"Lettere dal Faro" / Carlo Nicotera

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CARLO NICOTERA

Lettere dal Faro


A Roberto Gianani che ci credeva a prescindere


primo e secondo Soffia tramontana e da due giorni nella luce del mattino c’è anche una venatura di giallo. Bene, vuol dire che l’inverno ormai è andato, e che il freddo che verrà ancora, potrà essere tagliente, ma non incupirà le nostre anime. Così, cara Amanda, oggi scriverti questa lettera è allo stesso tempo più facile, perché il sole che tramonta rende netta l’ombra della penna sulla carta. E più difficile anche, perché più forte in questo tepore è il peso della tua assenza. Vedi, da quassù ci sono due modi di vedere il mondo: uno ieratico e distante, in cui gli avvenimenti ti vengono da una lontananza prossima all’orizzonte, con una morbidezza pari a quella del fascio di luce che lampeggia dal lanternone sulle pozze delle sirene. Un altro modo è stravolgente e viscerale come i pensieri che ti attanagliano di notte, quando nessuno ti ascolta e nessuno ti parla, e i fantasmi rimbombano dentro come la tempesta sugli scogli laggiù. Ed è così che ti sento. Come un’onda che attanaglia, ma che poi si ritira, portando via con la risacca il suo mon5


do di alghe, oro e cavallucci marini, e relitti e nuvole di sabbia sommossa. Portandosi via il tuo amore per me. Hai visto? Sono arrivato al punto: cerco disperatamente di dare contorni poetici a quella lama che mi ha segnato il torace con una lunga e profonda diagonale. Cicatrice non diversa da quella che faceva antica la faccia di tuo padre, un Tremal Naik di questo secolo, figlio del tempo e non dei libri. Invece sto solo parlando di te, e dell’amore che non ho saputo vivere. Così eccomi quassù, solo nella solitudine più intensa di chi ha invece sfiorato la grazia del sentirsi dentro e vicino, parte e tutto, cielo e terra, radice e frutto. Vorrei parlarne con freddezza, con la precisione analitica di un entomologo, ma non riesco a trattenere il tremito che mi assale. Ed è un tremito di paura. È forte e intenso, uguale nella vibrazione a quello che mi scoppiava dentro i primi attimi che ti stavo vicino. Un’assonanza del corpo e delle anime che sfociava nell’inesauribile desiderio di cercarsi e sfiorarsi — farfalla e fiore, polline e ali — quasi a riprodurre i riti primordiali che legano gli animali selvatici. Solo che questa è paura. Paura di non sapere più vivere l’amore — ammesso che mai abbia saputo farlo. Chissà perché in questo momento mi viene in mente la caciotta che mi ha regalato zia Jole. Non ha certo a che vedere con l’amore di cui volevo e ti stavo parlando. Sarà 6


il sapore di salmastro che sale dalla cala laggiù (penso sempre che un piatto di pesce debba essere chiuso, ammortizzato, contrato, meravigliato da un boccone di formaggio)… O sarà che ho ricordato d’improvviso un aforisma che ho scritto il 30 agosto dell’anno scorso: Non si può fare un anno sabbatico in giacca e cravatta... Insomma mi è venuta fame. E nella padella vuota ma ancora unta dove ieri sera ho stropicciato con i pomodorini di pendolo quattro (dico quattro) salsicce da mangiare alle due di notte (o di mattino?) ho buttato altri sei pomodorini, una mestolata di sugna che avevo conservato dalla cottura dell’ultima porchetta che ho cucinato per una serata di antichi sodali, un filo di olio di oliva e peperoncino tagliato grosso... La faccio breve: la pasta saltata lì dentro, e mantecata con la caciotta di zia Jole grattugiata (la caciotta, non zia Jole) grossa anche questa, come la ricotta marzotica della mia infanzia buttata a pioggia con le mani sulle orecchiette alla crudaiola, è stata un capolavoro di esistenza. Anche perché il vino di Ennio — quello rosso, di nivuro nostrale, catarrato e fragolino, mi ha dato la felicità che solo tre bicchieri a 16 gradi ti possono dare. Ora ho il palato allappato di quel sapore a metà tra il Retsine che mi fece sognare a Cefalonia e il cappero pelagico di Mastro Spata — dei suoi copricapo fatti di tovaglioli intrecciati ti scriverò ancora — e la testa che ancora una volta guarda lontano. O dentro? Mi chiedo, infatti, perché 7


sentirmi disperato per la perdita del talento e il silenzio del mio genio, quando la mia vera opera d’arte è stata quella di amarti per anni, a dispetto della mia voglia di vendetta per quella notte che non mi hai amato. E soprattutto mi chiedo, non più ombrato dal vino, ma illuminato da questa cometa a sprazzi che mi gira sulla testa, che cosa sia la redenzione. È un valore assoluto? O è solo un’idea consolatoria e letteraria inventata dall’uomo? E poi: va misurata secondo un metro oggettivo? O in base ai nostri sogni e alle nostre illusioni? E poi ancora, la redenzione di chi? La tua, che non mi hai amato ma hai vissuto? O la mia che ti ho amato ma non ho vissuto? Ti dicevo che quassù vivo senza giacca e senza cravatta. E in verità, in questa sera di tramontana mi sento proprio svestito. Proprio nudo. Forse spellato. Risento con nostalgia il sapore dell’ultimo boccone di quella pasta: un maltagliato che farebbe la felicità di qualunque commensale (anche solitario come me che forse, in quanto tale, sono solo un mensale) e la ricchezza di un qualunque proprietario di trattoria. E decido che in quel fondo di padella, a fuoco lento, ci strofino ancora due fette di pane secco. E mi spumo in bocca un po’ ancora di quel nero vino... Un sapore buono come la vita. Buono quasi come il fatto che non ricordo più il tuo nome.

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il pranzo è servito C’è un maestrale che blocca l’arrivo della nave ormai da sette giorni. Per farti capire di cosa sto parlando, devi pensare che l’onda di risacca al porto di Scauri, quello che è aperto a Sud-Sud Ovest e che quindi dovrebbe essere al riparo da questa tempesta, è alta quanto il muro della diga foranea. Uno spettacolo pazzesco nella sua proterva bellezza. Te ne parlo, amico mio, perché a questa distanza e con questo gelo che arriva dalla Groenlandia, le nostre isole sono così abissalmente lontane e diverse, che ti viene facile pensare che lo stesso concetto di “isola” è una variabile molto più complessa di quanto ognuno di noi voglia credere. Così mi godo questo profondo inverno, con tanto di grandine e nevischio, in questo altrettanto profondo Sud. Giusto in mezzo al Canale di Sicilia, con i capperi rintanati nei loro ceppi invernali. E con le nuvole che corrono spesse e grevi molto più in basso dei mille metri della Montagna Grande. 9


Ed è anche l’occasione, lo spunto direbbero gli scrittori, per parlarti di questo inverno così solitario e smarrito. Una prova del destino per capire quanto sei forte e quanto sei attrezzato alla solitudine, al silenzio, alla capacità di accudirti, pur in presenza di pensieri di abbandono. Così, prepararsi un ottimo brodo di carne — da arricchire con i granoni di pasta all’uovo — è una sfida alla voglia di lasciar perdere tutto e tutti. Lo stesso: cucinare un vero ragù napoletano, sfidando il destino che potrebbe non farmi trovare la ricotta, per poi andare a casa degli amici e respirare il profumo della salsa stemperata, è un altro modo ardimentoso, ma anche composito, spiazzante, per dirmi che ci sono e che esisto. Come ben sai, non è facile. E non è facile nemmeno se riesci a pescare il sarago che ti porterò, o a camminare per l’orto, cercando di proteggere le piantine dei semenzai con un cellophane che il vento fortissimo si ostina a voler portare via. Bisogna attrezzarsi, per arrivare in fondo alla vita senza troppi malmenamenti. Ecco quel che penso, mentre gli infissi sbattono nei loro cardini, e questa casa da cui nei giorni speciali vedo l’Africa, non è dissimile dal barcone capovolto sulle dune di Dover, dove David Copperfield fu iniziato alla famiglia e al piacere dell’infanzia, che è poi il germe che in qualche modo ti dà il gusto della vita. 10


Attrezzarsi — e non è un pensiero facile — anche perché vedi che chi ci ha provato, spesso è vittima del disinganno. Come il mio amico Turi, il vicino contadino e filosofo di cui tante volte ti ho parlato. Ieri sera ero a cena da lui. E i suoi racconti sono improvvisamente sforati nell’amarezza, che tale rimane anche se viene narrata con l’ironia di chi ha già visto e già sa. Dunque, tanto per darti un’idea di quest’uomo dagli occhi azzurrissimi, nel pomeriggio mi aveva offerto un po’ del suo vino di zibibbo (15-16 gradi) secco e aromatico. «È buonissimo», gli dico trasognato. Lui mi guarda compiaciuto: «Soprattutto perché è finitissimo — ride — Era l’ultima bottiglia, così non avrai modo di cambiare idea sul mio vino...». Una serata lieve. Io, lui (che a maggio compie 70 anni: «Sapessi come è lunga la vita — mi dice spesso — sapessi come è lunga se riempi bene le tue giornate... »); la moglie in questi giorni infelicissima perché la sua dentiera fissa le è stata smontata per una improbabile riparazione dopo dieci anni di onorato e impicciato servizio; e il figlio, un furetto intelligente pronto a prendersi la vita con sveltezza e una essenzialità che scantona ai limiti della amoralità pur essendo un ragazzo pulito, sano. È che Battista ha imparato da subito che l’inverno non è soltanto quello del clima. Ma anche quello delle privazioni, delle cose che non puoi avere, e poi anche di quelle che non puoi fare 11


perché semplicemente non ci sono. Come qui, dove tante cose non ci sono e basta. E se non sei capace, in questi giorni di buio ti prende la voglia di fuggire fuggire fuggire. Siamo al terzo bicchiere di vino, in attesa che si cuocia la pasta. Gli dico che forse per Pasqua viene mio figlio. «Meno male — fa Turi — così si sta a pranzo insieme. E non come a Natale, che siamo rimasti soli». «Ci siete rimasti male — lo conforto — che tua figlia e tuo genero se ne sono andati in Marocco a Capodanno, eh?!!…». Un’ombra cupa è scesa sulla tavola, e Maria si è messa a trafficare più forte con i fornelli... «Non sono andati in Marocco» racconta lui. «Ma che dici!?». «Ma sì, loro sono partiti di venerdì. Mia figlia mi chiama il giorno dopo, e mi dice “Come va?”. Bene faccio io, e voi, quando siete arrivati? “Stamattina”. Mah! penso. Da Roma ci saranno due ore, due ore e mezzo di aereo. Che razza di ritardo possono avere avuto?… poi chiedo: ma dove stai? A Casablanca? “Non so — risponde Anna — non so”. Allora suggerisco Rabat... E lei fa “Eh sì, siamo a Rabat... Fa una pioggia che non sai...”. Beh, lì ho detto va bene ciao, poi ho chiuso il telefono e ho detto a Maria: chissà questi dove sono andati a finire, chissà dove sono... Figurati, avevo visto il tempo, e tutto poteva accadere tranne che piovesse a Rabat... ». Devi sapere, amico mio, che Turi è contadino, filosofo e soprattutto meteorologo. Non sbaglia mai. Per esempio, 12


quando ieri soffiava libeccio, e io ho detto che l’indomani sarei finalmente andato a pescare sulla scogliera del porto che volge a Nord Ovest, mi ha subito interrotto: «Ma dove vai?… Domani arriva un maestrale forza 12, che devi startene solo a letto. Vedi di non fare cazzate... ». «Ma con questo libeccio...». «Ti ho detto che domani arriva maestrale». E infatti nella notte sembrava che il vento si portasse via l’isola. E la mattina dopo anche negli sprazzi di sole, il mare non era blu, ma bianco bianco bianchissimo. Come i capelli di Turi, che quando ti spiega ciclone e anticiclone, si mette in mezzo al campo arato come se fosse uno spaventapasseri dotato di manica a vento e alza gli occhi al cielo per farti vedere che le nuvole vanno in una direzione e la corrente del mare — la indica con le sopracciglia — va invece nella direzione opposta. Insomma non sbaglia mai. E figurati se poteva credere che a Rabat stesse piovendo, quando lui aspettava la pioggia da sei mesi e la vedeva passare sempre a largo delle sue piante, delle sue cisterne, del suo cuore contadino che sa quanto la pioggia sia «abbondanza di tutto...». Insomma, te la faccio breve: la figlia, il genero e i nipoti se ne erano andati a Macerata, dall’altra figlia, a passare un Natale «tra giovani». E avevano lasciato qui, in mezzo al mare, i due vecchi genitori nel giorno di Natale. Tanto che loro se ne sono rimasti chiusi dentro. Quasi avessero vergogna. 13


E lui non è andato nemmeno al circolo per la sua solita partita a carte con gli amici della contrada. Il cui nome è Contrada Grazia, anche se in quelle ore deve essergli apparsa come una valle di lacrime, altro che Madonna delle Grazie. La cupezza di quel ricordo si è dissipato all’istante, quando è arrivata la pasta cucinata dal figlio. Un ottimo maltagliato rigato, fatto con salsiccia piccante tritata e saltata in padella con i funghi di qua — i finferli, li chiamano. Il ragazzo, che fa il pizzaiolo, ha anche imparato a presentare bene le cose. Così questo piatto è arrivato con una spruzzata di prezzemolo fresco e pecorino grattato a scaglie. Insomma, una festa vera. Bella e saporita. Tanto che giocando con le mie (le tue — direi le nostre) solite fanfaluche, ho detto: «Battì, ma perché non ragioniamo di fare una trattoria, un ristorantino, una cosa dove ci mettiamo a lavorare per sei mesi, e con un piatto come questo, e qualche altro che tra te e me riusciamo di sicuro a mettere insieme, proviamo a fare il business? Svoltiamo, cambiamo vita... ». Battista ha cominciato a giocherellare pure lui con l’idea, valutando i si e i no, le difficoltà tecniche e burocratiche, le ostilità tipiche degli isolani... Fino a quando Turi non ha tagliato tutto: «Lascia stare... mangiamola noi questa pasta. Mangiamola qui, a questa tavola... Che poi, per mamma e papà non c’è più pasta, e nemmeno posto. Tieni. Bevici su».

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indice primo e secondo il pranzo è servito limarsi... un’aletta per volare un ramo a ore 15 delfini e occhi d’oro il pallone di ghardaia lud i funghi di tataccio 21 marzo ...intimità ...fardah melograni e rumori in fondo al mare occhi di lupo le bistecche di uldji POSTFAZIONE

pag. 5 9 15 20 24 29 35 41 47 54 61 68 74 82 90 pag. 99


PANTONE

Un colore per ogni volume. Tonalità che suggeriscono percorsi di genere, di storie e atmosfere sempre diverse. Le gradazioni sono sfumature di senso, illusioni di scelta nell’oceano di infinite suggestioni. Prive di immagini di copertina, ai titoli della collana Pantone è affidato il potere evocativo del colore e della parola, fin dove il linguaggio può condurre. Il resto è materia dell’altrove.


PANTONE

717

ALBERTO CORBINO

Poesía de la Reína 7476

SALVIO FORMISANO

L’accordatore di destini 7683

ALBERTO CORBINO

Questo è un bel libro 877

FRANCESCO VELONÀ

Buio blu 194

SERGIO CALIFANO

Spartito Doppio 327

VINCENZO GAMBARDELLA

Scricchiolii 7496

LUCA OTTOLENGHI

Questa terra


finito di stampare per conto di Iemme edizioni nel mese di ottobre 2017 presso Vulcanica Srl – Nola (Na)


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