FRANCESCO MARI
Gli amori interrotti
prefazione di Nando Vitali
Cercare nuove vie percorrendo vecchie strade per ritrovare lo spirito del tempo. È possibile se l’esperienza in possesso permette di allungare o accorciare l’elastico del narrare. Riprendere il rimosso per estrarre l’anima dai personaggi perché certi temi, dal postmoderno, al pop, alla sostanza liquida del web, sono sempre gli stessi. Gli uomini hanno ancora un cuore che batte. Francesco Mari, in questi tre racconti, oltrepassa il limite delle apparenze per forgiare una narrazione che interroga la finzione come se fosse una Sfinge, o una Monnalisa ibrida, o solo una Chimera Sibilla. L’eleganza dello stile tiene unite le storie in una sorta di ideale collage nel quale l’amore appare nella sua sfuggente inconciliabilità con la vita. Forse perché la frattura insanabile è fra l’immaginario fittizio del desiderio, che è pura esibizione dell’io, e la maturità che spazza via i sogni, per rifiorire in una sorta di estetizzazione passiva. Bisogno autobiografico che è come il romanzo storico di sé, quando la scrittura diventa supplettiva della vita che si è consumata nell’uso dei sensi, dove l’innamoramento era cieco commercio di sé idealizzato. In fondo l’esperienza matura in sé il disincanto. Eppure memorabili certi personaggi che sembrano volersi imporre una cocciuta persistenza oltre il naufragio e la sconfitta. È la fede degli amanti come l’Araba fenice... 5
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L’amore è una commedia, o una lettera scritta dapprima segretamente, per poi nascere e venire alla luce nel tempo sconosciuto dell’innamoramento. Della dichiarazione. Quando si ripone il cuore nelle mani di chi si ama. Un gesto di perdita e nello stesso tempo di godimento e fiducia nel futuro. L’amore è il tentativo (patetico?) di dare forma al nostro io di fronte al lettore sconosciuto-amato, che speriamo ricambi la speranza e la completi. Un luogo luminoso dove due corpi dialogano attraverso i sensi, col linguaggio dei gesti. Col cerimoniale ermetico e misterioso fatto di sguardi e segrete carezze. Un codice condiviso che approda al dissolvimento felice di sé. Francesco Mari è l’interprete di questo mondo. Utilizza il linguaggio come grimaldello sonoro per fare emergere stati emozionali dei personaggi in ambienti che a volte sembrano provenire dal mondo ovattato di anni passati, da certe province addormentate di Michele Prisco, o Goffredo Parise. Una scrittura controllata e sicura, dalla quale d’un tratto si sprigiona un taglio luciferino, quasi anacronistico, ma di una modernità antioraria e graffiante. Ambigua fedeltà alla vita, si direbbe. Se non fosse che la vita, di cui l’amore è l’inganno più energetico, spesso detta regole volubili di follia che non portano a nulla, se non alla felicità infelice, che forse solo l’arte può alleggerire. Con la pazienza di Sisifo e le pantofole di Gurdulù, la grazia un po’ ottusa di chi cerca nel fiasco il suo cavaliere perché l’impossibile può essere ovunque. In queste storie anche certi odori restano dentro al corpo, perché non sono solo un ricordo, ma diventano parte costitutiva di sé. Penso a Rocco, all’odore del mastice sciolto sul fuoco come se lo avesse ancora dentro alle narici. 6
prefazione
E in effetti forse quando ci addormentiamo torniamo alla vita sospesa, per così dire lasciata a metà, fra le due vite che viviamo in parallelo, e che sono l’una lo specchio dell’altra. In questi racconti indugiare nel ricordo è la ricomposizione e l’annullamento di due stati mentali slittanti l’uno nell’altro. Ma senza le forzature e il ronzio di un tempo che faccia resistenza. Piuttosto con la leggerezza di un ricordo regalato allo spirito come un residuo fedele di felicità.
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l’estate americana
Tutte le volte in cui raccontava quella storia, cosa che avveniva di rado a dire il vero, e mai di sua iniziativa, cominciava sempre dicendo che quella era stata un’estate americana. La sua breve, intensa, indimenticabile estate americana. Aspettava uno o due secondi prima di aggiungere: “Però la mia estate americana si svolse a Venezia,” con un accenno di sorriso sulle labbra. “Doveva essere il Duemila credo, o il Duemilauno, in quegli anni era lì che lavoravo. E non sto parlando di estate piena, l’estate del solleone d’agosto. Fu agli inizi di settembre, durante il Festival. Quell’anno già s’erano viste le prime nubi sopra la laguna, per via di certi venti che scendevano fin lì dal Nord Europa, a dar retta a quello che dicevano in tv…” Tutto veniva mosso sempre da lontano, diceva, come quelle nuvole, in modo involontario, imprevedibile, e in fondo anche inevitabile: non era arrivata da lontano anche lei, dall’America appunto, come un temporale estivo improvviso? La fanciulla del west. Le calzava alla perfezione, e così l’aveva ribattezzata dentro di sé fin da subito, un secondo dopo averla scorta in cima alla scaletta dell’aereo, mentre si guardava attorno con la manina a visiera sulla fronte, il piglio sicuro, deciso, per nulla smarrita o a disagio, più piccola di statura e più esile di come appariva nei suoi film, col biondo acceso dei capelli a caschetto e i ray ban scuri che spiccavano a contrasto col rosso cremisi dell’attillato tailleur da cui era fasciata. Individuò subito 9
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il cartello che lui teneva alto sopra le teste della folla in attesa, e in pochi secondi se l’era ritrovata davanti, la testa leggermente inclinata da un lato e gli occhi – ah, gli azzurrissimi occhi della fanciulla del west! - che appena sopra il bordo delle lenti abbassate di qualche centimetro sul naso, la stanghetta tenuta in punta di dita, lo scrutavano interrogativi e diffidenti. Nel giro di un istante però la diffidenza si era sciolta in un sorriso caldo e amichevole, il sorriso di chi si sente a casa, o perlomeno accolto come se vi fosse appena arrivato. Anche lui le aveva sorriso, naturalmente. Aveva sfoggiato il suo sorriso d’accoglienza migliore, e gli era bastato solo pronunciare il nome “Ms Ryley…”, nient’altro: subito lei aveva slanciato il braccio a stringergli la mano, così, con confidenza, da vecchio commilitone, da vera americana disinvolta. Lui a quel punto aveva preso in consegna il bauletto nero suo unico bagaglio (gli altri erano stati spediti direttamente in hotel), le aveva fatto strada fino alla macchina, si era piegato ad aprirle la portiera posteriore e lì, nell’istante in cui era passata a un palmo da lui per infilarsi dentro l’auto, il suo collo sottile – Ah, il bianco collo sottile della fanciulla del west! - aveva emanato come una sciabolata di luce bianca, tanto che lui giurava di essere stato costretto a stringere gli occhi per qualche secondo… Non c’era alcuna esagerazione nelle sue parole, protestava di solito Mario a questo punto del racconto. Era lei, quella eccessiva. Occhi troppo azzurri, capelli troppo biondi, pelle troppo bianca. Troppo luccicante, troppo perfetta. Troppo americana. Mentre guidava diretto al motoscafo che l’avrebbe sbarcata la Lido, non aveva potuto fare a meno, di tanto in tanto, di gettarle occhiate attraverso il retrovisore, di guardarla estrarre 10
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dal bauletto un sottilissimo telefonino tutto nero, far scorrere l’indice sopra lo schermo (“E quegli aggeggi lì, i touchscreen, da noi ancora non si erano mai visti,” puntualizzava), rimanere in attesa con la testa piegata da un lato a guardare fuori dal finestrino, esordire con una specie di liquido miagolio vocalico: “Hi, here I am at last…” Non scambiarono che poche parole durante il tragitto: “Mario, you said?” “Yes, Ms Ryley, Mario” “Ok. Mario. That’s it” Aveva sorriso a quel punto, la fanciulla del west. Poi aveva gettato la testa all’indietro e si era lasciata andare contro il sedile. “Mario,” aveva ripetuto, e quando si era voltata verso il finestrino aveva continuato a sorridere guardando fuori… La fidanzatina d’America. Come Hollywood ne produce ad ogni decade, più o meno. E col suo lavoro, non era la prima che gli capitasse di incontrare di persona, e forse – sottolineava - neanche la più bella. Mario fece varie congetture in seguito: che il suo nome italiano avesse un suono piacevolmente esotico all’orecchio di lei, e che per questo le piacesse così tanto pronunciarlo; che fosse il primo italiano con cui era entrata in contatto – era la sua prima volta in Italia, fra l’altro - e c’è sempre una specie di imprinting, quando arrivi in un paese straniero, fra te e la prima persona che trovi lì ad accoglierti e prendersi cura di te; che semplicemente avesse frainteso (o finto di fraintendere?) il suo ruolo di autista per conto dell’hotel di cui era ospite… Qualunque fosse la ragione, quello di Mario fu un arruolamento sul posto, da parte della fanciulla del west. Mario, Mario, Mario, Mario… Da quel pomeriggio Ms. Ryley prese a chiedere di lui in ogni frangente, per qualsiasi evenienza, e 11
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Mario si ritrovò ben presto trasformato da autista in personal assistant (“Mario, my fabulous Venice assistant!” gli sorrideva carezzevole ogni volta), a metà fra l’interprete, lo chaperon, la guardia del corpo e la guida turistica. Mario assicurava di avere anche provato a protestare con la Direzione dell’hotel. Ne aveva parlato con Bruno, il suo diretto superiore: non era possibile continuare così, qualcuno poteva per favore spiegarle che non le era stato assegnato un attendente, e che comunque lui faceva un altro lavoro? Ma Bruno aveva fatto orecchie da mercante, aveva provato a sdrammatizzare: “È giovane, è carina, di che ti lamenti? Poteva capitarti qualche vecchia carampana settantenne col fiato pesante… Regoleremo a parte, ok?” “Non si tratta di questo”, aveva cercato di spiegare lui a quel punto. “È il suo dare tutto così per scontato…” “È un vizio degli americani, Mario: appena sbarcano in un paese straniero lo colonizzano, che ci vuoi fare?” Alla fine, tra una battuta e l’altra, Bruno era stato irremovibile: che non la scontentasse per nessun motivo, erano questi gli ordini superiori. “Meg.” Fin dall’auto lei l’aveva invitato a chiamarla per nome. “Or Meggie, if you want…” aveva aggiunto con una smorfia, come facendo il verso a se stessa. “Yes, Ms. Ryley,” aveva annuito ossequioso lui dallo specchietto retrovisore. Attrici americane ce n’erano un paio a Venezia quell’anno, in giro tra il Lido, gli hotel e le conferenze stampa. Il film di Ms. Ryley, o Meg, o Meggie (“Meggie it’s enough, Mario, ok?”) si chiamava – “e come altro avrebbe potuto intitolarsi, secondo voi?” – The girl of the golden west: alla Disney era venuto in mente 12
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di finanziare un remake della Fanciulla del West di Puccini con lei protagonista, che nella pellicola si chiamava Minnie ed era la proprietaria di un lounge bar nel west side di Manhattan, alle prese con un ricco e affascinante imprenditore che prima minacciava di toglierle il bar per certe sue speculazioni immobiliari, e poi se ne innamorava e finiva per abbandonare la carriera di imprenditore e diventare barman acrobatico nel suo locale… Solo ai nipotini di Mickey Mouse poteva venire in mente una scempiaggine tale! Chiosava Mario. Ad ogni modo Meggie sembrava aver preso l’anteprima veneziana come occasione per una piccola vacanza, più che altro: voleva essere portata in giro, visitare i posti, vedere tutto quello che un forestiero per la prima volta a Venezia non doveva perdersi. In compagnia di Mario, naturalmente, di chi altri? Sempre uno o due passi avanti a lei, corretto e deferente anche più del solito per evitare di mostrarsi sbrigativo o sgarbato, Mario dovette fare buon viso a cattivo gioco e prendere ad accompagnarla dappertutto, suo malgrado, diceva. Lei lo seguiva guardandosi attorno come se osservasse ogni cosa da una nuvola: camminava con aria svagata, negligente, dedita a una sua personale raccolta di scorci di cielo, corti, piazzette, finestre, ponti e voli di piccioni, telefonino perennemente alla mano, per fotografare o conversare a caso, con lo stesso abbandono con cui camminava. Incedeva con passo indolente, sgranava gli occhi e spalancava la bocca davanti alle facciate dei palazzi nobiliari, “Oh well!” esclamava, ma riservava lo stesso trattamento ai negozi di griffe e alle botteghe degli artigiani. Questi ultimi, poi, facevano a gara ad essere gentili con lei, e si vedeva lontano un miglio che non era per pura cortesia turistica, che c’era qualcos’altro. Anche i più scorbutici, perfi13
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no quelli più assuefatti a una clientela internazionale ricca e famosa, restavano ammaliati all’istante: capitolavano subito, fin dal primo contatto, dalla prima collisione visiva con la bionda americanina sussurrante, sempre in punta di labbra, tutta soffi di voce e piccoli movimenti della testa, tutta “May I ask you?” (anche chi non la capiva annuiva convinto) e sorrisi e occhi azzurri spalancati… Mario insisteva che avremmo sbagliato, però, a pensare a lei come al tipo della divetta americana fatua e un po’ oca. In realtà – ma questo lui giurava di averlo messo a fuoco solo in seguito – era proprio dentro quel suo candore da innocente all’estero che la fanciulla del west nascondeva, come dentro una nebbia, il suo trucco speciale, la sua magia. Aveva a che fare con la velocità forse, ma non in senso fisico. Non era lei a essere veloce, erano cose e persone intorno a rallentare. Mentre tu stavi decidendo il da farsi (o così credevi), lei ti aveva già convinto; prima che tu facessi in tempo ad accorgertene, ti aveva già un po’ assorbito dentro la sua nebbia. Era come un incanto, un sortilegio, una liquida atmosfera di imbambolamento che lei spargeva attorno a sé con noncuranza, che ti avvolgeva e ti impregnava. La notte, dentro il suo letto, Mario non poteva evitare di ripensare a lei durante il giorno: lei con gli occhiali scuri, il berrettino a visiera, i jeans e gli infradito ai piedi: - Is it Rialto, Mario, isn’t that? - Yes Ms Meggie, Rialto…; lei col camicione patchwork e i sandali, seduta all’Harry’s mentre si arrotola del tabacco, cellulare fra orecchio e spalla, che ride e dice: - Do you think we can have some tea now, Mario? - Of course, Ms Meggie…; lei in giacca e camicetta bianca alla conferenza stampa, mentre indica il suo auricolare e fa cenno a lui - a Mario naturalmente, a chi altri? 14
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che la traduzione non le arriva, e assume l’aria più smarrita e supplicante del mondo: Mario, Mario, Mario, Mario… Perché proprio io? Si chiedeva rigirandosi fra le lenzuola. Si sarebbe comportata allo stesso modo con chiunque si fosse trovata davanti all’aeroporto? E soprattutto – domanda che in fondo comprendeva in sé anche le prime due – chi c’era all’altro capo di quel cellulare cui stava perennemente incollata? Il suo boyfriend, qualche attor giovane più o meno famoso, impegolato anche lui dentro un festival, un’inaugurazione, una prima assoluta in qualche parte del pianeta? E cosa c’entrava lui, chauffeur a servizio, con questo palcoscenico mondiale di attori e attrici in transito? Meggie invece sembrava non poter fare più a meno di lui: come se ci fosse sempre stato, come se da sempre non fosse esistito che per lei, e tutta la sua vita non fosse stata che un’attesa per andare a occupare il suo posto di accompagnatore-scudiero al fianco di lei. “Ho capito che tu sei stato mandato qui per proteggermi, non è così Mario?” Glielo disse più o meno con queste parole, nella sua lingua, e Mario sorrise gentile e annuì quando lei gli comunicò questa sua fantastica scoperta. Chi lo avesse mandato lì, chi lo avesse destinato a quella missione neanche perse tempo a chiederglielo: del resto, che importanza aveva? Ogni tanto la sentiva parlare anche di lui al telefono. O meglio, sentiva balenare il suo nome qua e là, senza avere la minima idea con chi o a proposito di cosa venisse tirato in ballo, nel corso di quelle chilometriche conversazioni: un paio di volte ebbe l’impressione che quella di Meggie fosse una specie di radiocronaca in diretta, che provasse gusto a raccontare minuto per minuto al proprio interlocutore le sue passeggiate veneziane… 15
nota dell’autore
I tre testi che vengono qui riuniti sotto il titolo Gli amori interrotti, pur ampiamente rivisti, rimaneggiati e in gran parte riscritti ex novo in vista della presente pubblicazione, rispettano nella loro disposizione l’ordine cronologico in cui sono stati per la prima volta concepiti. Il primo, L’estate americana, risale al 2006, mentre di due anni più tardi è Gli adolescenti, l’unico già edito dei tre, vincitore della quinta edizione del premio letterario “Il racconto nel cassetto” e pubblicato col titolo Gli adolescenti tra noi leggeri dalle Edizioni Cento Autori. Del 2010 è invece Voci nella notte, fra tutti quello più ampiamente rielaborato. Tutti e tre i racconti si possono dunque considerare antecedenti per stile e concezione al mio primo romanzo edito, La ragazza di Scampia, uscito da Fazi nel settembre 2014. In tal senso, mi sembra valgano a rappresentare, nei pregi come nei difetti che mostrano, un percorso di avvicinamento alla scrittura che personalmente considero tutt’altro che concluso. Francesco Mari
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indice
introduzione
pag. 5
l’estate americana
pag. 9
gli adolescenti
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voci nella notte
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nota dell’autore
pag. 93
PANTONE
NEON 808
FRANCESCO COSTA
Napoli appesa a un filo NEON 814
DE GIOVANNI / OSSORIO / PELLEGRINO / VITALI
Non sarà il canto delle sirene
finito di stampare per conto di Iemme edizioni nel mese di aprile 2016 presso MDS Srl - Casoria (Na)