, firmati modestamente Carletto Caccia. Com’è nel suo stile, il suo linguaggio è accessibile al grande pubblico, è efficace perché semplice e schietto. Lui conosce l’invidiabile segreto della comunicazione. Il problema ecologico è un problema mondiale avendo globalizzato, prima ancora che l’attenzione dei media, le condizioni di vita delle popolazioni. Che cosa ci può dire in merito? 
 Gli esperti sono arrivati alla conclusione che il problema ecologico è grave per diverse ragioni: il clima è alterato a causa dei gas serra, le ricchezze naturali sono gravemente compromesse (acqua, aria, risorse ittiche e forestali), verso il 2025 il consumo di petrolio raggiungerà il mid-term deplition point, il gas naturale verso il 2030. L’alternativa delle risorse energetiche rinnovabili sta ancora muovendo i suoi primi passi. Mentre dobbiamo gradualmente spostarci verso una politica che riduca la dipendenza dai combustibili fossili e, nel medesimo tempo, aumenti la produzione di energia con altri mezzi (cosa facile da dire ma difficile da attuare). La corsa all’acquisto di nuove armi nucleari, chimiche e biologiche assorbe cifre astronomiche ed è pericolosa perché non consente invece l’attuazione di misure sociali urgenti in molte parti del mondo. Poi, concettualmente, non ci siamo ancora resi conto che l’economia dipende dall’ecologia, cioè un’economia sana dipende da un’ecologia in buone condizioni; il capitale ittico e forestale non dovrebbe essere intaccato ma non abbiamo ancora imparato a limitarci a sfruttare l’interesse che il capitale naturale ci frutta. Abbiamo invece raccolto, e continuiamo a prelevare, dal ‘capitale naturale’. E, di conseguenza, ci troviamo nei guai, specialmente con la pesca. Insomma, il quadro è poco rassicurante. Lei ha lascia116


to l’Europa e l’Italia da circa mezzo secolo. Che rapporti mantiene adesso? 
 I lavori parlamentari dell’Associazione Canada-Europa mi tengono di frequente in contatto con i parlamentari del Consiglio d’Europa, a Strasburgo, e con quelli del Parlamento europeo a Bruxelles. Da dieci anni sono Presidente della Canada-Europe Parliamentary Association e di conseguenza vado spesso in Europa con colleghi canadesi per partecipare a regolari dibattiti molto interessanti e d’attualità. Canada ed Europa. In che cosa si differenziano e in che cosa collaborano. In particolare per quanto riguarda l’ambiente. 
 Solamente sulle grandi linee si può lavorare insieme: ad esempio Kyoto oppure lo sviluppo sostenibile o la legge del mare (Law of the Sea). Le differenze legislative sono enormi per cui ci si deve limitare ad accordi che riguardano il miglioramento delle istituzioni. Indicativa in merito risulta la corrispondenza sul ruolo del Committee on Sustainable Development dell’Onu: l’azione comune con i colleghi europei c’è stata, ma non ha dato frutti. Ci sono prospettive di utili scambi reciproci? E in quali settori? 
 In campo culturale e in quello dei rapporti parlamentari tra Canada ed Europa. In tal senso, nel settembre scorso, abbiamo avuto ottimi incontri con senatori e deputati italiani. Come ha visto l’integrazione della comunità italiana in questo grande ed ospitale Paese? In quali ambiti gli italo canadesi si sono distinti e si distinguono? 
 Sia la prima che la seconda generazione si sono integrate con notevole successo nei settori dell’industria e del commercio. La creazione dei Comites rallenta l’integrazione e crea false speranze: la soluzione dei nostri problemi non si trova a Roma bensì a Ottawa, nelle capitali provinciali e nei governi municipali. Sotto sotto, è chiaro che i partiti politici in Italia 117


vogliono accalappiarsi il ‘voto all’estero’. Lei è ottimista o pessimista circa l’esercizio del diritto di voto – facilitato per via postale – dei cittadini italiani residenti in Canada? 
 Il voto degli italiani all’estero è un diritto, nessuno lo contesta, ma dopo dieci, venti e più anni di assenza, il voto diventa un intervento in una nazione, l’Italia, alla quale siamo legati da affetto e rispetto ma dalla quale siamo sradicati per quanto concerne la vita politica e sociale. Va detto che la legge adottata al riguardo, in Inghilterra, non riconosce il diritto di voto agli espatriati britannici quando la loro assenza supera i vent’anni. Vancouver, febbraio 2004

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NICOLÒ EUGELMI il brillante linguaggio della viola

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l linguaggio della musica è universale. La bella musica non parla italiano, francese, inglese, spagnolo, tedesco e così via. La vera musica vola più in alto della parola e trascende l’etnia di chi se ne fa interprete e diffusore. L’artista, il compositore, il musicista risentono senza dubbio dell’ambiente culturale in cui si sono formati, ma hanno il privilegio di esprimersi e comunicare al di là e al di sopra di contesti e culture particolari. È innegabile che la grande tradizione musicale europea - come d’altra parte quella orientale - sia attecchita nel continente americano, alimentandone l’humus e favorendo la crescita di nuove espressioni musicali. Che poi ci siano musicisti di origine europea, in particolare italiana, ad arricchire con le loro qualità e le loro specifiche personalità il mondo della cultura musicale è una realtà che ci rende orgogliosi. Sono personaggi votati all’arte universale, sono ascoltati e acclamati, ammirati e vezzeggiati, qualche volta anche benevolmente invidiati da chi non è stato baciato dalla loro munifica dea... ma sono pur sempre persone umane in carne ed ossa. È bello tastarne quest’umanità spesso così semplice e vera, capire almeno un poco le ragioni della loro chiamata, il significato del loro straordinario impegno. Al Chan Centre for Performing Arts della UBC - magnifico auditorio musicale aggiuntosi in anni recenti a teatri e sale concerti della città - è spesso di casa il celebre maestro Mario Bernardi. Notissimo direttore d’orchestra residente a Toronto, discendente da genitori trevisani di Asolo, studi musicali compiuti a Venezia e completati in nord America, curriculum operistico e classico invidiabile, applaudito in prestigiosi teatri e sale da concerti famosi nel mondo, da Londra a New York, da San Francisco a Mosca, una ricchissima discografia, ben sette 119


lauree ad honorem, fondatore del Centro delle arti musicali di Ottawa e direttore per anni della stagione operistica della capitale, il maestro Bernardi è stato di recente festeggiato al Chan Centre di Vancouver per il ventesimo anniversario quale primo direttore della CBC Radio Orchestra. Unica orchestra radiofonica tuttora operante in nord America, con sede a Vancouver, la CBC compiva 65 anni di vita. Le celebrazioni - ovvero la serie di concerti offerti all’appassionato pubblico del Chan, mandati più volte in onda dalle stazioni radio e diffusi anche in Europa - si sono prolungate per tre mesi. Assolutamente coraggiose e innovative le esecuzioni di spartiti di nuovi compositori canadesi, come i giovani John Burge e Cameron Wilson (coautore quest’ultimo con il narratore Stuart McLean della brillante satira ‘The History of Canada’) ma anche orientali, come Bright Sheng e Tan Dun, il cui Concerto per Erhu ha trovato nello shangainese George Gao un eccezionale interprete. Il gran finale è stato tuttavia tutto di Mario Bernardi, “the most celebrated Canadian conductor of his generation” e “one of today’s master interpreters of Mozart”: il prediletto Mozart, ogni volta riportato splendidamente in vita grazie alla genialità interpretativa e grazie alla rispondenza di un’eccellente orchestra. Il programma mozartiano comprendeva l’overture della Clemenza di Tito, la Sinfonia concertante in Mi bemolle maggiore per violino e viola, il Concerto in Do maggiore per piano e orchestra, la Sinfonia in Re maggiore “Haffner”. Anche questa volta Bernardi - lo scopritore di talenti - quanti ne ha fatti conoscere e valorizzare durante la lunga e generosa carriera! - aveva accanto tre dotati giovani solisti: la pianista Katherine Chi, il violinista Jonathan Crow ed il violista Nicolò Eugelmi. Conosciuto quest’ultimo come “uno dei più importanti violisti del nostro tempo”, il giovane Eugelmi è elogiato dalla critica e dal pubblico per stile, presenza e originalità di interpretazioni. Primo violista dell’Orchestra sinfonica di Montreal, Nicolò si è laureato alla UBC di Vancouver ottenendovi poi i Masters in Musica e Musical Performance, e si è ulteriormente specia120


lizzato alla Juilliard School di New York. Al giovane brillante musicista canadese - di origine tedesca per parte di madre e italiana per parte di padre - ho rivolto alcune domande. Com’è nata e come si è sviluppata la sua vocazione musicale? Mio padre è stato cantante d’opera, mia madre - proveniente dalla Germania - suonava la fisarmonica. In casa si ascoltava in permanenza l’Opera, così come sempre udivo musica classica di autori tedeschi quand’ero in visita ai nonni materni. Solamente più tardi potei apprezzare il valore di quei vecchi dischi che tutti ascoltavano: erano le migliori interpretazioni allora disponibili di musica classica da parte di tradizionali orchestre tedesche, ed opere italiane con Pavarotti, Domingo, Tebaldi e così via. Avevo il meglio di ambedue i mondi dei miei genitori, e non lo sapevo. La mia reale ispirazione a studiare violino nacque assistendo allo show televisivo Don Messer’s Jubilee del violinista canadese dei Maritimes! Forse questa non è la risposta romantica che si aspettava... ma è la pura verità. Mi affascinava vederlo suonare con quella straordinaria abilità e vivacità, volevo diventare come lui. Bene, mio padre mi iscrisse al Conservatorio di Regina e, mi creda, mai io avrei suonato fiddle music. A quindici anni, non godendomi il violino, decisi di cambiare e scelsi la viola. Le poche differenze tra i due strumenti fecero la differenza. Immediatamente sviluppai una vera e propria “passione” per la viola e la musica classica. In sei mesi, all’età di 15 anni, seppi che avrei consumato la mia vita come violista. Essere nato in Canada da genitori europei come la porta a definire la sua identità? Domanda davvero interessante - me la sono posta per gran parte della mia vita. Non sono assolutamente cresciuto in una comunità “etnica”, italiana, tedesca o altra, e come risultato non parlo né italiano né tedesco. I miei genitori comunicano tra loro in inglese, e questa è la mia lingua. Da bambino ho imparato a parlare francese nella mia scuola bilingue, ho appreso 121


un po’ di italiano all’università, e non parlo per nulla il tedesco. Tuttavia, interessante abbastanza, ho alcune caratteristiche italiane e tedesche nella mia personalità, per cui generalmente (ed umoristicamente) mi considero un organizzato Italiano o un disorganizzato Tedesco, ma soprattutto un Canadese. Come vive la sua realtà di artista in rapidissima ascesa, acclamato dal pubblico, riverito dalla critica e stimato da esperti Maestri? Tutto ciò convalida il mio impegno di artista. Gli artisti lottano in permanenza per portare musica alla vita, e vale la pena di essere capaci di toccare così tanta gente. Dopotutto, la musica è anche comunicazione. Nel corso delle sue tournee internazionali è stato anche in Italia: può accennare a somiglianze e differenze dei due ambienti musicali (italiano e canadese)? Per molti aspetti i due paesi sono abbastanza all’opposto. La musica classica è parte della struttura culturale dell’Italia, non lo è invece in Canada, tradizionalmente “pop-oriented”. In Italia chiunque può cantare, bene o male, e conoscere molte arie d’opera e brani di musica classica. In Canada non è la stessa cosa, tuttavia - mediamente - il musicista classico canadese possiede un più alto grado di competenza tecnica strumentale, come è tipico dello stile nordamericano, che focalizza la precisione tecnica a scapito talora dell’emozione artistica. Quale messaggio vorrebbe trasmettere ai giovani che amano l’arte, la musica “vera” in particolare (in questo mondo globalizzato, dominato dal materialismo e dalla fretta di possedere e consumare...)? La musica classica, e le arti in generale, in Nord America stanno lottando per non morire. La musica (la vera musica) è una finestra sull’anima. L’odierna società della fretta e degli espedienti, inadeguate soluzioni ai problemi, non si preoccupa della qualità, o delle proprie origini. Non lasciamole morire. Vancouver, marzo 2004 122


LICIA CANTON scrittura e Accenti

I

n linea diretta tra Vancouver e Montréal, sponde opposte ma affini dello stesso grande Canada, mi è stato possibile conoscere una giovane donna d’origine veneziana, colta e intraprendente, la cui testimonianza di vita e di lavoro è esemplare di-e-per quanti desiderano operare sintesi feconde tra la ricca eredità culturale italiana e le dinamiche realtà della patria canadese. Licia Canton è nata a Cavarzere – antica cittadina in provincia di Venezia, sorta lungo l’Adige, e fieramente legata al leone di San Marco – da dove è stata “sradicata” (l’espressione è sua), all’età di 4 anni. È cresciuta a Montréal in una famiglia protettiva circondata da amici provenienti dalla stessa zona del Nord Italia, tutti o quasi che parlavano el cavarzeran. I genitori, Achille ed Edda, hanno sempre lavorato insieme; lei ed Ester, la sorella, sono state educate a collaborare nell’azienda familiare durante i fine settimana e le vacanze estive: un metodo frutto di tradizione e innovazione. A Montréal, la Canton ha compiuto i suoi studi, conseguendo bachelor e master alla McGill. Ha poi completato un dottorato di ricerca (PhD) in Letteratura canadese all’Università di Montréal. Da dieci anni si occupa di Letteratura delle minoranze, in particolare di Letteratura italo-canadese. È stata relatrice a conferenze di scrittori, ha pubblicato articoli, e curato tre libri: The Dynamics of Cultural Exchange: Creative and Critical Works (raccolta di scritti italo-canadesi), Adjacencies: Canadian Minority Writing (con D. Beneventi & L. Moyes) e Antonio D’Alfonso: Essays on His Works. Fa parte dell’esecutivo dell’Associazione Scrittori/Scrittrici Italo-Canadesi in qualità di vice presidente. Licia è sposata con l’editore Domenico Cusmano. “Ci sia123


mo conosciuti quando insegnavamo entrambi Inglese – racconta – ed è stato lavorando insieme ad un progetto editoriale che abbiamo scoperto le nostre affinità”. Uniti in matrimonio dal 1993, hanno tre figli: Liana, Dario e Decio, nati rispettivamente nel 1995, 1997 e 2001. “Siamo genitori molto presenti: organizziamo le nostre giornate e il nostro lavoro per poter essere con i figli. La nostra è una famiglia unita, siamo vicini a genitori e fratelli. Sono felice che i bimbi crescano amando ugualmente nonni e zii. Sono molto legata anche alle mie radici. Tornavamo spesso in Italia, d’estate, a visitare nonni e zii non emigrati. I miei genitori volevano mantenere i legami, volevano che conoscessimo la famiglia. Ci tengo ancora molto, anche se l’ultima nonna è deceduta pochi mesi fa. Ogni qualvolta vado in Europa per lavoro, faccio sempre una sosta a Cavarzere”. Ma come s’identifica, personalmente, Licia Canton? “La persona che sono – afferma – è la somma totale delle lingue e delle culture che mi hanno influenzata: il cavarzerano, il francese, l’inglese, l’italiano, il tedesco, lo spagnolo. E sì, la lingua italiana è quarta nell’ordine cronologico”. Tuttavia, buon sangue non mente: lei ha denominato con un’italianissima parola la sua ultima creatura: Accenti, The Canadian Magazine with an Italian Accent.

Può dirmi com’è nata Accenti e qual è l’idea conduttrice della pubblicazione? 
 Accenti è nata dal desiderio di creare ponti tra gli italo-canadesi attraverso il Canada: non soltanto ponti geografici, ma tra generazioni, arti e professioni. Accenti, secondo me, è un mezzo d’espressione rivolto a dimostrare (agli italo-canadesi stessi, ma anche ai canadesi e ai nord-americani) chi sono i discendenti degli italiani in Canada e quali contributi hanno dato. È la realizzazione di un’idea che germinava nella mente da oltre vent’anni. Il progetto finale è molto più ampio di quello previsto. Non esisteva, prima di Accenti, una rivista che unisse 124


gli italo-canadesi da una costa all’altra del Paese. Qual è il vostro target? 
 A tutti coloro (d’origine italiana o meno) che abbiano un’affinità per cose, idee e argomenti di natura italiana e italo-canadese; a giovani e meno giovani, ad intellettuali e non. I nostri articoli sono leggibili dal pubblico in generale, poiché Accenti è di facile lettura ma invita a riflettere sui temi proposti. Lei e suo marito – rispettivamente direttore ed editore di Accenti – siete canadesi d’origine italiana, vivete e lavorate a Montréal, in un contesto french-canadian. Perché, dunque, i contenuti della rivista sono trattati esclusivamente in lingua inglese?
 Io sono nata in Italia, Domenico in Canada da genitori di Reggio Calabria. Viviamo, è vero, in un contesto french-canadian, quebecois. Nonostante questo, la maggioranza degli italo-canadesi del Quebec è trilingue. La rivista è in inglese per poter raggiungere quanti più lettori possibile attraverso il Canada; questo ci ha anche permesso di acquisire abbonamenti negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, in Francia e perfino in Cina! L’inglese è la lingua che unisce il territorio e le generazioni. Molti dei miei coetanei, anche quelli che parlano l’italiano, non leggerebbero una rivista in italiano. Accenti è la chiave per trasmettere cultura italiana, e cultura italo-canadese, a chi non ha confidenza con la lingua italiana. Accenti attrae attenzione e interesse da parte di chi non è italiano ma ama le cose italiane e lo stile italiano. So che lei è particolarmente impegnata nell’Assic, l’Associazione Scrittori/Scrittrici Italo-Canadesi. Quali legami ci sono tra la vostra impresa editoriale e l’Associazione? 
 Sono due entità completamente indipendenti. Accenti è un’iniziativa editoriale privata, di proprietà di Canton e Cusmano. Tuttavia, alcuni scrittori di Accenti – editore e direttore inclusi – sono membri dell’Assic (AICW in inglese).
Domenico ed io siamo stati molto attivi nell’Associazione: impegnati 125


nell’esecutivo nazionale, per quattro anni abbiamo pubblicato il bollettino interno e abbiamo organizzato nel 2000, a Montréal, l’ottavo convegno Assic, dal quale è uscito anche il libro da me curato e pubblicato nel 2002. Qual è, ora, il suo ruolo nella preparazione della Conferenza biennale dell’AICW che avrà luogo a Udine, in maggio? Il tema è affascinante e impegnativo. Può anticiparci qualcosa?
 È la prima volta che si tiene una conferenza biennale in Italia, e ne sono veramente orgogliosa. Nel 2000, alla conferenza di Montréal, ho proposto l’idea ai soci e all’esecutivo, e ho poi preso contatto con la professoressa De Luca dell’Università di Udine. Lei ha successivamente partecipato alla nostra conferenza del 2002 a Toronto. L’Università di Udine ci ha quindi invitati ufficialmente per il 2004. Il mio mandato è di organizzare la conferenza per conto dell’Associazione e in collaborazione con il Comitato del Centro di Cultura Canadese dell’Università di Udine. Nell’ultimo anno mi sono dedicata a promuovere la conferenza presenziando a convegni (in Francia e in Ungheria), facendo in modo che i relatori siano non solo di estrazione Assic ma anche cattedratici, critici e scrittori operanti in Francia, Ungheria, Belgio, Stati Uniti, e naturalmente Italia e Canada. Il tema del convegno internazionale è “Oltre la storia: l’identità italo-canadese contemporanea”. Prevede relazioni su letteratura, storia, arte, cinema, arti visive, teatro, ecc. È prevista un’esposizione intitolata “Immagine e parola” con la partecipazione di cinque scrittori e cinque artisti. E, inoltre, una mostra di libri con il lancio di nuove pubblicazioni. Vancouver, aprile 2004

Per aggiornamenti vedere www.accenti.ca

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SEVERINO TRINCA l’inquietudine dello scultore

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nche quest’anno, all’inizio di primavera, Severino Trinca è ritornato a Vancouver. A quattro anni dalla scomparsa della moglie Bruna, egli continua a fare il pendolare tra la sua baita di montagna sopra il lago di Como e la casa di Vancouver dove vive il figlio Gregorio con la moglie giapponese e la loro piccola Marina. Poco lontano, accanto all’ex studio dello scultore, abita anche la famiglia di Emanuele, l’ultimogenito, architetto e due volte padre. Lorenza aveva invece lasciato il Canada molti anni fa, andando sposa in Italia, e là era nata Francesca, ora studentessa universitaria. Si capisce perché i genitori, e più tardi i nonni, diventano “pendolari” quando la famiglia si spartisce. Un pochi di qua e un pochi di là. Già di per sé chi emigra è una specie di ibrido in eterna mutazione.... anche se diventa capace di far nascere nuove radici laddove il terreno era estraneo.... ma quando si tratta di figli e di nipoti è giocoforza inventare tipi nuovi di stabilità e di mobilità. Sempre che si creda nel valore della famiglia, nella sua perenne capacità di rinnovarsi trasmettendo affetti e ideali. I Trinca erano arrivati a Vancouver nell’inverno del 1966 con i figlioletti Lorenza e Gregorio. Bruna era incinta, mancavano appena due settimane alla nascita del terzogenito, arrivato come un Bambino Gesù proprio alla vigilia di Natale, ecco il perché del nome Emanuele. Severino aveva alle spalle un’avviata carriera di scultore, con opere per il teatro e per istituzioni civiche e religiose, ma era alla ricerca di maggiori spazi di libertà. Nato a Villaguardia di Como nel 1927, aveva individuato presto la sua vocazione, perseguendola nonostante l’opposizione della famiglia che non voleva saperne di artisti. Tabù abbastanza diffuso in passato. Se ne andò a Milano dove 127


si formò alla scuola di Giannino Castiglioni e poi a Brera con Francesco Messina. Erano gli anni caratterizzati dalla presenza di Marino Marini, come Manzù ribelle al movimento novecentista. Trinca fece tesoro di tutto. “Ha portato con sé in Canada alcune importanti idee sviluppate da artisti italiani - secondo quanto lasciato scritto dal collezionista d’arte prof. Firestone dell’Ontario Heritage Foundation - e le ha usate per i suoi concetti e predilezioni e con esse ha contribuito significativamente al patrimonio culturale canadese”. E ancora: “In Italia Trinca ha prodotto sculture in acciaio, bronzo, marmo, legno e gesso. In Canada ha esteso ancor più la gamma delle tecniche includendovi creta, fibra di vetro, plastica e filo di rame”. Nel 1974 ebbe la sua prima mostra alla Vancouver Art Gallery. Nel 1977 completò una commissione di 28 statue a grandezza naturale per un Christian Garden in Cariboo, acquistate e successivamente trasferite da Lillian e Bill Van der Zalm (premier quest’ultimo della British Columbia negli ultimi anni novanta) all’allora Fantasy Garden di Richmond, ed ora parte di una collezione privata a Surrey. Nell’autunno del 2000, rientrato a Vancouver dolorante per la morte della moglie che aveva assistito a lungo, fino a quell’ultimo 29 aprile (“Bruna, che sempre mi è stata vicina piena di comprensione ed amore”), si riaccostò pallido e curvo alle molte opere abbandonate nel vecchio studio di scultore. Come i figli, quelle opere erano creature sue, testimoni di oltre un trentennio di ricerca e di vita: la sua vita in Canada, dove non sarebbe mai più rimasto in permanenza, dove sarebbe ritornato esclusivamente da pendolare, perché la tomba della sua Bruna e la baita-studio dove avevano vissuto l’ultimo tempo insieme erano lontane, nel nord Italia.... anche le più recenti commissioni di lavoro erano là.... ed erano là sua figlia Lorenza con la nipote Francesca .... Gli venne spontaneo un desiderio (o forse ci aveva pensato a lungo?) e me ne parlò. Ebbi il privilegio, da amica, di essergli vicina per realizzarlo. Avrebbe donato le sue opere - quotate oggi a valori sull’ordine delle 128


decina di migliaia di dollari ciascuna - ad una o più istitutizioni pubbliche disposte ad accettarle. Pensai immediatamente alla Simon Fraser University e all’allora curatrice della sua Art Gallery, Grazia Merler, una carissima amica. Anni indietro la SFU aveva ospitato un’importante personale di opere di Trinca, ne aveva anche acquistato una significativa scultura. In seguito all’entusiasta e generoso interessamento della prof. Merler, la donazione è stata in breve tempo formalizzata. È stato un piacere ma è stata anche una sfida. Le seguenti opere di Severino Trinca fanno ora parte del patrimonio artistico dell’università Simon Fraser: Black Hole in acciaio, installata nel Foyer della Bennett Library, dove già si può vedere anche il grande gruppo ligneo Family del 1978; Kiss del 1984, in noce rivestito di fili di rame, abbellisce l’ufficio PR all’Harbour Centre; Evolution del 1995, in ciliegio colorato, è nella sala riunioni del Presidente nel Burnaby Campus; in attesa di definitiva collocazione sono Contorted Woman del 1995, in legno di ciliegio, e l’opera in vetroresina Seed del 1979; Crown del 1989, in ciliegio naturale, è nella residenza ufficiale del Presidente dell’università’ al Burnaby Campus. Vent’anni fa un noto critico d’arte locale, Gordon Rice, al tempo vice direttore dell’Art Gallery di Surrey che aveva allestito nel 1980 una mostra importante dei lavori di Trinca, scrisse: “Per quanto Trinca abbia insegnato per sette anni alla Scuola d’Arte di Vancouver (l’attuale Emily Carr College of Art and Design, nda) e i suoi lavori siano stati esibiti in alcune importanti Gallerie, io credo che la sua arte non sia stata mai sufficientemente apprezzata in questa parte del mondo. Una certa restrittiva tendenza modernista e minimalista lascia poco spazio alle sue opere fantasiose ed originali.... Sarebbe bello poter vedere alcune opere di Trinca in una grande piazza alla luce del crepuscolo.... Occorre tempo per comprendere una personalità autentica....” C’è voluto un quarto di secolo - ma anche la modestia e la ritrosia di Trinca a promuovere se stesso, cosa che non ha mai fatto! - perché il mondo dell’arte canadese 129


cogliesse l’essenza del messaggio di questo figlio della Valtellina. Operazione Simon Fraser a parte, di recente la collezione Firestone (Ontario Heritage Foundation, più sopra nominata) comprendente parecchie significative opere canadesi di Trinca è stata donata al Museo delle Civiltà di Ottawa. In questo momento Severino Trinca, come un eremita in cerca di silenzio e di verità, è tornato lassù nella sua baita di Carate Urio. Ha finito di scolpire quattro pannelli in bronzo ispirati ai misteri del Rosario per una stele che andrà ad abbellire la piazza antistante la quattrocentesca chiesa di Maccio, in comune di Villaguardia di Como, il luogo natale che l’ha riaccolto dopo tanti anni promuovendone l’arte e proclamandolo “cittadino onorario”. Nelle opere post-canadesi della maturità Trinca è diventato ancora più essenziale: scavando in se stesso e modellando la materia affidata alla sua creatività egli ci trasmette un messaggio di spiritualità. Quella spiritualità ricca di profonda umanità che traspira dagli episodi della vita della Madonna ma anche dal monumento funebre dedicato alla sua Bruna 1: una grande foglia in bronzo adagiata sulla lastra tombale. L’ossidazione richiama il colore della speranza e la foglia sembra potersi alzare leggerissima in volo.... per tenere ancora e per sempre unita una famiglia spartita al di qua e al di là dell’oceano. Vancouver, luglio 2004

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Bruna Bosetti Trinca (1929-2000)

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ENZA UDA un’anima globale

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nza Uda, giornalista, lavora da qualche anno nel dipartimento di produzione televisiva della CBC (la Canadian Broadcasting Corporation, più o meno l’equivalente della RAI in Italia). Canadese di origine sardo-filippina, nata a Vancouver nel 1973, ella può ben esemplificare il profilo di molti giovani intellettuali e professionisti a noi contemporanei. Il fenomeno dei matrimoni misti, anche se in crescita esponenziale nell’attuale contesto multietnico, esiste da tempo, ed è indicativo di come è cambiata e sta cambiando la nostra società. Soprattutto può farci capire la necessità di essere duttili, aperti alle trasformazioni in corso, capaci di una visione ecumenica, pur nel rispetto e nel mantenimento di alcuni valori fondamentali, quelli al servizio della persona e non al suo indiscriminato utilizzo. Fa piacere che giovani come questi abbiano una frazione di sangue italiano e siano fieri di averlo, fa piacere che siano disponibili per alcune iniziative della locale comunità italiana (come Enza Uda, di recente correlatrice alla sezione informazione di una tavola rotonda organizzata dal Congresso degli italocanadesi). Ma nello stesso tempo fa piacere vederli proiettati in avanti, liberi di battere nuove strade, di aprire nuovi percorsi di ricerca, tesi ad affermare ideali di supernazionalità e superrazzialità. Enza Uda è sposata ad un sudamericano, e per la loro figlioletta vede un futuro “senza confini e senza etichette”. Chi sono i tuoi genitori e di dove sono originari? Antonio Uda ¹, nato in provincia di Nuoro in Sardegna, e Angeles Mercado nata a Manila nelle Filippine. Ambedue immigrati in Canada negli ultimi anni sessanta. Mio padre visse per un certo periodo a Regina, nello Saskatchewan, dove operava come perito agrimensore. Si trasferì in seguito a Van131


couver per lavorare al Consolato italiano, e qui incontrò mia madre. Lei lavorava alla Bank of British Columbia. Come hai trascorso gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza? Che lingua parlavi in famiglia. Parlavamo un misto di tutti e tre i linguaggi, inglese, italiano e filippino. Ma la nostra interazione si svolgeva soprattutto in inglese, nostro comune denominatore. Sono cresciuta vivendo in giro per il mondo, dal momento che mio padre lavorava per il Ministero italiano degli Esteri. Siamo stati a Sydney in Australia per cinque anni, a Manila nelle Filippine per tre anni, poi ci siamo trasferiti a Roma dove io ho concluso le superiori conseguendo la Maturità. Rientrati a Vancouver, ho poi conseguito alla UBC, l’Università della British Columbia, una laurea in Relazioni Internazionali e Italiano, e un Master in Giornalismo. Ti piace il tuo lavoro, come lo vedi proiettato nel futuro? In generale mi piace quel che faccio, è un processo quotidiano di apprendimento, conosci nuove persone, impari come gira il mondo intorno a te. D’altra parte è un’opportunità di condividere “stories” con il pubblico. Spero di rimanere nel giornalismo di attualità. Preferisco essere capace di indagare in profondità un soggetto o un problema, anziché provvedere coperture superficiali in programmi giornalieri. Di quali avvenimenti ti sei occupata in particolare? Al momento collaboro alla produzione di “Cover Story”, un servizio speciale di dieci minuti per il notiziario televisivo delle ore sei pomeridiane. Usualmente mandiamo in onda storie prodotte attraverso la rete televisiva della CBC. Sono anche impegnata a produrre servizi originali. Il più recente riguardava la crescita della comunità colombiana, un altro era sull’utilizzo di Tasers da parte del dipartimento della Polizia di Vancouver. In precedenza ho lavorato per un programma investigativo cancellato nella scorsa primavera. Si trattava di fatti di alto profilo nazionale, tra gli altri quello riguardante un criminale di guerra nazista che vive a Vancouver. E poi il traffico 132


di lavoratori del sesso, il contrabbando d’armi, la pornografia minorile. Il lavoro che più mi soddisfa è journalism with an impact cioè il giornalismo d’urto. Quali lingue conosci? Quante cittadinanze hai? Parlo tre lingue, inglese, italiano e spagnolo, conosco un po’ di filippino e di francese. Due, canadese e italiana. Come percepisci le due diverse culture che ti hanno trasmesso i tuoi genitori? Ambedue fanno parte di ciò che sono come persona. E io sono ciò che mi fa unica rispetto a molti altri, e nello stesso tempo simile a molti. Mi spiego: io mi sento a casa quando sono in Canada, quando sono in Italia, e quando sono nelle Filippine. E penso di essere una persona differente in ognuno di questi luoghi dal momento che ho l’abilità di adattarmi facilmente ad ogni ambiente. Mi identifico in larga misura con tutti e tre i Paesi. Ma, nello stesso tempo, c’è sempre una parte di me un pò diversa. È questa dualità, questo “push and pull” (tira e molla), cioè la sensazione di essere a casa dappertutto e in nessun posto, che costituisce contemporaneamente per me un vantaggio ed uno svantaggio. Pensi di essere riuscita a fare una sintesi delle culture? Questa sintesi è ciò che sono. Questa è la realtà della mia esistenza... Le culture sono talmente forti, da ambedue le parti, da rendere impossibile sopprimerne, nasconderne o ignorarne una delle due. Mio padre è così fieramente sardo, e mia madre così appassionatamente filippina, e perciò io sono stata allevata in un mondo completamente bi-culturale. Ho avuto inoltre l’opportunità di vivere, studiare, lavorare e “respirare” ambedue i Paesi e le loro culture. Tanto in profondità che sono veramente parte di me. Hai mai vissuto momenti di disorientamento? Da canadese, come definisci la tua identità? Per me l’identità è stata sempre un concetto flessibile e volatile. Credo che potrei essere definita, come fa lo scrittoreviaggiatore Pico Iyer 2, un’ “anima globale”. La persona in133


quieta, non radicata, è costantemente in cerca dell’inafferrabile “casa” in questo mondo instabile e frammentato. Hai sposato un sudamericano, Ricardo Gomez. Avete una bellissima bambina, ricca non solo nei tratti fisici per le molte eredità. Come vedi e desideri il suo futuro? Il futuro per mia figlia sarà un mondo di infinite possibilità. Spero che lei si realizzi per ciò che veramente è, e non sia costretta entro confini ed etichette. In questo mondo globalizzato, il nazionalismo sta sempre più diventando un anacronismo, perlomeno per gente come Sofia e come me. Come avverti le comunità locali di origine dei tuoi genitori, filippina ed italiana. E in quale rapporto sei? Partecipi a qualche iniziativa? Sfortunatamente, non ho avuto molto tempo da dedicare alle comunità culturali. Da ragazzina sono stata impegnata con un gruppo di danza folcloristica filippina. Di quando in quando sono stata coinvolta nelle iniziative del Club Sardo e della comunità italiana. Sia pure con anima globale e vocazione da globetrotter, quale il rapporto con Vancouver dove sei nata, vivi e lavori? È il luogo in cui si sono sposati i miei genitori, dove io sono nata, dove mi sono sposata e dove ho partorito mia figlia. È il posto da noi scelto per costruirci la casa. Nonostante i momenti in cui non mi vedo in relazione con la corrente della la cultura anglo-canadese, ci sono molte realtà a Vancouver che mi fanno sentire collegata: i dim sum nelle domeniche, il profumo dell’aria leggera ed umida, il Pacifico combinato con il verde degli alberi, il salmone affumicato, un’escursione nel parco... È la realtà più vicina alla “casa” che io abbia mai conosciuto. Vancouver, gennaio 2005 1

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Antonio Uda 1933 - † 2005 Pico Iyer, noto giornalista e scrittore viaggiante, nato in Inghilterra da genitori indiani.

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VIVIANA DAL CENGIO tra chimica e performance

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entidue anni, laureanda in Chimica alla Simon Fraser University, Viviana Dal Cengio ha ben chiari i suoi obiettivi per il futuro: lavorare nel campo della ricerca e del controllo delle malattie infettive e, insieme – confessa in modo scherzoso – fare l’attrice, sua principale vocazione. Vedremo come intende articolare interessi talmente opposti. Fervida, estroversa, simpaticissima, Viviana è nata a Vancouver da padre vicentino e madre cinese di Hong Kong. “Erano arrivati in Canada appena ventenni, e si sono conosciuti frequentando i corsi di ESL, inglese come seconda lingua!”, dice ammiccando la giovane. Mi informa inoltre che sua madre è impiegata alla City of Surrey mentre il padre, piccolo imprenditore, ha da poco ceduto il proprio business per dedicarsi ad altri interessi. La giovane ha una sorella dodicenne, Louisa, e due fratellini: Danilo di 10 anni e Gabriele di 6. “Siamo una famiglia molto unita – confida – ci piace andare al cinema tutti insieme o guardare a casa film a noleggio, ma in relazione ai miei fratelli avverto me stessa più come madre che come sorella. Ora che Louisa è cresciuta, studiamo insieme e insieme andiamo a fare la spesa. E per far divertire i miei fratellini, trascorro con loro parecchio tempo al parco, correndo sui sentieri intorno al vicinato”.
 Quanto alla sua provenienza mista, “essere bi-razziale non è mai stato un grosso problema per me (salvo che alla preschool, e ne vedremo in seguito la ragione) afferma Viviana. Semplicemente perché ho frequentato una scuola primaria dove molti ragazzi erano bi-razziali o addirittura multirazziali. A dire il vero, non ci ho mai fatto troppo caso fino alle secondarie, dove mi sono sentita molto orgogliosa della mia etnicità, e ho cominciato a partecipare a concorsi di bellezza etnici, nel 135


contesto dei quali potevo sentirmi parte delle comunità cinese o italiana”. Negli anni recenti, la giovane, oltre a vincere meritate borse di studio, è stata eletta Miss Sunshine Coast, e si è classificata seconda all’ultimo concorso per Miss Italia in Canada. Come hai trascorso gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza e quale lingua parlavi in famiglia? 
 La mia prima lingua è stata il cinese, ma una volta entrata alla preschool ricordo di aver chiesto a mia madre di non parlare cinese di fronte ai miei compagni perché erano cattivi, e mi avrebbero presa in giro per il fatto di essere “differente”. Da quel momento, lei cessò di rivolgersi a me in cinese, e sfortunatamente non ricordo molto del linguaggio della mia infanzia. In casa parliamo inglese, tuttavia mia sorella si esprime fluentemente anche in cinese. Louisa e mamma, tra loro, non parlano mai inglese. Così, in questi ultimi anni, ho cercato di afferrare e imparare qualche espressione, ma vorrei conoscere meglio quella lingua. Da ragazzina ho trascorso parecchie estati in Italia con i parenti di mio padre – soprattutto con mia nonna – e nel corso degli anni ho appreso l’italiano immergendomi completamente nella cultura italiana. Gli studi hanno in seguito assorbito anche le mie estati e non ho più potuto viaggiare come mi sarebbe tanto piaciuto. Nello scorso mese di agosto, ho potuto finalmente fare ritorno in Italia dove ho vissuto con la mia più cara amica, che si è trasferita lì, e ho rivisto i miei cari dopo ben 11 anni! Dalla parte di mia madre, ho dei parenti che vivono nella British Columbia, e frequentandoli ho la possibilità di conoscere meglio anche il mio patrimonio culturale cinese.
 Quale corso di studi stai seguendo, e quale professione vorresti intraprendere? 
 In previsione del mio futuro professionale, sto studiando Chimica, con particolare riguardo alla Biochimica, ma mi interessa moltissimo anche la Chimica inorganica. Vorrei poter la136


vorare allo United States Army Military Research Institute for Infectious Diseases di Fort Detrick, nel Maryland, oppure come chimica analista in uno dei Centre for Disease Control della British Columbia o dell’Alberta, in Canada. Con una delle mie più care amiche ci stiamo anche divertendo intorno all’idea di avviare, una volta laureate, una compagnia di cosmetica. Per vocazione, tuttavia, io sono un’attrice.
Compatibilmente con i miei studi, ho già fatto dei commercials e ho lavorato come indossatrice, e mi piacerebbe continuare. Voglio fare tutto! Ho così tante passioni rispetto a ciò che vorrei fare nella mia vita: penso che finirò per intraprendere molte carriere fintantoché non ne individuerò una (o due!) che mi rendano felice.
 Quali e quante lingue conosci e parli?
 Parlo inglese e italiano, ho studiato francese per sei anni; fino all’anno scorso è stata la mia materia complementare all’Università. Posso più o meno capire conversazioni in cinese e in spagnolo, ma ho difficoltà a parlare fluentemente queste due ultime lingue.
 Qual è la tua percezione delle due diverse culture d’origine dei tuoi genitori? 
 Entrambi i miei background sono molto ricchi di storia e di cultura. Inoltre apprezzo enormemente i contributi dati da tutti e due alla tecnologia e, in generale, allo stile di vita del Canada. Per quanto riguarda l’aspetto italiano, ho sempre impressa in me la casa della nonna paterna, circondata da vigneti, e dove c’erano l’orto e il pollaio; il piacevole modo di vivere, con pane fragrante e latte fresco la mattina, e la possibilità di andare tranquillamente al mercato in bicicletta e tornare facendo tappa per gustare un gelato. La mia visione è differente riguardo l’aspetto cinese. Mia madre è cresciuta dovendo lavorare intensamente per aiutare sua madre. Ricordo la casa di mia nonna con i suoi spazi efficienti; là tutto era efficiente, l’andamento di vita più veloce, una vita piena di soddisfazioni personali per i successi conseguiti, di spontanea e facile mo137


bilità. Amavo la facilità d’accesso alla metropolitana e ai bus a due piani, i pochi passi da fare per raggiungere qualsiasi posto, ovunque fosse ad Hong Kong. In Italia, invece, il traffico è piuttosto confuso e spesso ho dovuto pianificare con ore di anticipo l’uscita dalle città che visitavo. Posso dire che i miei background sono all’estremo opposto, e mi piace poter affermare che il mio patrimonio culturale è composito.
 Tu personalmente sei riuscita a farne una sintesi? Hai vissuto momenti di disorientamento? E da canadese come definisci la tua identità?
 È veramente difficile adottare una cultura mentre l’altra è per molti aspetti differente. Non posso dire di essere più cinese o più italiana perché non sono mai solamente l’una o l’altra. Posso adattarmi a ciascuna cultura quando vi sono immersa, e mi piace partecipare ad eventi tradizionali ed essere con famiglia ed amici di entrambi i Paesi; ma ho anche imparato abbastanza bene a fare miei gli aspetti delle culture che maggiormente mi attraggono e mi definiscono come cino-italo-canadese. Ho anche sperimentato la sensazione di essere spiazzata in un contesto etnico, e così faccio miei valori e comportamenti morali appresi da entrambe le culture. E mi ripeto di essere privilegiata per essere differente dagli altri.
 Come avverti le due comunità locali d’origine dei tuoi genitori e in quale rapporto sei con le stesse? Partecipi a qualche iniziativa? Pensi che ci sia attenzione ai giovani e risposta alle vostre problematiche? 
 Ho sempre avvertito le comunità etniche come troppo esclusive per chi è di cultura mista come lo sono io. Da adolescente provavo disagio. Tuttavia, crescendo, aumentava in me anche l’apprezzamento della tradizione e la voglia di partecipare ad eventi comunitari. Con mamma e Louisa condividiamo avvenimenti musicali e danze d’ispirazione cinese, e con l’intera famiglia celebriamo le festività cinesi e italiane. Ho sempre fatto in modo di restare collegata con ambedue le comunità. Mi pia138


ce molto vedere organizzati, all’università, club studenteschi i cui aderenti possono essere di qualsiasi provenienza etnica, indipendentemente dall’appartenenza ad un particolare gruppo. Penso che le giovani generazioni siano meglio disposte ad accettare estranei in un gruppo culturale e lavorare insieme per mantenere l’identità. Cosa difficile se non impossibile per un sacco di gente più anziana. Penso che i club tradizionali rispondano ai problemi della mia generazione aiutando l’educazione tramite borse di studio. E poi chiunque può sempre trovare associazioni come quella degli Alpini, l’ANA, che raccoglie fondi per l’Ospedale dei bambini e per le cure del cancro. Fondamentalmente, penso che i problemi affrontati da una generazione siano abbastanza differenti da quelli della successiva, è sempre difficile focalizzare problemi specifici. Ad ogni modo loro fanno un lavoro favoloso! Vancouver, febbraio 2005

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Canada Place: centro congressi e porto turistico di Vancouver

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PIETRO CORSI il navigatore scrittore

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na vita avventurosa quella di Pietro Corsi, ricca di sfide personali e di esperienze comunitarie. Moderno Ulisse, lasciò giovanissimo il Molise, sua terra natale, per esplorare il mondo alla ricerca di se stesso e del senso della vita. Curioso, inquieto e determinato, la sua è la storia di un personaggio che ha percorso le tappe della giovinezza e della maturità costruendosi opportunità di lavoro e d’impegno non comuni. Nei suoi libri, romanzi-verità e saggi sull’emigrazione, è racchiuso il segreto di un movimento senza tregua, di una vita che s’è realizzata nel servizio agli altri. Come se quest’uomo avesse trovato la gioia di vivere, che l’aveva stuzzicato adolescente, creando occasioni di gioia per tanti: tramite i mezzi di comunicazione, la cooperazione con l’industria cinematografica, il turismo del mare... e, in ultima analisi, la scrittura creativa, viaggio senza età e senza stanchezza. Ma come rievoca quest’avventura? “All’età di 13 anni ho lasciato la scuola pensando che avrei potuto farne a meno, ma anche se oggi so che è stato un errore, non me ne sono mai pentito”, dice. Non s’era innamorato di una ragazzina, ma di una... macchina per scrivere, scoperta nello studio notarile del suo paese, dove aveva trovato lavoro. Trasformatosi in provetto dattilografo, l’offerta lusinghiera di un avvocato del capoluogo lo strappò al notaio. Ma c’è un altro “ma”: “avevo Roma in mente – ammette – e presi la prima decisione importante della mia vita: dopo tre anni abbandonai il comodo e facile lavoro della provincia per l’incerta avventura della capitale”. L’avvocato non voleva che il giovane se ne andasse, e gli offrì un aumento di stipendio. Quando lo rifiutò, gli chiese chi o che cosa lo aspettasse a Roma. Il giovane gli rispose “mi aspetta la 141


vita!” e “lui capì, mi regalò un orologio e mi disse “spero che ti conti sempre ore buone!”, e “da quel momento quell’orologio cominciò a contarmi le ore più belle della mia vita!”. Roma, metà anni Cinquanta: Pietro apre una copisteria con annesso ufficio di traduzioni in via del Viminale, di fronte al Teatro dell’Opera. “All’inizio guadagnavo appena il sufficiente per pagare l’affitto dell’appartamento al primo piano. Poi, dalla fiorente industria cinematografica, cominciò ad arrivarmi lavoro a non finire... copioni da tradurre, soprattutto dall’inglese, e da duplicare. Al tempo io non parlavo inglese, ma non mancavano traduttori che bussavano alla porta del mio ufficio in cerca di lavoro”. La sua cliente più importante era la Euro International Films che allora doppiava film mitologici e western. E tra le sue mani di piccolo coraggioso impresario, giunto “da una provincia lontana e abbandonata”, passarono persino le numerose pagine del libro L’isola di Arturo di Elsa Morante, che “lei correggeva e correggeva, giorno dopo giorno, cercando la perfezione che per uno scrittore non esiste (...) Sul corretto, si continua a correggere, in continuazione...”. È facile intuire che qui parla lo scrittore. E com’è nata in Pietro Corsi la passione per la scrittura? “Scrivendo, direi”, è la sua risposta, e precisa che verso la metà degli anni Cinquanta, il Molise viveva un agitato fermento politico, restando tuttavia “isolato, abbandonato, una “postilla” nascosta dentro la regione Abruzzo che la gente nominava al plurale dicendo Abruzzi (per non dire Abruzzo e Molise, come sarebbe stato giusto)”. Attento ai problemi della sua provincia, Corsi cominciò a scrivere articoli per tre quotidiani romani e continuò a farlo. “Dopo un paio d’anni, anche Roma mi diventò stretta e cominciai a sognare altri orizzonti” narra oggi Corsi che, ottenuto un visto turistico per il Canada, nella primavera del 1959 arrivò a Montréal dove accettò un’offerta di lavoro dal direttore del Cittadino Canadese. “Sulle pagine di quel giornale è nato Pietro Corsi scrittore – ricorda – con 142


racconti che narravano le vicende del tipico emigrante del dopoguerra”. Il suo romanzo La Giobba ¹ è oggi considerato un classico dell’emigrazione degli anni Cinquanta. Montréal e i contatti nati grazie al giornale costituiscono anche la cerniera per le successive esperienze del Corsi navigante. Un ex collega di lavoro, che aveva ripreso a navigare dopo essere stato anni prima Commissario di bordo sull’Irpinia (la nave che da Napoli aveva portato in Canada tanti emigranti), un bel giorno gli chiese di raggiungerlo a New York sulla nave Acapulco che stava per iniziare un programma di crociere tra Los Angeles e Acapulco. “Era il mese di dicembre: dalla neve, mi dissi, sarei passato su una nave che andava a conoscere il sole tropicale! Volevo conoscerlo anch’io! Fu, quello l’inizio di un sogno durato fino al 1992 quando, con la carica di vicepresidente esecutivo, sono andato in pensione dalla Princess Cruises, compagnia che ho aiutato a nascere, nel 1965, e a crescere”. Sposato con la messicana Elsa de la Luz, Corsi “ha viaggiato per il Messico in lungo e in largo fino ad assimilarne umori e cultura che traspaiono in molti dei suoi libri”2 si legge sulla retrocopertina della sua ultima opera L’ambasciatore di don Bosco, edito nel 2004 da Cosmo Iannone per la serie Quaderni sull’emigrazione3. È la storia fedelmente documentata – ma anche emotivamente rivissuta dall’autore per le molte coincidenze parallele – del salesiano Raffaele Maria Piperni, staccatosi dalla terra natale per diventare “pescatore di uomini” secondo il Vangelo. Il “missionario di tre continenti” era anch’egli nato a Casacalenda del Molise (1842 - San Francisco 1930). “Non si trattava di scrivere una semplice biografia, ma di far conoscere agli altri l’esperienza del Pietro Corsi che va conoscendo quella dell’altro molisano, padre Raffaele Piperni, in tutte le sue dimensioni. Le esperienze di due uomini che sognano orizzonti infiniti, luoghi senza frontiere”, scrive nella prefazione il salesiano Francisco Castellanos Hurtado, concludendo “è come se 143


tu Pietro, con lui a braccetto, andassi in giro per mondo proclamando la Buona Notizia”. Ho chiesto a Pietro come vede e come vedrebbe la “missionarietà” oggi, e quanta e quale italianità ha trovato nelle sue escursioni in giro per il mondo. Alla prima domanda ha risposto: “Credo che non ci sia più posto per il missionario, oggi, nei Paesi dell’America del Nord. Forse neanche nei Paesi dell’America Latina, dove le missioni sono state, fino ad epoca recente, molto importanti. Però – ha aggiunto – credo che ci sia ancora e sempre posto per il buon missionario nei Paesi emergenti, soprattutto quelli che soffrono povertà e mali endemici”. Quanto all’italianità, mi ha detto di avere trovato in Canada un’emigrazione giovane e fresca, ma anonima. “Era come insabbiata, tardava ad inserirsi nella realtà locale, si rifiutava di accettarla. Oggi so che era troppo fresca quando paragonata a quella degli Stati Uniti o di altri Paesi dell’America Latina. Oggi le promesse sono buone, con scrittori dello stampo di Nino Ricci, che anche l’Italia sta scoprendo, e Joe Fiorito e Antonio D’Alfonso e Mary Melfi. La cultura italo-canadese sta appena nascendo, direi, ma non tarderà ad imporsi e contribuirà notevolmente allo sviluppo della storia di quel grande Paese”. Negli Stati Uniti, Corsi ha trovato “un’italianità già molto importante. Non solo a New York e nel New Jersey ma anche in California, soprattutto a San Francisco. L’ho scoperto quando ho iniziato a fare le ricerche su un missionario che proprio lì, a San Francisco, aveva fondato la prima casa di don Bosco, nel 1897. Erano giorni difficili, quelli: storicamente, però, erano gli stessi che l’italiano viveva in Canada nell’immediato dopoguerra. Con la differenza che a San Francisco arrivò all’epoca quel testardo salesiano, don Raffaele Piperni che si propose di salvare l’emigrante italiano dalla dannazione – e non solo religiosa – che questi invocava su se stesso. Dopo il terremoto del 144


1906, ebbe inizio un movimento di rinascita comunitaria guidato dall’instancabile ambasciatore di don Bosco, e così ebbe vita il senso di italianità che ha portato alla luce nomi come quelli di Giannini – fondatore della Banca d’America –, Ghirardelli, Alioto, Rossi, Fugazi, De Martini, Molinaro: famiglie di grande rispetto non solo in California, ma in tutti gli Stati Uniti”.
Quanto al Messico “ho trovato la presenza di un’importante italianità, palpabile così, nell’aria, e nelle parole della gente di strada”. Ne riparleremo.
 Vancouver, aprile 2005

di Pietro Corsi è uscito di recente L'odore del mare, Ed. Il Grappolo 1 La Giobba (Enne 1982, in inglese Winter in Montreal, Guernica 2000). Premio Bressani per la Letteratura, Vancouver 2002.
 2 Ritorno a Palenche, Un certo giro di luna, Lo sposo messicano, Amori tropicali di un naufrago, pubblicati tra il 1985 e il 1989.
 3 Nella stessa collana, di Pietro Corsi: Halifax. L’altra porta d’America (2003). NOTA:

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Giardini giapponesi Nitobe alla UBC, Vancouver

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REZA ANDREA SAFFARI tra l’Iran, l’Italia e il Canada

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uella di Reza Andrea Saffari è la storia di un giovane che, esule bambino dalla patria natale per ragioni politiche che allora non capiva, ha trovato in Vancouver dove vive “il più bel posto del mondo” e nel Canada di cui è diventato cittadino “un paese dinamico, in movimento, dove c’è molto da fare”. Nell’ovest del Canada, Reza è arrivato dopo l’esperienza della scuola media italiana e un paio d’anni di secondarie negli Stati Uniti. Qui “dove vale chi tu sei e ciò che hai da condividere”, egli ha completato gli studi superiori, ha conseguito un diploma in informatica e s’è quindi laureato – all’Università di Victoria, la capitale della British Columbia - specializzandosi in scienze dell’ambiente e geografia. Ha quindi messo su famiglia, una tipica famiglia multiculturale: è sposato con Lindsay, giovanissima canadese per metà di origine tedesca. Hanno due bellissime bimbe, Aryana di sette anni e Maya di pochi mesi. È pieno di tenerezza per loro, possiede profondo il culto della famiglia ereditato dai genitori, l’iraniano Parviz e la toscana Anna Maria. Reza è orgoglioso della propria identità mista, una vera e propria ricchezza aggiunta. “Mi sento veramente italo-iraniano” dice, “nel mio cuore e nella mia mente sono forti ambedue le culture”. Le considera affini avendone operato una ben armonizzata sintesi. L’Iran rimane per lui la terra natale, alla quale non è mai più tornato ma per la quale mantiene “un sentimento molto dolce”, e l’Italia è “la casa dove da sempre tornavo a casa: per me essere a Teheran o a Livorno era la stessa identica cosa”. “È sempre stato un sogno vivere in Italia, la mia seconda madrepatria.... e poi c’è ancora talmente tanto da scoprire”. Quando può ci va, limitatamente con i suoi impegni professionali di general manager della Enerex Botanicals, 147


un’affermata compagnia di prodotti naturali per la salute alla quale sta dando con entusiasmo il suo contributo di conoscenza e di inventiva. Creativo, ottimista, socievole, in possesso di una grande capacità di comunicazione (oltre all’inglese parla perfettamente l’italiano e il farsi), è stato molto disponibile a parlarmi di sé. Lo ricordo pre-adolescente, quando per la prima volta lo incontrai con i genitori esuli e messi a dura prova dalla rivoluzione di Khomeini. Anche la mia famiglia era esule dall’Italia delle brigate rosse. Sofferenti ma decisi a lottare per il futuro dei nostri figli, insieme consumammo una indimenticabile Pasqua. Reza è il nome persiano del giovane. Gli è stato dato alla nascita, avvenuta nello stesso ventitreesimo giorno di febbraio in cui si ricorda l’ottavo imam sciita Reza, cui è dedicata la magnifica Mashad la Sacra, a circa 900 km da Teheran. “Andrea è invece il mio nome di battesimo, è il mio nome italiano” spiega il giovane. Suo padre, il nobile iraniano Parviz Saffari, uomo di profonda spiritualità e di rara modestia, in gioventù aveva frequentato l’Accademia navale di Livorno. Colà aveva incontrato la brillante figlia di un artista della corrente dei “macchiaioli”, la italianissima Anna Maria Castagnari, e se l’era portata in moglie a Teheran. I loro tre figli - Shirin, Kosro e Reza - sono nati e cresciuti vicini alla corte dello Scià, Mohammad Reza Pahlavi, del quale Saffari era primo ufficiale prima di ricevere l’incarico di Ministro della marina mercantile iraniana. Cugino di Fara Diba – l’architetto diventata madre dell’erede al trono di Persia e incoronata imperatrice - fu arrestato dai rivoluzionari, imprigionato e successivamente rilasciato. Confiscati tutti i beni, annullata ogni possibilità di sopravvivenza in Iran, alla famiglia Saffari non restava che la via dell’esilio. “Non è stato per me un trauma, non capivo bene che cosa stesse succedendo a mio padre, ai miei parenti, alla mia patria... Mamma, che mi ha sempre tenuto vicino ed ha avuto molta influenza sulla mia vita, ha saputo mantenere l’equilibrio 148


e la serenità in famiglia.... e per me non c’è stato allora nulla di terribile né di eccitante... Andando a Livorno io semplicemente tornavo a casa... Il trauma c’è stato più tardi, quando sono venuto in America”. O meglio in Califonia, dove già viveva Shirin, la sorella maggiore sposata. “Negli Stati Uniti c’era ostilità verso gli iraniani, ma io mi chiedevo perché dovesse esserci anche contro di me come individuo, gentile, corretto, generoso. Specialmente durante il primo anno delle secondarie mi sono sentito isolato, marginalizzato sia dagli studenti che dagli insegnanti. I miei unici amici erano iraniani, cinesi, messicani, neri... È stato quello il momento in cui, soffrendo discriminazione, ho deciso di combattere. Resisti e finisci il tuo lavoro, mi son detto”. E per vincere la sua battaglia l’italo-iraniano Reza Andrea ha scelto un’arma italiana. Sportivo, da sempre grintoso giocatore di calcio, ha riorganizzato e potenziato la squadra di soccer della scuola, portandola alla vittoria del trofeo finale. “L’ho fatto da italiano-italiano... Da quel momento la situazione cominciò a migliorare... iniziarono a corteggiarmi, mi invitavano ai loro party... Mai tuttavia mi integrai, negli Stati Uniti, cosa che mi divenne naturale in Canada, dove non ho avuto alcuna difficoltà a mostrare la mia presenza, poiché i comuni denominatori culturali qui sono l’amicizia, la famiglia, la solidarietà... con il vantaggio e la gioia di poter mantenere le proprie ricche tradizioni. Ciò che temo di più del futuro è proprio la perdita delle tradizioni, oggi puntualmente celebrate e mantenute nelle nostre famiglie”. Sono valori – l’amicizia, la famiglia, la solidarietà, le tradizioni - che il giovane dichiara di vedere ben radicati nelle comunità italiana ed iraniana di Vancouver. “Non solo tra amici e famiglie amiche... basta andare in Commercial Drive (il cuore della Little Italy) per provare se ce ne fosse bisogno che il sentimento di italianità e l’attaccamento alle tradizioni rimangono forti nonostante il grande compromesso che s’è dovuto fare. L’adattamento nella nuova realtà è diventato vivo e vitale, le 149


radici sono le stesse!” Che pensa Reza della politica italiana e della partecipazione alla stessa degli italiani all’estero? “Gli affari politici in Italia dipendono dalle attuali condizioni economiche e sono governati da un gruppo di potentissimi e ben collegati politici e industriali. Penso che ci siano troppi partiti politici, fazioni con denominatori comuni ben lontani dalle ideologie e da quanto le differenziano. Ciò è bene e male allo stesso tempo: troppi partiti politici portano all’assenza di una chiara direzione, troppo pochi possono condurre a decisioni unilaterali devastanti. Personalmente, non ho tratto alcun beneficio dalla politica italiana. Considero tuttavia estremamente importante che gli italiani, ovunque nel mondo, esprimano le proprie opinioni e facciano sentire la propria voce, specialmente coloro che prevedono un definitivo rientro in Italia”. Come Reza Saffari?... “Considerando il mio passato e il mio presente, per me il Canada è per sempre!” E quali i sentimenti nei confronti dell’Iran attuale? Ne segue le vicende o preferisce non pensarci? “Sempre penso alle mie origini e al mio paese, ne seguo le vicende politiche, da spettatore però, nel senso che non ne sono parte attiva, non vi partecipo. Ma quando guardo o sento le notizie focalizzo immediatamente quanto riguarda l’Iran e l’Italia... sono per me richiami intimi...” West Vancouver, maggio 2005

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ANITA GROSSO de ESPINOSA pioniera in Baja California

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uante volte, attraversando la splendida e selvaggia Baja, tra la congestionata Tijuana e le idilliche oasi di San Ignazio, Mulegè, Loreto e viceversa, sono transitata da El Rosario? Pochi minuti per il rifornimento di benzina all’unico distributore della zona, una sgranchitina alle gambe e via, affrontando altre centinaia di chilometri nella splendida zona desertica e vulcanica che costituisce la spina dorsale della penisola. Per la prima volta questo piccolo villaggio di agricoltori, pescatori e rancheros diventa una sosta obbligata, quasi fiutassi nell’aria qualcosa di speciale da conoscere e raccontare. Le storie degli italiani del mondo mi attraggono sempre di più.... specialmente quando si tratta di storie rare, sconosciute ai più. Un nome in particolare mi incuriosisce, Anita Grosso de Espinosa. “Mama Anita” la chiamano in spagnolo. La definiscono una verdadera legenda en Baja California perché ella ve el pasado y el futuro de esta tierra. Colta e determinata, intelligente e generosa, la veterana ha promosso l’educazione della sua gente, ha contribuito ad organizzarne l’assistenza medica, si è impegnata in opere di carità per i bambini orfani e per gli anziani soli. È stata pioniera anche nell’arte dell’ospitalità, tramandata a figlie e nipoti che sotto la sua guida gestiscono il piccolo ristorante-museo Mama Espinosa’s. Sollievo quest’ultimo non solo ai viaggiatori di passaggio, ma soprattutto punto di riferimento dei Flying Samaritans, i Samaritani Volanti, medici ed infermieri - tutti volontari - che dalla California raggiungono con piccoli aerei i luoghi più sperduti della Baja, organizzando cliniche e portando assistenza specialistica laddove non esiste. “Gli angeli dal cielo” li definì Anita, e da quel lontano giorno del 1961 in cui toccarono El Rosario, ella 151


fu e rimase il loro tramite, la loro missionaria per l’intera Baja California. Una donna straordinaria nell’apparente semplicità. Ma Grosso non è forse un cognome italiano, o meglio genovese?... Un paio di mezze giornate mi sono sufficienti ad incontrare persone, raccogliere notizie, dare uno sguardo più attento intorno. Non riesco a parlare con mamma-nonna-bisnonna Anita, la “leggenda de El Rosario”. In questi giorni la ultranovantenne è a Ensenada, in visita a parenti. Incontro tuttavia una dei suoi dieci figli e una bellissima giovane della tribù dei nipoti: da loro due, molto disponibili, ottengo le essenziali informazioni. Il resto lo scopro da me, leggendo un’autobiografia con dedica autografa della protagonista, un testo brillante da lei scritto qualche anno fa. Me la affidano come una reliquia. Sfogliando le prime pagine, ho conferma che il padre di Anita era Edoardo Grosso, “el Italiano” avventurosamente giunto in Baja California vent’anni prima del 1900. È una storia romanzesca. “Era l’anno 1880 - scrive nelle sue Reflections Mama Anita - quando mio padre, Eugenio Eduardo Grosso Bouitare, arrivò in Baja California, Messico, proveniente dall’Italia”. Era sbarcato a New York e se n’era immediatamente allontanato, attratto piuttosto dal Far West degli Stati Uniti. In una miniera d’oro del Colorado aveva fatto amicizia con un detective inglese, Arthur Embleton, con il quale proseguì per San Francisco e San Diego. Da quest’ultimo porto i due giovani avventurosi si imbarcarono alla volta della costa orientale della penisola californiana. “A Santa Rosalia mio padre, che era ingegnere minerario - precisa Anita Grosso - ebbe un incarico di lavoro a El Boleo, grossa compagnia mineraria del gruppo francese dei Rothschild. Mio padre era figlio di madre francese e padre italiano discendente da una ricca famiglia di mercanti navali genovesi. I genitori avevano già pianificato il suo futuro: negli affari di famiglia e sposato ad una fidanzata da loro prescelta. Ma prima egli avrebbe potuto viaggiare...” L’uomo propone e Dio dispone, recita un antico detto. Nella vita del privilegiato figlio unico Edoardo si stava profilando 152


un’imprevedibile svolta. “A El Boleo - prosegue Anita - egli incontrò mia madre, Tecla Pena Duarte, quindicenne indiana Pima, che viveva con la mamma vedova. Anche suo padre era arrivato a Santa Rosalia, da El Triunfo a sud di La Paz, per lavorare al Boleo. Gli antenati di mia madre provenivano dal New Mexico e da Sonora, il nonno era il capo dei Pimas della Baja. Il venticinquenne mio padre si innamorò perdutamente della giovanissima Tecla, e decisero di sposarsi. Ma prima del matrimonio egli volle tornare in Italia per ricevere, com’era consuetudine, il consenso e la benedizione della famiglia... Non ci fu nulla da fare. Non valse descrivere bellezza, virtù, origini nobili dell’innamorata. I genitori di Edoardo, offesi dal rifiuto del figlio di accettare la giovane di buona famiglia e ricca dote da loro prescelta, furono irremovibili, gli negarono il permesso di sposarsi e, pensando in tal modo di riportarlo alla ragione, lo diseredarono. “Ma mio padre, testardo e persistente quanto loro, ritornò in Baja California per sposare la sua ormai sedicenne Tecla nella chiesa di Santa Rosalia”. Era il 28 settembre 1885. Negli anni immediatamente successivi gli sposi si spostarono da un luogo all’altro del Messico e della Baja, laddove lo portava il lavoro di lui. A fine secolo il giovane ingegnere minerario genovese aveva già individuato ed aperto le miniere di rame Julio Ceasar, Santa Teresa, El Chasco, La Italiana, El Sausalito, Santa Domingo e Reina Madre. Dopo lungo peregrinare la famiglia Grosso - erano già nati tre maschietti, Arturo, Juan e Angelo - decise di stabilirsi, nel 1896, a El Rosario. Tra il 1890 e il 1908 vennero alla luce dieci figlioli, sei maschi e quattro femmine. L’ultimogenita Anita, nata nel 1908, è la protagonista della nostra storia. Aveva due anni quando scoppiò la Rivoluzione Messicana e suo padre - da europeo non latinizzato - decise di trasferire la famiglia in territorio statunitense, a Calexido nella Imperial Valley. In California la famiglia Grosso visse per oltre un quindicennio, durante il quale Anita studiò, si diplomò e 153


lavorò. “Mia madre aveva nostalgia della sua gente e chiese di ritornare a El Rosario... dove incontrai il mio futuro marito, il compagno della mia vita Don Heraclio, figlio dello sceriffo Don Santiago Espinosa, una delle migliori persone e famiglie del luogo”. Si sposarono nel 1932, nonostante la disapprovazione di Tecla, che per quella figlia speciale avrebbe voluto - come per la sorella Teresa - uno sposo “in carriera”, un ufficiale facente parte degli alti ranghi della società messicana. Quella di Anita ed Heraclio, il “ranchero cowboy”, si rivelò tuttavia un’unione felice non solo per aver alleato tra loro le due più importanti famiglie di El Rosario, i Grosso e gli Espinosa - artefici dello sviluppo della zona in campo civico e sociale - ma per aver messo al mondo tra il 1933 e il 1949 dieci figli. “Il mio clan”, lo ha definito Anita. Oggi quel clan s’è allargato ad una tribù. Parlano spagnolo e inglese, ma si illuminano quando dico di essere italiana, un’italiana del mondo come lo fu il loro antenato, padre di mamma-nonna-bisnonna Anita, colei che ha trasmesso loro - insieme con il fiero sangue materno dei nativi Pima - l’altrettanto avventuroso sangue paterno genovese. I resti mortali di Edoardo Grosso, deceduto nel settembre 1939, sono sepolti nel vecchio cimitero de El Rosario de Abajo, laddove un tempo sorgeva Nuestra Senora del Rosario, prima missione sudcaliforniana dei Domenicani. Fondata nel 1774, ne rimangono poche rovine. Accanto al genovese riposa Tecla, la stella polare che l’aveva attratto quaggiù, in un mondo tanto lontano dalla terra natale. Chissà se il gruppetto di studenti universitari padovani, che incrocio la sera, affamati e rumorosi al Mama Espinosa’s, avranno percepito almeno un poco di questa storia? Provenienti in motorhome da San Diego e diretti a El Cabo, hanno fretta di proseguire per quella che racconteranno come un’avventura in Bassa California. Un’avventura durata poco più di una settimana. Una bella toccata e fuga... El Rosario, dicembre 2005 154


PEDRO LOPEZ-GALLO l’avvocato di Sacra Rota

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a nostra società, malata di secolarismo e relativismo, appare combattuta tra l’immutabile e il transitorio, tra valori da rispettare e sconcertanti egoistiche forme di cosiddetta “liberazione”. E a risentirne non è solo l’individuo, ma soprattutto la famiglia, cellula portante della società. Qual è oggi, nel contesto interetnico e multiculturale, la realtà del matrimonio di giovani e meno giovani? Il segreto della sua durata o le cause dei molti fallimenti? E quali le conseguenze di separazioni e divorzi sui figli? Un autorevole avvocato della Sacra Rota, e amato pastore di una parrocchia metropolitana, mi avrebbe potuto dare illuminanti risposte. Mi sono rivolta perciò a monsignor Pedro Lopez-Gallo, presidente del Tribunale ecclesiastico regionale, e parroco di San Pio X in North Vancouver. Dalla conversazione avuta e dalla lettura di alcune sue pubblicazioni (è instancabile e brillante scrittore) ho scoperto una toccante storia umana: quella di un bimbo nato da una nobile famiglia cattolica in un Paese del continente americano dove, alla vigilia degli anni Trenta, era in atto la persecuzione religiosa e la fede era vissuta in clandestinità. La vicenda di un adolescente che per rispondere alla vocazione al sacerdozio era stato costretto ad allontanarsi dalla terra natale, dove centinaia di preti venivano assassinati, i vescovi esiliati, le chiese e i conventi espropriati, i seminari messi al bando. Tra le memorie autobiografiche dell’infanzia, c’è quella di un’ordinazione sacerdotale “clandestina”, ospitata nel sotterraneo dell’abitazione di famiglia. La mamma di Pedro - e di altri undici tra fratelli e sorelle - aveva organizzato un grande party. Arrivati gli invitati, le porte vennero chiuse, il cuoco era un vescovo, l’autista del pulmino l’ordinando seminarista, i came155


rieri erano altri religiosi e fedeli a cui era stato impedito di praticare pubblicamente la loro religione. Va detto, tra l’altro, che la senora Dolores Gallo de Lopez aveva ricevuto dall’allora regnante Papa Pio XI la facoltà di amministrare la comunione ai prigionieri e agli infermi, non solo negli ospedali ma anche nei campi di battaglia. “Mi madre fu, di fatto, ante litteram, quello che oggi chiamiamo un ministro dell’Eucaristia”, ricorda con affettuoso orgoglio il monsignore. Compiuti gli studi preparatori al sacerdozio in Spagna, tra Burges, Astorga e Salamanca, il giovane ricevette l’ordinazione sacerdotale a Jalapa, Veracruz, il 21 dicembre 1951. Finalmente nella sua terra natale! Ma dopo appena un anno di servizio pastorale fu mandato a Roma per conseguire all’Angelicum il dottorato in Teologia, onde poterla insegnare in un rinato seminario. Fu subito chiamato da Papa Pacelli a far parte dei servizi diplomatici del Vaticano. Altre specializzazioni, questa volta in Diritto civile e canonico all’Università’ del Laterano. E ulteriori tre anni per ottenere il titolo di avvocato della Rota Romana: servita fino agli anni Settanta, prima di diventare commissario della Congregazione degli Istituti religiosi e secolari. La storia di Pedro Lopez-Gallo, nato meno di ottant’anni fa a Guadalajara, nello stato di Jalisco in Messico, non finisce certo qui. Il periodo più bello della maturità, l’esperienza romana più significativa, che egli rievoca con gli occhi luccicanti e il calore di una parlata dalla cadenza spagnola (il suo italiano è perfetto, come lo sono le altre sette lingue che parla) è il vivido ricordo del cardinale Eugenio Tisserant, il decano del Collegio cardinalizio che tanta parte ha avuto nei pontificati di Pio XII, Giovanni XXIII e Paolo VI, ma anche nella sua vita di prete. “Il mio incomparabile mentore e maestro” egli dice del magnifico prelato francese di cui è stato per anni segretario particolare. Con lui ha lavorato e viaggiato in lungo e in largo per i continenti, conoscendo realtà incredibili e incontrando personaggi famosi. Quale paterno affetto e quale stima gli riservasse il cardinale, lo prova uno dei tanti episodi rievocati 156


dall’interessato ad anni di distanza: l’eccezionale presenza alle nozze d’oro dei suoi genitori, celebrate nella basilica di Guadalupe della capitale. Un omaggio alla esemplare famiglia dei Lopez-Gallo, ma anche una delle tappe nel delicato processo di ristabilizzazione delle relazioni diplomatiche tra il Messico e la Santa Sede. ¹ A Vancouver, padre Gallo - il cui cognome materno indica lontane origini italiane - ha portato e potuto esercitare un prezioso bagaglio di conoscenza e di esperienza. Il suo apostolato è instancabile, qui siamo tuttora in terra di missione. Parlando della preparazione al matrimonio religioso e della necessità per i candidati di seguire gli incontri formativi offerti loro dalla chiesa, afferma che “il grande problema della coppia moderna è la mutua ignoranza, la non conoscenza l’uno dell’altro: non vogliono che si scopra il passato, hanno paura di fare domande e che il fidanzamento finisca”. L’età media del matrimonio, a differenza di un tempo quando si sposavano molto giovani, è aumentata: ecco il timore di lasciar trapelare esperienze precedenti. Vivendo inoltre in un contesto interetnico, sempre più spesso si verificano matrimoni misti, più del 50%. “Una religione mista porta molta difficoltà di comunicare: non si dicono se desiderano avere figli e come li educheranno, non affrontano il discorso del lavoro fuori casa della donna; parlano di tutto fuorché dell’essenziale”. Questa mancanza di apertura e di sincerità porta facilmente alle incomprensioni e alla crisi del matrimonio. “E così oggi abbiamo matrimoni che durano sei mesi, due anni; è difficile sapere quanto dura un matrimonio, ma le statistiche sono atroci: il 50% finisce nel divorzio. “Io non lo conoscevo”, dicono quando vengono da me. Avevano parlato di tutto fuorché di se stessi. Oggi tutta la preparazione è rivolta alle nozze, al giorno delle nozze, al ricevimento per il quale prenotano con un anno di anticipo. E se nel frattempo sorgono difficoltà non sospendono o rinviano, perché non vogliono perdere i soldi. Ma le nozze the wedding - sono un giorno; il matrimonio è per sempre!”. 157


Altro aspetto critico è quello della coabitazione prima del matrimonio. “Essendo questa una forma di relazione aperta, è venuto a rompersi il mistero del fidanzamento e il rispetto dovuto alla persona promessa. È aumentato il numero degli aborti, considerati legali anche fino ai sette-otto mesi di vita del feto. L’unica ad opporsi, oggi, ad una legislazione assurda riguardante la famiglia (di recente, tra l’altro, sono stati autorizzati i matrimoni tra persone dello stesso sesso, nda) è la Chiesa: diamo noia al governo, ai media, agli artisti. Siamo in un periodo molto difficile, ma la chiarezza è necessaria. In questo contesto di globalizzazione non siamo soli: ci sono indù, musulmani e anche cristiani che si oppongono al caos sessuale che sta distruggendo la nostra civiltà. La storia insegna, pensiamo a Roma, a Pompei”. Nell’arcidiocesi di Vancouver seguono i necessari corsi preparatori al matrimonio - sette lezioni per sette settimane circa mille coppie all’anno. Le dispense dalla frequenza sono riservate a casi eccezionali, seriamente valutati dai sacerdoti. La cura e l’assistenza - spesso non solo morale e spirituale alle giovani famiglie sono poi una delle priorità delle rispettive parrocchie. Pronte ad intervenire e aiutare concretamente in ogni circostanza. Soprattutto nell’educazione e formazione dei figli. Importante in questo senso il prezioso lavoro svolto dalla rete di scuole cattoliche annesse alle chiese. Anche la parrocchia di San Pio X ha la sua scuola. Resta purtroppo il fatto che, in caso di rottura del rapporto tra genitori (separazione o divorzio), questi figlioli subiscono conseguenze devastanti. Ne riparleremo in un prossimo articolo. Anche perché il messaggio conclusivo di monsignor Gallo è di grande speranza nei molti giovani che, nonostante tutto, vivono di ideali ed aspirano ad un mondo più pulito. Vancouver, maggio 2006

¹ Relaciones Diplomaticas entre Mexico y la Santa Sede, Pedro Lopez-Gallo, Ed. El Caballito 1990

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PASQUALE VERDICCHIO e i nuovi sentieri culturali

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asquale Verdicchio è nato a Napoli nel 1954. Vissuto a Vancouver, Victoria, Los Angeles, risiede ora a San Diego. Le sue poesie, rassegne critiche, fotografie e saggi sono apparsi in giornali e riviste di Canada, Stati Uniti ed Europa. È considerato il principale traduttore del lavoro di poeti italiani come Antonio Porta, Andrea Zanzotto, Pier Paolo Pasolini, Giorgio Caproni e Alda Merini. I suoi scritti riguardano prevalentemente la cultura italo-nordamericana e la cultura contemporanea italiana. È stato co-fondatore dell’Associazione degli Scrittori Italocanadesi e presidente della stessa dal 1994 al 1998. È professore al dipartimento di letteratura dell’Università della California, a San Diego, dove dal 1996 al 1998 è stato a capo del Writing Program. È stato inoltre direttore dell’University of California Education Abroad Study Center. Lei è partito da Napoli adolescente. Decenni dopo, e con la formazione culturale maturata vivendo prevalentemente in Nord America, quale significato attribuisce alla memoria, e come percepisce la sua identità? È sempre difficile spiegarlo. Come reazione direi che la mia identità è da italiano, però l’identità è ovviamente cosa molto complessa da definire e da precisare. Preferirei forse dirmi cittadino del mondo, ma questa potrà sembrare una facile e anche banale risposta. Dirò che, dopo vent’anni a San Diego, mi trovo a vivere in un luogo con il quale mi identifico pochissimo: non solo la città stessa ma l’America (o gli Stati Uniti) proprio come concetto nazionale, ideologico, di cittadinanza, appartenenza, e così via. Oggi mi trovo ad aver vissuto negli Stati Uniti più di quanto abbia vissuto in Italia e in Canada. In più, forse cosa non tanto curiosa, mi sono identificato come 159


canadese soltanto quando ho lasciato il Canada per gli Stati Uniti. Come identificazione ininterrotta, più fluida, come identificazione culturale e affinità sociale, dovrò però dirmi italiano, anche se ciò è stato complicato ultimamente dalla mia inaspettata perdita della cittadinanza italiana proprio nel momento in cui, nel 1998, sono rientrato in Italia per viverci per due anni. Recatomi al consolato di Los Angeles per rinnovare il passaporto, mi sono scoperto extra-comunitario. Per qualche ragione che io ritengo un’inspiegabile mancanza verso alcuni italiani residenti all’estero, per ragioni forse puramente burocratiche, ci è stata sottratta la cittadinanza italiana. Mi esprimo al plurale; ovviamente il mio caso non è l’unico. Si tratta, direi, di una svista da rivedere. 
 E poi la memoria. Forse per me la memoria non regna assoluta nel mio rapporto con l’Italia perché ci ho vissuto durante vari periodi per uno o due anni alla volta, e vi torno almeno una o due volte l’anno. Non dico di non sentirmi “fuori”, ma forse questa è l’identità che tocca a noi che viviamo all’estero: siamo “fuori” da ogni situazione, viviamo o vivremo sempre una via di mezzo. Siamo costretti a “vivere sempre un estero”, un estero interno, una valigia piena di estero che portiamo sempre con noi. La nostra cultura non sarà mai unica, pura, individuabile. Per questo credo che la nostra cultura, e perciò la nostra identità, sia anche rappresentativa del futuro: sarà la cultura dei nostri figli e delle società future. Il Canada, o almeno la Vancouver che vedo oggi, è molto vicino a questa cultura. La Vancouver di oggi è molto diversa da quella che conobbi quarant’anni fa: preferisco questa Vancouver per molti aspetti, anche se si avvicina un pò troppo a una città che tende verso il materialismo e il consumismo, pericoli sui cui ci ammoniva il caro Pasolini. Vivendo tra il Canada, gli Stati Uniti e l’Italia, e possedendo la curiosità e la possibilità di esplorare altri luoghi del mondo, lei si considera un nomade? L’immagine del nomade mi è sempre stata cara. Sì, mi sen160


to rientrare in questa immagine. E, infatti, una delle mie raccolte di poesia s’intitola Nomadi Trajectory (Guernica Editions). Ma vorrei ricordarle che il nomade non si protrae caoticamente senza meta lungo il paesaggio. L’immagine del nomade che trovo di grande valore è quella del viaggiatore che tocca mete pre-esistenti ma di carattere cangiante. Il nomade è anche colui che sa leggere il paesaggio che attraversa in ogni piccolo dettaglio come traccia di segni che gli possano assicurare la sopravvivenza. Il nomadismo è una cultura d’adozione e di adattamento. Il viaggio è tra una meta e l’altra, è di massima importanza, un pò come la poesia Itaca di Costantino Kavafis: non l’arrivare a Itaca, ma il viaggio verso la città è di estrema importanza. E io viaggio spesso in un circuito tra mete o punti d’arrivo già conosciuti: San Diego, Vancouver, Savary Island, Napoli, Lanciano; luoghi ben precisi, ben conosciuti, che però, volta dopo volta, anno dopo anno, offrono sempre nuovi aspetti e nuove esperienze. Altrimenti non ci tornerei. Quali sono i suoi punti di riferimento?
 Ovviamente le conoscenze che uno ha, le conoscenze che si creano, sono tra i primi punti di riferimento. Forse non so se ho dei veri e propri punti di riferimento e per questo, a volte, il mio viaggiare è anche un viaggiare da solo, senza famiglia, passando dei lunghi periodi in solitudine. Il mio è un viaggiare fisico verso altri luoghi, ma che si esprime prevalentemente come viaggio interiore: in questo caso non ci sono assolutamente punti di riferimento. Quale importanza ha il nucleo familiare nella vita di una persona come lei? 
 Potrò sembrare pieno di contraddizioni, perché il nucleo familiare è per me di massima importanza. È stato importantissimo per noi avere parenti a Vancouver al nostro arrivo: il non arrivare da soli senza conoscenze, senza nessun punto di riferimento. La nostra esperienza a Vancouver sarebbe forse 161


stata diversa e più difficile senza tutto ciò. Oggi, anche non sentendomi del tutto convinto della mia residenza in California, ciò che mi trattiene è la mia famiglia: i miei figli sono nati a San Diego, sono cittadini statunitensi, canadesi ed europei, ma sono (almeno per ora) negli Stati Uniti. Mia madre, i miei fratelli e altri parenti definiscono l’importanza di Vancouver come punto d’appoggio. Non saprei dire se, venendo in un certo momento a mancare la famiglia in questi luoghi, tornerei a viaggiarci o no. Forse dovrei trovare qualche altro luogo, e fermarmi. 
C’è poi il discorso della comunità, che per me è sempre stato importante. A Vancouver forse meno perché sono maturato come attivista all’interno della comunità italiana dopo la mia partenza da Vancouver. Ma a San Diego ho trovato senz’altro nella comunità italiana una grande fonte di attivismo sociale e culturale, e continuo tutt’oggi ad organizzare e facilitare attività all’interno di quella comunità. Mi fa piacere dire, inoltre, che nella mia comunità adottiva di Lanciano, in Abruzzo, ho trovato una grande quantità di iniziative alle quali mi è stato concesso di partecipare anche a livello organizzativo. Per questo, quando manca il legame più immediato qual è quello familiare, la comunità diventa importantissima: perché è anche il luogo del mantenimento della cultura e dell’esplorazione e della “produzione” di nuovi sentieri culturali. E come comunità bisogna dire che per noi è necessario ampliare il significato del concetto di accoglienza, che deve essere valido non solo per gli italiani ultimi arrivati, o gli immigrati di vecchie generazioni: non solo per gli italiani ma anche per gli italofili. Amo il calcio, ho seguito tutto il recente campionato mondiale; ma per me la cosa più importante è lanciare una campagna per attrarre ancora più persone verso la cultura italiana. Sono convintissimo che le iscrizioni presso i corsi d’italiano nelle università nordamericane vedranno un aumento nei prossimi due anni. La cultura italiana è una cultura “di” e “da” comunità: si basa sul sociale, sul vedere e il mostrare, sul vivere insieme, anche in solitudine. 162


Quale e quanta italianità può esserci negli italiani che vivono all’estero, spesso mescolati con altre culture ed etnie; ibridi in trasformazione? 
 Devo dire che questo mi preoccupa poco perché l’ibridazione è sempre stata con noi. La cosa che può nuocere ad una comunità o ad una nazione è definirsi “pura”. E, poi, noi italiani non lo siamo mai stati. Perché sprecare tante energie, generare tanta sofferenze per ideali fittizi, per finzioni che noi diciamo realtà e alle quali diamo carta d’identità e passaporto? Non dico di abolire i confini, dico soltanto di tentare di riconoscere ciò che tutti siamo: esseri umani, senza pretesa di sangue o etnia o razza pura. In fondo, la cultura è ciò che accade quando due persone si incontrano, tutto ciò che accade tra di loro è cultura. Non credo all’italianità come concetto espressivo di cultura pura: per me è un termine troppo legato ai dettati del fascismo. Anche se si vuole riscattare oggigiorno per descrivere una cultura italiana universale, non mi sembra il termine adatto. Preferisco forse il termine “italicità” come accenno alla cultura che ha radici sul territorio italico e che però si è poi sparsa per il mondo. Con le migrazioni si è accertata un’evoluzione culturale che comprende tutti noi all’estero. Che si parli italiano oppure no, come discendenti di questa cultura italica noi siamo espressioni della trasformata cultura italiana. Forse ci sarà pochissima “italianità” che un italiano da sempre in Italia potrà riconoscere in noi: ciò nonostante ci lega una cosa in comune ed è una sicura, anche se a volte minima, discendenza. Da artista e da uomo di cultura, come vede il rapporto cultura-politica? Quali sono, secondo lei, i punti d’incontro e di scontro? Che ne pensa del voto in loco per gli italiani all’estero? 
 Non so se da artista e da uomo di cultura, ma da persona che vive tra altre persone, il rapporto cultura-politica è innegabile. Non è possibile fare cultura nel vuoto. Come dicevo, la cultura avviene quando due persone s’incontrano: quell’incon163


tro è anche politica perché impone nel rapporto un certo saper fare che definirà il successo o no del rapporto. Non capisco autori e artisti che si dichiarano apolitici. Come si può aprire bocca o mettere pennello su tela senza capire che ogni traccia, ogni segno, ogni parola e urlo porta con sé una storia d’uso e di interpretazione? E come si può negare l’interpretazione di questi stessi elementi da parte di altri che consumano questi prodotti culturali? Si può dire, senz’altro, di non essere politicizzati nel fare arte, ma forse la materia stessa non ci lascia scelta. E i punti d’incontro e di scontro sono tanti. Quelli da me più recentemente vissuti si sono espressi all’interno di una serie di filmati che ho presentato presso la comunità italiana di San Diego. Alcune persone hanno reagito ad alcuni film in modo pesantemente politico: anche se da loro negato, li hanno fraintesi come mia espressione politica. Tutto bene fino a un certo punto perché a me non dispiace questo tipo di scontro. Però è anche accaduto che questi momenti sono stati presi come piattaforma per lanciare discorsi politici con dettagli ben precisi, per effettuare una retorica da adoperare nelle recenti elezioni politiche, il che mi porta ad esprimermi sul voto agli italiani all’estero. Direi che il voto agli italiani all’estero non mi convince perché l’italiano all’estero segue poco la politica italiana e raramente visita l’Italia. Parliamo ovviamente qui di un grande numero di italiani che hanno ora il voto come risultato del riacquisto della cittadinanza. Spesso, però, si tratta soltanto di un interesse ad avere la cittadinanza e non il voto, e ciò è stato espresso dalla bassa percentuale di votanti nell’ultimo referendum. Per rendere il voto e la rappresentanza degli italiani all’estero più efficace e più realistica, i consolati e principalmente gli Istituti Italiani di Cultura all’estero dovranno svolgere un’attività più impegnata e presente all’interno delle varie comunità. Le posso dire che San Diego e l’Università della California a San Diego sono totalmente inesistenti per quanto riguarda l’Istituto Italiano di Cultura che in questo caso ha sede a Los 164


Angeles. Pur lavorando e risiedendo a San Diego, lei è spesso a Vancouver: il primo approdo nordamericano, la casa canadese della sua famiglia, l’ambiente degli studi secondari e universitari, il luogo da cui ha preso il volo da giovanissimo. Ci tornerebbe a vivere e a lavorare? 
 Sì, ci tornerei volentieri. Come ho già detto, per me San Diego è ancora un luogo di passaggio. Forse mi sentirò californiano quando lascerò la città, ma per ora è Vancouver la mia città nordamericana. Mia moglie è della British Columbia, le nostre famiglie sono qui, torniamo varie volte all’anno, e in particolare d’estate, per un paio di mesi, siamo alla Savary Island dove abbiamo una piccola casa. Per essere un “guaglione” napoletano, mi trovo molto bene nelle foreste canadesi. Non ho mai avuto l’opportunità di un richiamo dal Canada con un posto accademico, per questo sono rimasto a San Diego. Quale il messaggio fondamentale che lei sta trasmettendo ai suoi studenti e ai suoi figli? 
 Cito semplicemente i tre versi conclusivi di una poesia di Gary Snyder che leggo ai miei studenti, e che tento di vivere sia insegnando loro che ai miei figli: stay together / learn the flowers / go light (state assieme/imparate dai fiori/siate lievi). San Diego - Vancouver, ottobre 2006

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Vancouver International Film Centre

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CLAUDIA MEDINA regista multiculturale

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laudia Medina è il nome d’arte della film-maker che ha accettato di rispondere ad alcuni miei interrogativi intesi ad indagare quanta italianità mantengano e quali ideali esprimano i giovani canadesi nati da matrimoni misti. Nel multietnico Canada il fenomeno è da considerarsi sempre più normale. Nata poco più di trent’anni fa a Powell River - dove nel 1924 era arrivata Ida Toigo, la bellunese che aveva raggiunto qui, avventurosamente, il promesso sposo Luigi Scarpolini ¹ - Claudia è figlia del friulano Pierantonio Culos e della messicana Sara Medina. Ha un fratello più giovane, il pilota David Culos. Claudia ha una laurea in Arte conseguita alla Simon Fraser University, con specializzazione in studi Latino-americani e Sociologia. Possiede anche un diploma in Produzione multimediale e applicazioni internet. Il suo curriculum professionale comprende l’insegnamento in scuole private e pubbliche, ma soprattutto un’assidua attività nel settore della filmografia documentaristica impegnata. Già un decennio fa, ad esempio, era stata assistente alla produzione del notissimo A Place Called Chiapas di Nettie Wild. Ricercatrice, autrice, produttrice e ultimamente essa stessa regista, Claudia s’è recata per lavoro a Cuba, in Nicaragua, Guatemala, El Salvador. Il suo ultimo documentario Finding Llorona, ha riscosso una lusinghiera accoglienza al recente Calgary Film Festival. Girato in Messico, è ispirato alla musica cantata dalle donne del villaggio materno. Il prossimo progetto di Claudia è un documentario da girare in Friuli, in lingua friulana. Il copione, una storia ambientata nel villaggio paterno, San Giovanni di Casarsa, è già pronto. 167


Come moltissimi altri giovani canadesi, tu porti in te l’eredità di culture diverse. Nel tuo caso, cultura e tradizioni messicane per parte di madre, italiane e friulane per parte di padre. Come sei riuscita a farne una sintesi? E quale delle due avverti come predominante? Sono davvero fortunata di essere stata immersa nella cultura di mia madre fin da bambina: dalla nascita in poi sono andata in Messico ogni anno. Per me un’esperienza indelebile. La vita della mia famiglia in un villaggio messicano era completamente differente da quella che sperimentavo in una piccola cittadina britishcolumbiana. Senso comunitario, tradizioni, rituali, la numerosa e legatissima famiglia, le storie, la consapevolezza delle antiche radici familiari: tutto ciò mi ha influenzata molto, ha influenzato il mio amore per tradizioni culturali che riflettono l’universalità della vita e realmente prestano attenzione ai suoi momenti magici. Non sono stata in grado di andare altrettanto spesso in Italia, tuttavia l’impronta del Friuli è stata sempre presente nella mia vita, specialmente attraverso il linguaggio parlato da mio padre con i suoi fratelli, le storie e le memorie del suo passato. Inoltre, lo stile di vita contadina in cui egli crebbe e che lo portò ad apprezzare la natura, mi influenzò al punto da creare in me uno speciale fascino per quei tempi di rurale autosufficienza e solidarietà comunitaria. Mi sento perciò definitivamente modellata dalle culture dei miei genitori, ho sempre desiderato conoscerle meglio. Capire da dove essi sono venuti e il contesto in cui sono cresciuti. Talmente tanti dei loro valori sono diventati i miei valori! Come definisci la tua identità? Da adulta che ha viaggiato in lungo e in largo, e vissuto autonomamente in ambedue i contesti culturali dei genitori, ho la sensazione di avere imparato come sentirmi a mio agio e più forte grazie appunto alle influenze culturali dalle quali sono stata benedetta. Per me, queste nazionalità sono più che 168


stereotipi, più che apparenze superficiali, esse sono parte di me in modo intimo, una specie di sottile percorso. La mia “canadesità” è un amalgama di identità delle quali sono ugualmente orgogliosa e che fanno di me ciò che sono. Proprio a ragione della mia educazione, mi sento libera e sicura in una molteplicità di situazioni e con talmente diversi tipi di persone. Il dono del linguaggio mi ha inoltre aperto molte porte, dal momento che sono stata in grado di usare le lingue dei miei genitori, italiana e spagnola, per manifestare il mio mondo. Mi sento davvero una canadese internazionale, una persona che può essere cittadina del mondo nel momento stesso in cui apprezza e incarna l’unicità di essere canadese. Come hai scelto la tua professione e quali prospettive vedi per il futuro? Sono cresciuta in “culture narrative”, specialmente in Messico, dove ho trascorso gran parte della mia infanzia ascoltando dai parenti storie fantastiche del passato e del presente. Mi sono innamorata di ciò, penso di essere stata morsa dal baco narrante molto presto. Come film-maker ho scelto di raccontare storie visuali, e finora il mio lavoro è stato soprattutto influenzato dal mio heritage culturale. Per me è stato sempre molto importante contribuire al paesaggio culturale canadese con prospettive forse non così prevalenti, specialmente nell’attuale mondo cinematografico. Voglio continuare a raccontare storie visuali ma insieme fare da mentore ad altri, specialmente giovani e bambini interessati a realizzare film ispirati alle loro tradizioni culturali. Credo veramente che includendo più voci possibili nel vasto campo dei media, noi non facciamo che arricchire il nostro paese, impedendogli di cadere nel pericolo della monocultura. Qual’è la tua concezione della famiglia odierna in Canada? I miei genitori vivono tuttora a Powell River, cittadina in cui sono nata e cresciuta, e io faccio in modo di visitarli il più 169


spesso possibile. Con il trascorrere degli anni, capisco sempre di più l’importanza di nutrire un rapporto di amicizia con i genitori, cercando di conoscerli meglio come persone che hanno affrontato grossi rischi allontanandosi dal loro ambiente familiare. Cerco di visitare il più possibile le famiglie originarie sia in Messico che in Italia, e quando lontana mantengo con loro un costante collegamento. Quali, secondo te, le attese e le speranze dei giovani canadesi? Vedo in loro passione e capacità di rischio. Sono costantemente sbalordita dal potere creativo, dall’intelligenza e dalla perspicacia dei giovani che incontro. Tantissimi di loro si stanno ricollegando con orgoglio alle proprie radici culturali e disegnando da ciò innovative espressioni di vita. La mia fede nel futuro deriva da questi giovani che non hanno paura di prendere posizione e di esprimere pienamente la misura delle loro esperienze, e così facendo valorizzano se stessi e l’origine delle loro famiglie. Sono ripetutamente testimone di tutto ciò, lo vedo nei loro lavori d’arte, nei loro contributi comunitari. Penso che l’umanità abbia molto da imparare in questo momento dai giovani che affrontano con profonda creatività la natura critica del nostro tempo. Vancouver, dicembre 2006

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Vedi Ida Toigo pagg 21-24

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ROVILIO COSTA icona culturale sud-brasiliana

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ua Verissimo Rosa, nel quartiere Santo Antonio, è una trasversale della Avenida Ipiranga, la grande arteria che si snoda a sud del Centro di Porto Alegre. La capitale del Rio Grande do Sul è una vasta e verdissima metropoli di circa un milione e mezzo di abitanti, oltre quattro milioni se vi si aggiungono i residenti nei vari sobborghi. Purtroppo non esenti dal fenomeno delle favelas. Il cuore della città, con la bella cattedrale cattolica, la piazza Matriz e i palazzi governativi, conserva l’impronta impressa dai primi abitanti, provenienti dalle Azzorre portoghesi. Qui hanno avuto luogo finora tre Forum sociali mondiali e varie Conferenze internazionali. Per i congressisti e i turisti, visitatori occasionali, ci sono grandi alberghi, moderni centri commerciali, ristoranti di qualità (eccezionali le churrasqueiras). Per la popolazione residente? Mah... ho visitato una serie di negozietti, ben tenuti e con personale cordiale e sorridente, difesi da inferriate su porte e vetrine. “Tutto il mondo è paese”, ma non è bene arrendersi a impressioni superficiali. In Rua Verdissimo Rosa sto per trovare risposte e orientamenti più profondi. Sono partita da Vancouver con un’idea fissa, quella di poter incontrare il leggendario Frei Rovilio Costa. Un personaggio sentito nominare con particolare riverenza da almeno tre decenni, un punto di riferimento per una mia ricerca su alcuni aspetti dell’emigrazione veneta nel sud del Brasile. Mete principali del mio viaggio sono state Nova Padua ed Aratiba, per il secondo grande raduno della numerosissima famiglia Pan sudamericana. Ma finalmente potrò conoscere anche Frei Rovilio. Un cappuccino nel suo austero convento? Minuto e ascetico, un tipo alla padre Leopoldo dei miei anni infantili? L’incontro col personaggio è scioccante. Mi trovo davanti 171


un omone in comune abbigliamento borghese e dai modi affabili: alta statura, candidi capelli, volto scavato, sguardo arguto e indagatore, vivace parlata Taliana condita da battute ora provocatorie ora confidenziali. Vive in una casetta circondata da verde e fiori (c’è anche una pergola di viti), all’interno piena zeppa di libri. Ci sono libri dappertutto, nel basso scantinato e su per le strette scale. Pareti rivestite di libri, scaffali e ripiani ricoperti di libri. Questo è il suo abitacolo, uno spartano giaciglio nella minuscola camera da letto dove ci sta appena una scrivania nei cui cassetti sono ricoverate alcune memorie care, come le decine di kippah donatigli dai suoi amici ebrei. Qui nascono i famosi libri, elaborati da solo o in cooperazione con altri, e i molti articoli per giornali e riviste. Frei Rovilio, che è poliglotta, preferisce parlare e scrivere nel prediletto Talian, koiné linguistica di cui è instancabile paladino e che deriva dalla sintesi di vari dialetti regionali: veneto, trentino, friulano, lombardo, con infiltrazioni di portoghese. Da casa coordina e dirige le migliaia di edizioni EST, e da qui corre in giro per il suo apostolato di prete pieno di energia umana e spirituale. È una sensazione inebriante, passo da un libro all’altro, li tocco con la voglia di sfogliarli tutti, ne ritrovo alcuni già conosciuti e altri che mi ripromettevo di procurarmi. C’è anche, in edizione EST bilingue, la Storia dimenticata del compianto Deliso Villa. E la bella trilogia Far la Cucagna di Mario Gardelin, Far la Vita di Amelia Diomira Lain e Far la Storia di Geraldo Sostizzo, tutti in perfetto Talian. Intanto lui parla scherzosamente, ma non racconta di sé, se non di essere nato a Veranopolis da famiglia di agricoltori (o meglio “coloni”, come si usa dire in Rio Grande), “ceo” di sette figlioli. I genitori, oriundi cremonese il padre e trevisana la madre, discendevano dai fondatori di una delle prime comunità di immigrati italiani nella Serra gaucha. Com’è avvenuta la sua scelta francescana? “Par scaparghe ai Maristi...”, risponde sornione. Solo più tardi verrò indirettamente a sapere della sua precoce vocazio172


ne, da lui attribuita alla religiosissima madre e alla madrinamaestra degli anni infantili. L’attitudine allo studio e alla ricerca, la naturale capacità di comunicare e socializzare, la pratica delle attività domestiche e di lavoro nella fattoria di campagna, l’avere condiviso con la mamma la cura a bisognosi, malati e defunti, lo hanno inizialmente ispirato. Per farlo diventare, inevitabilmente, un leader sia in campo sociale che culturale. Ma non chiamiamolo storico, per carità... i suoi insegnanti di storia, precisa, anziché aiutarlo ad apprenderla, lo aiutarono a detestarla. “Para mim historia era historia do pai, da mae, da familia, dos avos” (per me la storia era quella del papà, della mamma, della famiglia, dei nonni). “A verdadera historia, aquela que è dita maestra da vida, fundamenta-se nas experiencias da vida” (la vera storia, quella detta maestra di vita, è fondata sulle esperienze della vita). Ecco la chiave di interpretazione della sua originale opera di antropologo e di testimone dell’epopea di uomini e donne, famiglie e comunità, popoli e movimenti nel Brasile, in particolare nel Rio Grande do Sul. Sfoglio Etnias & Carisma: Polianteia em Homenagem a Rovilio Costa, volume di oltre mille pagine curato nel 2000 da Antonio Suliani ed edito dalla Pontificia Universidade Catolica do Rio Grande do Sul. Vi sono raccolti scritti di insigni ricercatori – teologi, filosofi, antropologi, educatori, psicologi, sociologi e studiosi del processo immigratorio – che hanno voluto omaggiare nel frate cappuccino “una icona della cultura sud-rio-grandense”. L’occasione per tale speciale convito, è detto in prefazione, è nata da una serie di commemorazioni: i 66 anni di vita e i 40 di sacerdozio di Frei Rovilio, i 125 anni dell’immigrazione italiana e i 175 di quella tedesca nel Rio Grande do Sul, e i 500 anni della scoperta del Brasile. Vi è anche contenuto un saggio del direttore della Fondazione Agnelli, Marcello Pacini, che conclude: “Per la sua intelligenza di studioso e di ricercatore, per le sue doti di organizzatore culturale e, non da ultimo, per le sue grandi qualità spirituali e umane, la Fondazione Giovan173


ni Agnelli ha trovato in Rovilio Costa un compagno di strada indispensabile e indimenticabile”. Sottomano ho un altro recente libretto: Rovilio Costa - Homem, Obra e Acervo, a cura di Vania Heredia & Loraine Giron, edito in Porto Alegre con la sponsorizzazione della Fondazione Cassamarca di Treviso. Presenta una rassegna delle opere del frate, a partire da tematiche, obiettivi e metodo: raccolte nell’Archivio storico del Rio Grande do Sul, “le sue sono le uniche che riportano le singole voci dei coloni con le loro vivide storie tramite i ricordi trasmessi di generazione in generazione”. È errato affermare che c’è un prima e un dopo Rovilio Costa per chiunque si occupi delle vicende dell’immigrazione italiana in Brasile? Mi allontano da Rua Verissimo Rosa commossa, e arricchita dalla benedizione di Frei Rovilio. Porto Alegre, gennaio 2007

NOTE BIOGRAFICHE Nato in Veranopolis, ex Colonia Alfredo Chavez, Rio Grande do Sul, nel 1934, ultimogenito dei sette figli di Milchare Francisco Costa e Maria Catharina Moretto, oriundi cremonese e trevisana. Francescano cappuccino, sacerdote dal 1960. Dal 1968 risiede in Porto Alegre, dove è stato - tra l’altro - assistente penitenziario della Colonia Penal do Jacui, superiore del Convento del Partenon, professore nella Facoltà di Educazione della Università Federale del Rio Grande do Sul. È anche membro del Consiglio di Stato della cultura riograndense e vicario parrocchiale della chiesa Nossa Senhora do Libano. Libero docente in Antropologia Culturale, costituisce referenza obbligatoria per quanto si riferisce agli studi di immigrazione e alla storia orale. Di spicco la sua attività di direttore della collana editoriale EST da lui creata nel 1973, responsabile di oltre due mila e seicento titoli, con enfasi sulla storia delle etnie costitutive della popolazione sud-rio-grandense e brasiliana. Cittadino onorario di Porto Alegre, di Veranopolis, di Carlos Barbosa, Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana, Membro dell’Academia Riograndense de Letras, dell’ Istituto Historico de Sao Leopoldo, del Colegio Brasileira de Historia, della Società Taliana Massolin di Fiori. Centinaia di medaglie e diplomi, premi e trofei, ricevuti sia in Brasile che in Italia.

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GEMMA SCOTTON e il volontariato comunitario

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uglio 1960. Una giovane nata e vissuta a San Zenone degli Ezzelini, un piccolo comune della marca trevigiana, affronta da sola il lungo viaggio per raggiungere il promesso sposo nell’estremo ovest del Canada. Lei, la “maestrina” Gemma Teresa Favero, aveva conosciuto Egidio Scotton sui banchi di scuola. Lui l’aspetta a Vancouver dov’è arrivato cinque anni prima. Celebrano il loro matrimonio nella Sacred Heart Catholic Church in Strathcona, centro spirituale dell’allora Little Italy. A grandi linee è la storia di molti, in quegli anni difficili del secondo dopoguerra. Quanti giovani, stringendo i denti, ma pieni di speranza, lasciarono l’Italia alla ricerca di un futuro migliore; e quante fidanzate o giovani spose si staccarono dalle proprie radicate e spesso numerose famiglie, col cuore in pianto e il timore dell’ignoto, per unirsi in capo al mondo ai compagni delle loro vite! Ognuno insegue, o meglio costruisce, il proprio destino. Dalla terra madre alla terra adottiva il passo è duro e difficile. Ma bisogna guardare avanti, con determinazione e senza paura. È quanto ha fatto la protagonista di questa storia. Ha saputo dar vita ad una famiglia solida: tre figli, due maschi e una femmina, oggi professionisti affermati. George, laureato in Scienze e specializzato in Psicologia, lavora in una clinica di Vancouver. Paolo, laureato in Medicina, pratica la professione ad Orangeville, in Ontario. Gina, insegnante d’Inglese a Richmond, città satellite della Vancouver metropolitana, si sta dedicando in particolare a studenti con problemi di apprendimento. Tutti e tre felicemente sposati, hanno regalato ai nonni Egidio e Gemma gli amatissimi nipotini Anna, Emily, Maria, Miranda, August e Marco. In loro si perpetuerà, con la fiera identità 175


canadese, anche una sostanziale componente ereditaria, fatta di cultura e tradizioni italiane e venete. A Gemma Scotton non è bastato essere moglie e madre. Non è bastato lavorare per aiutare a far quadrare il bilancio familiare e procurarsi il benessere di oggi. La natura estroversa e generosa, con l’incrollabile fede cristiana e l’attitudine all’educazione, l’hanno spinta a coinvolgersi nel volontariato comunitario. Una vocazione non da tutti. Fin dall’inizio, lei ha scelto di dedicarsi alle donne e ai bambini, i più deboli della società. Grazie a lei, le donne sono diventate delle vere e proprie rocce. “La Gemma” – com’è conosciuta dai più – è considerata una favola, un’icona della comunità italiana di Vancouver. Un punto di riferimento, una forza. Una specie di “generalessa” del volontariato. Le insegnanti dei corsi di italiano la riveriscono e la temono, le centinaia di allievi che nel corso dei decenni hanno frequentato – da bambini o da adulti – le sue impareggiabili lezioni, la ammirano e la amano. I dirigenti del Centro tengono in conto i suoi suggerimenti e i suoi espliciti seppur rispettosi giudizi, enunciati pubblicamente nel corso delle assemblee sociali. Le sue “signore” del Club femminile – ci tiene a definirle tali, come pure all’uso indistinto del “lei” nei rapporti colloquiali – la vedono come confidente e guida. Sua l’idea di fondare il Club, trent’anni fa, in coincidenza con il sorgere del Centro culturale italiano. Anno dopo anno, tenacemente e orgogliosamente, ha messo a disposizione una serie di attività educative, richiamando adesioni e stima. Qualche eventuale detrattore – ogni comunità ha i suoi – deve accontentarsi di mugugnare, privo di argomenti validi. Oltre ad essere forza motrice del volontariato comunitario, vera e propria “colonna portante” del Centro, il Club è l’unica Associazione a fare formazione. Si contano ormai a centinaia i seminari mensili, condotti da esperti di vari settori della vita civile: assistenti sociali, 176


avvocati, medici, diplomatici, poliziotti, giornalisti, artisti, insegnanti, sacerdoti, scrittori, agenti turistici, esperti finanziari, e così via. Rilevante, inoltre, è l’apporto dato dal Club ad opere caritatevoli, quali il Children Hospital, la Kidney Foundation, l’Unicef. E gli aiuti ad anziani ammalati e bambini bisognosi, anche tramite adozioni a distanza. Ascoltiamo come la stessa signora Scotton riassume questo trentennio: “Sono stati anni d’arricchimento culturale, d’amicizia, di maturità, d’informazione. Ci siamo veramente migliorate divenendo più coscienti dell’ambiente in cui viviamo, delle sue strutture politico-economiche e sociali. Siamo cresciute divenendo anche più consapevoli delle nostre capacità personali di donne del Duemila, più sicure di noi stesse, dopo la dura prova dei primi anni d’emigrazione”. E per il futuro? “Vorremmo continuare ad essere donne forti in famiglia e nella società, madri e nonne consapevoli del nostro grande ruolo d’amore, di abnegazione e d’insegnamento; persone che sicuramente vanno oltre i propri bisogni per aiutare i figli, i nipoti e molti altri”. Come vede il futuro del Centro comunitario? “Sono un pò preoccupata perché i volontari diminuiranno. I giovani sono troppo occupati con le loro attività familiari e professionali per dedicarvi tempo e lavoro. Sono tuttavia convinta che le nuove generazioni, arrivate ad un certo punto della loro vita, continueranno a cercare l’identità d’origine. L’italianità continuerà a vivere proprio perchè la famiglia italiana – come mi ha detto di recente un giovane oriundo, famoso campione sportivo – è bella, è buona, è piena d’amore”. Il ricordo e i suoi legami con la terra natale? Anni or sono, durante la “rimpatriata” di un numeroso gruppo di sanzenonesi di Vancouver (nella British Columbia le famiglie provenienti da San Zenone sono circa 600), Gemma Scotton, a nome dei partecipanti, ha espresso parole di “vero affetto verso la nostra ridente e prospera terra nativa: terra nella quale abbiamo 177


imparato a rispettare le leggi, a credere in Dio, a conoscere e apprezzare i valori fondamentali della vita, a lavorare duramente, ad essere onesti cittadini di due mondi”. Dove il mondo secondo è quello nordamericano. “A Vancouver e nell’intera Columbia Britannica, noi sanzenonesi ci troviamo bene. La natura è incantevole, la temperatura mite, non soffriamo la discriminazione, viviamo il multiculturalismo nella sua pienezza. Fortunatamente godiamo anche l’unità e l’affetto familiari. Per noi emigranti poi, il lavoro è veramente un diritto e un dovere umano. Quello che abbiamo imparato in questa terra è servito a guidare le nostre vite, a renderle migliori, soddisfacenti e produttive”.
Va aggiunto che una donna così è di esempio e di ispirazione a molti, ma è difficile da sostituire. Ad ogni rinnovo di Consiglio direttivo, anno dopo anno, lei presenta le dimissioni, chiede di votare nuovi nomi, esce dalla sala dell’assemblea, lascia passare del tempo, rientra e con voce squillante: “Avete scelto la nuova presidente?”. E un coro di voci unanimi invariabilmente, da tre decenni a questa parte, risponde: “Sì, è Gemma Scotton!”. Vancouver, febbraio 2007

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ISIDORO ZORZI visione di rettorato universitario

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uarant’anni di vita, celebrati il 10 febbraio con una messa di ringraziamento nella cattedrale di Santa Teresa, hanno offerto l’occasione per ripensare genesi e sviluppo della UCS, e insieme riproiettarla nel futuro di crescita del brasiliano Rio Grande do Sul. “In questi 40 anni di esistenza la UCS ha messo radici profonde in tutta la regione, identificandosi con essa e dando risposte all’intera comunità: questa è la strada che dobbiamo continuare a percorrere, pensando la UCS come Università Comunitaria della Serra, e non solo di Caxias do Sul”, ha dichiarato il professor Isidoro Zorzi, da un anno rettore della dinamica istituzione. Un filo ideale e insieme reale unisce il cattolico Zorzi, laureato in filosofia, specializzato in sociologia e scienze politiche – e da decenni docente del dipartimento di Sociologia della UCS – al principale ideatore dell’università, e cioè al suo compianto zio, monsignor Benedito Zorzi. Il prelato, da vescovo della diocesi, fu il propulsore dell’alleanza tra la Chiesa cattolica, la Società Scientifica Nostra Signora di Fatima e la Prefeitura Municipal (il comune) per formare l’associazione Università di Caxias do Sul. La Chiesa manteneva le facoltà di Filosofia, Scienze e Lettere, Scienze economiche e Medicina; la Società Fatima, il corso di Diritto e il Municipio quello di Belle Arti. Un esempio di feconda collaborazione tra l’organizzazione ecclesiale e il potere pubblico locale. “Non per nulla la parola “università” – come piace sottolineare al rettore – viene dal latino universitas, cioè unità nella diversità. Per questa ragione la UCS è un luogo di libero dibattito di tutte le forme della conoscenza”. Ma come è potuto nascere e svilupparsi un progetto tan179


to distante da quelli delle nostre illustri superaccentrate e superburocratizzate accademie laiche? Si provi ad immaginare il contesto storico (risaliamo ad oltre 130 anni!) di una realtà dove la religione cattolica, con riti e tradizioni importati dai villaggi di partenza, era stata unico motivo di riferimento identitario per migliaia di famiglie rurali attratte dalla speranza di una vita degna, ma lasciate in stato di abbandono dalla patria di origine e di isolamento da quella di accoglienza. Prova di ciò, oltre alla tradizione orale tramandata da padre in figlio per cinque generazioni, sono una serie di studi dedicati alla colonizzazione italiana nel Rio Grande do Sul, con le sue implicazioni economiche, politiche e culturali. “Per molti anni – afferma il sociologo Olivio Manfroi in una sua opera del 1975, riedita nel 2001 dalla EST di Porto Alegre – vissero nell’isolamento e nell’abbandono, contando unicamente con coraggio sulla forza delle proprie braccia e sulla solidarietà coloniale (dove per coloniale s’intende comunitaria, essendo definiti “colonie” i terreni assegnati e “coloni” i contadini)”. E ancora: “Lontani dai centri urbani e commerciali, isolati nel mezzo della foresta vergine, praticamente senza strade e mezzi di comunicazione, gli immigrati – poveri e in stato di necessità – vivevano al margine della società gaucha. In questo contesto di isolamento fisico e sociale, la preservazione della lingua, delle tradizioni e dei costumi fu naturale e spontanea”. Ciò spiega, tra l’altro, il fenomeno del Talian, koinè linguistica formatasi e sviluppatasi dalla combinazione di diverse forme espressive in uso nelle zone del lombardo-veneto, comprensive anche di friulano, trentino e tirolese. Parlato, studiato, ampiamente pubblicato a tutt’oggi, e non solo nel Rio Grande, il Talian (che dell’italiano grammaticale ha ben poco) è lingua corrente di comunicazione, seconda solo al portoghese, la lingua ufficiale del Brasile. “In questo contesto culturale e religioso – è affermato – il nazionalismo italiano non ebbe eco alcuna e la causa dell’ita180


lianità incontrò solo indifferenza. La religione cattolica, peraltro, ebbe uno sviluppo straordinario... Fu la cattolicità e non l’italianità la vera coscienza di gruppo, la forza d’integrazione degli emigranti italiani del Rio Grande do Sul”. La cattolicità quindi come identità culturale. Da tutto ciò noi oggi abbiamo molto da imparare e da meditare. Per avere una maggiore umiltà nell’accostare determinate realtà, senza giudicarle a priori e senza pretendere di offrire alternative stridenti, non necessarie, modelli estranei alle stesse. Dalla struttura e dallo sviluppo della società riograndense si ricava un esempio di fede nell’uomo in armonia con la natura e perciò con il divino. Da questa realtà ebbe origine quindi anche la UCS, che resta oggi ben radicata nel territorio e continua nella sua missione di risposta alle reali esigenze dell’attuale sviluppo umano: culturale, economico, politico, sociale, tecnologico, spirituale. Alcune cifre a sintesi dei quattro decenni trascorsi: 45.300 professionisti formati, dei quali oltre 37 mila solo nel campus di Caxias. Dalle iniziali sei facoltà alle attuali quaranta, con 37.841 alunni e 1.434 professori. Alla fine degli anni ’60, l’università aveva già creato i campus di Bento Gonçalves, Lajeado, Estrela e Vacaria. Vi si aggiunsero in seguito i nuclei di Canela, Guaporé, Nova Prata, Veranopolis, Farroupilha e San Sebastiano do Caí. Oggi la UCS è collegata a 69 municipalità e a un milione di abitanti. “Dobbiamo portare avanti una sola università nella regione – dice Zorzi – ma con campi e nuclei che rispondano alla domanda di ogni microregione. Ciò non significa necessariamente percorsi di laurea, ma anche corsi tecnici, programmi di educazione continuativa”. In questi 40 anni la UCS ha conquistato prestigio, e, nonostante la giovane età, è riconosciuta nazionalmente e internazionalmente. Con oltre duecento accordi di cooperazione internazionale firmati con università di cinque continenti, gli accademici hanno possibilità di realizzare interscambi di laurea, post-laurea e stages remunerati. Dal 31 marzo di quest’anno, 181


inoltre, il dipartimento di Relazioni Interistituzionali e Internazionali della UCS raccoglie iscrizioni di laureandi interessati a recarsi per studio, da sei mesi a un anno con crediti riconosciuti, in paesi come Portogallo, Colombia, Spagna, Stati Uniti, Argentina, Francia, Italia, Germania, Canada e Cina. Nello scorso 2006, gli interscambi con altri paesi hanno interessato 343 studenti e 77 docenti della UCS, mentre l’università riograndense ospitava 86 alunni e 106 professori di istituzioni straniere. Il prof. Isidoro Zorzi è giustamente orgoglioso dell’istituzione che regge. Altrettanto fiero è della lontana padovanità della sua famiglia, originaria di Piombino Dese oltre che delle proprie radici brasiliane, piantate in Nova Padua.

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VINCENT DI LOLLO la vitalità di un neuroscienziato Caxias do Sul - Vancouver, marzo 2007 l professor Vincent Di Lollo vive e lavora a Vancouver da una dozzina d’anni. L’ho incontrato grazie ad una sua allieva mia concittadina, la vicentina Paola Poiese, laureata in Psicologia all’Università di Padova e in forza all’Università di Trento, presso il Dipartimento di Scienze della cognizione e della formazione che ha sede a Rovereto. Da circa un anno la giovane è pendolare tra il nord Italia e Vancouver, dove alla Simon Fraser University di Burnaby è allieva e collaboratrice pro-tempore del professor Di Lollo, ricercatore di fama mondiale nel campo della Neuroscienza e della Scienza della cognizione, con particolare riguardo per il fenomeno Vision and Visual Attention. Nella frazione di secondo tra la visione di un oggetto e il processo di quanto gli occhi hanno visto, il cervello ha già fatto una straordinaria quantità di lavoro. In effetti, l’informazione visuale ricevuta è stata varie volte codificata nei percorsi cerebrali. Di Lollo studia gli affascinanti processi che stanno alla base della nostra abilità di percepire le cose nel mondo fisico che ci circonda. È scienza pura, ma è facilmente intuibile come possa volgersi al servizio delle scienze applicate, specialmente nel campo della neuroanatomia e della neuropsicologia. Il professore preferisce essere chiamato Enzo (da Vincenzo, il suo originario nome “italiano”, trasformato nell’inglese Vincent, e semplificato da collaboratori e allievi in un confidenziale Vince). Tra veneti, gli piace parlare il linguaggio della sua infanzia, il goriziano. Lo parla in modo fluente e solare, solare com’è la sua personalità, gioiosa e comunicativa. Non si direbbe che quest’uomo abbia avuto un passato difficile e tribolato. Traspira ottimismo, incoraggia ad una visione posi-

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tiva della vita e degli eventi della storia. La sua è una vicenda esemplare, può insegnare molto e dare coraggio e speranza a tanti. Il suo itinerario: da ragazzo profugo a riconosciuto luminare della scienza mondiale. Un cammino in ascesa, fatto di tenacia e volontà, volto a conseguire realizzazioni proporzionali al dono di geniali talenti, fortemente alimentati nel tempo. I ricordi degli anni di vita italiana sono nitidi e Di Lollo ne parla senza inutili rimpianti, sottolineando anzi con contagiosa allegria lo spirito di avventura con cui ha vissuto alcuni episodi di quel tempo ormai lontano, alla scoperta di nuovi ambienti, nuovi mondi, nuovi personaggi. Due volte in fuga, prima da Gorizia città natale, poi dal paese del Veneto che aveva accolto la sua famiglia allo scoppio della seconda guerra mondiale, sembra non aver vissuto (anche se li ha certamente patiti) gli orrori della persecuzione politica e le ristrettezze causate dalla perdita di ogni bene di sussistenza, non solo la casa di abitazione ma anche il lavoro paterno in territorio istriano. E il distacco più doloroso: quello dall’unica sorellina, sottratta troppo presto a genitori e fratelli da una malattia al tempo incurabile. La piccola riposa nel cimitero di Castello di Godego dove la famiglia Di Lollo aveva trovato rifugio nel 1943 prima di essere imbarcata tre anni dopo - Enzo allora era appena sedicenne - per l’Australia. Nel periodo della scuola media, frequentata puntualmente nonostante la bufera della guerra, il ragazzino aveva escogitato il modo di procacciare viveri alla famiglia dedicandosi ad una specie di “mercato nero” (quanti alloro sfollati nella campagne venete erano costretti a ricorrervi?). Anche il trenino della Valsugana era diventato un mezzo per contrabbandare farina. Da ragazzo della Resistenza - le sue scelte erano state ben chiare e precise fin dall’inizio della lotta - contestava il fascismo, i suoi alleati e i suoi metodi. Il carattere ottimista e visionario gli faceva sognare e sperare un futuro di libertà. Forza morale, tenacia della volontà e natura geniale avrebbero contribuito a costruirgliene uno specialissimo. 184


Così ha riassunto, con semplicità, la sua biografia: “Sono nato a Gorizia, nella parte nord orientale d’Italia. Adolescente, sono stato spedito via mare nel Western Australia con i miei genitori, due fratelli e molti altri rifugiati della Seconda Guerra mondiale. Là ho lavorato come operaio in una fonderia di acciaio, come assistente scalpellino, e come grizzly-man (uomo-miccia), scimmia glorificata dalla polvere, in una miniera d’oro. Nel frattempo ho imparato a parlare inglese e ho vinto una borsa di studio. Una volta completato un Ph.D. all’Università del Western Australia, ho trascorso tre anni negli Stati Uniti come Fulbright Scholar: Indiana Universtity, University of Michigan e Princeton University. Dopo un secondo turno di presenza all’Università del Wester Australia, questa volta come docente, poi come senior-lecturer, e successivamente come professore incaricato, ho scoperto il Canada e non ho più guardato indietro!”. L’ottimismo della realtà, l’entusiasmo del personaggio! Sappiamo tuttavia che, come parte della sua vita privata, egli mantiene con l’Australia importanti e solidi legami di famiglia e di amicizia. Il curriculum canadese di Vincent Di Lollo comprende - dal 1975 ad oggi - tre anni come professore di Psicologia all’Università del Manitoba, diciotto anni all’Università dell’Alberta, altri otto come Honorary Professor alla Università della British Columbia. Dal 2004 è Adjunct Professor alla Simon Fraser University (“dove la vita è più piacevole” commenta). Alcuni si chiederanno il perché di una carriera pressoché infinita, quando molti colleghi, alla sua età, sono da anni in pensione. Ma quando mai si mandano in pensione l’intelligenza, la ricerca, il genio? Fortunatamente c’è chi capisce, promuove e se ne fa carico. “La mia ricerca - fa sapere - è stata e continua ad essere generosamente sostenuta soprattutto dallo NSERC 1, e in parte da altre agenzie sovvenzionatrici. Alla SFU, i miei studenti ed io collaboriamo a tutto campo con diversi colleghi, in particolare John McDonald e Tom Spalek”. Lavorano affiatati, senza sosta 185


se non per qualche informale fine settimana tra famiglie. Gli studenti del Dipartimento li ammirano e li amano, sia i canadesi che quelli arrivati da fuori per specializzarsi. Lui, maestro e guida, è esigente ma disponibile, severo quando occorre e paterno sempre. A Paola Poiese ho chiesto che cosa significhi lavorare con il professor Di Lollo e il suo team. “L’esperienza alla Simon Fraser University - ha risposto - rappresenta un momento forte ed importante nella mia formazione scientifica e personale. Quando incontrai Di Lollo per la prima volta ero intimorita all’idea di lavorare con una persona del suo calibro scientifico. Oggi il timore si è trasformato in enorme stima sia per l’eccellente qualità scientifica del suo lavoro e del suo insegnamento, sia per la grande attenzione alla persona che egli ha dimostrato nei confronti di una studentessa come me. Se dovessi riassumere in una frase direi: He has changed my life”. E alla domanda: “È importante per i laureati (studiosi e ricercatori) italiani l’esperienza in università nordamericane e quali benefici ne possono trarre?” ha risposto: “Io sono estremamente grata al mio Dipartimento e ai miei professori per avermi offerto la possibilità di fare questa esperienza in una Università straniera. Penso che tutti gli studenti che si preparano a fare ricerca dovrebbero potersi confrontare con modelli e sistemi diversi, dato che questo contribuisce in maniera significativa alla loro formazione scientifica”. Ai molti riconoscimenti ricevuti dal professor Di Lollo nel corso della sua lunga e brillante carriera scientifica, si è aggiunto lo specialissimo 2007 Richard Tees Leadership Award della Canadian Society for Brain, Behaviour and Cognitive Science. Complimenti, carissimo compatriota! Vancouver, aprile 2007

¹ Natural Sciences and Engineering Research Council of Canada, vedi http:// 186


FAUSTO BELLINO TASCA l’arte di un veneto in California

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www.nserc-crsng.gc.ca/

l nome e il talento di un pittore di scuola veneziana, Fausto Bellino Tasca, sono indissolubilmente legati al gioiello di arte religiosa custodito nella Chiesa dei Pescatori, centro di vita spirituale, culturale e sociale della Little Italy della magnifica città di San Diego, e punto di aggregazione per i credenti italoamericani delle zone circostanti. Polo di attrazione anche per i turisti in cerca di tesori da scoprire e ricordare, la Our Lady of the Rosary Parish - nome ufficiale della chiesa di stile romantico-genovese situata all’angolo di State e Date, una parallela di Columbia Street - è nata meno di un secolo fa dal sogno di un salesiano di origine piemontese con oltre trent’anni di esperienza missionaria, padre Silvestro Rabagliati, poliglotta e raffinato pianista, in cooperazione con il contributo delle famiglie italiane insediate nella zona del porto (in maggioranza pescatori genovesi e portoghesi, cui più tardi si aggiunsero i siciliani). Assegnato nel 1921 alla comunità cattolica di San Diego, in un paio d’anni il leader religioso poté benedire l’edificio della chiesa italiana: era la vigilia del Natale 1923 e - ricordano i documenti d’epoca - “la santa messa della mezzanotte da lui offerta costituì per l’intera comunità un momento di incredibile gioia e di ringraziamento”. Rimaneva da rivestire l’interno della chiesa con le opportune decorazioni. Amante dell’arte e desideroso di ricreare un ambiente familiare che facesse sentire i fedeli “a casa”, il sacerdote cercò tra gli artisti di origine italiana i più adatti all’impresa. La scelta cadde sul pittore Fausto Tasca, che in una serie di straordinarie tele eseguite tra il 1920 e il 1928 dipinse gli Apostoli, gli Evangelisti, una grande Crocifissione e un enorme Giudizio Universale; e sullo scultore Carlo Romanelli, che magistral187


mente modellò le statue di Nostra Signora, del Sacro Cuore, di Sant’Anna e di San Giuseppe. Con le belle vetrate a mosaico multicolore raffiguranti i Misteri del Rosario, l’insieme della Chiesa dei Pescatori costituisce uno scrigno di bellezza artistica unico lungo la costa sud-californiana. La chiesa fu formalmente dedicata alla Madonna del Rosario la domenica 20 dicembre 1925, alla presenza del vescovo di Los Angeles. Il giornale cattolico della diocesi scrisse tra l’altro che “il risultato del lavoro del famoso artista italiano Fausto Tasca, i cui dipinti coprono pareti e soffitti del santuario, è di grande ispirazione... un’impresa di grande merito. Le scene sono simboliche sia del nuovo che del vecchio Testamento... Non c’è interno di chiesa, almeno da questa parte del Paese, che resterà impresso nel visitatore come quello della Our Lady of the Rosary di San Diego”. La Crocifissione, che copre l’intera volta dell’altar maggiore, è considerata dai critici il capolavoro di Tasca, ma è forse l’originale e impressionante Giudizio Universale a rivelare il tormento e l’estasi dell’artista, la condanna e la salvezza, il dissidio e la serenità, la luce e le tenebre di un’esistenza umana difficile, condotta tra il vecchio e il nuovo mondo, in cerca di personale realizzazione e giusto riconoscimento. Ogni volta che l’ammiro, e ci ritorno ormai da anni, ne rimango estasiata. Ma chi era Fausto Bellino Tasca? Nato a San Zenone degli Ezzelini il 29 giugno 1885 da una numerosa famiglia di modeste condizioni economiche, fin da bambino aveva dimostrato particolare attitudine al disegno (si nascondeva sotto il letto per dedicarvisi) e fu solo grazie alla generosità di un mecenate del luogo che poté seguire gli studi di Belle Arti a Venezia. Molto non si sa di lui e poco si conosce, specialmente in Italia, della sua opera egregia. Nel ponderoso volume Artists in California 1786-1940 si elencano i dipinti murali da lui realizzati per la Citizens Trust & Savings Bank di Los Angeles, per la Chiesa del Rosario di Los Angeles, per la Chiesa dei Pescatori di San Diego, per la Camera di Commercio di Long Beach. Fece parecchi ritratti di personaggi celebri, famoso quello di 188


Galilei commissionatogli dalla Galileo Lodge di Los Angeles, oggi esposto nella sala d’entrata all’Osservatorio astronomico in Griffith Park. Sicuramente lavorò su commissione di privati per eseguirne i ritratti e decorarne le lussuose magioni. Tasca lasciò il Veneto nel 1913, già sposato alla cantante conterranea Paolina Melchiori, di quattro anni più giovane. Non si conoscono, anche se sono facilmente intuibili, le ragioni della decisione di emigrare. Gli sposi si stabilirono dapprima a New York, “dove il dotato artista - secondo uno stampato diffuso in occasione del cinquantesimo anniversario della Our Lady of the Rosary Church - creò molti eccezionali lavori d’arte, ivi inclusi i bei dipinti trovati nella Cappella di Madre Cabrini nella città di Orange”. Nel 1916 i Tasca decisero di trasferirsi in California, a Santa Barbara dove rimasero per quattro anni prima di spostare la loro residenza a Los Angeles nel 1920. Qui vissero e lavorarono fianco a fianco fino alla morte prematura di Fausto, spentosi nel 1937 a soli 52 anni di età. Avevano un figlio, Angelo, chiamato Tony. Nel cimitero cattolico di Los Angeles, anni or sono, avevo individuato e fotografato la semplice tomba dei coniugi Tasca. Paolina era deceduta nel 1972, sopravvivendo al marito per ben trentacinque anni. Di recente, in seguito a ricerche eseguite presso la Biblioteca civica di San Zenone, sono entrata in contatto con l’unica nipote diretta del pittore, Sandra Tasca, che vive in New Jersey ed è ella stessa un’artista. Le ho posto alcune domande. Che cosa sai di tua nonna, Paolina Melchiori Tasca? Hai fatto in tempo a conoscerla? Mia nonna è vissuta con noi per anni. Che donna straordinaria! Poteva essere scherzosa e amava ridere, ma era nello stesso tempo molto dignitosa, il portamento eretto e nobile anche da vecchia e malata. Cantò professionalmente fino a quasi settant’anni, e in seguito come solista per diverse chiese. Ero troppo giovane allora per ricordare dove cantava, ma ricordo di averla sentita vocalizzare e fare pratica. Era una mezzo-soprano, 189


la sua voce era stupenda, vellutata. Prendeva con serietà il suo impegno e le piaceva esibirsi. Ma desiderava anche condividere la sua conoscenza e il suo amore per la musica con quanti le erano vicini. Non rimangono incisioni conosciute della sua voce. Come hai fatto a scoprire il valore artistico di Fausto Tasca? e come e quando hai deciso di dedicarti a farlo conoscere e valorizzare? Mi risulta che hai approntato allo scopo il sito www.faustotasca.com Avevamo dipinti di mio nonno appesi alle pareti della nostra casa mentre io stavo crescendo. Era impossibile non conoscere qualcosa di lui, specialmente da quando nonna venne a vivere con noi. L’alta qualità del suo lavoro mi fu sempre ovvia, seppure fossi bambina. Ho poi studiato storia dell’arte all’università, e dunque mi è venuto facile collegare il posto di mio nonno nella storia dell’arte. Con la crescita di mio figlio ho cominciato a chiedermi se egli darà valore al lavoro di mio nonno come io lo sto dando. Altrimenti questo lavoro andrà perduto per sempre. Devo anche ammettere, e con molto dolore, che mio padre distrusse fotografie, album di schizzi e documenti del lavoro di suo padre perché non vedeva in essi alcun valore. Ciò mi ha sempre disturbata, portandomi a capire la fragilità dell’opera di un artista poco conosciuto. Far conoscere Nonno significa proteggere il suo lavoro. Per questa ragione ho iniziato a dedicare parte delle mie energie alla pubblicizzazione della sua vita e della sua opera. È un progetto a lungo termine, e spero sfocerà in un più ampio apprezzamento della sua creatività. Sei tu stessa un’artista: quali sono i tuoi principali interessi? e che cosa significa essere l’erede di un artista del calibro di Fausto Tasca? Dopo gli studi di storia dell’arte (mi sono laureata alla Queen’s University in Kingston, Canada) avrei voluto diventare architetto. Ho finito invece per studiare fotografia presso una delle migliori scuole degli Stati Uniti, l’Art Center College of Design in Pasadena, California. Ho lavorato per oltre vent’anni come professionista fotografa. Ora che ho il miglior lavoro del 190


mondo - allevare il mio giovane figlio - ho cominciato a dipingere! Sono consapevole di aver scelto di dipingere (e di suonare il pianoforte) per l’influenza su di me dei miei nonni. Sono sempre stata fiera del lavoro di mio nonno. Nonostante egli fosse morto molto prima della mia nascita, lui e la sua opera sono una parte reale della mia vita. Quando dipingo me lo sento vicino, e penso che anch’egli sia fiero di me. Sandra, sei un’americana con una frazione di sangue italiano: che cosa significa questo per te? sei stata mai in Italia? in Veneto? a San Zenone? Sono veramente orgogliosa del mio heritage italiano! Ma poiché mia madre non era di origine italiana, non si parlava italiano in casa prima che mia nonna venisse a vivere con noi. Lei mi parlava sempre in italiano quand’eravamo sole. Provava seriamente ad interessarmi al linguaggio e ai suoi grandi autori. Ricordo che una volta mi disse che non sarei mai stata realmente bene educata se non avessi appreso a parlare italiano. Ciò mi rimase sottopelle. Alla Queen’s frequentai corsi di italiano, scoprendo che, grazie a nonna, il linguaggio era già nella mia testa, e parlare italiano mi fu facile. Ovviamente, parlo con errori dal momento che non l’ho imparato da bambina, ma lo amo molto. Grazie a nonna, ho anche studiato per un’estate alla International University in Venezia. Quanto l’ho amata! Venezia è davvero speciale per me, in parte per la sua bellezza misteriosa e in parte perché è stata la prima città italiana da me conosciuta. E poi mio nonno e mia nonna fecero il loro viaggio di nozze a Venezia! Sì sono stata cinque volte a San Zenone, godendo molto ogni visita. Che cosa vorresti dire oggi a nonno Fausto? Dal momento che ho ereditato la sua grande passione creativa, non vorrei nient’altro che nonno mi insegnasse a dipingere. Avremmo un più profondo rapporto l’uno con l’altro. Potremmo parlare di arte e di fotografia (era anche un esperto fotografo). Sarebbe fantastico! 191


MaternitĂ - Severino Trinca 1993

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MENA MARTINI e il “Cristallo” della sua vita San Diego - Vancouver, giugno 2007 uell’anno con il cancro è stato il più bello della mia vita. Incredibile a raccontarsi e forse ancor più a capire...”. Mena Martini ripete a voce alta il suo messaggio, lo vuole comunicare a quanta più gente possibile. Desidera condividere la sua esperienza personale perché è convinta che “di cancro si guarisce, di cancro si vive”. È appena rientrata a Vancouver da un lungo soggiorno promozionale in Italia, dove il suo romanzo autobiografico “Cristallo” sta suscitando grande interesse. In Canada, mesi or sono, aveva vinto l’ambito Premio Bressani per la letteratura. È nata una nuova stella nel firmamento letterario italocanadese, avevo scritto allora, ripromettendomi di approfondire in seguito i contenuti umani di una vicenda esemplare. Da anni seguo con ammirazione il percorso di questa donna forte dall’apparenza fragile, condividendone ideali e “utopie”, da lei definite modi di salvare l’essere umano. Ma come? Ristabilendo l’equilibrio. “Per me - afferma Mena - il cancro al seno è dovuto alla progressiva scomparsa del lato femminile dal mondo. Quello che intendo dire è la perdita di armonia, empatia, solidarietà, collaborazione, rispetto della natura, insomma di tutte quelle caratteristiche a cui, per assorbire ed incorporare valori maschili, noi donne abbiamo rinunciato”. Mena Martini è nata a Vieste, in Puglia, alla vigilia degli anni Cinquanta. A vent’anni era già insegnante. Qualche anno dopo lavorava a Parigi. E poi il salto in Canada, a Vancouver. E da qui a Città del Messico per il lavoro del marito, ingegnere chimico. “Una vita raminga, sempre a metà, ma con due metà grandi come una”. Due figli, Chiara di 24 anni che sta conseguendo un Master in Counselling Psychology e Cristiano di

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27 anni che sta facendo praticantato presso la Court House di Vancouver e sarà avvocato tra pochi mesi. Scrittura creativa e impegno sociale a parte, alla protagonista di questo colloquio piacciono moltissimo la musica, la poesia, la pittura, la lettura, le amicizie, i viaggi, le lingue, le altre culture. E poi “devo avere un senso della giustizia molto acuto se già in seconda elementare chiedevo alla maestra perché le bambine che non erano brave erano tutte sedute agli ultimi banchi”. Due messaggi tra i tanti, estratti dall’intervista che segue: “Se è vero che il futuro del mondo dipende da quello che i bambini diventeranno, la società dovrebbe investire tutte le sue forze nella famiglia” e “Il cancro, con le sue immagini di morte, mi ha resa sorella la morte ed allo stesso tempo mi ha donato un’immensa gratitudine per il miracolo della vita”. Mena Martini tra l’Italia e il Canada. Dalla Puglia a Vancouver e ritorno. Quali le motivazioni del tuo itinerario tra due paesi che sicuramente ammiri ed ami? Da un paese del Gargano che si estende e si allunga pigramente nel mare, con le sue lingue di terra curiose come lucertole al sole, il viaggio oltreoceano, verso una terra lontana e misteriosa, e nei racconti di allora avvolta dal gelo. La ragione della partenza fu il lavoro. Avevo lasciato l’Italia già in passato per la Francia, dove mi occupavo, per conto del Ministero degli Affari Esteri, dei corsi di lingua italiana. Essendo appassionata di viaggi – ho sempre avuto dentro questa smania di partire, di andare, di esplorare - appena mi si è presentata l’occasione di un trasferimento l’ho presa al volo e per un miscuglio di coincidenze mi sono ritrovata a Vancouver, con un ufficio in Consolato ad occuparmi dei corsi d’italiano. Il dualismo si è ripetuto nella tua vita personale: l’impegno di educatrice e la missione materna. Come hai conciliato i due aspetti? I miei mi hanno insegnato a dare sempre il massimo, ad impegnarmi per riuscire bene, non c’era una via di mezzo, 194


bisognava ambire alla perfezione. Ho preteso di fare lo stesso con il lavoro e la famiglia. Fin quando sono stata sola tutto pareva funzionare. Durante gli anni d’insegnamento a Vieste per esempio, i pomeriggi di libertà li passavo, con altri colleghi ugualmente motivati, ad aiutare i bambini che a scuola avevano bisogno di sostegno. Arrivammo perfino ad affittare un piccolo locale dove si faceva doposcuola. Erano gli anni di don Milani e della scuola di Barbiana. Noi seguivamo il suo esempio con entusiasmo. Avevamo dentro un fuoco straordinario: la certezza che si potessero eliminare le ingiustizie dalla società. Si andava presso le famiglie più povere, quelle che i figli li mandavano in campagna a lavorare piuttosto che a scuola, si cercava di convincere i genitori della necessità, dell’importanza di un minimo di istruzione per i loro figli. Poi venne l’epoca del teatro a scuola, con l’obiettivo di contribuire a migliorare, a creare. Utilizzammo il teatro anche per sensibilizzare i viestani ai problemi delle miserie del terzo mondo, alle sofferenze dei lebbrosi, al dolore di una famiglia il cui bambino aveva bisogno di un delicato intervento al cuore. Coinvolgemmo tantissime persone, il bambino venne operato da Christian Barnard, si salvò. Eri impegnata, motivata e... non ancora sposata. E poi? Quali i tuoi suggerimenti per le madri che lavorano fuori casa? Poi, poi mi sono sposata, sono nati i bambini, sono cominciati i sentimenti di inadeguatezza. Non potendo dare il massimo di me stessa né ai figli né al lavoro, ero convinta che ambedue le realtà rimanessero mutilate. Mentre ero a casa pensavo a quello che stavo togliendo alla professione, mentre ero in ufficio mi tornava in mente il viso di mio figlio che avevo lasciato in lacrime nelle braccia della bambinaia. Sono una cattiva madre, pensavo, perché ho messo al mondo dei figli se poi non posso occuparmene? Eppure si continua a ripetere che il lavoro più importante del mondo è quello di crescere i figli. Perché allora non viene retribuito più di tutti gli altri lavori quello di una ma195


dre che si occupa dei figli? La madre viene invece penalizzata. In certi casi non è nemmeno assunta se aspetta un bambino. Se è vero che il futuro del mondo dipende da quello che i bambini diventeranno, la società dovrebbe investire tutte le sue forze nella famiglia. Quali rischi corre oggi la famiglia tradizionale? Che cosa vorresti vedere nel futuro dei tuoi figli? Credo che la famiglia stia scomparendo. È come se ne fosse rimasto un involucro privo di contenuto, sottoposto a continue forze centrifughe. Una volta c’era la madre in casa a fare da nucleo. Da lei ed intorno a lei si creava la famiglia. Oggi la madre deve lavorare fuori di casa, per necessità in moltissimi casi, perché con un solo stipendio non si sopravvive più. Il bambino viene sistemato in asili nido o con una bambinaia, talvolta con la nonna. Come può una madre, dopo una giornata lavorativa, occuparsi di fare la spesa, cucinare, accudire ai figli, alla casa, al marito e a quant’altro la vita le presenta? Certo, esistono anche le supermadri, quelle che all’apparenza riescono a conciliare il tutto, ma a prezzo di quale vita? Sogno una società in cui la donna segua la sua vocazione e si realizzi in essa il più possibile, ma che, quando decida di mettere al mondo un bambino, abbia la possibilità di rimanere a casa e prendersi cura del figlio fino a che questi non compia almeno 3 anni, continuando per tutto il tempo, s’intende, a percepire lo stesso stipendio di quando lavorava fuori casa. Continuo a sognare questa società che riaccoglie nel mondo lavorativo la madre che si è occupata per anni dei figli, che la reinserisce nella sua professione con corsi di aggiornamento, che la riassorbe dopo averla sorretta e protetta, dandole il meglio, ricavandone il meglio. La tua drammatica esperienza di giovane donna malata di cancro al seno, la tua esemplare battaglia per vincere la sfida ricorrendo a cure alternative, la fedele vicinanza di tuo marito, la serenità che siete stati capaci di infondere ai figlio196


li: come vedi tutto ciò oggi guardando indietro? Quell’anno con il cancro è stato il più bello della mia vita. Incredibile a raccontarsi e forse ancor più a capire, ma essere vicina alla morte ha reso tutto più soffice, radioso, incomparabile. Ogni giorno acquistava un valore straordinario perché quello poteva essere il mio ultimo Natale, il mio ultimo nascondere per i bambini nel giardino le piccole uova al cioccolato che la lepre di Pasqua avrebbe portato, il mio ultimo nuotare nel mare di Vieste, il mio ultimo rivedere la madre al paese, il mio ultimo abbracciare mio marito... era questo ‘ultimo’ che rendeva ogni momento unico, irripetitivo, eterno nel suo significato. Stringevo la mano di mio figlio mentre camminavamo insieme sotto le foglie d’autunno e pensavo, è così bello, così dolce stare con lui ora, in questo attimo, domani non vale nulla, domani non esiste, siamo qui ora, e il resto non conta più. C’era il presente, solo quello, vissuto con intensità totale. Ricordo un pomeriggio in un piccolo parco. Ero seduta su un parapetto e guardavo una betulla nei raggi del sole rosso del tramonto. Le foglie erano filigrana rigata da venature d’oro, sottilissime nel dondolio del vento. Una si lasciò andare e la raccolsi da terra per sentirla con le dita leggerissime. Ecco, pensavo, questa è la morte, un perdere la materia per diventare trasparenza dello spirito, purezza totale, bellezza estrema. Forse anch’io diventerò così quando starò morendo... forse non devo aver paura della morte. Il cancro, con le sue immagini di morte, mi ha resa sorella la morte ed allo stesso tempo mi ha donato un’immensa gratitudine per il miracolo della vita. Di tutto ciò parli in profondità, con pagine di splendida scrittura e di rara sensibilità poetica, nel tuo romanzo autobiografico “Cristallo” 1. Quale messaggio vorresti comunicare anche a chi non ha letto la tua storia? Di non aver paura del cancro perché anche la malattia è una forma di vita, è un campanello d’allarme, un richiamo al risveglio e a un atteggiamento diverso verso la vita. Ci impon197


gono la paura del cancro, il terrore invade al solo sentirne pronunciar la parola, che ritorna tuttavia sempre più spesso nella nostra esistenza – perché tutti abbiamo un amico, un familiare ammalato di cancro – ma la parola rimane solo urlata nelle viscere, come un rimbombo devastante nei miliardi di cellule del corpo. Perché questa omertà verso qualcosa che è dentro di noi, che si è stabilito là in quell’angolo del nostro corpo, questo qualcosa che anche noi abbiamo contribuito a far nascere? Sono convinta che ogni malattia sia psicosomatica e pare d’altronde che ci sia un lasso di tempo di circa due anni tra l’apparire delle prime cellule tumorali e l’esplodere del tumore, due anni di estrema importanza perché se la vita che si conduce è costellata da stress, disarmonia, rabbia e frustrazione, allora le difese immunitarie si indeboliscono, la forza di reagire diminuisce, e ci si abbandona al destino come un relitto nell’acqua stagnante. Come dunque reagire? Se ci convinciamo invece che il cancro non è una punizione, ma forse un messaggio divino per allontanarci dalle alghe melmose di un’esistenza infelice e distruttiva allora sicuramente troveremo in noi il modo e le ragioni per ritornare alla guarigione ed alla vita. I familiari e gli amici sono importantissimi in questa circostanza, perché con il loro atteggiamento possono contribuire alle condizioni della persona ammalata. Devono essere i primi a credere nella guarigione, ad esserne completamente convinti, perché di cancro si guarisce, di cancro si vive. E se si muore, si muore di cancro come di tutto, di un incidente aereo, di diabete, di infarto, di povertà, di violenza, di guerra, di solitudine, di vita persa e infelice.

Il tuo rapporto con la natura, la tua religiosità, la fede profonda nella vita: me ne puoi fare una sintesi? Una mattina all’alba, ero su una nave mentre si indugiava vicino ai ghiacciai. Silenzio totale e il galleggiare di minuscoli icebergs che una corrente leggera e trasparente cullava e poi 198


lasciava andare. Ad un tratto appaiono raggi di luce sottilissima da un sole nascosto ancora dalle nuvole e cristalli brillanti sul ghiaccio, tra ciuffi d’erba sfuggiti alla neve. Uno spettacolo di un’estasi assoluta, di un misticismo totale e dentro di me voglia di piangere, gridare, danzare, ringraziare con tutto il corpo questo essere potente, questa divinità universale, questa perfezione cosmica che riempiva di sé la purezza del momento. Il divino era palpabile, era lì con noi. Ed allora forse, non importa il nome, che sia Dio, Allah, energia assoluta, respiro divino... se esiste nel mondo una tale bellezza sovrumana deve essere anche in noi, in questo piccolo essere che bistrattiamo. Il senso del vivere consiste nel ritrovare questa purezza dentro di noi, nello scoprire Dio negli occhi dell’altro, nella goccia di pioggia che si sofferma sul finestrino appannato, nel bucaneve fragilissimo che spunta tra le zolle di terra a gennaio, nella voce del vento, nella magia e nel mistero che è la vita. Vancouver, agosto 2007

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Un'attuale interpretazione della "Fuga in Egitto"

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SERGIO GEREMIA migrazioni e missioni di oggi

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letto da appena un anno superiore generale della Congregazione scalabriniana, il missionario dei migranti padre Sergio Olivo Geremia è un gaucho contrassegnato da una significante eredità. Il nonno paterno, Giuseppe, nato nel 1888 a Tezze sul Brenta in provincia di Vicenza, a tre anni era già migrante insieme con i genitori e un fratellino. I Geremia - una famigliola come migliaia di altre dirette all'immenso e sconosciuto continente americano alla ricerca di un futuro degno, partite senza sapere dove sarebbero andate a finire - sbarcarono nel 1891 a Porto Alegre, la capitale del Rio Grande do Sul. Da lì proseguirono per 180 chilometri verso l’interno, fino ad arrivare a Santa Tereza-Muçum, località dove c’era la terra loro assegnata. Si stabilirono, lavorarono strenuamente, nacquero altri figli. Venticinquenne, Giuseppe sposó la bellunese Margherita Benvegnú, come lui emigrata bambina in Brasile. "Da quel matrimonio nacquero dieci figli, il secondo dei quali, Pietro, è mio padre” confida commosso padre Sergio. A sua volta l'ultranovantenne patriarca Pedro, tuttora vivo e vegeto (l’ho incontrato nella sua casa di Dojs Lajeados nel gennaio scorso, mentre in Italia si svolgeva l’assemblea generale scalabriniana che dal Brasile avrebbe catapultato a Roma il suo primogenito!) ha generato ben quindici figli che hanno dato vita ad una bella numerosa tribú piena d’amore. Essere nato nel sud del Brasile da una famiglia di discendenza veneta e ritrovarsi oggi alla guida della grande famiglia scalabriniana, per padre Geremia vuol dire soprattutto “dare almeno un poco del tanto ricevuto dagli antenati”. Nel luglio scorso, a Tezze sul Brenta per una celebrazione 201


organizzata dai Vicentini nel Mondo, egli ha rievocato la storia sua e di moltissimi altri. “Andavano in cerca di una terra, di un lavoro, di una casa dove poter creare la propria famiglia. Non portavano nulla di materiale con sé perché erano poveri, però possedevano un’eredità che non ha prezzo: la fede, l’amore alla famiglia, il senso del lavoro, dell’operosità. I nostri cari erano accompagnati dai missionari scalabriniani, e con il loro aiuto hanno trasmesso di generazione in generazione i valori della fede e dei buoni costumi. E così, a 120 anni dalla partenza degli antenati, un nipote ritorna - missionario come altri chiamati da Dio tra quelle prime famiglie - per ringraziare dell’eredità ricevuta e per la fedeltà con cui sono stati vissuti i valori di origine”. Ringraziare, essere fedele, donarsi con amore gioioso. Aiutare, ascoltare, capire, lavorare insieme, essendo presenza di comunione e di unità. “Sono molto orgoglioso di lui - mi dice il fratello padre Mario (pure scalabriniano, il decimo della nidiata Geremia) - e lo amo con tutto il cuore. E' un grande esempio per noi confratelli e per i giovani che si stanno preparando alla missione, un esempio di povertà, semplicità, senso di responsabilità e impegno nelle cose profonde e importanti della vita. In modo speciale lo ammiro per la sua mistica, perché è realmente un uomo che prega molto”. E tutto ciò rientra nell’ambito del quanto mai attuale carisma scalabriniano, al servizio oggi non piú e non solo degli emigrati italiani ed europei, ma dei milioni di migranti, rifugiati, esiliati e marittimi che vivono fuori dai paesi in cui sono nati. Una massa umana che si muove in tutte le direzioni. Ecco come ne abbiamo parlato. Missioni di ieri e di oggi: somiglianze e differenze.

I primi missionari partivano sulle navi insieme con i migranti e una volta arrivati giravano per i villaggi, come al tempo di Gesù, predicando il vangelo, costruendo scuole e ospedali. Nel 1888 Scalabrini, profondamente angosciato dalle condi202


zioni disumane in cui si trovavano quei poveretti, diceva ai suoi seguaci: “Andate in ogni parte del nuovo mondo, perché là vi attendono anime che hanno bisogno di voi....”. Oggi non si parla di un milione o di alcuni milioni di migranti, siamo oltre i 230 milioni. Sono aumentati, è vero, anche i missionari dei migranti, ma il numero è sproporzionato rispetto alle necessità. La pastorale della mobilità umana deve tener conto di tutte le categorie che la compongono (lavoratori, minori, donne, studenti, sfollati, rifugiati…) e deve accompagnare il delicato processo di inserimento nelle società di arrivo, con tutte le sfide che ciò comporta, sia per chi arriva che per chi accoglie. Anche oggi i missionari scalabriniani rispondono agli appelli delle comunità, inserendosi nelle nazioni e nei continenti, e sono essi stessi di diverse provenienze: europei, asiatici, latino-americani, africani… I missionari scalabriniani si sentono inviati a tutti – cristiani e non cristiani - con l’attenzione non soltanto alla cura delle anime, ma anche dei corpi, cioè dell'intera persona con i suoi diritti, la sua libertà, la sua dignità. E si caratterizzano - ieri come oggi - per alcuni particolari aspetti. Saranno perciò fedeli al disegno di Dio e creativamente fedeli al loro carisma. Vivranno la loro missione a partire dalla contemplazione e dalla comunione nella diversità. Rispettosi ed attenti alla cultura dei migranti, anche attraverso lo studio della lingua e della cultura dei luoghi in cui si trovano a vivere e operare. Al servizio della giustizia, attenti al dialogo interculturale e interreligioso. Collaboratori delle Chiese locali in umiltà e spirito di servizio. Uomini che vivono con semplicità e povertà, evitando il protagonismo e curando invece la reciprocità e la qualità delle relazioni. Persone che si propongono di vivere la missione nella solidarietà e nella gratuità. Il missionario dei migranti è uno che cammina e si stanca quando si ferma. La parola di Gesù: “Andate, io sono con voi” è la sua forza. Quali le attuali e più urgenti proposte? In che direzione 203


sta andando da lei guidata la Congregazione scalabriniana? Il Beato Scalabrini e la sua visione di carità non sono stati un dono esclusivo di Dio all’Italia come nazione, ma alla Chiesa come luogo di salvezza per tutti. Le proposte oggi sono urgenti e molteplici, e cambiano secondo le circostanze e le aree geografiche. Mentre ad esempio l’Europa è confrontata con l’intercultura e il dialogo interreligioso per la forte presenza di migranti di religione non cristiana, in Africa si parla di convivenza pacifica e inter-tribale, in una realtà dove abbondano i rifugiati a causa delle guerre di regioni e nazioni limitrofe. Mentre in America del Nord si parla di costruire muri per separare primo e terzo mondo, e la migrazione è vista in termini economici e politici, in Asia i migranti sono ancora considerati merce di scambio, proprio come gli schiavi di una volta. Le proposte per leggere le migrazioni in chiave di sviluppo, attraverso appositi apparati e accordi internazionali, sono la collaborazione e il dialogo tra paesi che hanno bisogno di manodopera e paesi che possono offrirla. Riguardo alla direzione della Congregazione scalabriniana, trattandosi di opera ispirata da Dio al beato Scalabrini, non sappiamo dove Dio e il suo Spirito guideranno il nostro futuro. Si puó senz’altro dire che il nostro impegno è con i migranti che piú acutamente soffrono nella propria carne il dramma della migrazione, proprio come diceva Scalabrini: “Dove c’è il popolo che soffre, lì deve esserci la Chiesa”. Oggi i nostri orizzonti ci stanno portando verso l’Indonesia, il Vietnam, l’Africa, il Mediterraneo, i punti nevralgici delle frontiere centro e sud-americane e anche nei centri di potere dove possiamo creare opinione e difendere i diritti dei migranti. Che cosa vorrebbe dire alle migliaia di famiglie italiane nel mondo dove arrivano queste pagine e - tramite loro a figli, nipoti e pronipoti, cioè ai giovani discendenti degli emigrati di un tempo?

Vorrei trasmettere il messaggio lasciatoci dai nostri antenati 204


in partenza dalla loro terra. Erano poverissimi e tuttavia erano carichi di ricchezza umana, morale e spirituale. Un emigrante parlò un giorno a Scalabrini della drammatica alternativa cui era stato posto difronte, “o rubare o migrare”. Una scelta che lascia intravvedere un forte valore morale di onestà. I nostri primi migranti hanno portato con sé il valore di una famiglia cristianamente costruita, della fede vissuta, del lavoro onesto. Da pionieri in terre inospitali hanno affrontato duri sacrifici. Oggi noi, loro nipoti e pronipoti, immersi in un mondo materialista, secolarizzato ed edonista, che relativizza l’Assoluto e assolutizza il relativo, e che persegue una libertà intesa come mancanza di regole e permesso di fare quello che dà piacere, noi siamo interpellati a guardare all’esempio e all’eredità che essi ci hanno lasciato. Il modo più onorevole per ricordarli è vivere i valori umani dell’amicizia e della solidarietà, i valori etici e morali dell’onestà e della sincerità, i valori cristiani di una fede vissuta nella famiglia e nella comunità cristiana. Questo ci hanno dato le migliaia di famiglie italiane sparse nel mondo! Percio' raccomando a tutti i lettori una fervida preghiera. Che Dio vi benedica! Una domanda personale: se lei avesse il dono dell’ubiquità, dove vorrebbe essere in questo momento (oltre che alla casa generalizia di via Calandrelli in Roma, capitale d’Italia e caput mundi)?

Veramente, se potessi scegliere quello che mi piace fare, non sceglierei il governo generale, ma piuttosto la missione tra i migranti: o fra i boliviani emigrati in Argentina - missione che è stata il mio primo amore - oppure fra i latino-americani a Porto Alegre, dove sono stato soltanto due anni, ma che mi ha entusiasmato; oppure fra gli stranieri presenti ad Asunción, in Paraguay. Potrei scegliere tanti altri posti in altri paesi del mondo, sempre però tra i migranti. Ma ora il Signore mi ha chiamato a dire il mio sì qui a Roma. Anche se non faccio quello che mi piace per mia scelta, mi piace fare quello che 205


faccio, perché cerco di farlo con amore, questa è la missione che mi è chiesta in questo momento. Il mio programma non sta in progetti nuovi (se Dio lo chiederà, si potranno anche fare) quanto nel dare continuità e consolidare quelli che già abbiamo. Ciò che mi sta piú a cuore, è di dare attenzione alle persone dei confratelli: siamo esseri umani e cristiani, religiosi e missionari. Molte volte ci occupiamo fino a preoccuparci di fare molte cose, però l’essere umano necessita prima di tutto di ascolto. Ci sono poi i progetti di Congregazione che il Capitolo generale 2007 ci ha affidato, primo tra i quali e più urgente è il progetto della formazione, specialmente in Asia. Vancouver-Roma, novembre 2007

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APPENDICE Intervista virtuale alla Governatrice generale del Canada

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MICHAELLE JEAN l’Italia e la lingua italiana Mena Martini, CRISTALLO, Edizioni Noubs, Via Ovidio 25, Chieti

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ichaelle Jean: una donna che ha dedicato la vita al dialogo, alla libertà e alla dignità umana. I suoi antenati neri avevano spezzato le catene della schiavitù, i suoi genitori quelle della feroce dittatura di Papa Doc Duvalier in Haiti quando, nel 1968 con lei bambina, avevano cercato rifugio in Canada. Da governatrice generale, lei sta appassionatamente lavorando per spezzare le solitudini dei canadesi: non solo quelle storiche di francesi e inglesi, ma anche quelle dei sottoprivilegiati della società. Briser les solitudes è il motto che sostiene il suo stemma, sintesi delle sue origini e dei suoi ideali. Fin dal discorso di insediamento si era percepita la sua precisa volontà di trasformare il ruolo formale di rappresentante della regina Elisabetta II, capo di stato del Canada, in un’occasione di promozione sociale ed umana. “Occorre aprirsi al mondo intero, ispirandosi all’ideale di una società di uguali diritti per tutti i cittadini... La nostra storia parla potentemente della libertà di inventare un nuovo mondo, del coraggio di sottolineare avventure eccezionali... La mia designazione a Governatrice generale ne è una prova. Siamo incoraggiati a credere che tutto è possibile in questo Paese, e la mia stessa avventura rappresenta per me e per gli altri una scintilla di speranza che voglio tenere viva al massimo... Siamo ad una svolta della storia della civilizzazione e più che mai il nostro futuro si prepara in coloro che sono spinti a immaginare il mondo di domani...” Insistendo sulla necessità di “eliminare lo spettro di tutte le solitudini e promuovere solidarietà tra tutti i cittadini che compongono l’odierno Canada”, la governatrice aveva invitato 209


a “fare buon uso della nostra prosperità e della nostra influenza ovunque la speranza da noi incarnata possa offrire al mondo una misura-extra di armonia”. Quale 27mo governatore generale, la ex giornalista Michaelle Jean ha messo a disposizione di tutti i canadesi una straordinaria capacità di comunicatrice. Il suo sito personale (www. citizenvoices.gg.ca ) è diventato palestra attiva di dialogo con i cittadini. Forums, blogs, chat, scambi costruttivi di idee e di progetti, si articolano su quattro temi fondamentali: appartenenza, giovani, donne, cultura. I quotidiani incontri, l’autorevole e gioiosa presenza a innumerevoli eventi, i viaggi e le visite in Canada e all’estero, tutto è diventato per lei occasione di appassionato richiamo ai valori essenziali del rispetto, della tolleranza, della condivisione. Questa donna di colore, bella, colta, cattolica, è amata e seguita perché tanto vicina al cuore della gente. Ma Michaelle Jean, prima di essere Sua Eccellenza la Governatrice, non è stata solo una celebre e premiata giornalista televisiva. È stata un’attivista sociale impegnata in Quebec nell’assistenza a donne e bambini vittime di maltrattamenti. E per breve tempo era anche stata docente di lingua e letteratura comparata nella facoltà di Italian Studies dell’università di Montreal: lo stesso ateneo presso il quale, giovanissima, aveva conseguito un Bachelor in lingue Italiana e Spagnola, completato poi con un Master in letteratura comparata. L’italiano è - con il francese, l’inglese, lo spagnolo e il creolo - una delle lingue da lei studiate e utilizzate per comunicare. È anche molto di più. Significa l’esperienza italiana fatta da diciassettenne, “durante uno di quei viaggi di gioventù che si intraprendono nel tempo, in qualche modo sospeso, tra gli studi liceali e l’università. Come tanti altri coetanei, con spirito d’avventura avevo deciso di andare per il mondo per allargare i miei orizzonti”. Vale la pena ritornare su quanto da lei stessa detto, nel luglio scorso a Perugia, quando quell’Università per Stranieri l’ha insignita della laurea honoris causa in “Sistemi di Co210


municazione nelle Relazioni Internazionali”. Dalla sua Lectio doctoralis, tenuta in perfetto italiano, mi permetto di citare - a guisa di intervista virtuale - alcuni passi fondamentali. Parlano ampiamente del pensiero e dei sogni di Michaelle Jean. Per noi, italiani nel mondo, sono di orgoglio, di esempio e di stimolo. Il primo viaggio in Italia “Sono giunta in Italia negli anni ‘70, anni di grande effervescenza in cui, sulla scia del maggio 68, si reclamava a gran voce: l’immaginazione al potere! Mi ricordo le strade animate dalle rivendicazioni degli operai, delle femministe e degli studenti che si davano alla pazza gioia per rovesciare certezze acquisite e inventare un nuovo patto sociale. La parola straripava ovunque e tutto veniva rimesso in discussione, a volte in modo virulento, in un molteplice appello alla libertà”. Le reazioni iniziali e la scoperta “Ero stravolta sotto l’effetto dell’onda d’urto rappresentato da queste diverse identità, identità del nord e del sud, identità di queste regioni orgogliose della loro storia, identità di uomini e donne che osavano sognare a voce alta nuovi modi di vivere insieme e sentivano l’urgenza di reinventare il mondo. Qui è cominciato per me un nuovo viaggio, diverso la quello che avevo immaginato, un viaggio dal quale non dovevo più tornare e che mi avrebbe condotto su sentieri che non ho ancora finito di esplorare”. Un incontro fondamentale “Per la giovinetta in fiore che ero allora, un tantino ribelle, che con i genitori era fuggita da un Paese tormentato e ridotto al silenzio dalla dittatura e dall’oppressione, per questa figlia dell’esilio che aveva trovato rifugio e sicurezza in Canada, un Paese dove invece tutto è possibile, l’esperienza italiana è stata un incontro con la potenza della parola. Lontana da tutti i miei punti di riferimento, ma stranamente vicina all’esuberanza dei Caraibi, l’Italia mi ha dato il gusto di esprimermi e di esplorare a modo mio quello che più mi stava a cuore. È come se l’incontro con l’altro mi avesse permesso 211


di capire meglio la mia identità. L’Italia mi ha rivelato a me stessa”. Il rientro in Canada e il viaggio della mente “Dopo un anno esaltante sono quindi tornata a Montreal decisa a prolungare questa esperienza... Alla facoltà di Studi Italiani dell’università di Montreal mi sono messa a studiare con passione questa lingua e questo modo di esprimersi che m’incantava: lo spirito della lingua italiana mi invadeva e in essa mi sentivo bene. Ho scoperto la profonda meditazione di Dante, le immagini abbaglianti del Petrarca, l’audace vitalità del Boccaccio. Era l’inizio di un meraviglioso viaggio durante il quale ho fatto scalo in mondi di sensazioni e di sensibilità diverse, tappe che si chiamano Foscolo, Moravia, Levi, Sciascia, Morante, Pasolini, Gramsci, Pavese, Pirandello, Eco, Rosi, Visconti, Fellini, Taviani, Antonioni, Strehler, Cavani e... Totò. Un’avventura stimolante”. Di nuovo in Italia “Grazie alle borse di studio attribuite nel quadro dei rapporti bilaterali italo-canadesi, potevo proseguire la mia ricerca personale in università italiane. Approfittai dell’occasione per estendere il mio studio della lingua e della cultura italiana a delle nozioni di etruscologia, soggiogata dalla ricchezza della Storia che mi circondava. Qui il passato si guarda, si tocca, si offre a tutti i nostri sensi. Ogni frammento restituisce il mormorio di una civiltà. Per me proveniente dal Nuovo Mondo che ha fatto tabula rasa della storia precedente la conquista europea delle Americhe, quest’avventura è stata cruciale”. Una confessione di tribolata identità “Io sono, come tutti i Neri delle Americhe, il prodotto di una cancellazione della Storia, i miei avi, schiavi, erano stati privati di se stessi, della loro memoria, della loro lingua e perfino del loro nome. Ecco dunque il mio bisogno di imparare ad interrogare le vestigia che la Storia ha lasciato dietro di sé per il nostro arricchimento collettivo, non solo per quello dell’Italia, ma di tutta l’umanità”. 212


Alla ricerca di un tesoro “Ero alla ricerca di un tesoro, perché la cultura è un tesoro, un tesoro che attraversa i secoli e che non ha età. La cultura è il divenire perpetuo del mondo. Allorquando la memoria si sbiadisce, ne rimangono gli indizi - segni, pietre, carte, testi - che a volte non comprendiamo pienamente. Se sappiamo ascoltarla, la cultura ci parla di qui e di altrove, di vicinanze e di incontri. Per noi che desideriamo indovinarne il principio e le finalità, di comprenderne lo svolgimento per anticiparne il seguito, la Storia, in cui ogni cultura si incarna, è il respiro del tempo e la testimonianza più commovente del passaggio di uomini e donne sul suo territorio”. L’unica libertà che vince la paura “Io credo che in questa continua ricerca di senso si trova l’unica libertà che nessuno ci potrà mai togliere, la libertà di capire, delucidare, creare e meravigliarsi, libertà di comunicare, una libertà che non dobbiamo mai considerare acquisita una volta per sempre. In questi tempi difficili minacciati dalla barbarie, in cui la paura dell’altro a volte ci acceca, è importante non dimenticarlo. La nostra libertà e la perpetuazione della nostra esistenza dipendono dalla nostra capacità di pensare. Una persona che non pensa più è una persona che si dimentica. Una persona che si dimentica è votata alla rovina. Una persona votata alla rovina si esclude dalla vita. L’assenza di pensiero conduce alla noia, alla disperazione e, nei casi più gravi, alla violenza”. Immaginando un mondo senza barriere “La Storia che si scrive sempre al presente esige che ridefiniamo insieme i legami che ci uniscono, quei legami oggi a rischio. Il solo “credo” della domanda e dell’offerta, cui troppo spesso viene ridotta la mondializzazione, non basterà mai a creare questi legami. Piuttosto, e più profondamente, il nostro migliore, se non unico, tentativo di umanizzare l’umanità, sta nel singolare potere che abbiamo tutti di pensare il mondo, di addolcirne gli assalti, proteggerne le fragilità, interrogare le 213


ragioni degli ostacoli incontrati, lenire i dolori e moltiplicarne le gioie. Osiamo immaginare un mondo in cui rifiuteremmo di erigere barriere tra noi, in cui scommetteremmo sui valori che ci uniscono in questo inizio del terzo millennio. Quale sarebbe la sorte incontrata da un tale pensiero? Audace per gli uni, ingenuo per gli altri, un tale pensiero mi pare comunque essenziale per neutralizzare la stoltezza che si pasce d’ignoranza e che propone come unica possibilità la distruzione”. Il più ardente desiderio di Michaelle Jean “Che si stabilisca tra le culture del mondo un patto di solidarietà e un sentimento di appartenenza comune a tutta l’umanità”. Vancouver, gennaio 2007

“.... Ognuno ha il proprio Himalaya. Il mio ha preso la forma degli Appennini che attraversano l’Umbria. Da qui sono partita alla conquista del mondo. In cammino, ho raccolto un sapere ed una visione della vita che hanno nutrito più tardi la mia professione di giornalista e che mi sostengono tutt’oggi nelle mie responsabilità di Governatrice Generale del Canada. Cerco di suscitare nei giovani la voglia di sognare in grande e di considerare l’istruzione il miglior mezzo per ampliare i propri orizzonti e moltiplicare le opportunità che ci vengono offerte”.... 214


INDICE Personaggi & Persone

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INDICE P R E S E N TA Z I O N E (a cura di Ray Culos) P R E M E S S A (a cura dell’autrice)

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- GIOVANNI CABOTO, astronauta del nuovo mondo

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- ALESSANDRO MALASPINA, esploratore del West - IDA TOIGO, emigrata per amore

- RINA D’AMICO, donna-medico nel mondo

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- SVEVA CAETANI, una illuminante eredità

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- GILBERT GUELLA, sindaco dei ‘Namgis

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- ANGELO BRANCA, avvocato e giudice .............................................

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- TONY MAZZEGA, l’arte raffinata del legno

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- ALBERTO GIROTTO e la Uchuck III - VITO TREVISI, costruttore di navi

- RINO RIGHELE, la passione del liutaio

- ALESSANDRA BITELLI, vocazione di pittrice

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- MARIO BERNARDI, la musica è la sua vita!

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67

- BORTOLO MAROLA, destino d’autore

- RAYMOND CULOS, storico comunitario - ERVIO SIAN, fotografo della natura

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- GRAZIA MERLER, francese e arte alla SFU

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- ROMANO PERTICARINI, poeta della nostalgia

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- MAURO PERESSINI, curatore al Museo delle civiltà - JOSEPH RANALLO, educatore di educatori

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- SANDY SANTORI, impegno comunitario e di governo

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- ITALIANI IN CANADA, una Presenza che conta ..........................

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- LORETTA ZANATTA, enologa e imprenditrice ..............................

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- CARLO CACCIA, una vita in difesa dell’ambiente ...................

115

- NICOLÒ EUGELMI, il brillante linguaggio della viola

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- SEVERINO TRINCA, l’inquietudine dello scultore ...................

127

- ENZA UDA, un’anima globale

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- VIVIANA DAL CENGIO, tra chimica e performance .................

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- PIETRO CORSI, il navigatore scrittore ..............................................

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- REZA SAFFARI, tra l’Iran, l’Italia e il Canada

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- ANITA GROSSO DE ESPINOSA, pioniera in Baja California

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- LICIA CANTON, scrittura e Accenti

- PEDRO LOPEZ-GALLO, l’avvocato di Sacra Rota

- PASQUALE VERDICCHIO e i nuovi sentieri culturali - CLAUDIA MEDINA, regista multiculturale

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- ROVILIO COSTA, icona culturale sud-brasiliana - GEMMA SCOTTON e il volontariato comunitario

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- ISIDORO ZORZI, visione di rettorato universitario

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- VINCENT DI LOLLO, la vitalità di un neuroscienziato

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187

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193

- FAUSTO TASCA, l’arte di un veneto in California - MENA MARTINI e il “Cristallo” della sua vita

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- SERGIO GEREMIA, migrazioni e missioni di oggi

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APPENDICE

Intervista virtuale alla Governatrice generale del Canada - MICHAELLE JEAN, l’Italia e la lingua Italiana ............................ - INDICE

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