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Tina Modotti: il coraggio della fotografia
Tina Modotti, fotografa. Rivoluzionaria e antifascista. Musa, attrice, amante. Donna. Ognuna di queste parole contribuisce a definire, in una tensione continua tra vita e creazione artistica, luci e ombre, una delle figure più enigmatiche e significative della fotografia del secolo scorso. Dal suo rapporto con Edward Weston, che si traduce in una lunga avventura artistica, alla documentazione sociale e politica, che la avvicina alla nueva expresiòn di José Clemente Orozco e Diego Rivera in Messico, Tina Modotti confonde la propria singolarità nell’azione. Contemporanea di Dorothea Lange, Lee Miller e Margaret BourkeWhite, come loro fa molto presto della fotografia uno strumento di documentazione sociale, a sostegno di un attivismo politico che la vedrà impegnata fino alla fine, portandola ad abbandonare il medium, non più sufficiente a soddisfare la sua volontà di partecipazione attiva. Ed è questa militanza civica, il coraggio di entrare nella contemporaneità e nelle sue molteplici contraddizioni, di documentarle e analizzarle con sensibilità e intelligenza, a farne un punto di riferimento indiscusso, non solo nella storia della fotografia. Di fronte al proliferare incessante di immagini e al flusso continuo di notizie date in pasto all’opinione pubblica in tempo reale, viene spontaneo riflettere sul ruolo della fotografia oggi, a partire dalla definizione che la stessa Tina Modotti ne ha dato: “il medium più soddisfacente per registrare con obiettività la vita in tutti i suoi aspetti”. È ancora vero, nell’era dei social network e delle nuove tecnologie, del citizen journalism, dei populismi e della democrazia diretta, che la fotografia ha valore di documento? Può ancora scuotere le coscienze e risvegliare l’interesse e il coinvolgimento dei cittadini rispetto al loro presente? Evidentemente sì, seppure con molti distinguo. Non è il valore della fotografia quale strumento di documentazione del reale a essere venuto meno, ma è mutata la sua collocazione nel tempo e nello spazio. Sono cambiati il contesto e il pubblico di riferimento, i tempi di produzione e di fruizione. La democratizzazione del medium ne ha fatto uno strumento di comunicazione di massa, alla portata di tutti, ma in molti casi privo di un approccio critico, se non strumentalizzato a fini propagandistici. Questo repentino mutamento ha determinato uno scenario nuovo in cui la fotografia e più in generale l’immagine, considerate a torto linguaggi immediati e universali, specchi della realtà anche quando ne sono deliberata e silenziosa distorsione, si sono banalizzate e impoverite. Se è vero che la Storia è negli occhi di chi la legge, lo è innanzitutto in quelli di chi la scrive. L’insidia per la fotografia documentaria non viene più, dunque, dalla contaminazione con altre forme di espressione artistica, ma dalla perdita di un ideale. La tensione di Tina Modotti verso il soggetto, la sua brama di ricerca e la profonda consapevolezza del ruolo che ognuno di noi può svolgere nel contesto storico e sociale in cui si trova, ne hanno determinato la straordinaria produzione fotografica, facendone un modello ancora attuale e un monito per le prossime generazioni di fotografi e di cittadini a non spegnere il fuoco della passione.
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