LUCA OTTOLENGHI
Questa terra
Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dov’è nata la nostra costituzione andate nelle montagne dove caddero i partigiani Piero Calamandrei La preghiera, per me, è stare in silenzio nel bosco Mario Rigoni Stern Mi lascio in eredità alla terra, per rinascere nell’erba che amo Walt Whitman Io sono una forza del passato Pierpaolo Pasolini
Per il cognome che porto E per Fernanda Pivano, come promesso
0 Era ora di cantare! Quella mattina, la prima mattina senza mia madre, io volevo cantare. Come quando ero piccolo, e non riuscivo mai ad alzarmi per andare a scuola, e lei mi prendeva in braccio e mi portava davanti alle finestre del salone. Solo così, diceva, riusciva a svegliarmi. Le spalancava sull’azzurro. Il Monte Rosa splendeva all’orizzonte! M’indicava col dito le vette innevate e intonava una cantilena che mi commuoveva sempre. Aveva una bella voce mia madre, la più bella del coro della chiesa. Faceva così: “Salve Regina… Mater Misericordiae… Na na na na na…”. Poi non la ricordo più: ho chiuso da tempo con messe e canti sacri. Odio anche solo l’idea di Dio, quella tradizionale, intendo. Ma il giorno prima mia madre era morta e io, affacciato alla finestra, mi sentivo perduto; per la prima volta avevo le vertigini da quell’altezza, tremavo e mi sporgevo alla sua ricerca. Ma trovai soltanto la nostra regina, carica di neve, eterna. Spinsi lo sguardo oltre le cime, fischiettai la mia preghiera e accesi una sigaretta, come un cero. 9
I
1 Agosto 2001 Il trenino s’inerpicava sulla montagna a passo d’uomo. Ero in viaggio da più di tre ore e avevo cambiato due treni, se escludevo il trabiccolo su cui ero seduto. Fissavo fuori dal finestrino: una muraglia di piante costeggiava i binari, alcuni rami arrivavano a sfiorare i vetri. Quel verde profondo m’inghiottiva lo sguardo. Poco prima ero in città, ora mi sembravo in Amazzonia. E neanche io sapevo bene il perché. Nella carrozza il caldo era denso e i finestrini bloccati. Presi a farmi aria con la mia cartina, ipnotizzato da quel paesaggio primitivo. Quando il treno si fermò con un cigolio fui l’unico a scendere, tra gli sguardi sconcertati dei pochi passeggeri. La cosa non mi piacque, e quando il treno ripartì li guardai scomparire quasi con rimpianto. Il caldo m’assalì subito. Ero in una minuscola stazione sperduta in mezzo ai boschi. Si riconosceva grazie a un cartello affisso a un palo, tutto sbiadito dal tempo e bu13
cherellato da fori che ricordavano quelli dei proiettili… Mi avvicinai per guardarli meglio, c’infilai le dita e misi a fuoco il nome del paese. Era simile a quello che cercavo, ma era sbagliato. Guardai la cartina, il nome s’era diluito in una macchia di sudore: assomigliava a quello ma le prime tre lettere erano diverse. Al diavolo! Lanciai la sacca per terra, maledicendomi, e mi guardai attorno. Boschi, montagne: ovunque. E quello era l’unico treno della giornata. Imponeva una riflessione. Mi sedetti sulla sacca e accesi una sigaretta. Lì non sarebbe passato nessuno per chissà quanto. Non c’erano molte soluzioni, dovevo andarmene con le mie gambe. Era semplice, d’altronde: dovevo solo seguire i binari fino alla prossima stazione. Caricai la borsa e m’incamminai. L’unica compagnia era il coro incessante dei grilli e il ronzio degli insetti. Il sole picchiava sul viso, sul collo, sulle braccia. Grondavo sudore e non avevo acqua. Ogni tanto raccoglievo uno stelo d’erba e lo succhiavo nella speranza di dissetarmi; un paio di volte la ferrovia s’infilò in piccole gallerie scavate nella roccia, dove potevo sedermi e riprendere fiato nella frescura umida della pietra. Camminavo sui binari. Nelle narici l’odore secco delle sterpaglie. Ad ogni passo sobbalzavo: dai cespugli ai lati della ferrovia provenivano degli strani fruscii, dei sibili… Ci mancavano solo i serpenti! Urlai, e dalla rabbia presi 14
un legno e lo lanciai lì in mezzo. Li zittii per qualche secondo, poi ripresero più forte. Ci rinunciai e proseguii. Non avevo l’orologio: ma pensai di essere in marcia da circa un’ora quando mi trovai di fronte a un bivio. Mi venne in mente la canzone di Robert Johnson: l’incrocio, l’anima venduta al diavolo… Gliel’avrei data volentieri la mia anima. Quello che voleva. Bastava che mi tirasse fuori dai guai. E mentre pensavo al mio baratto, riconobbi come un brusìo. Scattai e gli corsi incontro, imboccai il binario destro fino ad arrivare a un ponte di pietra, dove il brusìo si fece fragore. Mi sporsi dal parapetto e lo vidi. Il fiume! Scorreva a una decina di metri sotto di me, esplodendo in una nuvola di spruzzi bianchi. Ero salvo. Aggirai il ponte, scavalcai un muricciolo e mi addentrai nel bosco. Scesi parecchio, finché le acque si placarono raccogliendosi in una pozza color smeraldo. Pucciai testa e piedi per una decina di minuti, poi mi sdraiai all’ombra degli alberi e respirai a pieni polmoni. Tra i rami il sole ammiccava disegnando arabeschi tra le foglie. Mi sembrò di rivedere le vetrate della mia chiesa. Risalii verso la ferrovia. Proseguii ancora sui binari in mezzo a un paesaggio desolante, tutto alberi, rocce e sterpaglie. E di treni neanche l’ombra. I capelli erano ancora bagnati, mi avrebbero difeso ancora per un po’ dal solle15
one. Poi vidi un sentiero che deviava dalla ferrovia e lo imboccai, scendendo nel bosco per una decina di minuti. Finalmente una strada! Era in mezzo ai boschi e un po’ malmessa, certo, ma era pur sempre asfalto: un misero segno di civiltà. Raccolsi le forze e m’incamminai di nuovo. In quel silenzio pensai a mia madre: al suo segreto, a quello della mia famiglia, delle mie origini… L’angoscia mi colpì come un pugno in gola. Avevo voglia di gridare. Lo sentivo sgorgare dal profondo. Mamma! Torna da me! Perché mi hai mentito? Prendimi per mano! Mi sentivo perduto. Ancora sporco di placenta. Ero già piegato dal magone quando mi bloccai. Tesi l’orecchio, mi guardai intorno, appoggiai istintivamente la mano sul cuore: non poteva essere lui: era un battito più profondo, della terra, sempre più nitido, più insistente. Mi voltai verso il bosco, in alto a destra, sopra il muro che costeggiava la strada: un fruscio di felci, di rami, poi spuntarono un paio di corna. Un cervo! Mi corse incontro, deciso, e dalla cima del muro spiccò un balzo perfetto, a parabola: mi atterrò proprio di fronte e subito spiccò un altro salto che lo proiettò giù, oltre il ciglio della strada, nel bosco, dove continuò la sua corsa tra gli alberi. Sembrava spaventato, come se scappasse da qualcosa… Io ero pietrificato, non mi ero mosso di un millimetro. Decisi di rimanere fermo ad aspettare. Mi sedetti sulla 16
sacca, presi uno stelo d’erba, lo infilai in bocca e aspettai, ancora ipnotizzato dall’immagine dell’animale, dal suo volo in controluce. Dopo un po’ sentii il borbottio di un motore. Mi alzai e vidi spuntare dal tornante un piccolo trattore. Tesi il braccio col pollice alzato e pregai che si fermasse. Lo guidava un ragazzo. Si fermò. “Ciao”, dissi sorridendo. “Dov’è che vai?”, mi chiese, con un accento quasi bergamasco (anche se non eravamo da quelle parti), scrutandomi dall’alto in basso con diffidenza. Avrà avuto la mia età ma era grosso il doppio: il torace nudo, le braccia gonfie di muscoli e le mani incrostate di terra. Indossava solo dei bermuda ed era a piedi scalzi. Dissi il nome del paese. “Ti lascio un po’ prima, che poi vado su di là” e indicò con la testa un punto vago sulle montagne. Il posto guida era aperto, a sedile unico; col pollice indicò il retro, dov’era ammucchiato del fieno. “Io c’ho del posto lì”, disse, sogghignando. Salii e mi feci spazio tra quei mucchi verdi, invaso dall’odore dolciastro dell’erba appena tagliata. Guidava chino sul volante, appoggiato sui gomiti. Avrei voluto parlare un po’ ma non sembrava molto dell’idea. Così mi accucciai sul fieno a guardare la valle. 17
Procedeva piano, non più di cinquanta all’ora. Sobbalzava di continuo sugli smottamenti dell’asfalto ma i colpi erano attutiti dal fieno. L’eco del motore si disperdeva tra le montagne che, mano a mano che salivamo, si facevano sempre più spigolose; un paio di falchetti planava in una lenta traiettoria circolare; giù dal dirupo scintillava il fiume. Dopo mezz’oretta di tornanti, giunti a un bivio, si fermò. “Pronti”, disse. Saltai giù. Volevo dargli qualcosa in cambio. Non seppi cosa finché non lo vidi osservare il mio pacchetto di Camel che usciva dalla tasca dei pantaloni. Tanto dovevo smettere, l’avevo promesso a mia madre un centinaio di volte. Glielo lanciai. “Tieni, grazie di tutto”, dissi. Lo prese al volo, poi parlò. “Dé cos’è che ci fai qui?”. “Cerco una persona”, risposi. “Oh be’, spero ben ch’è una bèla figa per fare tutta ‘sta strada”. “Purtroppo no, è un parente, ma va bene lo stesso”. Gli chiesi quanto mancasse per arrivare in paese. Una decina di chilometri, rispose. Sbuffai e lo salutai, incamminandomi per l’ennesima volta. “Ti conviene andare a dito”, aggiunse. “C’è sempre qualcuno a quest’ora!”. 18
All’inizio non capii bene cosa intendesse con ‘andare a dito’; ci arrivai da solo quando, esausto, mi misi a fare l’autostop. Ero arrivato. Un cartello malandato mi dava il benvenuto. Presi un bel respiro e m’incamminai. Lungo la strada che entrava in paese, seduta su una sedia di vimini, c’era una vecchia signora. Era tutta vestita di nero: un fazzoletto alla nuca, lo scialle sulle spalle. Intrecciava delle sottili strisce di legno attorno a una gerla tenuta tra le gambe. Alzò il viso segnato dalle rughe e dalla fatica. Poteva avere cinquant’anni come settanta. La sua espressione mi colpì: c’era qualcosa che andava oltre la diffidenza, oltre lo stupore. Sembrava avesse visto un fantasma. Ogni tanto mi giravo e la trovavo sempre lì a fissarmi. Continuai a camminare. La strada principale s’immetteva nella piazza del paese. Ai suoi lati correvano dei muretti e, al centro, una fontana in pietra che raggiunsi subito. Sui muretti, dei vecchi mi pedinavano con gli occhi. Bevvi a lunghe sorsate, mi sciacquai la faccia. Poi guardai in giro. Dall’altra parte della piazza, sotto un colonnato, avvistai dei signori seduti a fumare e bere attorno a dei tavolini. Buon segno. Li raggiunsi ed entrai nel bar. Le nubi di fumo si mischiavano alle chiacchiere dei clienti. Al mio ingresso tutti si voltarono a fissarmi, come 19
se fossi atterrato da una navicella spaziale. Il tempo sembrò fermarsi. Qualcuno tossì, qualcun altro scatarrò. ‘Vecchi di merda, cos’avevano da guardare?’. Ma avevo cose più importanti a cui badare. La birra, per esempio. Il mio regno per una media ghiacciata! Dietro il bancone, una ragazza sui venticinque anni asciugava e riordinava dei bicchieri. Aveva un’aria seria, quasi corrucciata. “Dimmi” bofonchiò, senza neanche guardarmi. Era l’unica che non sembrava stupita dalla mia presenza. Ordinai una birra e la studiai. Era robusta tendente al grasso, il seno premeva contro il grembiule in un’abbondanza di carne da stordire. Anche il viso era paffuto, ma liscio e dai lineamenti morbidi. Si accorse subito del mio interesse, e di scatto mi voltai verso la sala dove tornò a regnare la bisboccia; i tavoli erano ingombri di bicchieri di rosso e posacenere stracolmi di sigarette; qua e là scoppiava pure qualche piccola rissa tra giocatori di carte. Erano dei buoni diavoli, in fondo. Pagai una Moretti da 66 e uscii, tutto quel fumo mi stava tentando. Mi strofinai la bottiglia sulle guance e ne scolai un quarto con un sorso. Andai a sedermi vicino ai vecchietti ai lati della piazza. Le loro mani nodose impugnavano bastoni di legno. Erano tutti uguali nei loro pantaloni di velluto, negli scarponi e nelle camicie a quadri. La loro immobilità da stoccafissi mi innervosiva. Neanche il 20
caldo sembrava scalfirli. Chissà da quanto attendevano che qualcosa o qualcuno desse una scossa alle loro giornate… Be’, eccomi qui, signori. Da oggi mi chiamo Frank Bassano. E sono venuto a cercare un uomo. Una forza ignota mi ha spinto fin qui. Mia madre è morta e ho fatto molta strada. Sono in cammino da stamattina. I miei amici sono stati massacrati mentre stavano dormendo, nella palestra di una scuola di Genova. Non si è mai vista una cosa del genere dai tempi della guerra. Erano tutti coperti di sangue e lividi. Li umiliavano, li costringevano a cantare canzonette fasciste… Qualcuno è stato pure torturato. Anch’io dovevo essere con loro, sapete? Ma mia madre se n’è andata proprio in quei giorni. Mi ha protetto anche da morta… Sono venuto a vendicarli. Avete mai sentito parlare di un certo Bassano? Pare avesse combattuto qui durante la Resistenza. Non ho molte notizie in più, non ho neanche una foto, né un ricordo… Non ho più niente. Qualcuno sospirò, un altro si scostò col sedere. Estrassi la cartina e chiesi come si arrivasse alla baita di mio zio, da quel che avevo capito si trovava appena fuori dal paese. L’unica risposta che ottenni fu un gesto vago con la mano. Persi la pazienza, mi alzai e andai a finire la mia birra seduto all’ombra dei porticati, a studiare la cartina. Le campane rintoccarono le sette. Dovevo muovermi. Non potevo sbagliare, c’era una sola strada. ‘In marcia’, 21
pensai. Oltrepassai una chiesetta e il cimitero, e in pochi passi ero già fuori, di nuovo nel bosco; attraversai un torrente tramite un tronco messo a mo’ di ponte, poi imboccai il sentiero che saliva a zigzag. La brezza agitava le fronde degli alberi in un suono rilassante, ne avevo bisogno in quel tragitto: il sentiero tirava non poco. Curvo e affannato, pensai che smettere di fumare era stata una buona idea. Mentre ero seduto su un masso a riprendere fiato, incrociai una vecchia che trascinava a mano un fascio di rami lunghi e pesanti, le spalle incurvate da una gerla carica di legna. Salutò con un cenno del capo. Era seguita da un bastardino scodinzolante che venne ad annusarmi e a leccarmi un po’. Questa volta fui io a guardarla camminare a bocca aperta, fino a che non scomparve col suo passo lento e costante. E io che ero già stanco… Fu umiliante. Alzai il sedere e ripresi il cammino. Pensai di aver scelto la strada sbagliata: la boscaglia era fitta, ovunque guardassi mi sembrava tutto uguale. Soltanto dopo un quarto d’ora, più in alto, mi sembrò d’intravedere dell’azzurro oltre le chiome. Il sentiero sfociò in un grande prato aperto. Lo attraversai dribblando escrementi di mucca e pallini simili a liquerizie gommose. Ad ogni passo sollevavo cavallette. In cima al prato si vedevano alcune baite. Finalmente ero arrivato. Mi voltai a guardare il panorama. Le montagne si 22
stendevano a perdita d’occhio nell’aria azzurrina. Oltre la catena di cime rocciose, verso nord, doveva esserci la Svizzera. E davanti a me si levava il Monte Rosa. Proprio lui. Quello che guardavo tutte le mattine dalle finestre di casa. M’inquietava e infondeva sicurezza nel contempo. Il profilo luccicava nella luce serale. E per un attimo mi sembrò d’indovinare quello di mia madre tra quelle linee dure e bianche, come quando si dà una forma alle nuvole. Mi sedetti e piansi. Ma era un pianto diverso da quello dei giorni precedenti. Non c’era soltanto dolore ma anche una nota di gioia. Qua e là sostavano qualche mucca, alcune capre e delle pecore che brucavano tranquille. Accarezzai il loro manto soffice. A una di loro offrii dell’erba e iniziò a leccarmi mani e braccia. Sentiva il salato del sudore, le piaceva. Di colpo mi furono addosso in una decina. “Ehi ehi, con calma, signorine!”. Ma loro erano scalmanate, belavano e mi si strofinavano addosso. Poi arrivarono anche le capre. In un attimo fui risucchiato da un vortice di pelo. Solo il latrato di un cane lupo le fece sparpagliare. Poi venne ad abbaiare al sottoscritto, ma senza ferocia. Una voce divertita mi raggiunse da dietro. “Bravo Buck, è dei nostri”. Era mio zio. Mi salutò guardandomi quasi estatico. “Scusa ma non riesco ad abituarmi alla somiglianza”, disse. “È davvero strabiliante”. 23
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finito di stampare per conto di Iemme edizioni nel mese di aprile 2017 presso GFC Stampa Srl - Volla (Na)
Progetto editoriale vincitore del programma indetto dalla SIAE denominato “SILLUMINA - Copia privata per i giovani, per la cultura (Ed. 2016)” - Bando “Nuove opere”.