EDITORIALE
Tutti coloro che affrontano un viaggio hanno bisogno di un vademecum, di un notes, della bisaccia delle esperienze e delle conoscenze che raccolgono durante l’intero percorso. Le parole denotative, le espressioni connotative, i concetti, i simboli e i significati diventano appunti, pensieri che si ammassano in ordine sparso dentro un contenitore di fortuna. Quando si incontra un altro viandante, senza forma e senza articolazione logica, quelle parole non riescono ad essere trasmesse, ad essere scambiate. Non crescono, idee e concetti giacciono pigri, soffocati nel disordine di una sacca. È il dramma della informazione che non riesce a diventare comunicazione, che non passa, che non sa essere scambiata e staziona in un archivio in attesa di una sua utilizzazione. “La mia professione – diceva Ballard – è attraversare frontiere”. Anche la nostra; sebbene non nascondiamo una preferenza per il concetto gadameriano di orizzonte che lo sguardo non trattiene, che si sposta dal passante al passo, dal viandante al cammino, vincolo ed opportunità della strada, l’irraggiungibile oltre, un limite senza essere limitato, la mèta che attrae il passo, il confine che non ha fine, il luogo dei mille passaggi in una parte di mondo. “L’intelligenza – scriveva Jean Piaget – organizza il mondo organizzando se stessa”. Fare una rivista, anche semplicemente comporla, costruirla nella coerenza e nella integrazione delle sue parti, è un modo per organizzare la nostra capacità di intus legere, di leggere dentro le esperienze del mondo. Fare una rivista scientifica, interamente costruita sul confronto critico tra analisti, protagonisti e problemi, poi, significa produrre significati, dare linfa vitale al corpo della realtà, sangue alle membra dei fatti ammassati dalla storia. La vita è una produzione di significati. La nostra rivista è il luogo in cui questi significati crescono e maturano, è uno spazio di comunicazione qualificata sui temi e problemi della complessità sociale che l’accademia universitaria analizza, interpreta, discuta. La nostra rivista è il luogo in cui l’attività di comunicazione e confronto scientifico, che si mostra nei seminari e nei convegni, si dimostra, prende forma, appare nella sua veste di coerenza epistemologica. L’ambizione è di realizzare una rivista che, nei settori di nostra competenza, sia un riferimento per l’alta affidabilità dei suoi contenuti. Per noi è anche una inderogabile esigenza di mettere ordine in una materia che, in Italia, ha sparso e talvolta disperso contributi significativi nei reticoli della varia editoria. Il suo valore consiste nella opportunità che offre nel trasformare le esperienze in conoscenze e le conoscenze in proposte, nella capacità che saprà dimostrare nel tentativo infinito di organizzare il mondo organizzando la sua intelligenza. Alessandro Ceci
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Il decalogo dello sproloquio Dieci rischi del discorso politico con il nemico
di Alessandro Ceci
Alessandro Ceci, dopo essersi laureato in Scienze Politiche presso la Libera Università Internazionale per gli Studi sociali (LUISS – Roma) ha diretto (dal 1983) vari Centri di Ricerca, Consulenza e Formazione sulle Tecnologie Educative, sui Modelli Economici Turistici, sulla Scienza dell’ Organizzazione. In questo ambito si è occupato di vari argomenti scientifici, tra cui principalmente lo studio dei modelli di simulazione, sui fenomeni sociali ed economici, e sui modelli politici relativi specificamente allo studio dei sistemi elettorali, delle organizzazioni e della teoria dei giochi. Direttore Scientifico del “Campus degli Studi e delle Università di Pomezia”. Professore di Filosofia politica presso la LUM Jean Monnet, ha insegnato e insegna in varie Università italiane (La Sapienza – Roma, L’ Aquila, Roma Tre) e internazionali (Belgrado). Responsabile Laboratorio di Epistemologia e Logica, “Campus degli Studi e delle Università di Pomezia”. L’ attività di elaborazione scientifica ha avuto una particolare accelerazione a partire dal 2000, quando i modelli elaborati nel corso degli anni hanno avuto una applicazione diretta e un potenziamento in Criminologia, specificamente in ambito di Intelligence e Sicurezza, e sono stati sperimentati direttamente in vari contesti (habitat) urbani. Già Responsabile Scientifico del Ce.A.S. – “Centro Alti Studi per la lotta contro la violenza politica e il terrorismo” e della società di ricerca C Cube s.r.l. Membro dell’I.C.T.A.C – International Counter Terrorism Academic Community, di cui è oggi executive director.
1.Guerra di parole
Chi ha una minima esperienza politica sa che molto spesso il parlare, in politica, può farci diventare nemici. Dipende che cosa si dice e, principalmente, a chi. Il modo è tutto, perché il significato politico del confronto in un processo di pacificazione si determina in un punto ben preciso: nel trasformare parole di guerra in una guerra di parole.
Mi stupisco dello stupore di tanti analisti di fronte ad un
attentato dichiarato, preannunciato. Tutti hanno più volte affermato che gli italiani in Iraq avevano raggiunto un alto livello di partecipazione e consenso nella popolazione. Questo dimostra, semmai, che la coalizione non ha capito il codice culturale del nemico e finisce per misurarsi con un soggetto sconosciuto, invisibile, che morde quando e dove meno te lo aspetti.
Le menti che hanno pianificato le operazioni militari in Iraq non avevano conoscenza della società irachena, della sua cultura, del suo modo di funzionare, di essere. Ed oggi ne paghiamo drammaticamente il prezzo. Nel pieno del conflitto israeliano palestinese, Sharon ha permesso a una delegazione di oppositori parlamentari di incontrare la controparte bellica.
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Il tentativo dichiarato era quello di tentare, per il tramite di un interlocutore politicamente contrario al governo, una strada di dialogo con l’ambizione di cercare una soluzione laddove soluzione non c’ era. E difatti non fu trovata. Tornati in patria, i rappresentanti israeliani dovettero ammettere l’incomunicabilità ed avvalorare implicitamente la politica di Sharon. Da quel momento il Governo aggressivo di destra enfatizzò il calcolato risultato come controprova per un consenso aggiuntivo. Ecco un caso in cui parlare con il nemico non conviene. Sarebbe stato meglio che gli ingenui parlamentari fossero rimasti a casa loro. Il tentativo di conciliazione ha accentuato l’aggressività che contestavano di quel governo; e alla fine anche con il loro tacito assenso. La strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni. E di parole inopportune. Chi ha una minima esperienza politica sa che molto spesso il parlare, in politica, può farci diventare nemici. Dipende che cosa si dice e, principalmente, a chi. Il modo è tutto, perché il significato politico del confronto in un processo di pacificazione si determina in un punto ben preciso: nel trasformare parole di guerra in una guerra di parole. Non si può e non si deve parlare sempre e comunque.
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Ci sono gesti che valgono una intera vita politica, il significato di ciò che si è e il senso di ciò che si fa. Dal punto di vista della risoluzione dei conflitti, il passaggio determinante dunque è quello della trasformazione di parole di guerra in guerra di parole. Ha senso parlare con il nemico soltanto se si riesce a determinare questo passaggio. Altrimenti il rischio è troppo alto e può convenire non parlare per far decantare le posizioni radicalizzate.
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2. Il decalogo dello sproloquio Stabilita la necessità e la opportunità, si può parlare con il nemico con una certa modalità utile ad evitare dei rischi. Voglio in questa sede formulare un vero e proprio decalogo dello sproloquio, cioè individuare dieci rischi della parola quando viene impropriamente o inopportunamente utilizzata in un contesto politico. La parola impropria è una parola inutile e può essere falsa. La parola inopportuna può essere anche vera ma è sempre inadeguata.
2 Il primo rischio nel parlare con il nemico è quello del parlare logorroico. Un bombardamento di parole nasconde i concetti. Ma è anche copertura della propria insicurezza o di una tensione emotiva che nevrotizza le relazioni politiche tra soggetti. Per essere chiari con il nemico è indispensabile stabilire i concetti di fondo in modo da non debordare e raggiungere il più rapidamente possibile l’obiettivo informativo. Invece, la proliferazione inconcludente di incontri, decisioni, affermazioni, risoluzioni è uno stato patologico di un soggetto politicamente impotente, come è accaduto in certi momenti alla Organizzazione delle Nazioni Unite, o una barriera escludente, come alcune rivendicazioni delle Brigate Rosse. Tante parole non servono a dialogare. Anzi, spesso servono ad evitare il dialogo.
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Il secondo rischio è quello del vacuo parlare. Vacuo non è vago, indefinito e impreciso, ma vuoto, senza costrutto logico, inutile ed inutilizzabile. Si ascoltano spesso tante parole di cui si potrebbe fare tranquillamente a meno e con la loro inconsistenza scavano un solco, una distanza aggiuntiva di incomunicabilità tra contendenti. In questi casi sarebbe molto più opportuno “un utile tentativo di far silenzio”(1). La politica, diceva Sartori (2), è il fare. Soltanto che questo fare è preceduto e seguito dal dire, il dire su ciò che bisogna fare. “Il discorrere dell’homo loquax precede l’ azione dell’ uomo operante”. Il vacuo parlare consiste nel dire senza fare, nella divisione dell’ uomo loquace dall’uomo che agisce, che opera concretamente per la riduzione dei conflitti. In molti movimenti pacifisti questo rischio del vacuo parlare è ossessivo. Tante rivendicazioni senza soluzioni che spesso sono da copertura, con la loro vacuità, all’orrore globale di micro tiranni locali. Sono sottoposti a questo rischio coloro che Danilo Zolo (3) ha chiamato “i signori della pace”, fautori di un globalismo giuridico che reclama il governo del mondo e si oppone alla polizia internazionale. (1) Rovatti P. A., L’ESERCIZIO DEL SILENZIO, Raffaello Cortina Editore, Milano 1992 (2) Sartori G., LA POLITICA, LOGICA E METODO DELL’AZIONE SOCIALE, Sugar, Milano (3) Zolo D., I SIGNORI DELLA PACE, Carocci, Roma 1998.
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3 Il terzo rischio è nelle parole della divergenza, contro quelle della convergenza. Parlare presuppone un rapporto, una relazione tra gli interlocutori e tra il significato della parola e il movimento storico che la esprime. In politica l’azione è linguaggio. In un processo di pacificazione, sia che questa avvenga con una mediazione tra contendenti, sia che avvenga con la sconfitta di uno su l’altro, tra azione politica e dialogo politico ci deve essere un unico tessuto storico. Per questo motivo è fondamentale, volendo parlare con il nemico, stare bene attenti al linguaggio che si deve usare. Di parole divergenti, che bloccano i processi politici ed estremizzano i comportamenti attivi e reattivi dei contendenti siamo soffocati ogni giorno dalla politica interna a quella internazionale. Possiamo selezionare una lunga casistica di esempi: dai rappresentati di schieramenti politici che attribuiscono sempre ai loro avversari (troppo spesso scambiati per nemici) la matrice culturale o comunicativa degli attentati e degli assassini alla dichiarazione antiisraeliana del Presidente siriano Bashar Al - Assad.
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4 Il quarto rischio è nella teatralità delle parole che troppo spesso banalizza. E la banalità irrita. La teatralità è sempre una finzione, al limite, un paradosso. Invece la parola appartiene al discorso e un paradosso può produrre uno spaesamento, una distanza con la realtà della politica e l’esigenza delle parti. Parlare con il nemico è una attività delicata, di ricerca, una esplorazione che consiste nel raccogliere tracce, piccoli indizi di possibilità e legarli assieme intorno al reale e non all’immaginario. Altrimenti non c’è corrispondenza e la relazione comunicativa viene percepita come una finzione. La teatralità scompagina. Aldo Moro, cosciente di questa esigenza, considerava la politica un lavoro quotidiano della parola che assume forma giuridica e diventa realtà sociale. La teatralità è una minaccia al fitto ordito del dialogo produttivo.
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5 Il quinto rischio è nella dissimulazione. Ed il rischio più forte e quello più temuto, perché è al tempo stesso una opportunità ed una minaccia dell’azione politica. In un noto libro sulla cruenta lotta politica del seicento, lo storico Rosario Villari ci ha mostrato come la dissimulazione fosse un metodo di resistenza attiva contro la violenza politica e la repressione di quell’ epoca. Egli la considera una forma di conquista della razionalità politica in grado di superare lo spontaneismo sterile della protesta emotiva. D’altronde tutta la letteratura politica e l’analisi di infiniti esempi storici mostrano la frequente, quasi quotidiana, pratica della dissimulazione da parte del potere o dei suoi oppositori. In molti ne hanno addirittura riconosciuta la legittimità in funzione della Ragion di Stato o dell’affermazione di valore superiore. Tuttavia, la dissimulazione è controproducente nelle strategie di risoluzione dei problemi e questo almeno per un motivo: perché utilizza i metodi che bisogna sconfiggere. Non a caso, nella polemica pro o contro la liceità della dissimulazione, Bacone (4) affermò che questa tecnica serviva soltanto ai politici minori, quelli che avevano l’esigenza primaria di conservare il potere o la supremazia. (4)Bacone F., DELLA DIGNITA’ E DELPROGRESSO DELLE SCIENZE, in OPERE FILOSOFICHE, Utet, Torino 1967
Gli altri, i politici di più alto spessore, non ne avevano bisogno perché non dovevano necessariamente comandare per esistere. La dissimulazione serviva soltanto a resistere. In ogni caso, nelle strategie di comunicazione con il nemico, l’eccessivo uso della dissimulazione è un rischio fortissimo di potenziamento esplosivo del conflitto. Esistono delle tecniche di comunicazione interamente costruite sulla dissimulazione. Il cosiddetto dilemma del prigioniero, nella teoria dei giochi, è una tecnica ricorrente. Può funzionare, ma nel brevissimo periodo. Non è detto quindi che sia inutile. È necessario però applicarla a quei casi che si concludono con un interrogatorio che, come è noto, non è proprio un dialogo e si rivolge ad individui piuttosto che a soggetti storici. Quando si vuole parlare con un nemico, ci si riferisce per forza di cose a organizzazioni politiche e quel parlare è in qualche modo una forma di riconoscimento. Altrimenti è soltanto una dissimulazione, cioè una ottima forma di resistenza attiva, se volete anche di contrasto, al limite di governo, ma non certamente la condizione di un dialogo. Il caso irlandese dimostra che la pace è stata raggiunta prima di tutto sulla base della reciproca credibilità.
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6 Il sesto rischio è nella sospensione che può apparire all’interlocutore un ritorno nel silenzio. Nei momenti di crisi politica più forti, i rappresentanti dei contendenti normalmente sospendono la parola. Dopo poco, in modo informale e occulto, riprendono a contattarsi anche per verificare se ancora è opportuno parlare. Nella strategia di pacificazione di un conflitto la sospensione del dialogo è un rischio molto forte. Se dura per un periodo di tempo troppo lungo e se cambiano gli interlocutori diretti bisogna ricominciare da capo. E questo ingenera una fortissima sensazione di perdita. Nella mediazione politica la protratta sospensione produce distanza, perché nel frattempo la storia non si ferma e il dialogo si carica di elementi eccessivi di confronto sui quali è sempre più difficile trovare una soluzione.
7 Il settimo rischio è quello del conformismo, che “si aggira attorno a noi costantemente” e che “è peggio del fanatismo, dell’ esibizionismo, del populismo, del laicismo, del misticismo; o forse in certo senso tutti li comprende e ingloba”. Come dice Gillo Dorfles (5) “il conformismo è la morte dell’ autenticità”. Vi chiederete come si collega con l’ azione politica e al parlare con il nemico. Ebbene, quando si scarica sulla politica il conformismo assume forme devastanti, perché non è il buon senso, l’ equilibrio e la saggezza, ma il senso comune, l’ opinione corrente e il pregiudizio che blocca ogni confronto. “Usando gli argomenti del senso comune, i parlanti risvegliano gli stereotipi, come fossero dei mostri addormentati”(6). Si tratta di un perbenismo sciocco che, specialmente nelle statistiche che orientano i leader politici democratici, determina catastrofi di fanatismo. Se dopo un cruento attacco terroristico il buon senso consiglia di abbassare il tasso conflittuale del pianeta cercando un nuovo equilibrio nel sistema delle relazioni internazionali, il senso comune dice che bisogna reagire per vendicarsi e migliaia di persone muoiono in una guerra che costa meno di quanto necessario per garantire lo sviluppo ed innalzare il tasso di sicurezza globale. Ma il conformismo non ha tregua. Preda dei mezzi di comunicazione di massa da cui si nutre e che a sua volta nutre con un infernale meccanismo autoreferenziale genera un pregiudizio di religione o di razza, un campanilismo populista che ostruisce definitivamente il dialogo. Lo sproloquio è il luogo dei conformizzatori, dei tanti “zii bigotti” - come li chiamava Pasolini - che con maggiore o minore veemenza, decretano il paradigma della incommensurabilità comunicativa e cioè che, essendo diversi da noi, con i nemici non conviene parlare. D’altra parte, se fossero uguali a noi, perché dovremmo parlare? Il conformismo ci ammutolisce in una uguaglianza che è anche assimilazione. Oltre ad essere un azzardo, dunque, è anche minaccia al dialogo. (5)Dorfles G. , CONFORMISTI, Donzelli, Roma 1977 (6)Billing M., IDEOLOGIA E OPINIONI, Laterza, Bari 1995
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8 L’ottavo rischio è quello della elusività e riguarda i conflitti di nuovo tipo, quelli di ultima generazione con i terroristi. A rigore, in questa nuova tipologia di guerra, non si sa chi è il nemico e quindi non si sa nemmeno con chi parlare. Non riusciamo ad identificare il nemico e quindi rischiamo discorsi indeterminati, senza soggetti. Il terrorismo locale era identificato in un preciso contesto politico. Combatteva su “un territorio conosciuto, con finalità dichiarate, per la conquista del potere”. Il terrorismo di nuovo tipo, invece, si distribuisce in “territori sparsi in tutto il mondo, collegati con metodi da servizi segreti, di cui si può conoscere tutt’al più la motivazione fondamentalista, ma che non persegue un programma che vada oltre la distruzione e la produzione di insicurezza”. Il dialogo è oggettivamente difficile. Chi sono e dove sono? Con chi parlare che sia effettivamente rappresentativo di un movimento così frammentato e autonomo, le cui decisioni spesso vengono prese direttamente dalle cellule localizzate senza necessariamente un collegamento lineare anche indiretto con i vertici dell’organizzazione? Non ci sono leader in grado di rappresentare l’intero movimento o l’organizzazione. Al limite è possibile individuare personalità virtuali con funzioni di vicarianza comunicativa. Oggi è impossibile “l’identificazione del nemico ed una valutazione realistica del rischio. È questa elusività che gli conferisce un nuovo profilo”(7). 7.Habermas J., FONDAMENTALISMO E TERRORE, in Borradori G., FILOSOFIA DEL TERRORE, Laterza, Bari 2003.
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9 Il nono rischio è l’intransigenza, quando - come disse una volta Flaubert - le reciproche affermazioni sono “due impertinenze identiche”(8). L’intransigenza è la forma della non discussione che in politica assume spesso la veste della intolleranza. Tuttavia, mentre la intolleranza deriva da un rifiuto, l’intransigenza è un aspetto della pervicacia, della insistenza, dell’ottusità. Se come atteggiamento logico e morale l’intransigenza è stupida, come atteggiamento politico è un utile espediente per esercitare un ostruzionismo. Sono intransigente se pretendo di stabilire l’interlocutore che mi fa comodo e non quello rappresentativo, salvo poi constatare che con un interlocutore non rappresentativo è inutile parlare. Se non è una follia è una tattica per evitare il confronto e arrangiare una giustificazione alla mia azione offensiva. Albert Hirschman ha individuato tre caratteri della intransigenza nel discorso politico: la perversità, ovvero gli effetti perversi che ogni pervicace insistenza può determinare conducendo a risultati opposti da quelli desiderati; la futilità, ovvero la inutilità di un atteggiamento intransigente nel dialogo di pacificazione; quello che noi chiamiamo della esorbitanza e che Lui definisce come messa a repentaglio, cioè gli alti costi insiti in ogni atteggiamento intransigente contro i cambiamenti e il dialogo (9). Si tratta di argomenti ripetitivi ed estremi, altamente polarizzati in dibattiti immaginari che, quando non sono difettosi, sono semplicemente sospetti. In ogni caso, è improbabile che uno dei due protagonisti di uno scontro militare accetti immediatamente di comporsi in un dialogo politico. Forse è più probabile partire dalla semplice accettazione del dissenso, senza alcuna presunzione di superamento delle contrapposizioni. Meglio un dialogo fra sordi che un sordo dialogo. Lascio a voi giudicare se l’intransigenza, ad esempio nel caso Moro, sia stata il prodotto di una comunicazione difettosa o di un atteggiamento sospetto. Resta il fatto che sono passati trenta anni e i nostri nemici sono ancora organizzati. (8)Flaubert G., CORRESPONDANCE, Paris, Conard, 1929, vol.V, pag.329 (9)Hirschman A.O., LE RETORICHE DELL’INTRANSIGENZA, Il Mulino, Bologna 1991
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10 Il decimo rischio del parlare con il nemico è la retorica, che elude l’immagine reale della storia proiettandola in un tempo senza tempo, in una dimensione monumentale avulsa dalla concezione scientifica dei fenomeni politici e sociali. Fin dalla sua nascita, e precisamente attorno al 485 a. C. nei processi di proprietà a Siracusa, la retorica è appartenuta al tempo stesso alla democrazia e alla demagogia. Fu una eloquenza insegnata per la gestione del dialogo in varie occasioni, dalle transazioni commerciali agli accordi politici. Secondo Roland Barthes la retorica “ha regnato in Occidente per due millenni e mezzo” e ha visto passare dentro di sé, immutabile, impassibile immortale, “la democrazia ateniese, i reami egizi, la repubblica romana, l’impero romano, le grandi invasioni, il feudalesimo, il rinascimento, la monarchia, la rivoluzione”. La retorica, senza commuoversi e alterarsi “ha digerito regimi, religioni, civiltà”(10) ed oggi vive la sua apoteosi. Preda e predatrice dei mezzi di comunicazione di massa, la retorica di oggi è la parola falsa, quella che mistifica la natura della notizia, che altera la verità delle cose per indurre e condurre l’opinione pubblica. La retorica multimediale di oggi è il vero potere della eterodirezione di massa.
Il rischio politico della retorica nel tentativo di istaurare un dialogo con un qualsiasi nemico è la sua enfasi. L’ enfasi retorica fa sfuggire il confronto dai suoi aspetti reali e induce comportamenti implosivi, nel senso del rifiuto e dell’abbandono di una comunicazione artificiale e artificiosa, o esplosivi, cioè nella esaltazione delle passioni impulsive contro la logica delle ragioni. Alcuni psicologi, ultimamente, hanno studiato in modo approfondito la tendenza della retorica di cristallizzarsi in ideologia, sia perché “i modi di pensare creati da e nell’ideologia siano intrinsecamente retorici”, sia perché l’uso della retorica rispecchia “le trame dell’ideologia”(11). La retorica non cerca il confronto, ma la persuasione; non si preoccupa della coerenza logica, ma della concorrenza ideologica; non si fonda sulle ragioni, ma sulle opinioni; non esprime giudizi, ma solo pregiudizi. La retorica del fondamentalismo laico o islamico di oggi, ma anche degli innumerevoli fondamentalismi che la storia ci ha ciclicamente riproposto, è causa delle più dolorose catastrofi contemporanee. Lo sproloquio fa male.
(10)Barthes R., LA RETORICA ANTICA, Bompiani, Milano 1993
(11)Billing M., IDEOLOGIA E OPINIONI, Laterza, Bari 1995
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3. Democrazia del linguaggio
Noi cerchiamo il dialogo. Eppure la società contemporanea è piena di monologhi. In questa nostra epoca storica tanti diversi linguaggi non si riescono a comporre tra loro. Il dialogo è sovversivo. Affermare una ragione ha sempre più il sapore di uno schieramento. C’è sempre l’odore del pregiudizio politico nei nostri interlocutori. La società della informazione standardizzata parla molto e ascolta poco. Non siamo ancora nell’epoca in cui “unità non significhi assimilazione”. La sensazione che se ne deriva è che, nel vuoto della legittimazione internazionale, ciascuno vuole approfittare della sua forza per regolare i conti senza troppe chiacchiere. Questo induce il rumoroso mutismo del mondo. Ha ragione Habermas, noi tutti dovremmo lavorare per una democrazia del linguaggio quotidiano. Il linguaggio presuppone lo scambio. La democrazia presuppone le opposizioni e la contestazione critica. Appunto la critica è l’essenza della democrazia ed anche la più appassionante e coinvolgente partecipazione alla vita politica del pianeta. A patto che, piuttosto che dire sempre quello che si pensa, iniziamo tutti più spesso a pensare a ciò che si dice.
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CAMPUS DEGLI STUDI E DELLE
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