ALBERTO CORBINO
Questo è un bel libro STORIA DI TANO, MOMO E FROID
Fare l’amore, leggere libri, salvare vite. Il meno che un vivo possa fare.
Il nostro giocare in piccolo non serve al mondo (Nelson Mandela)
a Rachel Corrie e agli eroi invisibili
Avvertenza al lettore: questo è un libro di fantascienza. Fatti e nomi sono frutto di fantasia e ogni eventuale riferimento alla realtà è pura coincidenza. Guai all’umanità se, un giorno, la realtà supererà questa fantasia. Per reclami e improperi scrivere a: tamofroid@gmail.com
Ricordarsi di chiudere la finestra Cerco un centro di gravità permanente, che non mi faccia mai cambiare idea sulle cose sulla gente (Franco Battiato)
Il mio amico da una vita, il mio specchio di luce. Il suo viso sfocato mi parlava attraverso il monitor del portatile e io stentavo a riconoscerlo. La caduta degli dèi, con tutto il cielo e le nuvole. Doveva capitare, prima o poi capita a tutti. Ma no, non a Froid. O forse sì, anche a lui, perché in fondo Froid è sempre stato umano tra gli umani e questo lo sapeva bene. Lui, un’intera, geniale esistenza immersa, plasmata da un unico grande progetto, una vita trascorsa a tenere sotto controllo ogni minima variabile della scacchiera, era lì di fronte a me, vinto e smarrito come un vecchio tra le macerie di una guerra improvvisa. C’è una morale in tutto questo? Sì: anche i geni, anche i più grandi tra i geni, devono ricordarsi di chiudere bene la 7
finestra. Devono badare ai particolari. Immaginate John Lennon che ha appena finito di scarabocchiare l’ultima nota di Imagine e si sta fumando soddisfatto un cannone affacciato alla finestra della sua villa a Tittenhurst Park. Esausto, gli occhialini appoggiati sulla fronte, la mente ormai vuota. Fuori, una fresca brezza spazza le foglie delle strade di Ascot e annuncia le prime gocce di un temporale estivo. Entra Yoko Ono senza bussare, spalancando la porta e il vento si porta via nella pioggia parole e pentagrammi… “ma porca puttana, Yoko, brutto scarrafone del Sol Levante, stai sempre fatta come una zucchina?!”. Così avrebbe reagito John, profeta della pace e dell’amore. Così doveva sentirsi Froid. Momo era andata via, lontana, con una decisione presa in poche ore, portando con sé un micro bagaglio con dentro tutte le speranze di Froid di “vivere una vita come vale la pena di essere vissuta”. E lui non era riuscito a chiudere in tempo quella finestra, impedendo a un colpo di libeccio caldo e appiccicoso come uno scandalo di paese di portarla via.
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Barbie e trichechi È questo il nostro accordo prima di partire, prima di partire, domani, non ti voltare (Fiorella Mannoia)
Una luce fredda illumina il viso plastificato di una sconosciuta incollato alla mia spalla sinistra. Sbircio fuori e c’è solo il buio più buio, neanche una stella che sia una. Pensavo che queste bambole di silicone fossero roba da prima classe, ma con la crisi evidentemente tocca accontentarsi anche a loro. Vorrei alzarmi, senza svegliare la barbie usurata. Le infilo con delicatezza un cuscino sotto la testa, scostandomi lentamente, sono pur sempre un gentiluomo io... però che bel paio di siliconpoppe abbiamo signora, complimenti vivissimi al chirurgo. Mah, sarà meglio pensare ad altro: considerate le condizioni in cui sono, l’unica maniera in cui potrei rimediare qualcosa in questo viaggio sarebbe mettendo mano al 9
portafoglio, ma ormai non mi ricordo manco più i rituali dell’accoppiamento, pur se mercenario. Mi sono bastate dieci ore di attesa all’aeroporto di Schiphol, aspettando i comodi di una tromba d’aria, più altre cinque di volo Amsterdam-Tel Aviv e già mi sento la versione sdrucita del tenente Colombo, non esattamente il massimo per una conquista a diecimila metri sul pur sempre romantico Mediterraneo. Non ricordo di essere mai riuscito a vedere una stella mentre ero in volo, ammesso che ciò sia possibile. A essere sinceri, a volte non ricordo e basta. Sono seduto in una delle prime file, di quelle che sei contento perché scendi e puoi andare al cesso prima degli altri, ma ti rode un po’ perché riesci distintamente a vedere chi si siede in prima classe e tutto quello che succede oltre la cortina del lusso. Una volta a ingozzarsi di salmone selvatico scozzese e ruttare bollicine francesi – sempre con stile, per carità – ci vedevi pingui americani in shorts o businessmen capaci di scendere dall’aereo ancora più eleganti e pettinati di come erano saliti, e tu che eri appena sopravvissuto a diciotto ore di turistica, molte delle quali passate a pensare come amputarti le gambe che non stavano da nessuna parte, capivi in quel momento cosa significasse odiare. Oggi ci vedi ragazzetti con gli occhi a mandorla e magliette psichedeliche, che potrebbero essere i tuoi figli 10
– sempre che uno nella vita sia stato tanto fortunato da spargere un po’ di seme in Corea del Sud o giù di lì – e capisci che il mondo è cambiato. Magari sono dei fashion bloggers, youtubers o mostri simili. Internet ha rimescolato un po’ le carte nel mazzo del poker globale, ma in fondo va bene: così agli americani è venuta un po’ di strizza, almeno fino alla prossima guerra purificatrice del debito nazionale contro i cattivoni di turno. Mi sgranchisco facendo un giro in cabina. Dormicchiano quasi tutti, a parte qualche maniaco dei videogame. “Imbecille – cerco di dirgli tramite le mie sopite onde celebrali – se invece di usurare il joystick come protesi del tuo avvizzito pistillo pensassi a crearli quei giochetti, magari potresti viaggiare in prima e portarti anche a letto l’hostess o lo steward, de gustibus! Ma che te ne frega a te della hostess, a voi youporn vi ha rovinato, e meno male che non c’era ai tempi miei sennò manco la licenza media mi prendevo. Queste generazioni hanno opportunità enormi, ma devono capire che non c’è più posto per i segaioli, i diciottopolitici o i cannaioli. È ingiusto, ma è così. Oppure, ed è comunque una scelta di vita di tutto rispetto, ti accontenti di fare il cameriere in una pizzeria di terz’ordine e comprarti erba mischiata a merda con le mance lasciate dai tuoi coetanei star dell’abbagliante global circus. Una hostess spilungona parte dal fondo del corridoio verso di me, con passo da bersagliere. Gesticolo, fingendo di 11
cercare qualcosa da bere per “pillolona, you see?” e invece ficco il nasone in prima classe, dove un gruppo di pinguine paffutelle e baffutelle ronfano attorno al loro tricheco saudita. So perfettamente che non dovrei neanche pensarle queste cosacce, ma io oggi sono la versione sdrucita del tenente Colombo e di essere simpatico non ho proprio voglia. E se proprio lo volete sapere ho sempre pensato che la politically correctness sia solo una grande ipocrisia, che ci impedisce di chiamare le cose con il loro nome e di distinguere le diversità negative e quindi di difenderci da esse. Perché poi alla fine lo stupro di gruppo di una ragazzina brilla è solo un rituale d’iniziazione tra bravi ragazzi e l’istigazione al suicidio dei diversi è solo la prova del fuoco per l’accettazione nella società della competizione. Per tutto c’è sempre la scusa, la motivazione sociologica di questo cazzo. E il mondo va a rotoli. E comunque a me quelle sembrano proprio quattro pinguine nere, accucciate attorno al loro padron tricheco di bianco vestito. Se avessi avuto una figlia, avrei voluto crescesse consapevole e fiera della sua femminilità, e non che nascondesse la folta chioma o persino le mani delicate sotto una cappa nera. Cazzo, anni di sacrifici per poi tirare su una che si veste come un sacchetto della monnezza e prende ordini a testa bassa da un primitivo? Ora che ci penso, non so se avrei accettato l’idea che sposasse un musulmano. Non un 12
integralista, questo è certo; uno laico… passi! Sempre meglio che un neonazi, un punkabbestia o un ciellino. E dire che mi ritenevo un uomo evoluto. Per fortuna sua, non ho una figlia, un cane, né altre appendici. L’hostess mi appoggia una mano sulla spalla e mi dice qualcosa in maniera molto cortese. Ho sempre avuto qualche difficoltà con l’anglo-mandarino, ma immagino mi abbia chiesto di tornare al mio posto e di non disturbare l’élite del mondo. Che tradotto suona più o meno così “ehi tu, pezzente dinosauro europeo dalla barba incolta, levati gentilmente dalle gonadi, che questo è un aereo della gloriosa nuova Repubblica Popolare Cinese, mica una corriera popolare di Mao Tse-tung!”. Torno veloce al mio posto, riscavalco la mummia dormiens. Tiro fuori penna e taccuino dalla giacca – sì, sono uno all’antica io – e annoto in fretta ciò che mi aveva fatto svegliare di soprassalto. Ho la memoria di un pesce rosso ormai, brutta cosa per chi fa il mio mestiere, e non posso rischiare di dimenticare. Ho sognato Froid. Finalmente. Una volta riuscivo a farlo anche a occhi aperti, visualizzando nitidamente il mio amico e tutta la scena, nani e ballerine comprese. Ora, tra la fitta nebbia che è la mia quotidianità, non più. Ci riesco solo quando dormo, e profondamente, quindi molto di rado. Su un volo intercontinentale, assediato da ne13
onati picciosi e nottambuli conversatori seriali, posso considerarlo come un piccolo miracolo da sogno premonitore. Ma il sogno non predice un bel niente, si presenta sempre uguale, tondeggiante e coloratissimo, che pare di essere caduti in un disegno di Mordillo. La sua figura esile vola controvento senza apparente sforzo, avvolta nell’inseparabile impermeabile nero, frutto di un baratto partenopeo germanico andato in scena a Berlino in una nostra precedente vita, col muro ancora mezzo in piedi. Froid domina perfettamente la corrente e gli improvvisi vuoti d’aria, mentre dalle tasche del trench estrae, con innata grazia, strani fiori colorati dai lunghi steli, offrendoli a chi viene trasportato in senso opposto dalla corrente: donne, tutte donne, di ogni età, fattezza e colore, col viso un po’ spaventato, vestite e acconciate nelle fogge più diverse, afferrano rapide petali e foglie come per ancorarsi, per trovare stabilità. E i fiori in mano loro si schiudono e si fanno più grandi e le trascinano fuori da quella corrente, aiutandole ad atterrare lentamente su un grande prato pieno di sole e, apparentemente, senza cacche di mucca. È tempo di rimettersi in sesto, assumere sembianze umane e ripassare gli appunti che mi ha dato Aisha. Con un viaggio così, davanti, nulla può essere lasciato al caso. Non per uno come me, non per Tano Gutta. 14
PANTONE
Un colore per ogni volume.Tonalità che suggeriscono percorsi di genere, di storie e atmosfere sempre diverse. Le gradazioni sono sfumature di senso, illusioni di scelta nell’oceano di infinite suggestioni. Prive di immagini di copertina, ai titoli della collana Pantone è affidato il potere evocativo del colore e della parola, fin dove il linguaggio può condurre. Il resto è materia dell’altrove.
PANTONE
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ALBERTO CORBINO
Poesía de la Reína 7476
SALVIO FORMISANO
L’accordatore di destini