La mia felicitĂ da sola non sta in piedi CONCETTA CELOTTO
Non giriamoci troppo attorno: la poesia è morta. Se pensiamo alle vendite, al rumore generato dai romanzi sensazionalistici, al chiasso omologante dei social network, ai soldi della pubblicità sputati in faccia al pubblico di talent show, campionati calcistici e salotti televisivi: be’, la poesia è bella che morta… Anche per colpa dei poeti, certo. Che non sanno più intrattenere, che non osano tornare alla realtà materiale fatta di sangue, sudore, terra, odio, emozione, né sanno costruire un dialogo con il pubblico se non fondato sui propri struggimenti dell’anima. Il lirismo ha ucciso la poesia, perché ha consentito a qualsiasi cretino con davanti una tastiera di improvvisarsi poeta solo per aver sofferto una misera pena d’amore. Dico: ma non è più dolorosa una cartella esattoriale che un fidanzamento rotto? Non è più interessante una sparatoria di un tramonto estivo? E l’espletamento delle proprie funzioni fisiologiche o riproduttive, dove lo mettiamo? Se partiamo da Cecco Angiolieri e attraversiamo il midollo spinale della letteratura italiana, al netto dei petrarchismi vari, vi ritroviamo nomi come Folengo, Tassoni, Cortese, Burchiello e poi ancora Belli, Di Giacomo, Lucini e Marinetti e Pozzi e Villa e Cavalli e Sanguineti. Poeti diversi e spesso distanti, accomunati dall’onestà e soprattutto dal coraggio di non ammantare nel pudore la crudezza dell’esistenza.
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I versi di Concetta Celotto sono così: una “poesia del sentire”, che ha bisogno di “tempo per non far nulla”, che spesso fa sentire “nudi”. Una poesia onesta. Che non è esente da retaggi iper-lirici nella ricerca dell’aggettivazione e di certe forme verbali, ma il cui lirismo non stanca proprio perché non fondato sui patimenti del cuore. Al contrario, l’io lirico non ha paura di esporsi al contatto con il presente e con la materia, sia essa il ricordo di un’esistenza rimandata a un futuro migliore, sia essa il vento che soffia sulla pelle sudata dopo aver fatto l’amore. “Il sonno è un’arma” recita uno dei versi liberi. E forse anche la poesia è un’arma: in un mondo che non trova il tempo di fermarsi a riflettere, di contemplare la bellezza senza scopo, di esperire qualcosa che non abbia prezzo materiale, scrivere poesia diventa il più eversivo dei gesti. Scriverla e crederci. Sapendo che in pochissimi la capiranno, anzi, la sentiranno. Avere il coraggio di sussurrare quando tutti gridano, felici che esista un linguaggio altro, in cui cercare di avvicinarsi a quella cosa indicibile che è la vita. Ecco cosa significa scrivere versi: improvvisare sul tema, radicato nella memoria e nell’esperienza di tutti i giorni. Offrire una visione superficialmente seria, seriamente superficiale della modernità. “La mia felicità da sola non sta in piedi / con tutto il peso del corpo e del cuore”. La poesia è morta. Evviva i poeti.
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Angelo Petrella
la mia felicità da sola non sta in piedi Con tutto il peso del corpo e del cuore sprofondo sul freddo marmo della notte dei pensieri e non reagisco. Colmo i miei occhi cechi del buio della mente ma non basta: vorrei sbatterci la testa contro far risuonare sul suolo duro e cocciuto la marea montante di suoni cupi e di voci insistenti che occupano gli spazi vuoti dell’anima. Mi dico: è ora. Ora di muovere il corpo picchiando contro i muri di ferro che mi si stringono intorno. Si è fatta notte, d’improvviso più nulla scorgo e l’aria è divenuta densa e pesante i pochi passi che compio cercando una direzione mi procurano fatica. Il cielo nero pesto mi preme dall’alto ma ora non voglio vedere altro quasi fosse una coperta calda con cui ristorare la mente infreddolita. La vita oggi, è una colonna d’acciaio contro cui ho terminato la mia ingenua corsa ed io a lei resto avvinta, cercando un abbraccio d’amore nella più dura e vera delle notti.
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a quest’ora A quest’ora della notte che il respiro si fa più lento che il rumore dei corpi giace su letti riscaldati, la voce degli altri tace e dentro, la mente si accomoda sui pensieri. Le mani morbide nella luce della sera sfiorano suoni lontani di echi indistinti. Le case laggiù. Rabbrividisco mentre avverto la distanza e insieme il ricordo di tante notti quiete negli anni, al chiaro dello oscurità del cielo nero d’inquietudine, vasto e familiare. Come un lamento accorato, una spinta dell’anima vaga nel petto generosa. Una febbre del dire riposa tremante tra le dita il cui intreccio accarezza i fili lenti dello spirito, e origina la poesia del sentire.
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nel mio regno In un buio pomeriggio azzurro con il cielo squartato da getti di colore trascino il mio cammino su per la strada solitaria. L’aria fresca e il vasto orizzonte si scontrano, stridendo, con le piccole case che sanno di povertà i vecchi capannoni e la terra inquinata. Lo sguardo affonda pesante sui segni dello squallore gettando l’anima giù, spiaccicata tra le erbacce e i rifiuti. In fondo si staglia il Vesuvio, maestoso fedele custode di bellezza e armonia naturale. Mi guarda dall’alto con sguardo severo, ho vergogna. Lo scempio brutale che mi avvinghia fino al collo è una colpa che vistosamente porto dietro ad ogni passo, irrimediabilmente perduta a ogni dignità. Inerte sprofondo nel mio regno affastellato di immondizia, costellato dei miei scarti con il sapore amaro della rassegnazione. Ogni speranza di progresso è volata via insieme alle carte gettate per terra che il vento porta con sé.
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indice
La mia felicità da sola non sta in piedi A quest’ora Nel mio regno Finalmente il mare Nella mia casa Un uomo Tempo È ad un certo punto Pensavo Corsa cieca Sera d’estate Il sottile rumore Agosto Fuoco su di me La stanza E pian piano il mondo fuori La partita Taccio Poesia della stanchezza Niente, assolutamente niente Quei giorni
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finito di stampare per conto di Iemme edizioni nel mese di ottobre 2016 presso GFC Stampa Srl - Volla (NA)