Speaker Band. Un nuovo modo per comunicare la tua musica

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Un nuovo modo per comunicare la tua musica



RICERCA


INDICE

MUSICA E PIRATERIA

INTRO

Casi - Condanna a PirateBay e post PirateBay - Condanna a Limewire - Condanna a Mininova Pirateria, P2P & Sharing - P2P - Dove è legale il P2P: la Spagna - I danni della pirateria - Le case discografiche sono i veri pirati?

- Perché questa ricerca? - Intento - Grazie a Wired

PER COMPORRE LA PROPRIA MUSICA - Gobbler - Soundcloud - Thounds - Sounday - Open - source audio software - Sintetizzatori virtuali - Registratori portatili

PER ASCOLTARE LA MUSICA

COPYRIGHT vs CREATIVE COMMON

- Rdio - Stickybits - Stereomood - Mp3 Blog - Google Music - Play.me - Spotify - iCloud - Zune - Muziic - Moof - Libox - ViddyJam

- Cos’è Copyright - Cos’è Creative Commons - Napoleoni a un lettore: ”Il copyright va riformato o sarà infranto”

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SITUAZIONE IN ITALIA - La SIAE - La SIAE e Creative Commons - L’Agcom e la pirateria - Musica italiana, siamo ancora ai compact disc - Musica italiana: il caso Ebay e Ex-Otago

SPUNTI - Il caso Nine Inch Nails: la guida di Trent Reznor - Il caso Radiohead

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INTRO


Perché questa ricerca?

Questa ricerca nasce da una grande passione per la musica, mescolata ad un po’ di sano spirito geek, di grande curiosità e interesse verso due argomenti: quello della pirateria e dei creative commons. È questo proprio il caso di dire: Sveglia Musica! Per anni si è sentito parlare di come la pirateria, lo sharing, il P2P abbiano danneggiato musicisti, etichette discografiche e mercato della musica. Tuttavia ciò che manca è una riflessione su questo tema che porti ad una soluzione o almeno ad una alternativa, non ad un diversivo, non ad una semplice repressione. Quando si parla di pirati, si parla di azioni offensive, di guerra nei loro confronti. Si pensi solo al caso di PirateBay. Si guarda sempre tenendo fisso il punto di vista del guadagno e del profitto. Ma è questa la musica oggi? Da designer della comunicazione ogni giorno tento di comunicare, attraverso le immagini, la fotografia, la tipografia, pensieri, emozioni, sensazioni. Lo faccio con la certezza che niente come la musica raggiunga questo scopo nel modo più semplice, diretto e profondo. Perché impedire la sua diffusione? Perché concepire la pirateria attraverso la sola accezione negativa? Perché non pensarla come pura condivisione, collaborazione tra le persone che hanno creato un’alternativa per poter accedere a qualcosa che appartiene sì al musicista, ma anche a tutte quelle persone che sono accomunati da quella stessa musica. Da questa visione forse troppo da sognatrice inizia la mia riflessione.


Intento

Questo progetto si divide in due parti essenziali: la prima è di ricerca, la seconda presenta invece la proposta progettuale. Perché è così importante la ricerca? Perché tutto o quasi è già stato fatto o per lo meno pensato. Per proporre qualcosa di innovativo e utile bisogna conoscere il panorama attuale, cosa esiste e cosa no e cosa può essere ripreso. Quali sono le leggi che regolano il campo della musica, in modo particolare qui in Italia. Analizzare quali sono le opinioni diffuse sul tema della pirateria. Una volta capito ciò si può cercare di progettare un’alternativa. Un’alternativa per tutti i nuovi gruppi, che spesso fanno fatica ad affermarsi, ad avere contratti discografici. Che temono che senza questi non potranno mai far sentire ciò che compongono. Ma è davvero così? Oggi nel 2011, con tutte le possibilità che la tecnologia offre, non si dovrebbe avere queste paure. Infatti ciò che lo sviluppo tecnologico e digitale hanno portato all’interno di questo universo è la democrazia: tutti possono fare musica a qualsiasi livello. Oggi esistono software, siti per comporre e registrare la musica. Altri che permettono di inciderla e di promuoverla. Parte del progetto riguarderà proprio questo: fornire idee, fornire le alternative a chi è si affaccia per la prima volta a questo mondo. Ma sarà aperto anche a chi, dopo anni che fa musica, potrà essere incuriosito da questa nuova idea. Un sistema che ha come scopo quello di aiutare i musicisti a capire come muoversi da soli. A capire che hanno la possibilità di scegliere, che non sempre le major discografiche, il copyright sono la risposta. Perché la musica, come le informazioni, appartiene a tutti: lasciamola così libera di viaggiare, di incontrare persone.

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Grazie a Wired

Un grazie doveroso va alle pagine e al sito di Wired, che hanno alimentato la mia curiosità, fornendomi informazioni, punti di vista, materiali interessanti. Ringrazio lo spirito stesso che anima questa rivista, che permette di essere copiati, anzi incita ciò dicendo “Copiaci, non è reato”.


PER COMPORRE LA PROPRIA MUSICA



Siti

• Gobbler È un servizio che permette di lavorare in remoto su progetti sonori complessi. È un sistema di back up, di condivisione della musica, per collaborare più facilmente a distanza. Un modo per salvaguardare le proprie registrazioni e farle sentire ogni qual volta di cui si ha bisogno. • Soundcloud È un sistema nato professionale, utilizzato ormai da molte persone, professionisti e non. Non adatto per il mastering on line, può essere anch’esso usato per la condivisione della propria musica, per creare playlist personalizzate, che sono pensate a seconda dell’utente con cui le si vuole condividere. • Thounds Hai bisogno di ispirazione?Hai un’idea, una melodia, ma non sai come finirla? Vai su questo sito, che permette di registrare tracce, caricarle e condividerle con altre persone che ti aiuteranno. Vera e propria musica collaborativa. • Sounday È una vera e propria etichetta on-line: anzi è un’etichetta discografica digitale. Attraverso questa nuove band e non possono incidere, distribuire e promuovere la propria musica. Della serie: non sempre si ha bisogno di una major discografica. Tutti gli strumenti di cui si necessita sono on-line: mastering, mixing, stampa dei cd e distribuzione dei brani nei vari negozi digitali.

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Software Open–source

• Open - source audio software Un software open - source significa un software i cui autori (più precisamente i detentori dei diritti) ne permettono, anzi ne favoriscono il libero studio e l’apporto di modifiche da parte di altri programmatori indipendenti. Questo è realizzato mediante l’applicazione di apposite licenze d’uso. I software open - source ad oggi più diffusi sono Firefox, OpenOffice, VLC. E si penserà: cosa centra la musica? Ebbene sì, esistono programmi che permettono di comporre, registrare la musica e che sono anche open - source. Citando il buon Wired [...] Audacity, un open-source gratuito che funge da audio editor, è stato per anni un fulgido esempio di software open-source così stabile che l’ho usato cinque anni fa come base per un libro di lezioni introduttive per creare musica digitale; da allora il programma non ha fatto che migliorare. Ora subisce la concorrenza di un altro open-source audio editor chiamato Koblo Studio, che funziona con un nuovo codice (cioè non Audacity), stando ad uno dei suoi creatori, e offre delle funzionalità avanzate in più. Il programma è gratuito, ma gli utenti possono scegliere di acquistare dei sintetizzatori virtuali, o altri effetti e funzionalità. Non troppo tempo fa, le applicazioni per creare audio digitale per principianti costavano centinaia di dollari, e molte hanno ancora prezzi a due zeri. Grazie ai programmatori open-source, adesso chiunque può registrare, modificare e produrre musica gratuitamente. [...] Lunga vita ai programmatori insomma! Per leggere l’articolo completo andare qui: http://daily. wired.it/news/tech/la-nostra-top-5-delle-tecnologie-piurivoluzionarie-per-fare-musica.html?page=1

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Device

• Sintetizzatori virtuali Il sintetizzatore (abbreviato anche synth dal termine in inglese) è uno strumento musicale che appartiene alla famiglia degli elettrofoni. È un apparato in grado di generare autonomamente segnali audio, sotto il controllo di un musicista o di un sequencer. Si tratta di strumenti che possono generare imitazioni di strumenti musicali reali o creare suoni non esistenti in natura. Si possono avere anche sintetizzatori software, che assolvono a questo compito interamente a livello software (quindi, generando audio a partire da una sequenza di suoni predeterminata). Esistono quindi sintetizzatori virtuali, meno costosi di quelli reali e spesso offrono funzionalità più avanzate. Per conoscere alcuni esempi basti andare qui: http://it.wikizic.org/ Sintetizzatori-Virtuali/ • Registratori portatili Per questa sezione mi affido completamente a Wired. [...] Ammetterlo è imbarazzante, ma credo di essermi innamorato del mio Roland-Edirol R-09HR High Resolution WAVE/MP3 Recorder. È perfetto per le interviste, grazie ad un piedistallo opzionale che consente di registrare senza rumori di sottofondo, un telecomando wireless per modificare le impostazioni senza aggiungere rumorosi click durante la registrazione e un’opzione per la riproduzione a rallentatore delle interviste da trascrivere. Ma non solo, mi ha anche permesso di registrare la musica dal vivo senza distorsioni. Per poter risparmiare, in passato ho dovuto tollerare un certo livello di distorsione digitale nelle registrazioni live. Ma il dispositivo R-09HR ha due nuove basi che possono essere aggiustate su 80 livelli di registrazione diversi ciascuna, in modo che nessun suono sembri troppo basso o troppo forte per il mio R-09HR. I microfoni con condensatore stereo di alta qualità sono sufficienti per i miei scopi, ma si può inserire anche un altro microfono o altri cavi di connessione. Altri portatili di fascia alta sono in grado di registrare audio ad alto

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Device

volume senza distorsioni, ma questo (tra altri modelli più recenti) salva le registrazioni come file WAV o MP3 su una scheda SD che il mio computer legge come un semplice disco rigido. Alcuni registratori digitali portatili, incluso il R-09HR, sono in grado di registrare audio a 24 bit, che permette il loro utilizzo in progetti che necessitano una qualità audio migliore di quella dei CD. I registratori portatili di fascia alta sono rivoluzionari in due modi: danno la possibilità di registrare audio estremamente pulito senza un computer e offrono a chi va ai concerti un modo per sincronizzare foto e video a un audio di qualità superiore registrato durante una performance live.[...] Per leggere l’articolo completo andare qui: http://daily. wired.it/news/tech/la-nostra-top-5-delle-tecnologie-piurivoluzionarie-per-fare-musica.html?page=1

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PER ASCOLTARE LA MUSICA



Siti

Questa sezione è stata inserita con l’intento di mostrare come tutte le ”alternative” oggi fornite al P2P, siano tutte per lo più a pagamento. Tra un servizio totalmente gratuito e uno a pagamento, quale verrà mai preferito? Vediamo comunque le caratteristiche di questi siti/servizi. • Rdio Nasce dall’addizione tra Twitter e la musica: permette di condividere i propri ascolti con gli amici in tempo reale. Gratuito per i primi 3 giorni di ascolto, per un periodo maggiore sono richiesti 5 dollari o 10 dollari nel caso si utilizzino dispositivi mobile. Ah dimenticavo, al momento si può usare solo in America e in Canada. • Stickybits È un progetto molto interessante: permette di associare informazioni su di un barcode: in questo modo ci si può scambiare video, canzoni, informazioni. Tuttavia i codici di condivisione sono univoci, legati al sito, ed anche in questo caso, a pagamento (circa 10 euro per una ventina di codici) • Stereomood In questo si ascolta la musica in base al proprio stato d’animo: si va sul sito, si clicca l’emozione del momento e si ascolta la playlist offerta. I brani sono inizialmente taggati dalla redazione, ma poi è l’utente ad attribuirgliene altri tra quelli proposti o inventandone di nuovi. I suoi fondatori sono favorevoli alla libera circolazione e condivisione della musica e ciò trova largo consenso negli utenti che suonano, distribuiscono o producono musica. Anzi vengono contattati da musicisti, label per includere la loro musica in questo sistema. • Mp3 Blog Questi oggi sono considerati i nuovi negozi di musica: consigliano, forniscono musica. Alcuni forniscono

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Siti

materialmente il download, nel caso ciò fosse permesso. Dei luoghi interessanti per promuovere la propria musica insomma. • Google Music Google music è un servizio digitale che permetterà di scaricare la propria musica, organizzarla online e poterla quindi ascoltare dovunque. Ora è ancora in fase beta, ad invito e funzionante solo in America. L’iscrizione non è gratis, anzi: la tassa di iscrizione è di circa 25$ all’anno. Gli utenti comprano quindi online, ma allo stesso tempo un’applicazione carica anche la musica presente sul proprio computer. Musica scaricata legalmente si mescolerebbe così a quella scaricata mediante file sharing o P2P. Un aspetto che non convincerà le major. • Play.me Progetto italiano, di DADA, che fornisce streaming di musica e altri contenuti, in modo del tutto legale. Si accede al servizio web pagando 5€ al mese, e 10€ al mese se lo si usa attraverso uno smartphone. Alla domanda: perché avete smesso di fornire uno streaming gratuito la risposta è stata: “Era impossibile lo streaming gratuito non esiste nemmeno in America”. Certamente. Se non esiste in America non può esistere in nessuna parte del mondo allora. • Spotify La buona Wikipedia dice che. È un software di musica digitale in streaming peer-to-peer creato in Svezia nel 2006 e lanciato in alcuni paesi europei nell’autunno del 2008. Il programma multipiattaforma consente di ascoltare gratuitamente in streaming canzoni di propria scelta, intervallate da interruzioni pubblicitarie, oppure senza

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Siti

pubblicità nella sua versione a pagamento, disponibile con abbonamento mensile o annuale. Attualmente il servizio è disponibile in Svezia, Norvegia, Finlandia, Regno Unito, Francia, Spagna e Paesi Bassi. (e l’Italia? non ci siamo mai) L’accesso alla versione a pagamento è possibile in tutto il mondo, purché si utilizzi una carta di credito emessa in una delle sette nazioni in cui il servizio è stato lanciato. (Ebbé) In aggiunta alle due formule esistenti sin dalla sua nascita – “Spotify Free”, gratuito su invito (retto da inserzioni pubblicitarie) e “Spotify Premium” (al costo di 9,99 € mensili) – è anche possibile creare un account gratuito limitato (“Spotify Open”) senza necessità di invito, con un limite di 20 ore di riproduzione mensile.

• iCloud Progetto ambizioso della Apple che permette di archiviare i contenuti e di averne subito accesso su tutti i dispositivi di cassa Apple. Permetterebbe inoltre agli utenti iTunes di copiare il proprio archivio di canzoni nei server Apple e avere dunque a disposizione la propria collezione in qualunque luogo del mondo in cui sia possibile connettersi ad internet. I dirigenti avrebbero già iniziato a persuadere le case discografiche, dal momento che un servizio così potente potrebbe incentivare il download (legale?) della musica. • Zune Prima si parla di Apple, ora si parla di Microsoft: Zune è nome della linea di prodotti multimediali di Microsoft, che include un lettore multimediale, un client software e il negozio online Zune Marketplace. Ha aumentato la sua offerta musicale e di video, introducendo il software gratuito Zune, lo store online Zune Marketplace, il servizio in abbonamento Zune Pass ed esclusivi contenuti su Zune.net per i clienti italiani ed internazionali (Stati Uniti, Gran

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Siti

Bretagna, Francia, Italia e Spagna), proprio per contrastare iTunes. Il modello di distribuzione dei file, a differenza di iTunes, adotta modelli di tipo flat, infatti, Zune Pass, è il servizio con iscrizione mensile per scaricare musica a 9.99 euro, consentendo download illimitati e accesso allo streaming sul canale musicale Zune e attraverso PC Windows, Windows Phone 7 e Xbox LIVE. Sincronizzando il tutto ovviamente tramite il solito account Windows Live ID. Microsoft si lancia nella battaglia! • Muziic Creato da un ragazzino di 17 anni, mette insieme la musica di Youtube e Vevo. È un aggregatore di streaming: un sito ed una serie di applicazioni che permettono di ricercare e suonare canzoni e video musicali, sfruttando quanto è già in rete su altri portali come YouTube e Vevo. Cosa manca? Un accordo con le case discografiche, anche se sul sito si legge che è un servizio 100% legale. L’industria musicale, forse, non tarderà e finirà per tacciare anche questa idea. • Moof Social music reinvented! Permette di riprodurre la propria libreria di iTunes sul Web. Caricando il file XML con i dati del vostro computer, Moof trova nel suo database canzoni e dischi, riproducendo le playlist, generando un player via web simile a quello sul vostro computer. La parte “social” riguarda la possibilità di creare amicizie con cui condividere le playlist. • Libox Si va sul sito, ci si iscrive, si scarica un client che riconosce i contenuti del nostro computer. Lasciando quest’ultimo acceso e on line, i contenuti diventano accessibili ovunque, come se fossero in una nuvola: via cellulare, iPad o via Web. E anche qua c’è del “social”: si possono condividere singoli gruppi contenuti con gli amici.

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Siti

• ViddyJam Un video (o una canzone) tira l’altro. Questo è il concetto su cui si basa questa web app: permette di creare sui video un flusso partendo da un artista e/o da una canzone, o addirittura da una playlist di iTunes, che si può upload are sotto forma di file M3U.

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MUSICA E PIRATERIA



Definizione di pirateria

In questa sezione parlerò di cos’è la pirateria, di come viene vista, e di come potrebbe essere concepita. Lascerò spesso la parola agli esperti per meglio far comprendere di cosa si sta parlando. Da Wikipedia PIRATERIA (o pirateria informatica): indica illeciti di varia natura perpetrati tramite l’utilizzo improprio di applicazioni, software e/o reti informatiche. Nella pratica della pirateria informatica sono state individuate cinque tipologie principali di abuso: • Pirateria degli utenti finali o pirateria domestica La pirateria domestica è una controversa figura che concerne la duplicazione di programmi, musica, video in ambito domestico tramite masterizzazione e divulgazione del materiale ad una cerchia ristretta di persone, per lo più di ambito familiare o assimilabile. Legislazioni di alcuni paesi, più spesso in occasione di sentenze, hanno però stabilito la liceità della copia personale ed in alcuni casi l’illiceità di clausole della licenza d’uso eventualmente in contrasto con tale pratica. A questa condotta è stata talvolta assimilata anche quella di effettuare aggiornamenti del software senza disporre di licenza e della copia legale da aggiornare, sebbene la considerazione giuridica per queste fattispecie sia in genere notevolmente differente, consistendo a fini legali nell’indebita acquisizione di applicativi. .. •Underlicensing o violazione delle condizioni di licenza La violazione di condizione di licenza si verifica nelle grandi aziende o in organizzazioni che richiedono l’utilizzo di più computer e consiste nell’installare software utilizzando un numero maggiore di copie rispetto a quante consentite nella licenza.

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Definizione di pirateria

Talvolta si riscontra questo fenomeno nel caso di una crescita rapida del numero di computer all’interno di un’organizzazione, specie per sistemi operativi o per programmi destinati a particolari categorie (scuole, aziende, ecc). • Pirateria perpetrata su Internet Attraverso la Rete è possibile vendere o mettere a disposizione gratuitamente programmi non originali. Questo illecito si compone da una parte dell’illecito di chi rende indebitamente disponibile materiale coperto da diritti, e dall’altra dall’illecito dell’utente che ne effettua il download senza averne titolo (è discussa la figura dell’utente che si avvalga di un servizio non lecitamente allestito per l’ottenimento di materiali che ha titolo a procurarsi). Nella pratica può assumere diverse forme: siti web che rendono possibile lo scambio libero e gratuito di software attraverso download e upload, reti peer to peer che consentono di scaricare programmi in violazione del copyright, aste on-line che offrono software a basso prezzo. • Hard disk Loading Si ha un tipo particolare di pirateria quando aziende addette alla vendita di computer offrono apparecchi nei quali sono installati software piratati per allettare gli acquirenti. Così facendo non solo incoraggiano alla pirateria, ed espongono se stessi ed i compratori a rischi legali, ma creando, a loro favore, una concorrenza sleale danneggiano i venditori onesti. • Contraffazione del software La contraffazione del software consiste nella produzione e nella vendita di copie illecite dei prodotti, a volte imitandone confezionamento e packaging degli originali (confezioni, manuali, contratti di licenze, etc).

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Definizione di pirateria

Quella che viene fatta solitamente nelle nostre case è pirateria domestica e quella perpetrata in Internet. È su questa che si focalizza il mio interesse. Scambiarsi oggi mp3 è tanto diverso dal copiare una cassetta per l’amico, come avveniva in passato? A voi la risposta Da qui in poi propongo una carrellata di articoli che parlano di queste tematiche, in modo da poter prima farsi una propria idea sul concetto.

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Casi

The Pirate Bay: la storia (in)finita

Qualche giorno fa The Pirate Bay ha chiuso… ma solo in parte. Che si tratti di un canto del cigno o, al contrario, del colpo di coda finale capace di ribaltare le sorti della vicenda?

Ti suona familiare il nome “The Pirate Bay”? Ovvio, ma forse ti sei perso qualche puntata di una vicenda che, negli ultimi giorni, si è arricchita di moltissimi eventi. Allora, riassunto delle puntate precedenti con finale a sorpresa: The Pirate Bay, il sito che consentiva di trovare e scaricare file “torrent”, spesso illegali, viene messo al centro di un attacco giudiziario senza precedenti. Si arriva al presunto epilogo il 17 Aprile 2009. Quando i responsabili del sito sono ritenuti colpevoli di violazione del diritto d’autore e condannati, da un tribunale di Stoccolma, a un anno di prigione e il pagamento di una salata ammenda. I quattro della “baia” ricorrono in appello e, complice il presunto legame tra uno dei giudici e Spotify (un servizio di streaming musicale), si decide di procrastinare il nuovo processo all’estate del 2010. Tutto sistemato, in attesa della nuova battaglia legale? Nemmeno per sogno. Come in ogni buon film che si rispetti, a questo punto i colpi di scena si susseguono. Per esempio, il 24 Agosto 2009 la Corte Svedese ordina la disconnessione del sito, ma questo già alla sera è di nuovo attivo. Poi, tale

Global Gaming Factory (GGF), avanza la richiesta di acquisto di The Pirate Bay, per trasformarlo in un servizio a pagamento. Peccato che a metà Settembre la Stockholm District Court cita per bancarotta la compagnia. In tutto questo andirivieni di eventi, i ragazzi di The Pirate Bay sono lasciati sempre più soli, e le (poche) iniziative favorevoli alla liberalizzazione dei contenuti digitali sembrano non potere nulla contro le major dell’industria dell’intrattenimento. Tanto che ai primi di Ottobre, viste le enormi pressioni ricevute in patria (la Svezia), il sito si sposta un Ucraina. Ma solo per pochi giorni, visto che, a causa qualche problema tecnico, deve nuovamente traslocare. Per fare tappa in Olanda, in un bunker anti-atomico.

La chiusura temporanea di The Pirate Bay ha portato a un incremento del 300% dei siti che danno accesso a contenuti protetti dal diritto d’autore. A fine Ottobre, la Stockholm District Court entra di nuovo in azione,

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Casi

richiedendo la chiusura di The Pirate Bay e minacciando una sanzione di circa 71500 dollari ai due dei fondatori del sito. Probabilmente il colpo di grazia alla baia dei Pirati, ma non ai servizi di condivisione dei file: stando a un rapporto di McAfee, la chiusura temporanea di The Pirate Bay ha portato a un incremento del 300% dei siti che danno accesso a contenuti protetti dal diritto d’autore. E così arriviamo al tanto promesso colpo di scena: qualche giorno fa The Pirate Bay chiude… ma solo in parte. In pratica, i gestori ne hanno disattivato il classico sistema di “tracking”, quello che dà accesso ai tanto criticati file torrent. Al contempo, però, hanno abbracciato la tecnologia Distributed Hash Table. La quale, coadiuvata da quella PEX (Peer Exchange) consente di rintracciare in modo ancora più efficiente i file, ma non richiede più di centralizzare tutte le operazioni in un sito. Insomma, The Pirate Bay, allo stato attuale, difficilmente può essere accusato di qualcosa. Che si tratti di un canto del cigno o, al contrario, del colpo di coda finale capace di ribaltare le sorti della vicenda? Non resta che

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attendere le prossime settimane per saperlo, anche se resta il fatto che Peter Sunde e compagni dovranno rispondere di quanto fatto in precedenza. Se poi questo sia giusto o sbagliato sarà la legge (speriamo) a dirlo. 23 Novembre 2009 di Riccardo Meggiato


Casi

Colpo al P2P: in USA condannato LimeWire Dopo anni di accuse LimeWire è stato infine condannato per infrazione della legge americana sul copyright.

Dopo anni di accuse LimeWire è stato infine condannato per infrazione della legge americana sul copyright. Ancor più grave è stato condannato e ritenuto responsabile direttamente il CEO della compagnia Mark Gordon. Ovviamente dall’altra parte della barricata c’è la RIAA, la società che riunisce le maggiori compagnie discografiche USA, che da tempo voleva mettere alla sbarra uno dei più grandi network di scambioP2P. LimeWire, una rete basata sulla tecnologia Torrent e Gnutella, è stata trovata colpevole di aver indotto i propri utenti all’infrazione della legge, notizia dimostrata anche attraverso la perizia del professore di statistica Richard Waterman che ha compiuto un’analisi approfondita sulle abitudini degli utenti del network. Osservando un campione di 1800 file ospitati su LimeWired il 93% erano infatti protetti da copyright e difficilmente autorizzati ad essere scambiati sulla rete P2P. Watermann ha poi analizzato il numero di file che venivano scambiati tra i singoli utenti presi in esame e la loro tipologia. Ne è venuto fuori che il 98.8 %

del materiale era ugualmente coperto da copyright e dunque non autorizzato. LimeWire ha da sempre un disclaimer per tutto i suoi utenti, una classica checkbox che obbliga il navigatore ad affermare: “ Non utilizzerò LimeWire per infrangere la legge”. Guarda caso anche in questo versante il giudice Kimba Wood ha trovato la misura insufficiente per impedire il traffico di materiale non autorizzato all’interno della rete di scambio.

Al tempo in cui ciascuno di noi può agilmente trovare qualunque tipo di file online nel giro di pochi click, anche bypassando l’utilizzo di programmi di P2P come LimeWire, condanne di questo tipo sembrano lievemente anacronistiche Ma i guai non finiscono qui. Il processo ha anche scoperchiato un carteggio digitale tra lo staff di LimeWire e i suoi utenti in cui questi ultimi venivano incoraggiati allo scambio di file protetti

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Casi

da diritto d’autore e, cosa ancor più sorprendente, lo studio di un metodo di filtraggio per impedire la circolazione solo dei materiali acquistato dal Digital Store dello stesso LimeWire lanciato ben 3 anni fa. Ce n’è abbastanza perché la RIAA e il suo rappresentante Mitch Bainwol possano cantare vittoria. “ A differenza di altre reti P2P che hanno negoziato con noi particolari licenze, imposto filtri o deciso di fermare la propria attività illegale LimeWire aveva sempre deciso di ignorare le indicazioni della legge. La decisione della corte è un’importante pietra miliare nella lotta della comunità creativa perché Internet diventi una piattaforma di commercio legale. Trovando il CEO di LimeWire personalmente colpevole, oltre che la propria compagnia, la corte ha lanciato un chiaro segnale a chi continua a fare profitto da pratiche illegali pensando di sfuggire la possibilità di essere condannati”. Al tempo in cui ciascuno di noi può agilmente trovare qualunque tipo di file online nel giro di pochi click, anche bypassando l’utilizzo di programmi di P2P come LimeWire, condanne di questo tipo sembrano lievemente anacronistiche.

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D’altro lato i retroscena che un processo di questo tipo hanno messo in piazza sono la ripetizione di una storia che ben conosciamo spesso negata dai diretti interessati con una certa ipocrisia. La conclusione però è ancora lontana, il 1 giugno il team di LimeWire incontrerà di nuovo il giudice Kimba Wood per discutere la sentenza e preparare le prossime contromosse. Intanto la rete continua a guardare avanti e procede a velocità supersonica non si sa bene dove. 13 Maggio 2010 di Andrea Girolami


Casi

Mininova: Il torrente prosciugato Dopo anni di accuse LimeWire è stato infine condannato per infrazione della legge americana sul copyright.

Tempi duri per gli scaricatori (no, non di porto, ma di torrenti). Mininova, che per quattro anni è stato il sito più visitato da tutti coloro che, ad esempio, volevano “recuperare” dalla Rete la puntata di Lost terminata da pochi minuti in America, chiude i battenti. O, meglio, resta aperta, ma con pochi pesci da pescare nel torrente. Le avvisaglie erano arrivate pochi mesi fa, allorquando il sito era stato oggetto di una sperimentazione volta a valutare l’efficacia di un particolare filtro, un sistema di riconoscimento ed identificazione del software protetto da copyright. Beh, a quanto pare il filtro si è intasato e i proprietari di Mininova hanno accettato di eseguire ciò che gli è stato imposto ad agosto da una sentenza di un tribunale olandese che avrebbe altrimenti imposto il pagamento di una multa molto salata. Il Brein, la lobby che protegge il copyright ed i diritti d’autore ha vinto (per ora, c’è ovviamente un appello in previsione futura) e Mininova dovrà quindi trasformarsi in un contenitore digitale esclusivamente dedicato a materiale legale.

La vicenda Mininova sia affianca a quella che ha visto protagonista Pirate Bay che, proprio mentre sembrava sul punto di abbandonare il palcoscenico, si è ripresentato, con un colpo di scena degno dei migliori finali di Hitchcock, sulla ribalta del web. In pratica il sito più citato degli ultimi anni, dopo che i suoi fondatori sono stati giudicati colpevoli, ha disattivato il sistema di tracking in favore di una nuova tecnologia che, a parità di risultati, fa cadere i presupposti delle accuse che gli erano piovute addosso e per le quali era stato condannato.

Mininova dovrà quindi trasformarsi in un contenitore digitale esclusivamente dedicato a materiale legale. Sullo sfondo resta l’avanzata inesorabile dello streaming come alternativa ai classici sistemi peer to peer, ma non mancano nemmeno le voci di coloro i quali ritengono che, alla faccia delle leggi antipirateria, delle disconnessioni, della chiusura dei siti più famosi, delle

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Casi

campagne di sensibilizzazione contro il fenomeno dello sharing selvaggio, la pirateria potrà cambiare ma non essere eliminata. La stessa storia di Mininova insegna: c’è sempre qualcuno pronto a prendere il tuo posto...e ormai la stragrande maggioranza di quelli che scaricano a più non posso dubitiamo possano cambiare abitudini, nemmeno sotto lo spauracchio di disconnesioni e mega multe. Forse cambierà la fruizione e la frequenza dei download, ma la sensazione è che i numeri siano talmente grandi e le consuetudini talmente radicate che il trend continuerà a lungo. Visto però che ogni giorno che passa la vicenda si arricchisce di nuovi capitoli, non possiamo che darvi appuntamento tutti alla prossima puntata. ( To be continued) 30 Novembre 2009 di Andrea Chirichelli

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Cosa abbiamo imparato da questi casi? Che con la chiusura di un sistema di sharing, la pirateria aumenta, non diminuisce. È appunto un’abitudine troppo radicata: invece che azioni così repressive, sarebbe più giusto trovare un accordo. (O no?)


P2P

Da WIKIPEDIA In informatica e telecomunicazioni con il termine peer-to-peer (o P2P), cioè rete paritaria, si intende una rete di computer o qualsiasi rete informatica che non possiede nodi gerarchizzati sotto forma di client o server fissi (clienti e serventi), ma un numero di nodi equivalenti (in inglese peer) che possono fungere sia da cliente che da servente verso gli altri nodi della rete. Questo modello di rete è dunque l’antitesi dell’architettura client-server. Mediante questa configurazione qualsiasi nodo è in grado di avviare o completare una transazione. I nodi equivalenti possono differire nella configurazione locale, nella velocità di elaborazione, nella ampiezza di banda e nella quantità di dati memorizzati. L’esempio classico di P2P è la rete per la condivisione di file (File sharing). •Controversie legali I tipi di file maggiormente condivisi in questa rete sono gli mp3, o file musicali, e i DivX i file contenenti i film. Questo ha portato molti, soprattutto le compagnie discografiche e i media, ad affermare che queste reti sarebbero potute diventare una minaccia contro i loro interessi e il loro modello industriale. Di conseguenza il peer-to-peer divenne il bersaglio legale delle organizzazioni che riuniscono queste aziende, come la RIAA e la MPAA. Per esempio il servizio di Napster venne chiuso da una causa intentata dalla RIAA. Sia la RIAA che la MPAA spesero ingenti quantità di denaro al fine di convincere i legislatori ad approvare restrizioni legali. La manifestazione più estrema di questi sforzi risale al gennaio 2003, quando venne introdotto, negli U.S.A., un disegno di legge dal senatore della California Berman nel quale si garantivano, al detentore del copyright, i diritti legali per fermare i computer che distribuivano materiale tutelato dai diritti d’autore. Il disegno di legge venne respinto da una commissione governativa Statunitense nel 2002, ma Berman lo ripropose nella sessione del 2003. Risale, invece, al 2004

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la “Legge Urbani” nella quale viene sancita la possibilità di incorrere in sanzioni penali anche per chi fa esclusivamente uso personale di file protetti. Da quel momento in poi le reti ”peer-to-peer” si espansero sempre di più, si adattarono velocemente alla situazione e divennero tecnologicamente più difficili da smantellare, spostando l’obiettivo delle major sugli utenti. Qualcuno ha cominciato ad affermare che queste reti potevano diventare un modo per consentire a malintenzionati di nascondere la propria identità. Altri dicevano che per essere completamente immuni dalle major fosse necessario creare una rete wireless ad hoc in cui ogni unità o computer fosse connessa in modo equivalente (peer-to-peer sense) a quella vicina. È bene precisare che in Italia chiunque effettua il download di un’opera protetta dal diritto d’autore e la mette in condivisione commette un illecito penale (è l’art. 171, lett. a-bis, lda). La norma è chiarissima: è punito chiunque lo fa ”senza averne diritto, a qualsiasi scopo e in qualsiasi forma”. La pena è una multa da 51 a 2.065 euro, ma è possibile evitare il processo penale pagando la metà del massimo previsto (quindi circa mille euro) e le spese del procedimento. I programmi di P2P più diffusi mettono automaticamente in condivisione un file mentre questo viene scaricato, per cui se viene effettuato il download di materiale protetto da diritto d’autore mediante uno di essi si concretizza la fattispecie penale. Inoltre, la violazione del suddetto articolo comporta altresì l’irrogazione di una sanzione amministrativa pari al doppio del prezzo di mercato dell’opera o del supporto oggetto della violazione (art. 174-bis lda), ma detta cifra non può essere mai inferiore a 103 euro.

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Colpo di scena: la Spagna dichiara legale il P2P Intanto un rapporto di Reporters without Borders scopre che Internet è censurata più che mai.

In buona parte delle favole, il cattivo di turno se ne sta isolato dal resto del mondo nella sua torre inaccessibile. E un po’, diciamocelo, fregandosene di ciò che fanno i buoni. Questa, più o meno, era anche la situazione del web fino a qualche tempo fa, dove grazie a strumenti di facile utilizzo (come posta elettronica, social network e blog) gli individui più deboli avevano trovato il modo di esprimere la loro protesta. Nel nome di diritti inviolabili, come la libertà.

Un momento, ripetiamo: da 30 a 60. Il doppio. Il documento, Ennemis d’Internet, rilasciato qualche giorno fa da Reporters without borders, mostra però che alcuni cattiv… ehm, governi si sono svegliati, scendendo in campo e cercando, spesso riuscendoci, di annientare la libertà in salsa 2.0. Il punto è che, accanto ai soliti nomi noti, se ne aggiungono alcuni di insospettabili, occidentali, che mostrano un preoccupante aumento della censura sul web. E a quel punto, se inizi a guardarti un po’ attorno, scopri che oltre

ai paesi citati dallo scottante documento, ce ne sono altri che stanno limitando la libertà di comunicare sul web con scuse a volte plausibili, altre molto meno. Il risultato? È che in appena un anno i paesi che adottano restrizioni web per gli utenti sono passati da 30 a 60. Un momento, ripetiamo: da 30 a 60. Il doppio. Così, chi è affamato di libertà cerca nuove forme di protesta, stimolando i censori a puntare su tecnologie più invisibili e subdole. Insomma, se i paladini della giustizia sono troppo svegli per essere tenuti sotto controllo, meglio isolarli agendo sul resto della popolazione. Come? La fantasia della censura non conosce limiti e i ragazzi Reporters without Borders, come d’abitudine, sono prodighi d’informazioni al riguardo. In Birmania, per esempio, appena scoppiano delle tensioni politiche, la velocità di connessione a Internet viene diminuita, fino a portare a due ore il tempo necessario per l’invio di una semplice e-mail. E i gestori degli Internet Café sono tenuti a effettuare uno screenshot (in pratica, una foto dei contenuti che compaiono sullo schermo)

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dei computer usati dalla clientela, ogni cinque minuti. Scandaloso? Sì, ma in Cina si vede anche di peggio, visto che questo paese usa la più avanzata ed estesa tecnologia di filtraggio del mondo, tanto che c’è chi la chiama La Grande Muraglia Elettronica. Pensa che, sfruttando una (lunga) lista di parole e siti sgraditi, arriva a bloccare qualunque contenuto web che abbia a che fare con Dalai lama, Democrazia e via dicendo. A Cuba, invece, puntano sui prezzi della connessione, tenendoli talmente elevati che buona parte della popolazione, al massimo, usa la posta elettronica. E questa è facilmente controllabile… E poi ci sono Corea del Nord (dove è possibile accedere solo ai siti che decantano il leader Kim Jong-II e suo padre), Egitto, Iran, Siria, Tunisia e moltissimi altri paesi. Ma se tra questi non ci stupiamo, purtroppo, di trovare anche Turchia e Russia, c’è da rimanere sgomenti nel vedere l’ Australia. Sì, la Terra dei Canguri. Il progetto di censura dei siti pornografici, o che abbiano a che fare con temi quali la violenza, in realtà gironzola

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da tempo tra i corridoi del governo australiano, ma questo sembra essere l’anno giusto, a detta sua, di mettere in piedi un colossale filtro-web. L’idea è quella di dare mandato, unico e univoco, all’Australian Comunications & Media Authority, di stabilire i siti da filtrare.

La popolazione, ben il 96%, si è detta contraria a una legge di questo tipo, ma il governo sembra fare orecchie da mercante. Il problema sta nel fatto che i criteri di censura non sarebbero resi pubblici, quindi non è detto che sarebbero applicati solo ai siti che meritano effettivamente di essere filtrati. La popolazione, ben il 96%, si è detta contraria a una legge di questo tipo, ma il governo sembra fare orecchie da mercante. E, anzi, rincara, con una legge, già approvata, che vieta l’anonimato in Rete durante il periodo elettorale. L’Australia, non so se ci siamo capiti. E se non ci siamo capiti, purtroppo, c’è dell’altro. Come la vicina Nuova Zelanda, che da un mese ha attivato un filtro


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governativo senza dire niente. Peccato che poi qualcuno se ne sia accorto. Insomma, siamo partiti dalla lontana, anche culturalmente, Cina, passando poi ad altre realtà che ne condividono il pensiero censorio, e arrivando infine all’Australia, che si pensava una terra di libertà per definizione. Così viene naturale chiedersi se corriamo qualche rischio pure in Europa. E la risposta - glom - è affermativa. Nel Regno Unito, è notizia di questi giorni, dopo che è stata scongiurata una legge pronta a dare al governo ampi poteri sulla lotta alla pirateria (col rischio concreto che andassero ben oltre la lotta alla pirateria…), ora si punta per lo meno a bloccare tutti quei siti che violano il diritto d’autore. Il problema non sta tanto nell’idea di base, condivisibile o meno, ma sul criterio: i siti verrebbero bloccati in base anche a una semplice accusa, non come esito di un equo processo. Senza contare che molte associazioni di consumatori e utenti ritengono

più giusta una multa. Quindi, ancora una volta, il potere censorio è ben lontano dalla trasparenza e mette le cesoie in mano a entità difficilmente individuabili. E contrastabili. In Francia un meccanismo simile è già in atto e, anzi, la Legge HADOPI, che porta al blocco della connessione agli utenti che scaricano illegalmente, è ben nota in tutto

Per fortuna c’è qualche eccezione, come la Spagna. È freschissima la decisione di considerare LEGALE il file-sharing svolto senza scopi di lucro il mondo. Eppure, dopo qualche mese, sembra addirittura controproducente: l’Università di Rennes ha da poco concluso uno studio nel quale emerge che, dall’entrata in vigore di HADOPI, gli utenti che scaricano sono cresciuti del 3%. Insomma, paese che vai censura che trovi? Per fortuna c’è qualche eccezione, come la Spagna. È freschissima la decisione di considerare LEGALE il filesharing svolto senza scopi di lucro, nella

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causa tra la Società degli Autori spagnola (la SGAE) e il sito El Rincon de Jesus, ritenuto responsabile di pirateria. Il giudice ha sentenziato non solo che la SGAE non può bloccare l’accesso al sito incriminato, affermando che i sistemi P2P consentono solo la trasmissione di dati tra utenti e dunque non violano il diritto d’autore, ma anche che c’è una bella distinzione tra distribuzione vera e propria e pubblicazione di link che riportano a materiale protetto. È forse l’inizio di una rivoluzione destinata a estendersi nei paesi europei? In Italia, al momento, non è che ce la passiamo bene, visto che non molto tempo addietro il Tribunale di Bergamo ha stabilito che gli Internet Service Provider (ISP), cioè le aziende che offrono le connessioni alla Rete, devono rendere inaccessibile il sito The Pirate Bay. Con un risvolto che valica i confini nazionali, puntando a Sud, nella soleggiata Malta. Qui, i clienti di Melita Cable, il principale ISP dell’isola, non possono accedere a The Pirate Bay in conseguenza della censura italiana, benché il governo

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dell’isola non abbia affatto bloccato il sito. E la colpa sarebbe proprio degli ISP italiani e delle tecnologie utilizzate per bloccare la Baia dei Pirati. Insomma, censura no (no no no!) grazie, e se censura vogliono che sia, almeno farla bene… 17 Marzo 2010 di Riccardo Meggiato


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Pirateria, ma quanti danni fai? Un miliardo di euro di mancati incassi, solo nel 2009. Sentenze contraddittorie. Sicuri che la pirateria tolga davvero valore al mercato?

Un miliardo di euro. A tanto ammonterebbe il danno recato nel 2009 dalla pirateria ai mercati di cinema, musica ed editoria. La stima è del Centro Studi per la protezione dei diritti degli autori e della libertà di informazione, che definisce il file sharing un furto di opere cinematografiche, musicali ed editoriali. La soluzione? Chiudere tutto, senza eccezioni.

Un miliardo di euro. In effetti, va in questa direzione anche il nuovo capitolo del caso Pirate Bay, che ribalta la situazione e costringe a chiudere gli accessi dall’Italia al sito svedese. La Cassazione ha infatti annullato la sentenza del Tribunale del Riesame di Bergamo, che aveva a sua volta revocato il sequestro deciso in primo grado dal Tribunale della Libertà. Vecchio tira e molla, quello della pirateria italiana. Già nel 2006 la Guardia di Finanza aveva messo sotto sequestro calciolibero.com e coolstreaming.it per violazione del diritto d’autore. Peccato che i siti in questione non offrissero banda per nessun tipo di streaming e

infatti vinsero il ricorso, ottenendo il dissequestro. Succedeva quattro anni fa; chissà come sarebbe andata oggi. Così, mentre non possiamo più cliccare Pirate Bay, il partito pirata cresce in Germania (da 0,3% al 1,75% in un anno) e in Svezia, dove alle ultime europee ha addirittura ottenuto un seggio a Bruxelles. Il programma? Modificare le leggi su diritto d’autore e brevetti, per difendere la libertà della Rete e la riservatezza dei cittadini. Secondo il partito, infatti, il copyright e, più in generale, il diritto d’autore sono attualmente troppo sbilanciati in favore dello sfruttamento economico a scapito dello sviluppo culturale della società.

Il copyright e il diritto d’autore sono attualmente troppo sbilanciati in favore dello sfruttamento economico a scapito dello sviluppo culturale della società. Ancora in ambito europeo, l’ Audiovisual Social Dialogue Committee, che raccoglie presso la

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Commissione Europea le maggiori organizzazioni del settore audiovisivo, ha chiesto alla stessa UE una maggior tutela del copyright in rete contro il download illegale. Un appello all’industria americana, invece, arriva dalle colonne del New York Times dal frontman degli U2. Bono ha incluso la lotta alla pirateria in un decalogo di speranze per il nuovo decennio, auspicando che le major di Hollywood possano riuscire laddove ha fallito l’industria musicale e prevenire quella che potrebbe essere una catastrofe per il business del cinema e dell’home entertainment. Ma più si moltiplicano gli appelli a bastonare il fenomeno e i suoi protagonisti, più serpeggia il dubbio sul reale impatto della pirateria sui fatturati delle industrie coinvolte. Secondo il presidente dei produttori italiani, Riccardo Tozzi, manca la certezza del danno: “ Non diamo tutte le colpe ai pirati. Ci sono intere regioni d’Italia, sguarnite di sale, in cui la pirateria è per così dire obbligatoria. Ma non si può parlare di pirati se non dai un’alternativa al downloading illegale”.

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Due facce della stessa medaglia, controverse, destinate a non incontrarsi mai: Torna alla mente quella vecchia teoria secondo cui il file sharing è la versione moderna della vecchia abitudine di prestarsi i dvd o, ancora prima, di copiarsi VHS, cd o musicassette. Siamo sicuri che chi ha scaricato, non avendo a disposizione una copia pirata, sarebbe davvero andato al cinema? 07 Gennaio 2010 di Maurizio Pesce


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Le case discografiche sono i veri pirati? In Canada è in corso una causa gigantesca nei confronti delle major. Tutto a causa di un utilizzo non autorizzato dei brani di molti artisti, tra cui Bruce Springsteen, Beyonce, Chet Baker e molti altri.

La storia degli ultimi dieci anni racconta di una lotta feroce ed intransigente da parte delle case discografiche al filesharing. La criminalizzazione della Rete da parte dei produttori musicali si è attenuata solo di recente, quando le possibilità di monetizzazione del digitale sembrano non essere più un miraggio. Questo lascerebbe pensare che l’industria dei dischi sia in una posizione assolutamente impeccabile quando si tratta di copyright, diritto d’autore e rispetto degli artisti. I cattivi sarebbero solo i consumatori. Dal Canada arrivano però notizie che mettono in discussione alcune cose. è infatti in corso una causa gigantesca nei confronti delle major. I membri della Canadian Recording Industry Association, tra cui le grandi sorelle Warner Music Canada, Sony BMG Music Canada, EMI Music Canada e Universal Music Canada, sono di fronte ad una possibile richiesta danni che potrebbe costare fino all’incredibile cifra di 6 miliardi di dollari (4 miliardi di euro). Tutto a causa di un utilizzo non autorizzato dei brani di molti artisti, tra cui Bruce Springsteen, Beyonce, Chet Baker e molti altri.

La causa nasce nell’Ottobre del 2008 ed entra oggi sempre più nel vivo, con nuovi artisti che si aggiungono nella richiesta di risarcimenti (l’ultima è l’azienda che gestisce i diritti del grande musicista jazz Chet Baker). Come fa notare Michael Geist, professore di legge presso l’Università di Ottawa, tutto nasce negli anni ‘80 quando il sistema di licenze passò dalla licenza unica ed omnicomprensiva di qualsiasi diritto, alla licenza per singolo utilizzo di ogni brano. Le major erano pertanto

Una possibile richiesta danni che potrebbe costare fino all’incredibile cifra di 6 miliardi di dollari

tenute a trattare da trattare di volta in volta con l’artista. Per ovviare a ciò e non bloccare il sistema discografico, nacquero le cosiddette “pending list”, elenchi in cui le etichette discografiche iscrivevano brani i cui diritti dovevano ancora essere discussi con gli artisti. Attraverso questo sistema, le major sembravano legittimate ad agire temporaneamente, utilizzando i singoli

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brani (ad esempio per una compilation) nell’attesa di definire successivamente la licenza ed il relativo compenso. Il business però non funzionò esattamente così: invece di regolare i diritti dei singoli brani iscritti alle “pending list”, le major continuarono ad aggiungerne sempre di più, utilizzando per i loro affari del materiale musicale senza mai ottenere esplicitamente l’autorizzazione. Le liste oggetto dell’odierna class-action evidenziano oltre 300.000 brani iscritti, i cui diritti non vennero mai regolati con gli artisti. Un atteggiamento del genere è parso ipocrita a molti artisti, che oggi accusano le major da un lato di non aver mai ottenuto e pagato i diritti per lo sfruttamento di molti brani, dall’altro di aver tenuto una condotta ipocrita verso il mercato, accusando i consumatori di scaricare ed utilizzare brani di cui non avevano diritto, nonostante fossero le prime a tenere una simile condotta. Le etichette discografiche coinvolte minimizzano il problema proponendo un risarcimento di “appena” 50 milioni di dollari, ma la richiesta di risarcimento

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si spinge fino a 6 miliardi di dollari. Questo è dovuto al fatto che la punizione richiesta deve essere commisurata a quanto le case discografiche hanno preteso dagli utenti che scaricavano musica illegalmente. Ogni infrazione potrebbe costare 20.000 dollari per ognuno dei 300.000 brani utilizzati senza autorizzazione. Un buon momento per la discografia di fare un esame di coscienza e chiedere scusa? 13 Dicembre 2009 di Claudio Ferri



COPYRIGHT vs CREATIVE COMMON

C

CC



Cos’è Copyright

DA WIKIPEDIA Il copyright (termine di lingua inglese che letteralmente significa diritto di copia) è l’equivalente del diritto d’autore nei paesi di common law, come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, dal quale però differisce sotto vari aspetti. È solitamente abbreviato con il simbolo ©. • Proprietà intellettuale e bene comune A sostegno di una disciplina giuridica dei brevetti sorgono una serie di considerazioni in particolare nel settore delle arti. Le arti (scultura, pittura, etc.) sono considerate un fattore di crescita della società e del cittadino, cui tutti hanno diritto di accesso in base ad un diritto all’istruzione e di un diritto, da questo indipendente, alla fruizione della bellezza, quale bisogno dell’uomo, poiché la legge non deve limitarsi a garantire il soddisfacimento delle necessità primarie della persona, ma la possibilità di una sua completa realizzazione. Altri sostengono che l’arte non è mai il prodotto di un singolo individuo, e che non è quantificabile il contributo e le influenze che qualunque artista ha avuto, anche in modo inconsapevole, da altri artisti e uomini comuni, passati e contemporanei, e il debito dell’autore nei loro confronti. In questo senso, l’opera è prodotto e proprietà di una società e di un’epoca, più che di un individuo e dei suoi eredi. Il principio di un diritto collettivo alla fruizione della bellezza e all’apprendimento dall’arte, nelle loro opere originali sono state idee che portarono nel ‘700 alla nascita dei primi Musei che erano concepiti come il luogo in cui l’arte veniva valorizzata e doveva essere conservata, piuttosto che all’interno di collezioni private gelosamente custodite. Pure per la musica, per quanto sia un’arte non “tangibile”, alcune considerazioni spingono per un diritto d’accesso collettivo che può esserci solo a titolo gratuito o comunque a basso costo: il fatto che la musica è cultura e i cittadini hanno diritto d’accesso ai livelli più alti dell’istruzione, il diritto allo

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Cos’è Copyright

studio nei conservatori che richiedono spese notevoli per lo strumento e il materiale didattico musicale, la bellezza come bene comune e valore apartitico. • Dibattito sulle pene per la violazione del copyright Nelle legislazioni internazionali è frequente una tendenza all’equiparazione fra la violazione del copyright e il reato di furto. Esiste un dibattito non solo sull’entità delle pene che una simile equiparazione comporta, ma anche sulla reale opportunità di accomunare le due tipologie di reato. L’equiparazione al furto comporta infatti un considerevole inasprimento delle pene. Analogo dibattito investe il rispetto del proporzionalismo fra le pene rispetto alla gravità del reato. Il plagio, infatti, prevede pene inferiori al furto (sebbene l’utilizzo commerciale sia un’aggravante nella violazione di copyright). In sostanza, chi copia e vende opere in forma identica all’originale commette un reato punito molto più severamente del plagio, ovvero di chi apporta lievi modifiche e si appropria di una qualche paternità sull’opera, traendone profitto.

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Cos’è Creative Common

Dal sito http://www.creativecommons.it/ Le licenze Creative Commons offrono sei diverse articolazioni dei diritti d’autore per artisti, giornalisti, docenti, istituzioni e, in genere, creatori che desiderino condividere in maniera ampia le proprie opere secondo il modello “alcuni diritti riservati”. Il detentore dei diritti può non autorizzare a priori usi prevalentemente commerciali dell’opera (opzione Non commerciale, acronimo inglese: NC) o la creazione di opere derivate (Non opere derivate, acronimo: ND); e se sono possibili opere derivate, può imporre l’obbligo di rilasciarle con la stessa licenza dell’opera originaria (Condividi allo stesso modo, acronimo: SA, da “Share-Alike”). Le combinazioni di queste scelte generano le sei licenze CC, disponibili anche in versione italiana. Creative Commons è un’organizzazione non-profit. Le licenze Creative Commons, come tutti i nostri strumenti, sono utilizzabili liberamente e gratuitamente, senza alcuna necessità di contattare CC per permessi o registrazioni. Per saperne di più, puoi leggere una introduzione a CC, guardare l’animazione “Diventa Creativo”, frequentare le nostre liste e navigare nel nostro sito.

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Copyright vs Creative Common

Napoleoni a un lettore: “Il copyright va riformato o sarà infranto” L’economista, protagonista della cover di dicembre, “Pop Economy”, risponde a un lettore che chiede chiarimenti sull’articolo da lei firmato

Nel numero in edicola Wired parla di un nuovo sistema economico basato sulla condivisione tra consumatori (contro le vecchie “oligarchie industriali”). Un lettore chiede maggiori delucidazioni. Risponde Loretta Napoleoni, economista, firma dell’articolo. Gentile Loretta, ho letto con molto interesse il suo articolo pubblicato su Wired 12.10 dal titolo “Pop Economy”. Nella quarta parte dal titolo “Lo scontro fra marketing e bisogni reali” lei scrive: “Le oligarchie industriali vorrebbero farci credere che questo comportamento [scambiare invece che acquistare] distruggerebbe l’intero sistema economico. Ma non è così”. Mi sarebbe davvero piaciuto che lei avesse suffragato l’ultima affermazione con qualcosa di tangibile perché scritta così si potrebbe asserire anche l’esatto contrario. Cosa le ha fatto scrivere un’affermazione così importante? Premesso che non so se sia vero o no, vorrei proporle un esempio che mi è venuto in mente mentre leggevo. Dal mese scorso Wired consente agli abbonati di leggere la rivista sul web. Se io mettessi in piedi un servizio che gratuitamente

condividesse le mie credenziali, gli utenti potrebbero leggere Wired gratuitamente piuttosto che spendere 4 Euro. Nel corso dei mesi il mio servizio potrebbe accrescersi con lo scambio di credenziali per leggere altre riviste, giornali e prodotti vari di editoria. Di fatto le vendite calerebbero e non ci sarebbero dati sufficienti in modo da supportare investimenti sulla pubblicità. Molto probabilmente l’editore di Wired sarebbe costretto a chiudere la rivista. Altri editori potrebbero fare la stessa cosa con altri prodotti editoriali.. insomma ha capito, immagino. Di fatto per lei ci sarebbe meno lavoro. Di fatto lei si troverebbe con meno fonti di rendita. Di fatto lei sarebbe più povera. Ovvio che tutte queste asserzioni si basano sul fatto che lei sia una giornalista professionista e che qualora scrivesse gratuitamente tutto ciò non valga. Potrebbe obbiettare che la condivisione di credenziali non sia legale ma a questo punto non capisco il passaggio della terza parte in cui scrive: “Se non cambiano, le case discografiche, quelle editoriali, persino Hollywood diventeranno i dinosauri del capitalismo”.

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Copyright vs Creative Common

Sono certo che oltre a riferirsi a Netflix e iTunes, parlando di file sharing, lei si riferisca anche a condivisione illegale di file di musica, editoria e video. Ed in ogni caso sia le major discografiche che cinematografiche sono soggette alla forza delle aziende di distribuzione (p. es. Apple.. il che non mi dispiace dato che ne sono azionista!). Quindi le aziende di distribuzione a loro volta potrebbero essere delle “corporation che solo in apparenza vende un prodotto ma che in realtà fornisce un servizio che posso ottenere anche altrove a prezzi stracciati”. Per concludere, sono certo che l’argomento è molto vasto e che ci sarebbe stato bisogno di più spazio per sviscerare meglio l’argomento, spazio che sono certo non ha avuto. Tuttavia scrivere un “Ma non è così” mi sembra un po troppo generico. Grazie, Angelo Chiello

La risposta di Loretta Napoleoni Gentile Angelo, lei ha ragione quella frase detta così è riduttiva ma in un articolo è impossibile spiegare una nuova teoria economica che si sta evolvendo davanti ai nostri occhi. Per risponderle a pieno devo scriverla tutta questa teoria e quindi tra un annetto lei avrà la sua risposta nel frattempo le posso dire che giornali come l’Economist si possono leggere online gratis da sempre eppure ciò non ha diminuito la tiratura, la pubblicità si vende anche online, Facebook fa i soldi solo con quello. Facebook è anche un buon esempio di scontro tra marketing e bisogni reali, Facebook ha offerto un servizio che soddisfa un bisogno che esisteva, quello di amicizie virtuali, di scambi di vedute e di media alternativo, ma che nessun prodotto soddisfaceva. Non ha fatto marketing, anzi all’inizio era molto elitario. La guerra del marketing nasce dalla lotta per accaparrarsi fette di mercato che sono già state conquistate, pensi ai detersivi. Questi sono prodotti che potremmo definire ‘finiti’, uno li usa e così facendo scompaiono;

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Copyright vs Creative Common

usandoli li distruggo insomma. Questi prodotti non rientrano nella gamma di quelli condivisibili (anche se potrei dare al mio vicino un po’ di detersivo se il suo è finito). Sono anche prodotti poveri, che costano poco perché c’È molta concorrenza. I prodotti condivisibili sono i beni durevoli, macchine ecc, e quelli che soddisfano bisogni a più ripetizione, musica, cinema, notizie ecc., questi prodotti sono anche quelli che costituiscono i pilastri dell’industria capitalista. È anche vero che esistendo il copyright la condivisone a volte lo infrange, ma il copyright è una costruzione occidentale che molti paesi non riconoscono, in Iran ad esempio non esiste. Per valere il copyright deve essere ratificato dal Parlamento. La proprietà intellettuale è una costruzione occidentale e moderna; io faccio la scrittrice e ci vivo però ammetto che l’idea che ciò che io scrivo debba rimanere per 75 anni di proprietà di chi l’acquista - il mio editore - non mi piace. La durata è troppo lunga in una società che si evolve tanto velocemente. Il copyright va riformato per funzionare altrimenti sarà infranto.

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SITUAZIONE IN ITALIA



SIAE

Vediamo ora cos’è la SIAE, di cosa si occupa, che diritti dà ai musicisti. La Sezione Musica La Sezione Musica amministra i diritti relativi alle opere musicali, con o senza testo letterario, sia di genere classico che leggero. La Sezione Musica amministra i diritti di pubblica esecuzione delle opere, inclusa quella cinematografica e la diffusione radiotelevisiva, e i diritti di riproduzione meccanica delle opere. Non sono invece amministrati dalla Sezione altri tipi di diritti, come quelli di riproduzione a stampa delle opere musicali e/o dei relativi testi ed i diritti di sincronizzazione. Chiunque utilizzi pubblicamente opere musicali tutelate ed amministrate dalla Sezione Musica è obbligato ad ottenerne la preventiva autorizzazione. L’utilizzazione abusiva delle opere costituisce reato. Per quanto riguarda il diritto connesso sulle edizioni critiche di opere musicali di pubblico dominio, il servizio di incasso dei compensi per le pubbliche utilizzazioni viene svolto dalla Sezione Lirica su apposito mandato. Sempre dalla Sezione Lirica viene svolto anche, su apposito mandato, il servizio di incasso dei compensi relativi al noleggio delle partiture o di altri materiali musicali. Il sito della SIAE dice che:

[...] L’adesione alla SIAE non è obbligatoria. Gli autori ed editori di opere musicali hanno la piena facoltà di amministrare personalmente i diritti di cui sono titolari, organizzandosi autonomamente per conoscere dove e quando le loro opere vengono eseguite, rilasciando di volta in volta le autorizzazioni necessarie e stabilendo le relative tariffe. Nei fatti, tuttavia, una tale possibilità è assai difficilmente realizzabile. [...]

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SIAE e Creative Common

La Siae ai tempi della musica liquida e dei Creative Commons Come si pone la Siae dinanzi al fenomeno della musica in rete e delle nuove licenze CC che permettono una sua libera divulgazione? Lo abbiamo chiesto al vice direttore Manlio Mallia

Diritto d’autore e Web. La questione è spinosa. Le nuove tecnologie e le possibilità di fruire liberamente di un’opera d’arte che offre oggi la rete, hanno fatto a botte in passato con le istituzioni storiche che le opere d’arte le tutelavano e continuano a tutelarle, difendendo il copywright. Dopo una buona razione di pugni presi, oggi entrambi i fronti sembrano più propensi a una pacifica comunicazione in cerca di un accordo. Come emerso dall’intervista che l’avvocato Deborah De Angelis, coordinatrice per Creative Commons, ha rilasciato un paio di giorni fa a Wired. it, Siae, che da più di un secolo tutela la paternità di autori e compositori, e Creative Commons, che offre una serie di licenze orientate alla libera divulgazione, nel 2009 hanno costituito un gruppo di lavoro misto per capire se è possibile convivere. Un artista può avvalersi di entrambe le licenze? Può garantire alla propria opera d’arte la tutela che offre una istituzione solida come la Siae e, allo stesso tempo, libertà di divulgazione e interazione col pubblico offerte invece da CC? Dopo

le risposte dell’avvocato De Angelis, poniamo la questione a Manlio Mallia, vice direttore generale della Siae che ha fatto parte del Gruppo di lavoro misto Siae - Creative Commons Italia. La Siae tutela un’opera dallo sfruttamento commerciale illegale. Quando, in rete, un’opera è sfruttata illegalmente? “Quando l’utilizzazione dell’opera avviene senza il consenso dei titolari del diritti d’autore, e cioè degli autori e degli editori o delle società di gestione collettiva che li rappresentano”.

La Siae non tutela i cantanti, ma gli autori e i compositori delle opere musicali. In che modo la Siae tutela le opere che vengono diffuse online? ”Attraverso il rilascio di specifiche licenze che consentono ai creatori delle opere di percepire un compenso per le utilizzazioni online. Le licenze riguardano i vari generi di opere amministrate dalla Siae, da quello musicale a quello teatrale,

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SIAE e Creative Common

letterario, audiovisivo e delle arti visive. Solo per la musica da scaricare o ascoltare da un sito web sono previsti diversi tipi di licenza, a seconda che si tratti di siti prevalentemente musicali, web radio, web tv, siti con musica di sottofondo o siti con finalità pubblicitarie e promozionali”. Quali sono i termini del contratto? “I contratti devono essere sottoscritti dai titolari dei siti web responsabili dell’organizzazione e della immissione in rete dei contenuti protetti (i content provider). La licenza Siae autorizza i content provider a riprodurre le opere tutelate, tramite uploading dei file, a metterle a disposizione del pubblico sulla rete Internet o sulle altre reti telematiche e di telecomunicazione e a consentire agli utenti il downloading e lo streaming delle opere stesse per il solo uso privato o personale. Il titolare della licenza si impegna a fornire periodicamente il resoconto analitico delle transazioni effettuate (secondo le specifiche tecniche messe a disposizione della stessa Siae) con

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l’indicazione dei titoli delle opere e degli autori. Il report costituisce quindi uno strumento indispensabile per le attività di ripartizione dei compensi. Dalla sua esatta compilazione dipende la possibilità di una precisa individuazione degli aventi diritto per le conseguenti ripartizioni dei diritti maturati”. Come si pone la SIAE nei confronti della licenza Creative Commons? “Sulla falsariga di quanto realizzato da altre società europee la Siae ha messo allo studio una formula sperimentale per consentire agli autori musicali che decidano di adottare licenze Creative Commons e si sono riservati il controllo

È importante che essi non abbiano rinunciato ai loro diritti attraverso il rilascio di licenze CC, nel qual caso la Società non potrà assicurare loro tale tutela sugli usi commerciali delle loro opere, di avvalersi, per tali usi, dei vantaggi


SIAE e Creative Common

rappresentati dalla gestione collettiva svolta dalla Società. I risultati dello studio, condotti unitamente al Gruppo di lavoro Creative Commons Italia, di base presso il Politecnico di Torino, coordinato dal Professor Marco Ricolfi, sono attualmente all’esame degli organi competenti della SIAE”. Un cantante può avere entrambe le licenze, CC e SIAE? “La Siae non tutela i cantanti, ma gli autori e i compositori delle opere musicali. Attualmente gli associati alla Siae non possono rilasciare licenze CC, avendo affidato in via esclusiva alla Siae i loro diritti”. Se sono un artista esordiente e ho un buon brano da lanciare, la rete e il Creative Commons possono essere lo strumento giusto per farmi conoscere, non necessariamente sperando in un guadagno, in un primo tempo. La Siae in che modo, nella vicenda artistica di un cantante, entra in campo? “La Siae ha come compito istituzionale l’amministrazione dei diritti degli autori e dei compositori suoi associati: è importante, tuttavia, che essi non

abbiano rinunciato ai loro diritti attraverso il rilascio di licenze CC, nel qual caso la Società non potrà assicurare loro tale tutela”. Insomma il musicista deve scegliere: o SIAE o CC. 18 Ottobre 2010 di Alberto Grandi

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Agcom

Da WIKIPEDIA L’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (AGCOM) è un’autorità amministrativa indipendente, istituita in Italia con la legge 31 luglio 1997, n. 249 (cosiddetta Legge Maccanico). Ha sede a Napoli. Dal 9 maggio 2005 è presieduta da Corrado Calabrò. Il 6 Luglio ha pubblicato il tanto contestato provvedimento sulla pirateria: secondo questo provvedimento l’Agcom non oscurerà i siti stranieri contenenti link ad opere coperte da copyright, ma potrà, dopo 15 giorni dall’avviso, segnalarlo alla magistratura. Diversa la situazione per i siti italiani. In caso di infrazione del copyright è il proprietario stesso a dover contattare il sito in questione, e solo nel caso in cui la situazione non si risolva, l’Agcom è chiamata ad intervenire. Il coinvolgimento dell’utente è certo una novità importante e inedita nel nostro ordinamento.

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Agcom e la pirateria

Da Agcom nessuna minaccia alla libertà di internet (per ora)

Ci ho riflettuto, ho discusso, ho rielaborato. Sono arrivato a questa conclusione e mi scuso se non è abbastanza sensazionalistica: il testo attuale non è una minaccia alcuna alla libertà di espressione. La consultazione pubblica e il dibattito dei prossimi due mesi devono servire soprattutto a evitare modifiche negative e chiarire alcuni aspetti (in che misura Facebook e Youtube sono impattati? Rientrano nei siti italiani o in quelli esteri?). Ad oggi, con le esclusioni per il fair use (siti non a scopo di lucro, pubblicazioni solo sporadiche e di piccole parti di opere...) e le eccezioni per i siti esteri, quali sono infatti i due scenari che subiranno l’impatto della delibera (stante l’attuale testo)? A)I siti italiani con pubblicità e che sistematicamente pubblicano contenuti giudicati illeciti da Agcom...quindi ci lucrano. B)Blog italiani che hanno pubblicità e che pubblicano video tratti illecitamente dalla tv, interi film e canzoni.

I primi avranno vita meno facile perché ora oltre a essere inseguiti dai detentori di copyright e dalla magistratura dovranno rispondere anche ad Agcom...o andare all’estero. I secondi dovranno stare attenti per rientrare nell’esclusione del fair use. Quindi limitare quelle pubblicazioni per quantità, durata o frequenza. Io sinceramente non ci vedo una restrizione della libertà su internet. A meno di non far coincidere questa con la possibilità di usare contenuti pirata conditi da pubblicità. La delibera non colpisce gli utenti che condividono, i siti gratuiti; non oscura nessun sito o trasmissione (questo sì sarebbe censura). La delibera è peggio del comunicato stampa perché parla di multe e dà solo 48 ore ai siti (sempre nei casi come A e B) per esprimere le proprie ragioni...dopo però una fase di dibattito tra sito e detentore di diritto d’autore. Possiamo spingere per ampliare questo termine, così da evitare casi frettolosi di siti colpiti da Agcom anche se rientrano nel fair use. Ma per il resto, ragazzi, è una vittoria. Per ora. 08 Luglio 2011 di Alessandro Longo

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Situazione italiana

Musica italiana, siamo ancora ai compact disc La Rete ancora non aiuta gli artisti a vendere e i supporti fisici fanno ancora la differenza. Un’analisi dal Digital Music Forum di Milano

La musica in Italia continua a muoversi verso il digitale, mentre l’ industria cerca faticosamente di trasformarsi e di capire come sfruttare i nuovi canali. Non è una novità, certamente, ma è la realtà dei fatti, ancora oggi; ed è quanto è emerso da terzo Digital Music Forum, svoltosi ieri alla Provincia di Milano. Una mezza giornata di dibattiti e tavole rotonde con operatori del settore organizzata dalla Federazione industria musicale italiana

È importante la collaborazione tra operatori di tecnologia, distributori e produttori di contenuti, anche come risposta alla pirateria che non è soltanto repressione ma creazione di alternative (Fimi), l’associazione di categoria che riunisce le major discografiche della musica. “Il mondo della musica in Italia è fatto per l’ 80 per cento dal prodotto fisico”, ha spiegato in apertura Enzo Mazza, presidente di Fimi. “Ma nell’ultimo

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mese ci sono stati eventi positivi sia nel settore della distribuzione tradizionale, come l’apertura della libreria Feltrinelli in Stazione Centrale a Milano, che nella distribuzione digitale, come l’apertura di Amazon.it”. Amazon in Italia, però, non vende mp3 come nei paesi anglosassoni, ma solo prodotti fisici. In quest’ultimo settore la notizia più interessante è l’apertura di Fastweb Music, la prima piattaforma specifica di un Internet Service Provider, dedicata agli abbonati al servizio e potenziata da Dada: per 6 euro al mese si ottiene il download di 15 brani in mp3 senza DRM e streaming illimitato dal catalogo. “ L’apertura di questo servizio è importante per l’avvicinamento di chi produce contenuti e chi distribuisce la connettività. È importante la collaborazione tra operatori di tecnologia, distributori e produttori di contenuti, anche come risposta alla pirateria che non è soltanto repressione ma creazione di alternative”, spiega Mazza. La lenta transizione dell’industria verso nuovi modelli oltre la vendita dei supporti fisici è evidente dai temi che sono stati affrontati nella prima


Situazione italiana

parte della giornata: si è parlato dell’importanza della musica per le aziende per valorizzare i propri brand e dei modi – difficili - di monetizzazione della musica in questa fase oltre il download. Il problema principale che emerge, nel nuovo contesto, è proprio quello di trovare un modo di far fruttare la musica in termini economici senza intaccare la credibilità artistica della musica stessa. “ Gli artisti nati negli ultimi anni non possono prescindere dall’associare i propri nomi a dei brand. L’artista rimane al centro di tutto, la credibilità rimane fondamentale: bisogna capire se il brand completa il percorso dell’artista o lo fagocita”, spiega Paola Zukar, manager di Fabri Fibra. “Dobbiamo iniziare a considerare la musica non più come un prodotto ma come un servizio. Le industrie discografiche sono società di entertainment che monetizzano i diversi aspetti del lavoro degli artisti”, ha spiegato Lino Prencipe di SonyMusic. Però, poi, alla fine si ritorna ai vecchi media per lanciare artisti e monetizzarli con i supporti tradizionali: l’ultima parte della giornata è dedicata ai talent show,

che “ hanno risvegliato un mercato che prima era fermo”, spiega Daniele Menci di Sony Music. “La discografia non ha rinunciato scoprire artisti in favore dei talent show”, si difende Alessandro Massara, presidente di Universal, rispondendo a una provocazione che arriva dal pubblico: “Continuiamo a fare ricerca artistica anche fuori dai talent show, dalla ricezione di un cd – che quasi mai riusciamo ad ascoltare, la sconsiglio – all’andare nei locali, a parlare con i produttori che ci consigliano degli artisti. I talent show, più che nella scoperta, ci aiutano nella promozione, accorciando i tempi. La musica ha una grande barriera nel muro costituito dai media tradizionali, che ignorano la nuova musica italiana”. Ma, in Italia, il Web non è ancora un canale alternativo valido, per fare grandi numeri: “ Faccio fatica a pensare ad artisti che, da noi, sono andati al numero uno grazie alla Rete; gli artisti iniziano a farsi notare quando si muovono i media tradizionali”, spiega ancora Massara. 30 Novembre 2010 di Gianni Sibilla

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Situazione italiana

Mi vendo su Ebay: la musica italiana chiede aiuto alla rete Ebay è ovviamente il porto da cui partire, una volta si vendevano beni materiali: dischi, magliette, usato di tutti i generi. Adesso è il corpo stesso degli artisti ad essere sul piatto.

Se ne hanno parlato anche i quotidiani deve essere cosa risaputa. La musica italiana, forse con un pizzico di disperazione, ha deciso di mettersi all’asta su internet. Ebay è ovviamente il porto da cui partire, una volta si vendevano beni materiali: dischi, magliette, usato di tutti i generi. Adesso è il corpo stesso degli artisti ad essere sul piatto. I primi sono stati i The Calorifer Is Very Hot, la piccola band pop ferrarese ha deciso di regalare uno dei suoi concerti a chi avesse fatto l’offerta più alta. Esperimento di marketing puro e semplice, come dicono anche i responsabili del WWNBB Collective, la net label che ha ideato l’operazione e che ne racconta l’esito nel proprio blog ufficiale: “Per ora l’unica cosa certa è che sabato 12 Dicembre i Caloriferi suonano a Bari!! E poi non ci si preoccupa se le offerte non sono arrivate a un milione di dollari, è come ai mercatini vintage dove si trovano cose interessanti a pochi soldi, veri affari. Dopo le fai sistemare e improvvisamente valgono tantissimo”. Il totale finale segna 59 euro, somma che non è certo in grado di far girare la

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testa ma sufficiente invece a “ripagare le spese per la benzina”. Sulle vostre labbra potrebbe comparire un sorriso ma sul semplice concetto del rientrare dei costi si fonda buona parte del business musicale di oggi, soprattutto quello indipendente che ha subito la violenza della crisi economica tanto quanto l’industria culturale principale, senza però avere una struttura articolata alle spalle.

Sono nuove impalcature quelle che vengono messe in piedi in questi casi per costruire edifici ancora del tutto inediti Oggi ci riprovano, in maniera ancora più ambiziosa, anche i romani (ma da qualche tempo trapiantati a Londra) Carpacho. Non un semplice concerto per loro però ma un intero contratto discografico. Dopo ben due dischi alle spalle (uno sempre con l’indipendente Sleeping Star) e un nuovo EP intitolato L’oracolo e il fardello hanno deciso di cercare la via d’uscita dalla propria indipendenza artistica affidandosi proprio alla rete. La loro proposta è quella di “ regalarsi


Situazione italiana

una scommessa” ovvero mettere sotto contratto la band che è già al lavoro su i pezzi di un nuovo disco da realizzare. Proposta ovviamente dedicata agli addetti al settore, con una base d’asta che parte quasi da 9,000 sterline e l’occhio puntato verso la discografia major che dovrebbe dunque rispondere all’invito multimediale. Sono nuove impalcature quelle che vengono messe in piedi in questi casi per costruire edifici ancora del tutto inediti, come spesso accade i primi esperimenti arrivano proprio dall’underground, italiano in questo caso, capace di sintetizzare e riformulare esperienze online come quella del sito Sellaband che proprio sul supporto dei navigatori nei confronti del proprio gruppo preferito fonda la sua fortuna (oltre che quella degli aspiranti musicisti professionisti). 15 Dicembre 2009 di Andrea Girolami

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Situazione italiana

Ex-Otago: “Mercato discografico? No grazie, oggi la produzione è condivisione” “Il disco è nostro e dobbiamo farlo come piace a noi!”. È partito tutto da qui, dal pensiero comune di quattro menti stufe di dover sottostare alle solite, vecchie dinamiche dell’industria musicale

2002, quartiere di Marassi, Genova, Italia: decidono di chiamarsi Otago, come una squadra di rugby neozelandese; tempo cinque minuti e, del tutto insoddisfatti del nome, sciolgono la band, per riformarsi dieci minuti dopo come ExOtago. Oggi la formazione schiera: Simone Bertuccini, Maurizio Carucci, Alberto Argentesi e Gabriele Floris Ci chiamiamo Ex-Otago, siamo di Genova e, partiti in tre, oggi ci ritroviamo in quattro più uno, Francesco Bacci, il nostro “stagista”. Quello che è appena uscito, Mezze Stagioni (di cui in basso potete vedere il video del brano Costa Rica, ndr), è il nostro terzo disco, frutto di una gavetta di circa otto anni sui palchi di un po’ tutta Italia, un percorso piuttosto normale per le band che come noi gravitano attorno al circuito della musica indipendente italiana: due dischi e tre videoclip all’attivo con svariati passaggi su radio nazionali e tv. Tutto bellissimo ma con la musica non ci si pagano le bollette, a meno che il tuo nome non sia Vasco Rossi, Jovanotti, Negramaro o giù di lì; tanto meno ci

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Per questo ci siamo messi in testa di provare a cambiare un po’ le cose, che poi significa, appunto, fare un disco come vogliamo noi. si paga lo studio di registrazione, il produttore artistico, la stampa dei cd, la promozione eccetera eccetera... Per questo ci siamo messi in testa di provare a cambiare un po’ le cose, che poi significa, appunto, fare un disco come vogliamo noi. In che modo? Il 30 luglio 2009 a Genova è stato presentato il progetto ANCHE IO PRODUCO GLI EX-OTAGO a un manipolo di non più di trenta persone tra amici, fan e curiosi. L’idea era quella di permettere loro di condividere il processo di produzione già dalle fasi iniziali; con una Buonazione (costo: 25 €), oltre alla copia del disco e alla maglietta con lo slogan del progetto, avrebbero ottenuto il diritto a diversi privilegi tra cui brani in anteprima, sconti ai concerti e la possibilità di partecipare alla divisione degli eventuali utili ricavati dalla vendita dei dischi.


Situazione italiana

Quello che ora si chiama crowd-funding per noi, un anno e mezzo fa, era l’ Azionariato Popolare. Dopo le prime adesioni è cresciuta l’attenzione verso questa idea che suonava nuova a tutti, persino a noi; tramite la Rete, i concerti, le prime recensioni su blog e riviste, la voce si è sparsa rapidamente e non sono tardate le prime Buone azioni da tutta Italia, alcune persino dall’estero.

Un elemento chiave del nostro successo è stata la Rete L’obiettivo, ambizioso, era poter registrare con il produttore che faceva al caso nostro: Davide Bertolini, emiliano emigrato da 10 anni in Norvegia, già produttore e contrabbassista dei Kings of Convenience che lavora abitualmente in un bellissimo studio completamente in legno nel cuore di Bergen... Un sogno! Dopo un paio di mesi, fatta la conta delle prime Buoneazioni, eravamo già sull’aereo, destinazione terra dei salmoni. Le adesioni sono in continuo aumento perché anche adesso che il disco è uscito,

è sempre possibile partecipare al progetto, con tutti i relativi privilegi da produttore. Un elemento chiave del nostro successo è stata la Rete: con il sito ( ex-otago.it), ospitato da Tumblr e collegato a Twitter e a Facebook, riusciamo a gestire i social network con una mossa sola, informando rapidamente produttori, fan e amici su come stanno procedendo le cose. La diffusione di anteprime in free download, tramite Pay with a tweet, ha poi creato un passaparola virtuoso e automatico. Insomma, noi (e i nostri ardimentosi sostenitori) andiamo avanti spediti. E, visto che siamo in tournée in tutta Italia – le date le trovate sul sito –, venite a sentirci: così magari vi viene voglia di partecipare in prima persona alla costruzione della musica 2.0. 12 Aprile 2011 di Ex- Otago

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SPUNTI



Spunti

Dai Nine Inch Nails la guida al successo senza etichette Piccolo manuale per orientarsi in questi tempi di crisi musicale

Sono tempi incerti, specialmente per il business musicale, trarre profitto dalle proprie composizioni svincolandosi da agenti e etichette non è facile per i grandi artisti figuriamoci per i piccoli. Uno però c’è riuscito.

Rilasciando la musica praticamente gratis e confezionando diversi tipi di packaging in modo da guadagnare da tutto ciò che è Trent Reznor, seguendo l’esempio dei Radiohead, ha pubblicato il nuovo disco dei Nine Inch Nails totalmente in autonomia rilasciando la musica praticamente gratis e confezionando diversi tipi di packaging in modo da guadagnare da tutto ciò che è accessorio alle canzoni. Un modello, gli è stato obiettato, buono giusto per chi come lui è un artista affermato, in grado di disporre di una schiera di fan disposti a pagare per qualsiasi cosa porti il suo nome. In tutta risposta lo stesso Reznor sul suo sito ha stilato un piccolo manuale per orientarsi

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in questi tempi di crisi musicale e fare a meno delle major. “Nessuno sa cosa fare in questo momento, me incluso” mette subito in chiaro le cose Reznor: si tratta di esperimenti per arrivare ad una nuova sorta di equilibrio (se mai questo avverrà), ogni posizione nel business musicale deve essere reinventata “il cambio può essere faticoso e spaventoso, ma ricordate” dice a fan e avventori del sito “se usate internet e siete giovani di sicuro ne sapete di più sui vostri fan di quanto possano saperne agenti e etichette”. Insomma, la vecchia guardia sta morendo e se avete idee tentate! Circa un anno fa Reznor ha fatto un esperimento egli stesso, ha venduto il suo album Ghost I-IV in una maniera ancora più rivoluzionaria di quella in cui l’avevano fatto i Radiohead con In Rainbows. Ha previsto diverse offerte a partire da una dove la musica è gratuita fino ad una limitata da 300 dollari contenente, oltre alla musica, anche 3 libri autografati, DVD contenenti le tracce separate per strumento così


Spunti

da poterle rielaborare, il CD e 4 vinili (le sole 2.500 copie di questa versione sono andate esaurite in 3 giorni con un guadagno netto di 750.000 dollari). In mezzo c’erano versioni da 5 dollari (musica + libretto), versioni da 10 dollari (file musicali + libretto + CD audio) e da 75 dollari comprendente anche i DVD con i dati.

quale ogni cliente decide quanto pagare, svaluta la vostra musica inoltre “darla via gratis fa sì che nessuno possa mandarvi una mail dicendovi che ha pagato il vostro disco 50 centesimi perchè ha gradito solo 5 canzoni. Queste cose portano il morale a terra. È la vostra arte! Ha un valore!”

Il suo esperimento è stato un successo ma conviene anche ad un emergente? “Se volete un successo mainstream vi conviene rivolgervi ad un’etichetta musicale, condividere con loro il controllo su quello che fate e usare il marketing vecchio stampo. Buona fortuna”. Per chi invece vuole far conoscere la propria musica, non raggiungere necessariamente la vetta delle classifiche ma vivere di quello che fa allora l’imperativo è fare buona musica e darla via gratuitamente o ad un costo davvero basso “perchè dovete desiderare che la maggior parte possibile delle persone senta la vostra musica”. Prima di partire però una raccomandazione: non utilizzate il modello-Radiohead ovvero quello per il

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Spunti - Guida

Passo #1: Fate un calcolo accurato di quanto potete vendere e in base a quello decidete quanto spendere per la registrazione. Ricordate che la musica è gratis, che lo vogliate o no, quindi è meglio che la gente la prenda da voi invece che in giro. Passo #2: Createvi un sito, magari in collaborazione con TopSpin o servizi per transazioni simili, vi serve assolutamente un luogo dal quale dare via la vostra musica in formato MP3 e in alta qualità. In cambio del download chiedete solo l’indirizzo email dei vostri acquirenti. Questo vi consente di costruire un database di potenziali clienti. Passo #3: Fatevi una pagina MySpace ma non dedicateci troppo tempo, MySpace sta morendo ma ancora serve a qualcosa. Il vostro sito al contrario deve essere accurato ma non pieno di stupidaggini. Eliminate Flash o qualsiasi tipo di intro o animazione. Niente di complicato, l’interfaccia deve essere semplice, diretta e puntare subito alla musica (ma non mettetela in autoplay!). Non dimenticate di aggiornarlo continuamente con foto, post e altro in modo che la gente sia stimolata a tornarci. Passo #4: Giratevi i vostri video, anche se di scarsa qualità e metteteli online. Mostratevi interessanti, creativi e pieni di idee ed iniziative. Passo #5: Fatevi un account Twitter. Siate interessanti. Siate autentici!

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Spunti - Guida

Passo #6: Offrite una varietà di pacchetti diversi. Dovete realizzarne di buoni e di eccezionali a seconda di quello che potete immaginare voglia un fan, quello che voi vorreste se foste fan. Fateli autografati, vendete magliette, poster e tutto il merchandisign che vi viene in mente, ma non dimenticate mai di includere la musica gratuitamente oltre che magari anche in un CD. Un buon esempio lo trovate sul sito usato dai Beastie Boys per il loro ultimo album anche se i prezzi applicati da loro non sono quelli che dovreste applicare voi. Loro se lo possono permettere. Passo #7: Usate TuneCore per piazzare la vostra musica ovunque nella rete. Non temete di metterla anche a pagamento su iTunes quando è disponibile gratis sul vostro sito, ci sono persone che comprano musica solo lì e generalmente non sono le stesse a conoscenza della possibilità di averla gratis da altre parti. Passo #8: Il database di indirizzi email che avete creato è una risorsa ma non ne dovete abusare, usatelo per informare il vostro pubblico di quello che fate, cose come tour, serate, webcast ecc. ecc. “Attenzione però! Se non sapete nulla di nuovi media o di come la gente comunichi oggi nulla di tutto ciò funzionerà” avverte Reznor “Il ruolo di un musicista indipendente oggi richiede l’uso in prima persona di questi strumenti”. 07 Ottobre 2009 di Gabriele Niola

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Radiohead: addio album, solo singoli

La band inglese più venerata degli ultimi anni decreta la morte dell’album. Se a proporlo è una delle rock band più innovative e più cool di tutti i tempi, allora fermi tutti e ragioniamoci su. Niente più album. Thom Yorke, frontman dei Radiohead, ha dichiarato alla rivista americana The Believer che la sua band non farà più album. Ma soltanto singoli messi a disposizione online per il download.

La band inglese più venerata degli ultimi anni decreta la morte dell’album. L’ultimo singolo della band di Oxford, Harry Patch, dedicato al veterano della prima guerra mondiale morto di recente a 111 anni, è uscito il 5 agosto scorso e si può scaricare online al costo di 1 sterlina (il tutto devoluto alla Royal British Legion). “Fare un disco lungo è una seccatura. Nessuno di noi è più disposto a impelagarsi di nuovo in quel gran caos creativo” ha detto Yorke. “Ha funzionato con In Rainbows perché avevamo le idee

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chiare su cosa fare. Ma ci siamo detti che non saremmo più stati capaci di farlo ancora. Ci ucciderebbe”. E così hanno deciso: i loro prossimi lavori saranno singoli o EP. Roba da far venire l’ulcera a case discografiche, fan e feticisti dell’album-originale-da-ascoltare-nonstop. Ma l’era di internet ha imposto un ripensamento della produzione e distribuzione musicale, e chissà che i Radiohead, avanguardisti non solo nella musica, non stiano inaugurando una tendenza che sarà vincente da qui a breve? Già nel 2007, all’uscita di In Rainbows avevano proposto il download dell’album con la modalità originale del “paghi quanto vuoi”. Andando sul sito ufficiale della band, i fan potevano scegliere se scaricare tutte le tracce dell’album in formato mp3, pagando un prezzo che erano loro stessi a decidere (volendo, anche gratuitamente), oppure se prenotare, al costo di 40 sterline, una versione più completa dell’album, chiamata “discbox” e che includeva


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il CD di In Rainbows, un bonus CD contenente altre 8 canzoni, un’edizione in vinile in due dischi ed un artbook. Pare che nell’arco di un giorno dalla sua uscita, l’album fu scaricato da 1,2 milioni di persone, mentre a prenotare la versione completa furono circa tre milioni. “L’esperienza di In Rainbows è stata un grande successo” ha detto il cantante del gruppo. “Ha funzionato su tre livelli. Prima di tutto, per far arrivare un messaggio a cui noi teniamo, ovvero che la musica è un bene prezioso. Secondo, abbiamo usato internet per fare pubblicità al Cd, senza ricorrere a iTunes, Google ecc. E terzo, ha fatto bene alle nostre tasche”. Secondo Nielsen SoundScan, le vendite dei Cd hanno subito un crollo del 14% nel 2008, mentre quella delle singole tracce ha sfondato il record, salendo del 27% e arrivando quasi a un miliardo di unità vendute. 23 giugno 2010 di Eliot Van Buskirk

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