“Buio Blu” / Francesco Velonà

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FRANCESCO VELONÀ

Buio blu



1. Sono testimone del fatto che stavolta non fu colpa sua, e che l’amore usò un mezzo davvero meschino per rovinargli la vita. È vero, Marco Guelfi era sempre andato alla ricerca dei modi più vili per tradire la moglie, ma stavolta era innocente. - Guarda che sono sotto la tua responsabilità. – Mi disse un giorno – Se tradirò di nuovo Valentina, sarà colpa tua, quindi sarà meglio che mi tenga d’occhio. Mi seccava avesse scelto proprio me come suo guardiano, ma devo dire che presi a cuore il mio compito. Fu dura se ci penso. È incredibile la quantità di donne a disposizione di un uomo che decide di amarne una sola. È quasi come imporsi di condurre una vita povera, e vincere alla lotteria ogni settimana. Comunque, come ho già detto, non fu colpa sua quando tutto iniziò in quella notte del 25 giugno. Era andato al cinema con Valentina a vedere uno di quei film che giudicava senza finale. Non amava le storie 5


dove non c’era un vincitore. Non gli interessava che fosse il buono o il cattivo, l’importante era che ci fosse. Di ritorno a casa, si sentiva molto stanco e decise di andarsene a letto. Diede un bacio alla moglie e si addormentò quasi subito. Per lungo tempo non capimmo cosa gli successe durante il sonno. Valentina mi raccontò che si risvegliò di cattivissimo umore e voleva a tutti i costi riaddormentarsi. Non ci riuscì e allora, senza neanche fare colazione, se ne andò a lavoro. Nei giorni successivi non si fece sentire affatto. Non mi meravigliai. In genere era l’atteggiamento che assumeva quando una nuova donna entrava nella sua vita. Da buon tutore della loro vita matrimoniale, iniziai allora a indagare, senza che né lui né Valentina se ne accorgessero. Non riscontrai nulla di insolito nei suoi comportamenti, però. Si tratteneva in ufficio giusto il tempo dovuto e, durante la pausa pranzo, nel solito ristorante, aveva finanche ignorato una nuova cameriera dagli occhi dolci. Finito il lavoro, si recava di fretta a casa. Il venerdì seguente lo seguii di nascosto in farmacia. Chiese al medico un sonnifero molto potente che lo facesse dormire per molte ore di fila. Valentina mi confermò che per tutto il weekend non si era alzato dal letto. La situazione iniziò a degenerare durante la settimana successiva, quando un suo collega, con cui mi ero accorda6


to in precedenza, mi avvisò che Marco stava per andar via da lavoro prima del tempo. Mi precipitai di corsa, visto che il suo ufficio era a pochi isolati da casa mia. Lo seguii, come al solito, senza farmi vedere. Si recò in un negozio d’abbigliamento e iniziò a comprare un mucchio di vestiti dal taglio giovanile. Dalla vetrina potevo notare la foga con cui li sceglieva, senza curarsi minimamente dei consigli della commessa che, a dire il vero, non erano semplicemente professionali. In altri tempi l’avrebbe invitata a pranzo per il giorno successivo, ma stavolta mise solo gli abiti in fretta nelle buste e scappò via, inseguito dalla ragazza con la sua carta di credito in mano. Due giorni dopo, Valentina mi chiamò abbastanza preoccupata. Nelle due sere precedenti Marco aveva indossato gli abiti nuovi e si era messo a letto, così, vestito di tutto punto, dopo essersi pettinato con cura. Confesso di essere rimasto perplesso anch’io. C’era sicuramente qualcosa di molto strano, e ne avemmo la conferma pochi giorni dopo, quando spese una fortuna per comprare una vecchia Porsche 356 del 1954 solo per portare le chiavi a letto con sé. Non mi era chiaro cosa stesse accadendo. Non aveva turbamenti eclatanti, il lavoro non era mai andato meglio, e quel suo nuovo proposito di non tradire la moglie faceva di lui un uomo insolitamente ponderato. Eppure, continuava a comperare abiti nuovi, e sempre più raffinati, che 7


usava solo per dormire, mentre la vecchia Porsche s’impolverava in garage. Non avevo mai visto Valentina piangere, neanche quando Marco iniziò a frequentare quella Anna, scrittrice di racconti ispirati alle loro prodezze sessuali. Se li trovava in giro per casa e fingeva di non accorgersene. Era l’immaturità del marito a metterle tristezza, più che i suoi tradimenti. Questa volta, però, i suoi occhi erano stanchi e spesso il suo sguardo si copriva di lacrime che non si sforzava neanche più di nascondere. Era bella Valentina, di quelle bellezze dignitose che non scendono mai a compromessi con le mode. Portava, nei suoi tratti, con la stessa dignità, sia la gioia che il dolore. - Non so che fare – mi disse un giorno – le altre volte è stato sempre molto semplice, bastava aspettare che si rompesse il giocattolo di turno e tutto tornava come prima, a volte anche meglio. Ma con cosa sta giocando adesso?

2. Le donne erano sempre stato il gioco preferito di Marco, dai tempi dell’Università. Mi ricordo la prima volta che lo vidi. Ero in aula, aspettando l’inizio della lezione di ragioneria, quando entrò vestito in maniera forse troppo elegante per il contesto. Si 8


diresse immediatamente in prima fila, baciò in maniera prolungata una ragazza che avevo già notato, e subito corse via dicendo: - Mi raccomando, i termini più complicati scrivili in stampatello! Qualche giorno dopo lo rividi nel cortile della Facoltà in compagnia di un’altra ragazza, variazione sul tema della prima. Con mia enorme sorpresa, si allontanò da lei e mi venne incontro spedito. - Scusa, stai andando alla lezione del Prof. Barbato? - Sì – feci io, diffidente. - Mi faresti un favore? Dovresti portare questo a una ragazza che sta sempre seduta in prima fila. Si chiama Fiorella. Io sono Marco, piacere. Mi diede un cioccolatino avvolto in un bigliettino. Accettai l’incarico. Giunto in aula, mi diressi direttamente verso il terzo sedile della prima fila e porsi l’approssimativo pacchetto. La ragazza mi guardò stupita, e io mi affrettai ad aggiungere: - Marco… Lei aprì immediatamente il foglio, lo lesse e rise. L’aula di ragioneria non rivide mai più Marco Guelfi, e io ero l’unico a conoscere il vero motivo delle sue assenze. Fiorella continuava a prendergli gli appunti delle lezioni. Io non potevo fare a meno di sorridere tutte le volte che cancellava, innervosita, i termini che non aveva scritto in stampatello. 9


Una mattina, Fiorella non era venuta a lezione. Il prof. Barbato era più noioso del solito, e così decisi di abbandonare l’aula. Per strada ripresi a respirare ma una figura familiare colpì la mia attenzione. Mi avvicinai e mi trovai seduto su una panchina con tra le braccia Fiorella in lacrime. Marco Guelfi si era fatto scoprire con la biondina di turno e lei non aveva digerito il colpo. Le persone, quando sono innamorate, diventano inaspettatamente stupide. Concordo con chi assimila l’amore all’alcool; gli effetti sono simili: procurano entrambi una felicità immotivata, che ridimensiona il mondo circostante, e una dipendenza difficile da superare.

3. Con cosa stava giocando adesso Marco Guelfi in quelle notti, vestito di tutto punto? Questo lo ignoravo anch’io. Dovevo parlargli, sicuramente. Mi serviva la strategia giusta perché ogni errore poteva far precipitare la situazione. Qualche giorno dopo, con la scusa di essere senza acqua per dei lavori a casa, mi feci invitare a dormire da loro. Marco sembrò indifferente alla mia richiesta, mi avvisò solo che sarebbe dovuto andare a letto presto a causa della giornata intensa dell’indomani. Valentina mi fece un cenno d’intesa e capii che la scusa non era nuova. 10


Durante la cena Marco guardava continuamente l’orologio, dimostrandosi poco partecipe alle nostre discussioni. Dopo la frutta, fui io a prendere l’iniziativa. Dissi che sarei andato a mettermi il pigiama per poi salutarli prima di coricarmi. Non trascorse neanche un quarto d’ora quando mi ripresentai col mio personalissimo abito da notte. Si trattava di un completo grigio scuro gessato con sottilissime linee rosse, cravatta rossa e gemelli smaltati anch’essi con gli stessi colori. Marco sembrò non dar peso alla cosa solo perché era distratto ma, non appena la sua mente ebbe il tempo di collegare il mio abito alla sua situazione, i suoi occhi si sgranarono di stupore. Valentina, che sembrò capire il gioco, mi fece i complimenti per l’eleganza mentre lui balbettò un amaro “buonanotte”. La mattina seguente, quando un po’ sgualcito mi recai in cucina per la colazione, non si era ancora alzato. Neanche venti minuti dopo me lo trovai di fronte con uno spezzato bianco e blu e con un ascot al collo, mentre già l’odore di caffè tentava invano di riportare alla normalità quella situazione ormai fin troppo surreale. Si offrì di accompagnarmi a lavoro, visto che non ero ancora salito sulla sua nuova Porsche. Accettai volentieri quella ghiotta occasione di restare da solo con lui e studiare accuratamente la sua reazione. - Di’ la verità – disse mentre guidava a velocità abbastanza sostenuta – è venuta anche da te? 11


- Sì – risposi istintivamente, non sapendo neanche di cosa stesse parlando. Senza che me lo aspettassi, fece una frenata talmente brusca da far scomporre il posteriore della vettura. - Scendi! – urlò – scendi! Scesi con poche storie. Lui aprì la sua portiera e, senza darmi il tempo di capire le sue intenzioni, mi fu addosso scaraventandomi a terra. - Dove l’hai portata? Dove l’hai portata con quel vestito? La devi lasciare stare, hai capito? Lei è mia! Io la amo ogni notte… ogni notte! La nostra amicizia, dopo vent’anni, s’interruppe sul ciglio di quella strada.

4. Esattamente ventidue anni prima, invece, era incominciata quando Marco Guelfi mi si ripresentò davanti per caso. Stava facendo propaganda per la sua candidatura a rappresentante degli studenti. - Marco? – gli chiesi. - Esatto – rispose – e tutto ciò che posso fare per dimostrarti la mia stima è rappresentarti durante i consigli di Facoltà. Perciò regalami il tuo voto e io ti regalerò un sorriso. - Ti ricordi di me? 12


- Come no… durante l’occupazione… grande… - Veramente mi riferivo a Fiorella. - Chi Fiorella? - Vabbè, lasciamo stare. - Seguimi, dai, mi fai compagnia. E io lo seguii, e non solo quel giorno. Sostenni tutta la sua campagna elettorale e conobbi un sacco di gente. Stavamo sempre insieme, il rappresentante degli studenti Marco Guelfi e la sua ombra. Ogni sera eravamo a una festa diversa, senza sapere neanche chi fosse il padrone di casa. Noi, per non sbagliare, facevamo gli auguri a tutti e ben presto questa divenne la moda delle migliori feste mondane. Non si usavano più i “ciao”, i “buonasera” o i saluti della vecchia scuola ma, appena arrivava un nuovo invitato, tutti iniziavano a gridare “auguri” anche se non era il compleanno di nessuno. Provai a fumare erba e a interessarmi di musica, soprattutto quando ai concerti ci si riduceva davvero da Dio. Sesso, droga e rock ‘n roll sarebbero diventati un luogo comune di quegli anni solo qualche decennio dopo e noi, finché ci sentivamo controcorrente, continuavamo a nuotare. Tutto funzionava alla perfezione tra me e Marco. Mi lasciavo trasportare, questo è vero, ma insieme a lui rincontrai di nuovo quel coraggio che mi aveva abbandonato da piccolo, dopo la morte di mia madre. 13


Penso fu proprio quella sensazione di costante euforia a farmi commettere l’imprudenza di presentare Marco a mio padre. In realtà, non fu una cosa premeditata come quando si decide di presentare la propria ragazza ai genitori. Un pomeriggio eravamo da me a cercare di dare un senso logico ai nostri progetti per il futuro, quando Marco s’infilò il giubbotto per andar via e io, invece, lo costrinsi a restare a cena. La diplomazia di mio padre si palesò in tutte le sue lacune mentre quella di Marco, come al solito, era in giro per i fatti suoi. La discussione stava disegnando una parabola abbastanza classica che, partita dal disagio giovanile, era passata per i valori della famiglia e si avviava a concludere il tratto riguardante la politica, quando Marco tirò fuori una delle sue frasi a effetto di cui andava tanto fiero: - Lei, caro signore, nuoterà tranquillo come un delfino nella palude che sta diventando il nostro Stato. Mio padre, visibilmente alterato, versò sul tavolo tutta la sua retorica benpensante. Io non mi sforzai neanche di pulire e Marco, stranamente misurato, andò via sbattendo la porta. Mi fu proibito di rivederlo, ma un treno salvò fortunosamente la situazione. Due settimane dopo, infatti, Marco superò un esame all’Università e il padre gli regalò, come incentivo, un 14


mucchio di soldi. Noi decidemmo di investirli nel nostro futuro, e un treno si rivelò solo il modo più comodo per raggiungerlo.

5. Avevo fallito il mio compito di salvaguardare il matrimonio del mio migliore amico, ma non potevo immaginare il risvolto grottesco assunto dalla situazione. Se qualcuno inizia a giocare in borsa, ad esempio, può prevedere un rialzo o un ribasso del mercato e decidere di vendere o tenere il suo titolo. Non gli verrà mai in mente, però, che un ufo possa inghiottire di colpo tutte le sedi della società di cui è diventato azionista. È irrazionale e, purtroppo, allora l’irrazionalità sfuggiva alla mia competenza. Avevo perduto Marco. La mia voglia di aiutarlo era stata troppo zelante ma, ripeto, era difficile per me immaginare il grottesco risvolto della situazione. Per la prima volta, dopo vent’anni di amicizia, mi ritrovai da solo, accanto alla sgommata della sua Porche. Tutte le volte che avevo toccato per vari motivi il fondo, vi avevo sempre trovato lui. I suoi consigli erano sempre stati ovviamente troppo fantasiosi perché potessi seguirli, eppure il modo che aveva di suggerirmeli mi dava una forza inaspettata. Negli anni aveva imparato a essere meno superficiale 15


nei rapporti umani. In realtà, non era stato proprio merito suo. Il matrimonio con Valentina lo aveva cambiato, almeno nei primi tempi, anche se non era riuscito a fargli smettere del tutto i suoi panni di seduttore irriducibile. Era bello Marco, e questo era uno dei suoi problemi fondamentali. La bellezza è un po’ come il denaro. Se lo si possiede in abbondanza, non ci si preoccupa di non sperperarlo. Per la verità, non tutto mi era chiaro. Come poteva un sogno divenire così simile alla realtà? Come poteva non essersi accorto di nulla? Quella mattina, dopo che la sua Porsche fu ripartita, me ne tornai a casa a piedi. Volevo che, per una volta, la mia vita scorresse lentamente, come forse non aveva mai fatto. I rumori cominciarono ad attutirsi e tutte le persone che mi venivano incontro provocavano un fruscio nella mia mente che, a suo modo, era rilassante. Pensai, pensai, ma non ricordo bene a cosa. Probabilmente all’amore, o forse all’amicizia, ma cosa importa? C’era un gran sole, e tutti i miei pensieri si sciolsero.

6. Quindici ore dopo, di vent’anni prima, arrivai con Marco alla Gare Montparnasse, nella Parigi vista sui giornali e sfogliata qualche volta in televisione. Respi16


ravamo un’altra aria, e già ci piaceva. Si trattava di una miscela a base di Francia e libertà che trovammo incredibilmente pura. La nostra conoscenza della città si limitava ad alcune immagini da cartolina, eppure ci sentivamo perfettamente a nostro agio. Ci sorprendevamo a sorridere senza motivo, e questo ci rendeva piacevolmente uniti. Io vedevo quel viaggio come l’inizio di una nuova vita, Marco come una delle tante diramazioni della vecchia. Eravamo incoscienti, questo si era palesato già da quando l’idea ci era venuta in mente, ma in quegli anni sembrava sempre tutto così semplicemente possibile. Ci sistemammo da Gasparre, l’albergo consigliatoci da “Il topo viaggiatore”, un’agenzia di viaggi con poche pretese come, secondo me, sottolineava anche il nome. Avevo provato a far capire a Marco che il topo è un animale notoriamente sedentario, ma gli occhi dolci della agente di viaggio avevano avuto argomenti migliori dei miei. Appena mi sdraiai sul letto della stanza, iniziarono ad arrampicarsi alla spalliera i primi scrupoli. Decisi, così, di avvertire mio padre. Gli spiegai a grandi linee il motivo del mio gesto, ma parlai per gran parte del tempo con il “tu-tu” della linea caduta. Per mio padre il ’68 era solo un numero al lotto che, una volta estratto, aveva fatto vincere un terno alla mia generazione. Lui però non la considerava una fortuna, 17


pensava infatti che col tempo avremmo dilapidato tutta la vincita, e questo mio colpo di testa non faceva che sostenere la sua tesi. Gasparre era un posto tutto sommato interessante, tranne che per le scale, un’enorme spirale di cinque piani. Noi ovviamente alloggiavamo all’ultimo, ma tanto si trattava di un posto di passaggio in attesa di una sistemazione abbordabile. Quando però, due settimane dopo, eravamo ancora lì, quella sequenza aritmica di scalini iniziò a pesarci non poco. Passavo le serate in camera a ripassare le contorte regole della lingua francese su un libro di grammatica introdotto in valigia il giorno prima di partire. Stava diventando il mio passatempo preferito, anche perché non ce n’erano altri. Dovevamo risparmiare soldi a tutti i costi, ne andava della nostra sopravvivenza. Così io mi dedicavo alla teoria, mentre Marco, per le strade, curava la pratica. Marco aveva una personalissima tecnica per abbordare le donne. Raccattava volantini di ogni tipo e iniziava a distribuirli. Quando incontrava qualcuna che gli interessava, glielo porgeva dicendo: - Prendi! È un’offerta interessante ma, fossi in te, non ci cascherei. Ovviamente la ragazza restava spiazzata, e lui le spiegava teorie economiche strampalate o intrighi interna18


zionali che terminavano sempre in Vietnam. Così, tra un supertasso inflattivo e un paesino impronunciabile ai confini con la Cambogia, si finiva sempre in un caffè scambiandosi i numeri di telefono. Questo sistema, in Francia, non aveva dato buoni frutti, un po’ per il carattere scostante dei parigini e un po’ perché il francese di Marco era ancora in una fase completamente sperimentale. Non a caso l’unica con cui era riuscito a parlare per più di due minuti era una ragazza italiana che studiava a Parigi da un anno. Lui le aveva dato il volantino e aveva pronunciato la solita frase tradotta alla meglio in francese. Lei lo aveva guardato ed era scoppiata a ridere. Parlando direttamente in italiano gli aveva risposto: - Sai cosa hai detto? - Ti mettevo in guardia contro l’uso poco etico della comunicazione pubblicitaria. E lei, ridendo: - “Tu prendi! È un’offerta interessante, ma ero te, e non cadrò”. Non ho mai capito se Marco si reputasse un ragazzo fortunato o se si era soltanto abituato allo scorrergli addosso degli eventi come chi, mentre fa una doccia, non bada a quanti litri d’acqua scivolino sul suo corpo prima di finire nello scarico. Comunque, dopo che le ebbe raccontato della nostra per certi versi tragica avventura, lei 19


si offrì di subaffittargli una camera dell’appartamento in cui viveva. - Mi raccomando – mi disse la sera nel letto - domani non diamo l’impressione degli italiani provinciali. Datti un tono e non rovinare la mia fatica di oggi. - Non ti preoccupare – risposi – metto il maglione blu e mi faccio la barba. Marco si infilò nel letto, si tirò la coperta fin sopra la testa e rise contento finché non si addormentò.

7. Rifeci a ritroso tutta la strada che avevo fatto sulla Porsche insieme a Marco. Ci misi dieci, forse venti, volte il tempo che ci avevamo messo in auto. La stessa disparità che permette a un uomo di giungere velocemente al futuro e di impiegare, invece, un tempo spropositato per ricostruire il passato. Giunto da Valentina, le raccontai della lite con Marco. Ricordo ancora la sua reazione. Non disse nulla, rimase a fissarmi per un po’, poi si alzò di scatto dal divano e si diresse in camera da letto, dove la seguii. Mentre Valentina stipava alla meglio le sue cose in un bagaglio troppo piccolo, si voltò verso di me. - Mi sembra ci sia un limite, no? – mi disse fermandosi. 20


Non potei fare altro che annuire. Per la prima volta aveva deciso di lasciare Marco, il tradimento della sua intelligenza lo considerò molto più grave di quello della sua fiducia.

8. Sotto la terra parigina pulsavano le vene. Un moto continuo di andata e ritorno assicurava la circolazione per tutto il suo corpo. Nulla poteva fermare il flusso e noi, come tutti, eravamo trasportati in attesa di schizzare fuori, e lo facemmo non appena arrivò la fermata di Saint Paul. Passeggiammo per un breve tratto di Rue Saint Antoine per poi svoltare in un piccolo vicolo sulla sinistra che ci accompagnò garbatamente all’ingresso di Place des Vosges. Il luogo mi incuriosì per quella sua dimensione in un certo qual modo intima, così tirai fuori dalla borsa la guida per saperne qualcosa di più. Mi fermai a leggerla al centro dei giardini della piazza. - Porca miseria! – esclamai a un tratto – Ma qui c’è la casa di Victor Hugo. - Chi? - Victor Hugo, lo scrittore! “I miserabili” è stato il terzo libro che ho letto nella mia vita. Ci ho messo tre anni, e mi ci sono affezionato tantissimo. Dobbiamo andare a visitarla. 21


Marco non mostrò di voler prendere in considerazione questa ipotesi, e io non volevo giocare una partita persa, così continuammo a camminare. Usciti dalla piazza, incrociammo Rue Des Minimes, quella che cercavamo, ed aspettammo lì la ragazza. Dopo dieci minuti vedemmo correre verso di noi una massa scarmigliata di capelli. Era lei. - Scusate il ritardo - disse Aprì il portone, entrammo, e iniziammo a salire le scale. Al secondo piano una porta ci lasciò entrare guardandoci con diffidenza. L’ingresso era ampio ma inutilmente, visto che il resto della casa non lo era per niente. Marco era contentissimo, continuava a guardare con stupore i tre ambienti di cui si componeva. Era già entrato quattro volte nella nostra futura stanza e tre nel bagno. Io ero stato più sbrigativo e avevo già messo in tasca la mia prima impressione. - Allora? Vi piace? – esclamò la ragazza. - Sì, è stupenda! Ha un certo non so che di… – rispose Marco interrompendo bruscamente il suo giro turistico. - Effettivamente – proseguii io – è molto… - Mi ricorda la casa di un amico, si chiama Gabriele Dannunzio, senza l’apostrofo, ma lui gioca molto sulla quasi omonimia. E poi, non lo so, quest’aria così letteraria… ma so che qui vicino c’è la casa di Victor Hugo? - Sì, è a Place des Vosges, ma spero tu non abbia qualche altro amico suo omonimo, magari senza l’acca. 22


Marco rise ma, in realtà, non era riuscito ad ingoiare la battuta sarcastica; io me ne accorsi e la considerai una punizione per essersi appropriato della mia informazione. Ci trattenemmo lì per circa un’ora. Si parlò dell’affitto, dei consumi di acqua e corrente elettrica e di alcune regole della casa. Marco aveva un aneddoto per ogni frase che sentiva, io invece riuscii a dire soltanto tre “ma”, due “comunque”, l’inizio di “una volta” e alla fine un “infatti” per cercare di essere simpatico. Quando stavamo per uscire, Marco si ricordò inaspettatamente della mia presenza. - Scusate, non vi ho presentati. Io tesi la mano e pronunciai il mio nome. La ragazza me la strinse forte e disse: - Piacere, Valentina.

9. Più di vent’anni dopo, Valentina si era trasferita provvisoriamente dalla sua amica Teresa, un tipo che varie volte aveva tentato di sistemare con me. Non era brutta, ma io mi servivo di un parametro di giudizio che non avevo ancora imparato a capire. Teresa non abitava molto lontano da casa mia. Potevo raggiungerla in poche fermate di autobus, qualora fossi 23


stato pigro, o con un numero imprecisato di passi, in una giornata di sole. In effetti, camminare mi era sempre piaciuto e quel pomeriggio decisi di andare a piedi. A un tratto, sentii qualcosa di leggero arrivarmi dietro la testa. Mi girai di scatto e vidi un aeroplanino di carta cadere ai miei piedi. Lo raccolsi e cercai di capire da chi fosse stato lanciato. Nessuno, però, rivendicò l’attentato e io rimasi con l’aereo in mano a osservarlo nei particolari. Era ben fatto, con le punte delle ali all’insù per assecondare l’aerodinamica. Non me la sentii di separarmene e così decisi di portarlo con me. Suonai il campanello di Teresa e lei venne ad aprire. Istintivamente lanciai l’aeroplanino in casa e lei si scansò impaurita. - Che schifo, che cos’è? – disse emettendo dei fastidiosissimi urletti femminili. - Che cos’è?! Che può essere? È un aereo di carta, non si vede? - Pensavo fosse un animale volante. - Sì, d’accordo… Valentina? - È andata al supermercato, da quando è qui vuole comprare sempre tutto lei. Entra, dovrebbe ritornare tra poco. Raccolsi il mio “animale volante” e ci dirigemmo in cucina dove stava sbrigando alcune faccende. Mi sedetti al tavolo, sistemando alla meglio l’aereo tra le mele finte di un portafrutta. 24


Non avevo molta voglia di parlare con Teresa ma, mentre era intenta a spazzare il pavimento, notai che aveva delle pantofole orribili e non potei fare a meno di farglielo ironicamente notare. - Le tue pantofole farebbero morire d’invidia qualsiasi zoo. - Sono stupende, vero? È un affarone che ho fatto al mercato la settimana scorsa. Non ho mai capito perché Valentina avesse deciso di iniziare a frequentare Teresa. Forse fu proprio la prospettiva di una mia relazione con lei che le fece diventare amiche, e questo paradossalmente era il motivo per cui ero seduto a osservare un paio di pantofole blu, con una testa d’uccello sulla punta e una coda di pavone aperta sul tallone. Fortunatamente Valentina non tardò ad arrivare, non aspettai più di mezz’ora. Dopo che Teresa le ebbe aperto la porta, la vidi spuntare sulla soglia della cucina, carica di buste che si trascinava alla meglio. - Sono passata anche da Enzo, il fruttivendolo per dirgli… - iniziò a dire, poi mi vide. Non so rispondendo a quale istinto, posò rapidamente le borse a terra e corse ad abbracciarmi. Io, come al solito, reagivo con un certo imbarazzo alle effusioni troppo esplicite. Rimasi immobile, finché lei si staccò e disse: - Sono contenta di vederti. - Anch’io – mormorai tra i denti. 25


Poi iniziò a sistemare gli ultimi acquisti nei mobili della cucina. Io non sapevo bene che dirle e decisi di optare per un neutrale “come va?” - Benissimo, guarda. Hai presente quando ti diverti a sistemare dei libri uno sull’altro fino a far diventare la pila sempre più alta? Ecco, non puoi rimanerci male quando, a un tratto, crollerà. Diciamo che il ridicolo epilogo del mio matrimonio è stato l’ultimo libro che volevo sistemare sulla pila. Puff… è caduto tutto, e non ne parliamo più. - Faccio bene io che non leggo mai allora? – intervenne Teresa con questa battuta dal triste fondo di verità. - Tu invece, l’hai rivisto? – continuò Valentina. - No, non credo ce ne sia più motivo. Senza chiedermelo neanche, iniziò a disporre l’attrezzatura per prepararmi uno dei suoi soliti originalissimi tè. Lo bevvi con gusto e, mentre ero intento a fissarla, lei, guardando nella tazza, mi chiese: - Mi accompagneresti a casa a prendere alcune delle cose che ho lasciato lì? Annuii senza risponderle, ma posai la tazza del tè e feci decollare il mio aeroplanino dal portafrutta. Lo feci volare fino a farlo atterrare davanti alla sua tazza di tè. - Forza – dissi – sali! Non abbiamo un minuto da perdere. E, riportato l’aereo in quota, iniziai a farlo planare accompagnandolo con un verso monotono che colorò delicatamente l’atmosfera. 26



PANTONE

Un colore per ogni volume.Tonalità che suggeriscono percorsi di genere, di storie e atmosfere sempre diverse. Le gradazioni sono sfumature di senso, illusioni di scelta nell’oceano di infinite suggestioni. Prive di immagini di copertina, ai titoli della collana Pantone è affidato il potere evocativo del colore e della parola, fin dove il linguaggio può condurre. Il resto è materia dell’altrove.


PANTONE

717

ALBERTO CORBINO

Poesía de la Reína 7476

SALVIO FORMISANO

L’accordatore di destini 7683

ALBERTO CORBINO

Questo è un bel libro in uscita 194

SERGIO CALIFANO

Spartito doppio


finito di stampare per conto di Iemme edizioni nel mese di ottobre 2016 presso GFC Stampa Srl - Volla (Na)


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