Antonio Miani
EDITORIALE
Tutti coloro che affrontano un viaggio hanno bisogno di un vademecum, di un notes, della bisaccia delle esperienze e delle conoscenze che raccolgono durante l’intero percorso. Le parole denotative, le espressioni connotative, i concetti, i simboli e i significati diventano appunti, pensieri che si ammassano in ordine sparso dentro un contenitore di fortuna. Quando si incontra un altro viandante, senza forma e senza articolazione logica, quelle parole non riescono ad essere trasmesse, ad essere scambiate. Non crescono, idee e concetti giacciono pigri, soffocati nel disordine di una sacca. È il dramma della informazione che non riesce a diventare comunicazione, che non passa, che non sa essere scambiata e staziona in un archivio in attesa di una sua utilizzazione. “La mia professione – diceva Ballard – è attraversare frontiere”. Anche la nostra; sebbene non nascondiamo una preferenza per il concetto gadameriano di orizzonte che lo sguardo non trattiene, che si sposta dal passante al passo, dal viandante al cammino, vincolo ed opportunità della strada, l’irraggiungibile oltre, un limite senza essere limitato, la mèta che attrae il passo, il confine che non ha fine, il luogo dei mille passaggi in una parte di mondo. “L’intelligenza – scriveva Jean Piaget – organizza il mondo organizzando se stessa”. Fare una rivista, anche semplicemente comporla, costruirla nella coerenza e nella integrazione delle sue parti, è un modo per organizzare la nostra capacità di intus legere, di leggere dentro le esperienze del mondo. Fare una rivista scientifica, interamente costruita sul confronto critico tra analisti, protagonisti e problemi, poi, significa produrre significati, dare linfa vitale al corpo della realtà, sangue alle membra dei fatti ammassati dalla storia. La vita è una produzione di significati. La nostra rivista è il luogo in cui questi significati crescono e maturano, è uno spazio di comunicazione qualificata sui temi e problemi della complessità sociale che l’accademia universitaria analizza, interpreta, discuta. La nostra rivista è il luogo in cui l’attività di comunicazione e confronto scientifico, che si mostra nei seminari e nei convegni, si dimostra, prende forma, appare nella sua veste di coerenza epistemologica. L’ambizione è di realizzare una rivista che, nei settori di nostra competenza, sia un riferimento per l’alta affidabilità dei suoi contenuti. Per noi è anche una inderogabile esigenza di mettere ordine in una materia che, in Italia, ha sparso e talvolta disperso contributi significativi nei reticoli della varia editoria. Il suo valore consiste nella opportunità che offre nel trasformare le esperienze in conoscenze e le conoscenze in proposte, nella capacità che saprà dimostrare nel tentativo infinito di organizzare il mondo organizzando la sua intelligenza. Alessandro Ceci
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I quaderni del Campus 05 - Maggio 2011
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GLI ENTI NON COMMERCIALI
Gli enti non commerciali e il profitto
di Antonio Miani Presidente del Collegio Sindacale della Fondazione “Doppia Difesa Onlus”.
N
ella società moderna, i singoli individui sono sempre più orientati ad associarsi per soddisfare, senza scopi lucrativi, i bisogni primari di determinate categorie di persone, oltre che per gestire interessi comuni, spesso di natura ideale e totalmente estranei alla propria sfera patrimoniale. Tali obiettivi che dovrebbero essere perseguiti anche dall’attività politica di un paese moderno costituiscono gli elementi essenziali della politica sociale, quest’ ultima definita anche con il termine anglosassone “welfare”. Il suddetto comportamento associativo - tutelato, nel nostro Paese, dagli art. 18 e 118 della Costituzione (1) - è in forte espansione nella società civile del mondo occidentale, ove si avverte sempre più l’esigenza di sviluppare forme condivise di altruismo, spesso, con il fine indiretto e inconsapevole di elevare lo spirito individuale, oltre che per rinvigorire le coscienze.
Nel 1944, Luigi Einaudi tenne le Lezioni di politica sociale, i cui principi fondamentali costituirono l’indirizzo della sua attività di Governatore della Banca d’Italia, prima, e di Presidente della Repubblica, dopo. In quegli anni del dopoguerra, l’ Italia era, in gran parte, dedita all’ agricoltura e sussisteva una limitata attività industriale, sostanzialmente impossibilitata a competere con la concorrenza imprenditoriale del mondo anglosassone.
(1) Art. 18 della Costituzione, “I cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale”. Art. 118 della Costituzione, “… Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio della sussidiarietà.”
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Tuttavia, per il liberale Einaudi era già evidente come, in un mondo industrializzato e moderno, il mercato avrebbe assunto un ruolo centrale, anche per lo sviluppo dei temi sociali. E’ proprio in quest’ ambito che Einaudi tratta, nelle sue lezioni, i caratteri del welfare nel mondo contemporaneo e rileva come “in regime di concorrenza non esistono problemi sociali di intervento dello stato”. La concorrenza cui si riferisce Einaudi costituisce un’“ipotesi astratta” dell’ economia, e il mercato, in tale ambito, assume un ruolo fondamentale, con una vera e propria esaltazione delle sue specificità: “il mercato che è già uno stupendo meccanismo, capace di dare i migliori risultati entro i limiti delle istituzioni, dei costumi, delle leggi esistenti, può dare risultati ancora più stupendi se noi sapremo perfezionare e riformare le istituzioni, i costumi, le leggi, entro le quali esso vive allo scopo di toccare i più alti ideali della vita” (2). Gli ottimi risultati cui può giungere autonomamente il mercato, non sempre però sono sufficienti a soddisfare le dinamiche esigenze dell’individuo e del mondo in cui vive. Einaudi, infatti, rileva come il “il mercato non può essere abbandonato a se stesso”, ciò che, in astratto, potrebbe prefigurarsi esclusivamente in un mercato di libera concorrenza perfetta, nel quale non dovrebbe prevalere la forza di un singolo soggetto economico e le sacche di extra reddito - sostanzialmente parassitarie ed economicamente ingiustificate - sarebbero tempestivamente eliminate dallo “spostamento” dei fattori produttivi mobili, capaci di esercitare un’autonoma funzione ridistributiva. In sintesi, in un mercato “ultra liberista” di concorrenza perfetta, le aeree di profitto ingiustificate sarebbero eliminate con un’ attività regolatrice, insita nello stesso mercato, capace di riposizionare in modo equo i fattori produttivi, con un indubbio vantaggio dei clienti e, quindi, della collettività. Il mercato, per raggiungere gli obiettivi necessari allo sviluppo del welfare, dovrebbe essere supportato da un’ appropriata attività politica che, senza porre alcun limite allo stesso mercato, dovrebbe indirizzarne esclusivamente gli orientamenti sociali richiesti dalla collettività. Purtroppo, nel nostro Paese, non è stato sempre possibile realizzare una tale politica sociale e il mercato ha operato nei limiti di una concorrenza imperfetta. Quindi, nel tempo si sono sempre più evidenziate le lacune 03
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“in regime di concorrenza non esistono problemi sociali di intervento dello stato”. L. Einaudi
di un welfare che non è riuscito a tenere il passo dell’ economia; né è possibile ritenere che ci possa essere un’ inversione di tendenza nel breve periodo. D’altronde, gli effetti del benessere generati dal mercato e più in particolare dalle singole aziende, solo dopo un periodo di tempo non breve, confluiscono nello stato sociale con effetti certamente benefici. E ciò, indipendentemente dalle capacità, delle singole imprese, di attuare una ridistribuzione della ricchezza sulla collettività. L’impresa, infatti, non può essere l’unica artefice di una responsabilità sociale che dovrebbe trovare terreno fertile nella politica di uno Stato moderno. In un tale contesto sociale, nell’ultimo ventennio si sono sviluppati, in modo marcatamente significativo, un’ ampia categoria di soggetti associativi non commerciali (enti non profit) (3) volti ad operare - nel così detto terzo settore dell’ economia - proprio per colmare alcune lacune dello Stato sociale, sempre più limitato dai vincoli di bilancio imposti dal proprio deficit. Questi enti non profit cercano di sopperire alle carenze dello Stato, senza porsi in alternativa alle imprese, il cui ruolo non dovrebbe essere posto minimamente in discussione. Al riguardo è opportuno rilevare che non è condivisibile l’ opinione di quanti affermano, in modo generico, che le imprese, volte a conseguire la massimizzazione del profitto, costituiscono, esse stesse, una delle principali cause della perdita di benessere sociale e, quindi, un’ eventuale limitazione della loro redditività, attraverso un’ appropriata normativa repressiva (ad esempio di tipo fiscale), determinerebbe dei benefici sulla collettività. (2)Luigi Einaudi, Lezioni di politica sociale, pag. 45, Corriere della Sera. (3)Henry B. Hansmann è stato tra i primi a rilevare il significato di questo termine.
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“il profitto è utile se, in quanto mezzo, è orientato a un fine che gli fornisca un senso tanto sul come produrlo quanto su come utilizzarlo”.
La massimizzazione del profitto, usualmente perseguita dalle aziende profit, dovrebbe costituire una deplorevole priorità, esclusivamente qualora sia riferibile ad un’ impresa totalmente “irresponsabile”, ovvero ad “un’ impresa che al di là degli elementari obblighi di legge suppone di non dover rispondere ad alcuna autorità pubblica e privata, né opinione pubblica, in merito alle conseguenze in campo economico, sociale e ambientale delle sue attività” (4). In realtà, l’analisi che qui trattasi, volta ad analizzare i soggetti non profit, non deve esaltarne la caratteristica di non profittabilità (5), a scapito delle aziende di produzione, orientate, invece, a massimizzare la redditività del capitale di rischio, investito nel proprio ciclo produttivo. Anche perché, la realizzazione del reddito d’esercizio (nel caso degli enti non profit, più propriamente definito “avanzo” di gestione), sia esso congruo o extra-congruo, non è tassativamente negata a tutti gli enti non profit, bensì ne è sempre vietata la relativa distribuzione, diretta o indiretta, ai soci e ai soggetti titolati ad esercitare il supremo potere volitivo sull’ ente stesso. Quest’ultimo divieto dovrebbe consentire all’ente non profit di eliminare i vincoli connessi all’ impegno prioritario della massimizzazione reddituale, necessaria proprio per remunerare al meglio il capitale investito, consentendo un’ attività istituzionale certamente più libera e specificamente orientata alla congrua remunerazione di tutti gli altri fattori produttivi, con il massimo rispetto dell’ambiente in cui opera. Ciò, in piena conformità con le aspettative previste per uno sviluppo sostenibile del sistema economico. L’utilità sociale del profitto dovrebbe prescindere dal rispettivo
conseguimento nelle aziende profit o non profit, infatti essa deve essere considerata, così come autorevolmente indicato, dal Santo Padre Benedetto XVI, nell’Enciclica Caritas in veritate, laddove è affermato inequivocabilmente che “il profitto è utile se, in quanto mezzo, è orientato a un fine che gli fornisca un senso tanto sul come produrlo quanto su come utilizzarlo”. Al riguardo, è altresì sintomatica l’interpretazione esplicativa fornita dal Cardinale Dionigi Tettamanzi (6), il quale rileva come “Superata la dicotomia tra imprese finalizzate al profitto (profit) e quelle non profit, l’Enciclica ribadisce l’importanza di sviluppare aziende disposte “a concepire il profitto come uno strumento per raggiungere finalità di umanizzazione del mercato e della società”. Nelle associazioni non profit, la menzionata strumentalità del profitto, per il raggiungimento degli scopi istituzionali dell’ente, è regolata dalla specifica normativa di settore, così come vedremo meglio in seguito. E’ evidente, quindi, come l’utilità del profitto debba essere considerata proprio in ragione della sua individuata strumentalità per il raggiungimento dei fini di ordine sociale, morale e culturale, senza trascurare che, come economisti d’impresa, “dobbiamo guardare al ruolo che il profitto assolve come incentivo e fonte di efficienza economica ”(7).
(4) Luciano Gallino, L’impresa irresponsabile, introduzione. Einaudi (5) Intesa come la remunerazione extra-congrua del capitale investito, distribuita al capitalista. (6) Dionigi Tettamanzi, Paolo Nusiner, Etica e capitale, pag. 159. Rizzoli. (7) Amartya K. Sen, La ricchezza della ragione, pag. 82, Il Mulino.
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Gli enti non commerciali nei paesi industrializzati, il caso dell’Italia.
Ad oggi, il nostro Paese, così come gran parte del mondo occidentale, sta soffrendo degli effetti di una grave crisi economica (indotta - secondo alcuni economisti - da una precedente crisi del sistema finanziario) che, di fatto, ha determinato un netto rallentamento dello sviluppo del welfare. In questo particolare contesto, l’ultimo rapporto della Caritas ha stimato “15 milioni di cittadini a rischio povertà”, la maggior parte dei quali con residenza nelle zone del Mezzogiorno (storicamente depresse da un punto di vista industriale). Più in particolare, dall’ ultimo rapporto dell’ ISTAT, è emerso che “un milione 170 mila persone si trovano in condizioni di estrema povertà, con un livello di spesa mensile inferiore ai livelli minimi di indigenza”. Purtroppo, le crisi di natura economica o finanziaria, capaci di minare l’integrità di interi settori dei mercati internazionali, tendono ad incrementare il divario tra “ricchi e poveri”. Per i soggetti meno abbienti, infatti, una minima contrazione delle proprie entrate, spesso, comporta l’incapacità di provvedere all’acquisizione delle risorse di prima necessità. Un tale fenomeno ha trovato riscontro anche nel nostro Paese, dove - attualmente - il 10% della popolazione detiene il 42% del valore netto della ricchezza totale (8). Nei periodi di crisi, si evidenzia ancor più la necessità di welfare ma, purtroppo, proprio in questi stessi periodi, lo stato sociale subisce una netta diminuzione, sia pure non immediata, delle risorse di cui può disporre per lo sviluppo dei propri progetti assistenziali. In quest’ambito, è di tutta evidenza l’utilità sociale degli enti non profit, ovvero di soggetti capaci di costituire un valido strumento per integrare il welfare di uno stato moderno, senza gravare integralmente sul bilancio della collettività. Nel mondo anglosassone, quest’ultimo convincimento è stato unanimemente condiviso da tutte le parti sociali e ciò ha consentito di regolare il terzo settore con norme (9) specificamente orientate a favorire lo sviluppo degli enti non profit, migliorandone la capacità di reperimento fondi per le proprie attività istituzionali. 05
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63% degli enti non profit opera nel campo della cultura, dello sport e del tempo libero; 16% svolge attività nel settore della assistenza sociale, della sanità e nell’ambito della formazione religiosa; 7% degli enti non profit opera a tutela di determinate categorie di persone e interessi (tra questi figurano anche i sindacati); 3% si occupa di politica;
In Italia, il terzo settore (10) si è sviluppato in modo significativo negli ultimi trent’anni (11); inoltre, durante questo periodo ha aumentato la propria autonomia dallo Stato, rivolgendo l’attività istituzionale oltre che nell’ambito assistenziale e sociale, anche in nuovi settori del tutto diversi, quali la ricerca, l’ambiente e il turismo. Uno studio pubblicato nel 2003, dalla Fondazione Giovanni Agnelli (12), ha rilevato un’interessante mappatura delle singole aree di intervento: - oltre il 63% degli enti non profit opera nel campo della cultura, dello sport e del tempo libero; - il 16% svolge attività nel settore della assistenza sociale, della sanità e nell’ambito della formazione religiosa; - il 7% degli enti non profit opera a tutela di determinate categorie di persone e interessi (tra questi figurano anche i sindacati); - il 3% si occupa di politica; - la restante parte si occupa principalmente di ambiente e di cooperazione internazionale con i paesi sottosviluppati.
(8) Atti della II Conferenza nazionale sull’ associazionismo sociale, Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Roma 15.7.2010. (9) L’ introduzione di norme fiscali volte ad incentivare le erogazioni liberali, negli Stati Uniti risalgono al 1917, ovvero quattro anni dopo l’istituzione delle imposte federali sui redditi. (10 ) Definito anche settore non profit, settore indipendente o sociale. (11) Il 90% delle associzioni non profit si sono costituite dopo il 1980. (12) Federico Revelli, Donare Seriamente, 2003, Edizioni, Fondazione Giovanni Agnelli
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In Italia, “per quanto riguarda gli aspetti economici, il settore non profit, ha avuto [già] nel 1999 una dimensione piuttosto rilevante se confrontata con l’ economia italiana, con entrate per circa 73.000 miliardi di lire (37 miliardi di euro) e uscite di quasi 70.000 miliardi di lire (36 miliardi di euro) (16)”.
Nel 2001, l’ ottavo Censimento generale dell’ industria e dei servizi ha ufficialmente rilevato, per la prima volta nella storia del nostro Paese, i seguenti dati riferibili al settore non profit: - 235.232 unità istituzionali del terzo settore, la maggior parte delle quali (63%) ha sede nel nord Italia; - 488.523 addetti in impegno permanente (pari al 2,5% del totale degli addetti), cui vanno aggiunti 96.000 religiosi, 28.000 obbiettori di coscienza e un numero di volontari che è stimato in oltre 3 milioni di individui. Qualche anno dopo, nel 2007, una ricerca promossa da Unioncamere ha stimato che “l’intero settore non profit esprime complessivamente circa 800.000 posti di lavoro, pari al 3,5% dell’ occupazione nazionale”. I valori appena riportati non sono immediatamente comparabili (13) ma, certamente, evidenziano lo sviluppo di questo settore nel nostro Paese, sopratutto in termini occupazionali. Anche in Europa, “dal punto di vista macroeconomico, l’economia sociale ha un impatto considerevole sia in termini umani che economici. Essa impiega più di 11 milioni di persone, pari al 6,7% dei lavoratori dipendenti della UE e vede coinvolti decine di milioni di cittadini in attività di volontariato, il cui operato è pari a circa 4,8 milioni di lavoratori full time ”. (14) Il terzo settore, indipendentemente dall’importanza sociale, rappresenta una realtà economica il cui peso, in termini di prodotto interno lordo (PIL), non può essere trascurato. Una ricerca svolta dalla Johns Hopkins University su 22 paesi industrializzati (15) ha rilevato come, nel 1995, l’industria del non profit ha generato un fatturato medio complessivo pari a circa il 4,6% del PIL (di tutti i paesi considerati). Inoltre, dall’ analisi delle fonti di finanziamento del terzo settore, emerge che circa la metà delle entrate derivano dall’attività commerciale (connessa ai fini istituzionali) e la restante parte delle entrate è riferibile principalmente al sostegno pubblico (circa il 40%) e solo un 10% è riconducibile alle donazioni dei privati.
In Italia, “per quanto riguarda gli aspetti economici, il settore non profit, ha avuto [già] nel 1999 una dimensione piuttosto rilevante se confrontata con l’economia italiana, con entrate per circa 73.000 miliardi di lire (37 miliardi di euro) e uscite di quasi 70.000 miliardi di lire (36 miliardi di euro) (16)”. Un settore così importante dell’ economia, purtroppo, nel nostro Paese si è sviluppato nel corso degli anni con una normativa civile e fiscale scarsamente organica. Ciò ha determinato il proliferare di diverse tipologie di associazioni, riconducibili alle singole leggi istitutive succedutesi nel tempo. Oggi, appare evidente la carenza di un regolamento quadro generale, con una ordinata casistica dei vari enti, strutturata in modo sistemico a seconda dei diversi settori d’intervento. Il codice civile non indica una definizione di ente non commerciale (anche se ne prevede quattro macro categorie, come vedremo meglio in seguito). Forse, è proprio per questo motivo che, usualmente, quando si parla di soggetti che non svolgono un’ attività d’ impresa volta a conseguire un profitto, spesso, si confondono i termini associazione, ONLUS, organizzazione di volontariato, ONG, comitato, etc. Tutti questi soggetti, costituiscono degli organismi collettivi - con specifiche differenziazioni - dove il fine istituzionale è determinato, come abbiamo già rilevato, non dal conseguimento di un risultato economico positivo, ma dalla natura ideale di un obiettivo istituzionale comune, di tipo assistenziale, caritatevole, sportivo, religioso, ecc.. (13) I censimenti riferibili al terzo settore, oltre ad essere relativamente recenti, non sono sempre così facili e immediati da interpretare. Negli ultimi anni, grazie all’introduzione dei modelli EAS (modello per la comunicazione dei dati rilevanti ai fini fiscali da parte degli enti associativi), l’Agenzia delle Entrate dispone di valori aggiornati annualmente, certamente più comparabili. (14) Comitato Economico e Sociale Europeo (CESE), L’economia sociale nell’Unione Europea, 2007. (15) La ricerca ha riguardato 9 paesi europei (tra cui Francia, Spagna, Germania e Inghilterra, senza includere l’Italia), 4 paesi dell’Europa orientale, 5 paesi dell’America meridionale, oltre a Stati Uniti, Australia, Giappone e Israele. (16) Federico Rivelli, Sistemi tributari ed erogazioni liberali al settore non profit, pag. 127, Fondazione Giovanni Agnelli.
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Da un punto di vista strettamente economico, “L’ espressione azienda non profit può assumere una pluralità di significati, in dipendenza: - della già rilevata pluralità di significati attribuibili alla nozione di profitto; - del fatto che, in pratica, il termine profitto viene inteso spesso in senso atecnico e quindi non come eccedenza variamente strutturata dei ricavi sui costi, ma come generico vantaggio economico che può essere tratto, direttamente o indirettamente, da determinate persone” (17). Infatti, nella prima accezione, è evidente la “non conseguibilità del profitto”. Le aziende sostanzialmente non profit sono tali, non in ragione di uno specifico divieto al conseguimento del profitto, bensì, in quanto il profitto è “fisiologicamente escluso” nella specifica organizzazione del processo produttivo, con relazioni tra costi e ricavi che esulano dalle stringenti logiche imprenditoriali. “La seconda nozione, invece, mette l’accento sulla non distribuibilità del profitto”. In questo caso, le aziende non profit potrebbero essere organizzate anche per il conseguimento di un reddito extra congruo, di cui, però, ne è vietata la distribuzione ai soci, anche in sede di liquidazione del capitale finale. Da un punto di vista giuridico, invece, la classificazione degli enti non profit rilevabile dal codice civile distingue quattro categorie: - fondazioni; - associazioni riconosciute; - associazioni non riconosciute; - comitati. Queste categorie presentano, ovviamente, delle differenze; la principale è la sussistenza della personalità giuridica, ossia l’elemento aggiuntivo che caratterizza le prime due categorie di enti (associazione riconosciute e fondazioni) (18), per le quali è riscontrabile una conseguente autonomia patrimoniale perfetta. L’ ente non profit con personalità giuridica, mantiene separato il proprio patrimonio da quello dei singoli soci, di conseguenza, i soci sono esclusi dalle responsabilità riconducibili alle obbligazioni assunte dall’ente. Questi aspetti connessi alla personalità, in passato, avevano dei riflessi anche sul reperimento dei fondi, infatti, la 07
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stessa personalità giuridica attribuiva la prerogativa per accettare e ricevere le donazioni o i lasciti testamentari; tale possibilità è stata successivamente estesa anche alle associazioni non riconosciute, prima con la legge quadro sul volontariato n. 266/1991 e, successivamente, con la legge Bassanini (e la conseguente abrogazione dell’art. 17 del c.c.). Ad oggi, sia che si parli di enti riconosciuti o non, si tratta sempre di soggetti dotati di capacità giuridica, titolari di diritti personali e patrimoniali. Le associazioni non riconosciute e i comitati, invece, non sono dotati di personalità giuridica. Essi si distinguono per la netta prevalenza del carattere personale degli associati sul fondo patrimoniale, quest ’ultimo costituisce un elemento sussidiario, utile per fornire un supporto ai soci, per il raggiungimento dei fini istituzionali. Più in particolare, il comitato può essere definito come “un’ organizzazione volontaria di persone che intendono promuovere il perseguimento di scopi collettivi ed esterni ai promotori utilizzando mezzi finanziari raccolti mediante oblazioni o pubbliche sottoscrizioni” (19). (17) Pellegrino Capaldo, L’ azienda (Prima parte), pag. 167, Edizione fuori commercio, distribuita presso l’Istituto di Diritto e Economia, Università Sapienza di Roma. (18) Pur se sul piano teorico, viene ammessa la costituzione di Fondazioni “non” riconosciute, ma la logica della sua natura (la preminenza dell’elemento patrimoniale destinato ad uno scopo) rende necessario il ricorso all’autonomia patrimoniale.(19) Art. 1 Legge 381/1991. (19) Cian Trabucchi, Commentario breve al Codice Civile, pag. 39.
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Nella realtà italiana, proprio in assenza di una normativa coordinata, nel corso degli anni, si sono formate diverse tipologie di enti non profit, non sempre specificamente previste dal codice civile (anche se tutte riconducibili a una delle quattro macroclassi citate): - associazioni pro loco, operanti territorialmente per la promozione ambientale e culturale. - ONLUS, organizzazione non lucrative di utilità sociale, istituite con D. Lgs. 460/97. Questi soggetti non costituiscono una nuova categoria di ente ai fini civilistici. Le ONLUS rientrano, quindi, tra le associazioni riconosciute e non, fondazioni, comitati o cooperative, e si caratterizzano per le ampie agevolazioni di tipo fiscale concesse dal legislatore. - IPAB, istituzioni di assistenza e beneficenza a favore di persone che versano in situazioni di povertà. Questi soggetti possono assumere la veste giuridica di fondazione e associazione di diritto privato. - Associazioni sportive dilettantistiche, queste operano nel campo sportivo e possono assumere la veste giuridica di: _ associazione non riconosciuta, _ associazione sportiva riconosciuta con personalità giuridica, _società sportiva di capitali sempre con personalità giuridica e _ cooperativa. - Cooperative sociali, questi soggetti, se pur con una struttura giuridica societaria, possono essere anch’essi ricompresi nell’ambito del settore non profit, in ragione delle finalità mutualistiche per cui sono costituite, nonché delle norme
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previste per la devoluzione del patrimonio in sede di liquidazione. Le cooperative sociali “hanno lo scopo di perseguire l’interesse generale della comunità alla promozione umana e all’integrazione sociale dei cittadini attraverso: _ la gestione di servizi socio _ sanitari ed educativi; _ lo svolgimento di attività diverse - agricole, industriali, commerciali o di servizi - finalizzate all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate ”(20). - ONG, organizzazioni non governative, si prefiggono di cooperare con i Paesi in via di sviluppo per integrare e [n.d.r.] determinare interventi volti a migliorare le condizioni di vita dei cittadini. Associazioni di promozione sociale, sono considerate tali “le associazioni riconosciute e non riconosciute, i movimenti, i gruppi e i loro coordinamenti o federazioni costituiti al fine di svolgere attività di utilità sociale a favore di associati o di terzi, senza finalità di lucro e nel pieno rispetto della libertà e dignità degli associati ”(21). - Impresa sociale, la cui qualifica può essere assunta “da tutte le organizzazioni private, ivi compresi gli enti di cui al libro V del c.c., che esercitano in via stabile e principale un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi di utilità sociale, diretta a realizzare finalità di interesse generale”(22).
(20) Art. 1 Legge 381/1991 (21) Legge 383/2001 (22) D. Lgs. 155/2006
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Donazione L’ analisi svolta sulla classificazione degli enti non profit, ovviamente, non è volta a rappresentare esaustivamente i singoli istituti, bensì vuole evidenziare l’ eccessiva pluralità di soggetti giuridici riferibili a tali enti. Ciò che renderebbe auspicabile una “riforma organica della disciplina del Libro Primo del Codice Civile in materia di associazioni senza scopo di lucro”, così come rilevato dall’ultima Conferenza Nazionale sull’ Associazionismo Sociale. Tali auspicabili interventi normativi dovrebbero riguardare anche gli aspetti connessi al finanziamento di questi soggetti che operano nel terzo settore. Nei paesi industrializzati, la principale fonte di finanziamento degli enti non profit è rappresentata dalle entrate derivanti dalle vendite di beni e servizi, spesso riconducibili all’attività istituzionale dell’ente stesso. In Italia, anche in ragione di specifiche norme di carattere fiscale, l’attività commerciale degli enti non profit non può superare certi limiti. In linea generale, l’attività commerciale di un ente non profit deve rimane “marginale” rispetto a quella istituzionale, ciò, anche se consideriamo che i relativi redditi debbono essere utilizzati - obbligatoriamente - per gli stessi fini istituzionali per cui è sorto l’ ente. Forse, una normativa volta a consentire un’ attività commerciale con meno vincoli per questo genere di attività, anche a scapito di certe agevolazioni fiscali, potrebbe fornire ulteriori risorse all’intero settore. Anche per ciò che riguarda le donazioni, nel nostro Paese sarebbe auspicabile una riforma, in questo caso di tipo 09
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fiscale, volta ad aumentare la leva fiscale connessa alla deducibilità delle erogazioni liberali. Il tema meriterebbe una trattazione più approfondita, tuttavia in questa sede non possiamo ignorare che, sempre con riferimento ai paesi industrializzati, le entrate medie riconducibili alle donazioni dei privati (persone fisiche e aziende) rappresentano circa il 10% di quelle totali, mentre in Italia non arrivano al 6%. I limiti di deducibilità fiscale previsti dalla nostra normativa (23) non costituiscono un incentivo per le donazioni. (23) DPR 917/86, art. 10, DL 35/2005 art. 14.
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Fiducia
Negli Stati Uniti, la politica fiscale in favore delle donazioni ha consentito, già dalla fine degli anni novanta, un progressivo aumento delle erogazioni liberali, tali da raggiungere dei valori complessivi tra l’1,6% e il 2% del PIL (24) (liquidate per il 90% da persone fisiche). L’ inclinazione dei cittadini ad assicurare lo sviluppo del terzo settore nel nostro Paese non può essere trascurata. Dobbiamo sperare in un futuro ove i singoli individui possano aumentare la propria fiducia verso le organizzazioni non profit e, anche in ragione di una organica politica sociale e fiscale, possano far affidamento su forme moderne di partecipazione per la realizzazione dei progetti istituzionali del terzo settore. (24) L’Internal Revenue Service (Agenzia delle imposte USA), alla fine degli anni novanta, stimava donazioni deducibili per oltre 120 miliardi di dollari. Secondo altre associazioni di categoria (American Association of Fund Rasing Cuncil) l’importo delle donazioni totali sarebbe anche più alto, oltre i 180 miliardi di dollari.
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CAMPUS DEGLI STUDI E DELLE
DI POMEZIA
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