Quaderni Corsari - numero 1 - Europa, Crisi, Democrazia

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#1 Andrea Aimar Rocco Albanese Peppe Allegri Andrea Baranes Alfredo Ferrara Alessandro Gilioli Lorenzo Marsili Giuseppe Montalbano Alessandra Quarta Marco Revelli Claudio Riccio Paolo Roberti Salvatore Romeo Giuliano Santoro ALEXIS TSIPRAS Lorenzo zamponi

Europa, Crisi, Democrazia


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Indice pag. 4 “I perchè di un inizio” pag.10 “Riformare i mercati: quale crisi e quale modello finanziario?” di Andrea Baranes pag. 15 “Paraloup e l’attrezzatura per fronteggiare la tempesta” Confronto/dialogo con Marco Revelli pag. 23 “Rovesciare il potere, costruire l’alternativa, liberare l’Europa” Intervista ad Alexis Tsipras, pag. 27 “Europa e crisi della democrazia: per un’Assemblea Costituente” di Lorenzo Marsili pag. 34 “Le lobby finanziarie e le basi della crisi in Europa” di Giuseppe Montalbano pag. 40 “Austerity, welfare e democrazia, il gioco di specchi tra Italia e Germania” di Paolo Roberti e Lorenzo Zamponi pag. 50 “Reddito e democrazia. Neanche una costituente europea potrà salvarci?” di Peppe Allegri pag. 56 “L’antipolitica di Monti e la sinistra senza rappresentanza” intervista ad Alessandro Gilioli pag. 64 “Costruire il popolo” di Giuliano Santoro pag. 70 “Tornare in piazza. Appunti per una stagione di lotte” di Claudio Riccio pag. 75 “Reddito minimo garantito e politica industriale visti da Sud” di Alfredo Ferrara pag. 83 “Taranto e il siderurgico. La parabola della città dell’acciaio” di Salvatore Romeo


I perchè di un inizio Il buon senso c’era, ma se ne stava nascosto per paura del senso comune

I

Quaderni Corsari, che vedono oggi la luce con il primo numero, vogliono essere la prima tappa di un percorso di analisi del presente e di costruzione del futuro che riteniamo necessario intraprendere. Al centro di una crisi sistemica che morde ogni nostro orizzonte, la nostra generazione è posta di fronte all’urgenza di riprendere in mano la propria vita. Il gruppo di uomini e donne che ha lavorato alla pubblicazione che oggi presentiamo, infatti, è accomunato da due caratteristiche: abbiamo un’età compre-

sa tra i 24 ed i 34 anni e siamo stati tra i protagonisti della straordinaria fase di mobilitazione sociale che l’Italia ha vissuto negli ultimi anni. Insieme a tante altre persone e a tanti soggetti collettivi, siamo stati in grado di imporre all’agenda politica del Paese – superando il muro di gomma oggi esistente – temi come: la centralità di conoscenza, saperi ed informazione nella costruzione e riproduzione di una democrazia reale; la precarietà del lavoro e dell’esistenza come cifra identitaria di un’intera generazione, con il livellamento verso il basso


5 di condizioni e aspettative di vita; l’insufficienza delle classiche istituzioni rappresentative liberali per garantire “l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art. 3.2 della Costituzione); il ruolo fondamentale della gestione democratica dei beni comuni per assicurare uguaglianza e giustizia sociale. Il nostro percorso personale e collettivo ha visto una tappa fondamentale nell’autunno del 2008, durante quella grande mobilitazione a difesa dell’università pubblica e contro i tagli lineari dei ministri Gelmini e Tremonti – definita Onda – che, ci permettiamo di affermare, ha aperto un ciclo di lotte per certi versi unico. Lotte che hanno sempre inquadrato, con maturità inedita per i movimenti sociali, la questione dei diritti sociali come questione democratica, e che hanno contribuito a creare le condizioni affinché nel giugno 2011, con il voto di 27 milioni di italiani per l’uguaglianza dinanzi alla legge, contro il nucleare e contro la privatizzazione dei servizi legati alla gestione dei beni comuni, quella che da molti attenti commentatori è stata definita la “Primavera Italiana”. Nei tre anni dal 2008 al 2011, mentre la politica parlamentare e i media ad alta diffusione si avvitavano in un circuito autoreferenziale fatto di G8 itineranti, prostitute minorenni e case di Montecarlo, distraendo di

fatto l’attenzione della collettività dalla realtà dei problemi quotidiani, soggetti sociali come il movimento studentesco e universitario, i metalmeccanici della Fiom, le comunità locali in lotta a L’Aquila come in val di Susa, i comitati per la ripubblicizzazione dell’acqua, i settori più avanzati del sindacato e dell’associazionismo, davano vita a una stagione di intensa mobilitazione, che, pur trovando solo rari momenti di reale unificazione, come nei cortei del 16 ottobre e del 14 dicembre 2010, costruiva un discorso fortemente unitario di critica al governo Berlusconi e all’austerity europea, correttamente visti come due facce della stessa medaglia, quella del dominio neoliberista. Questo ampio schieramento di forze, tra le più colpite dalla crisi in Italia come in Europa, è stato l’unico in grado di mettere in discussione il dominio berlusconiano sulla scena politica italiana, come anche il disegno di un’Europa neo-conservatrice, volta alla costruzione di un regime di progressiva devastazione del welfare, deregolamentazione selvaggia del mercato del lavoro e precarietà generalizzata. Se a chi legge venisse voglia di cercare gli ideatori ed autori di questi Quaderni, dovrebbe cercarli proprio in quelle facoltà e in quelle piazze, o tra i banchetti per la raccolta firme referendaria. Pur senza presunzioni rappresentative, sappiamo di essere espressione della parte più viva e attiva di una generazione,


che si è vista investita dal ricatto della precarietà lavorativa ed esistenziale, prima è stata usata come terreno di sperimentazione del dispositivo dell’austerity e ha trovato, pur in forme frammentate e spurie, la voglia e la forza di ribellarsi. Crisi, Europa, democrazia Questi tre concetti, che mettiamo al centro delle riflessioni nostre e di altri in questo primo Quaderno, segnano profondamente i tempi che stiamo vivendo. La crisi che viviamo oggi è la cornice – finanziaria, economica, ideologica e politica – in seno alla quale, attraverso meccanismi di ricatto sistematico, disinformazione vergognosa, cinismo ottuso e senza limiti, i gruppi di potere dominanti stanno mettendo in atto un epocale processo di esclusione sociale. L’Europa del neoliberismo è l’epicentro di tutte le contraddizioni del capitalismo finanziario: le scelte di austerità hanno provocato – e per la maggioranza degli economisti ciò era ampiamente prevedibile! – un avvitarsi recessivo della crisi che sta strozzando in una morsa micidiale i soggetti più deboli, i paesi “canaglia” del Mediterraneo, le periferie delle grandi capitali e le attività produttive che scompaiono. Per questi motivi riteniamo che l’Italia e l’Europa possano e debbano rappresentare la prima esperienza di una rottura degli

equilibri dominanti, in grado di costruire un’alternativa di sistema e di vincere quella che oggi è una vera lotta per la democrazia. L’Italia, o ciò che ne resta Ma chi è in grado, oggi, in Italia, di vincere questa battaglia? Berlusconi, egemone per oltre vent’anni, non è stato sconfitto da una nuova sinistra forte di un consenso diffuso nel Paese, ma è stata mandato a casa da scandali sessuali e, soprattutto, dalle “forze dei mercati”: BCE, FMI, governo tedesco, con l’intermediazione interessata del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. La nomina del “governo tecnico” di Mario Monti, nel novembre 2011, ha dato l’ennesimo colpo al fragile edificio della democrazia rappresentativa: dietro il suo volto competente e sobrio, il “governo del Presidente” ha mostrato un approccio autoritario alla vita democratica (i voti di fiducia chiesti da Monti in Parlamento non si contano) ed una linea d’azione fondamentalista, ideologica, volta a smantellare i nostri diritti, il welfare ed addirittura la possibilità di discutere delle scelte che riguardano tutti noi. Tutti gli italiani stanno subendo, ogni giorno, le conseguenze delle gravissime scelte del governo Monti, che trova una sua espressione esemplare nell’arroganza eversiva della ministra Fornero, convinta che il lavoro non sia un diritto e impegnata quotidianamente nella


7 costruzione di artificiali conflitti corporativi e generazionali tra precari e “garantiti”. Pensiamo di non essere i soli ad essere convinti che oggi “il re è nudo”. Il neoliberismo e l’austerità hanno dimostrato di essere dannosi per le nostre vite, e che per uscire dalla crisi è essenziale superare il pensiero unico che oggi è imposto: “non c’è alternativa”, “ce lo chiede l’Europa”, “ce lo chiedono i mercati”. Austerity vs democrazia La democrazia è in crisi in tutta Europa, e lo dimostra il caso delle recenti elezioni greche, durante le quali il popolo ellenico ha subito un pesantissimo ricatto da parte delle istituzioni tedesche e comunitarie, che nel dire “votare Syriza significa uscire dall’Europa” mentivano sapendo di mentire. Negli altri Paesi non va meglio: in Francia, in Spagna e soprattutto in Italia, la sfiducia nei confronti dei partiti e il tasso di astensionismo alle urne non sono mai stati così alti come oggi. Inoltre, la demagogia, il populismo e le destre stanno crescendo in modo inquietante in tutto il Continente: si pensi al grillismo italiano, al Front National francese, al partito dei Veri Finlandesi, ai nazisti di Alba Dorata in Grecia, al governo fascista al potere in Ungheria. Eppure, la necessità di un’alternativa al neoliberismo e l’esistenza di proposte che rompono con il dogma della “compatibilità

con il dio mercato” sono ignorate dai partiti e mass media. Mentre nessuno ricorda più il grande imbroglio del governo Monti, che prometteva “rigore, equità e crescita” ed ha prodotto solo macelleria sociale, il Partito Democratico, nascondendosi con subalternità culturale ed incapacità politica dietro il vessillo ipocrita della “responsabilità nazionale”, ha dato il suo convinto appoggio alla distruzione del sistema pensionistico, ha proposto le parole di legge con cui è stato smantellato l’art. 18, ha votato a favore della costituzionalizzazione del pareggio di bilancio (tradotto: il settore pubblico non potrà più investire a lungo termine per progettare una seria politica economica), ha ratificato tutte le più odiose scelte del governo tecnico. Un voltafaccia clamoroso rispetto alle aspettative dell’opposizione sociale al berlusconismo, a cui si sono disciplinatamente allineati anche i media “progressisti”: le mobilitazioni dei metalmeccanici, le lotte degli studenti, le rivendicazioni della Val di Susa o dei comitati referendari erano in prima pagina finché servivano a dare fastidio a Berlusconi, e sono state cancellate dalla realtà virtuale del discorso pubblico quando, cambiato il governo, i loro discorsi e progetti sono diventati scomodi ed hanno iniziato a “disturbare il conducente”. Le scelte dei partiti del “centrosinistra” e gli atteggiamenti dei mass


media sono particolarmente gravi, se si pensa alla grande complessità dei problemi (politici, economici e sociali) che tutti noi dobbiamo affrontare. Quando sono in gioco vita, dignità e diritti delle persone, non è consentito barare: sfruttare a proprio vantaggio il possesso di informazioni che sono taciute alla collettività è per noi un vero attentato alla Costituzione. Comportarsi come se non ci fosse alternativa allo stato di cose esistente testimonia una grande incapacità programmatica, oppure una enorme disonestà intellettuale. Alcuni appunti per governare una radicale inversione di rotta Il terreno su cui fondare una nuova idea di democrazia è facile da individuare: la crisi finanziaria prima, l’austerity che ha affamato la Grecia rappresentano chiaramente i temi in base ai quali impostare ogni riflessione, portando argomenti capaci di rimettere in discussione i dogmi del neoliberismo, per riaprire la partita chiusa 30 anni fa da Margaret Thatcher e Ronald Reagan. L’Europa monetaria, che si è rivelata uno strumento di penetrazione dell’egemonia del capitalismo “all’americana” nel Vecchio Continente, è in crisi, e ciò sta svelando, attraverso gli effetti sociali del dispositivo dell’austerità nella vita quotidiana di milioni di europei, molti dei nodi critici che i movimenti denunciavano nello

scorso decennio: lo svuotamento della democrazia rappresentativa da parte del mercato e delle istituzioni sovranazionali, il controllo delle élite finanziarie sui processi globali, la privatizzazione di parti sempre più ampie della società e della natura, la precarietà come meccanismo di sfruttamento e ricatto imposti ai lavoratori, gli squilibri tra nord e sud del mondo, la mobilità globale di merci e capitali come strumento per la competizione al ribasso tra lavoratori, il concreto rischio di una catastrofe ambientale. Le sfide che abbiamo davanti sono drammatiche, poiché si collocano su livelli diversi tra loro ed ugualmente importanti. Da un lato, sentiamo l’urgenza di trovare forme di gestione democratiche dei servizi pubblici locali collegati all’accesso ai beni comuni. Dall’altro, è necessario immaginare e proporre un nuovo europeismo, che vada oltre il mercato comune e i dogmi neoliberisti per creare una vera cittadinanza europea sul piano dei diritti sociali. Crediamo che, per uscire realmente dalla crisi e dal ricatto costituito dal neoliberismo, sia necessario il contributo propositivo di ogni persona, di ogni associazione (territoriale, nazionale, europea), di ogni forza sociale e politica. E pensiamo che sia giunto il momento di impostare il lavoro su nuove basi di metodo: la strada che vogliamo percorrere punta a rinnegare i personalismi e


9 le tattiche ciniche per confrontarsi in modo serrato sui contenuti, nella consapevolezza che una delle azioni più radicali che esistano risiede nell’avere la maturità di fare proposte concrete e credibili per cambiare in modo profondo la vita di noi tutti. La paura di confrontarsi e contaminarsi non esiste, se si conserva l’onestà intellettuale. Nel primo numero dei Quaderni Corsari proviamo a contribuire a questo cammino, dando il nostro modesto apporto, con contributi che attingono ad esperienze e a competenze diverse, ad una riflessione già ampia alla quale vogliamo partecipare. In questo numero partiamo appunto da tre concetti centrali, “crisi, Europa e democrazia” e dai nessi che li tengono insieme. Questo è per noi il primo passo di quella che vorremmo far diventare una lunga marcia collettiva. La conscenza, i saperi e l’informazione. L’Europa democratica come sfida centrale del nostro futuro. Il lavoro, la precarietà e la questione della distribuzione del reddito. L’ambiente e la tutela del territorio. La gestione democratica dei beni comuni. Le mafie come problema economico e sociale da “prevenire”, prima ancora che associazione per delinquere da reprimere. Il rapporto tra la città e gli spazi – spazi reali, spazi democratici – della cittadinanza. Le ques-

tioni di genere ed identità sessuale come questioni di civiltà. Il rapporto tra culture di pace e cultura della guerra. Quella appena elencata non è una lista della spesa, ma è l’insieme dei più grandi problemi che riguardano la vita quotidiana di noi tutti. Non li deleghiamo più a nessuno.


di Andrea Baranes – Fondazione Culturale Responsabilità Etica www.nonconimieisoldi.org

Riformare i mercati

Quale crisi e quale modello finanziario?

“A

lcuni Paesi europei, in particolare i famigrati “PIIGS” (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna), hanno vissuto al di sopra delle loro possibilità. Troppo welfare e stato sociale hanno portato a un eccessivo indebitamento. Oggi occorre imporre una disciplina agli Stati “spendaccioni”, obbligarli a stringere la cinghia e rimettere a posto i conti pubblici. I mercati, oggettivi e imparziali, sono i migliori giudici. Lo spread diventa il parametro di riferimento per valutare la serietà e l’efficacia delle

politiche pubbliche.” Si potrebbe riassumere così la lettura della crisi europea fornita dalla Troika (Commissione europea, BCE e FMI). Cerchiamo di capire se questa interpretazione ha un qualche fondamento, osservando l’andamento del debito pubblico negli ultimi anni. Dal 2000 al 2008, l’Europa a 27 Stati ha avuto un rapporto tra debito e PIL quasi costante, con oscillazioni tra il 59 e il 62%. Il deficit nello stesso periodo è compreso tra -0,9% e -3,2%. In altre parole, l’Unione Europea è stata


11 per anni in linea con i parametri di Maastricht, che prevedono un rapporto debito/PIL al 60% e un deficit massimo del 3%. Di colpo però, nel 2009, il deficit schizza a -6,9%, il rapporto debito/PIL al 74,8%, per superare l’anno successivo l’80%. L’andamento è lo stesso per le nazioni europee in maggiore difficoltà. Il Portogallo ha avuto un rapporto debito/PIL inferiore al 70% fino al 2007, ma quattro anni dopo era volato al 108%. In Spagna ancora nel 2008 era di poco superiore al 40%, ma toccava il 68% nel 2011. In Italia il debito pubblico è sempre stato elevato, ma tra il 2002 e il 2008 si è mantenuto pressoché costante intorno al 105%, per aumentare poi di 15 punti in tre anni. Il caso più clamoroso è quello dell’Irlanda, che passa dal 25% del 2007 al 108% del 2011.1 Secondo la versione “ufficiale”, queste cifre si devono spiegare in un modo solo: improvvisamente, a cavallo tra il 2008 e il 2009, tutti i governi dell’UE iniziano a spendere come matti per welfare e stato sociale. Vengono costruiti milioni di asili nido, ospedali come se piovessero, strade e infrastrutture, arrivano reddito di cittadinanza e pensioni d’oro per tutti. Una spiegazione che suonerebbe come una farsa, se non fosse una tragedia per i cittadini che non solo pagano il prezzo della crisi, ma che negli ultimi anni si sono al 1 Tutti i dati riportati sono tratti dal sito di Eurostat.

contrario visti tagliare i servizi pubblici, anche quelli essenziali. Da dove viene allora la crisi europea? Proviamo a partire da un paio di dati. Il PIL del mondo è di poco superiore ai 60.000 miliardi di dollari l’anno. Una singola banca statunitense detiene strumenti derivati per un nozionale che si aggira sui 78.000 miliardi di dollari. Complessivamente quattro banche controllano un ammontare di derivati intorno ai 200.000 miliardi di dollari. “L’eccessivo” debito pubblico italiano, una delle prime dieci economie del pianeta, è circa l’1% di questa cifra. Da strumento al servizio dell’economia e dell’insieme della società la finanza si è trasformata in un gigantesco casinò, un fine in sé stesso per fare soldi dai soldi nel più breve tempo possibile. Nel 2007 questo sistema va in crisi. La scintilla è la bolla dei mutui subprime negli USA, ma le cause di lungo periodo vanno ricercate nello sviluppo di una finanza ipertrofica, nel sempre maggiore indirizzamento dei capitali dai salari ai profitti e dei profitti dagli investimenti alle rendite, in una continua crescita del PIL e dei consumi assunta a dogma e finanziata tramite livelli insostenibili di indebitamento. Il crollo finanziario ha provocato una recessione globale, ovvero una diminuzione del PIL. Se il parametro base per valutare lo stato di salute di una nazione è il rapporto tra debito e PIL, la


diminuzione del denominatore provoca un’immediato peggioramento del rapporto. Anche il numeratore peggiora, perché recessione significa meno consumi, meno entrate fiscali quindi a parità di spese pubbliche un deficit maggiore e un aumento del debito. Ancora, allo scoppio della crisi le principali nazioni occidentali devono indebitarsi per mettere in campo giganteschi piani di salvataggio della finanza. L’indebitamento dei governi, tramite maggiore emissione di titoli di Stato, avviene in un momento di difficoltà, quindi con meno capitali disposti a investire. In una situazione di aumentata concorrenza, le economie forti, come quella tedesca, riescono a collocarli, mentre Paesi come l’Italia hanno difficoltà, e sono costretti ad aumentare i tassi. È il famigerato spread, che indica proprio la differenza di tasso di interesse tra i titoli italiani e tedeschi. Aumento del tasso significa una spesa maggiore per il debito, un peggioramento dei conti pubblici, quindi la sfiducia degli investitori, il che obbliga un nuovo aumento dei tassi offerti. La spirale è difficilissima da spezzare visto che i governi dell’area euro sono costretti a rivolgersi ai mercati per finanziare il proprio debito: non possono stampare moneta e per statuto la BCE non può aiutarli acquistando i loro titoli. Se nel 2008 la finanza privata ha ricevuto giganteschi aiuti dai

governi – secondo il discutibile principio profitti privati e perdite pubbliche – oggi i governi devono tornare sui mercati per farsi finanziare. Da un lato questo rimpallo tra pubblico e privati sembra un gigantesco gioco delle tre carte per non ammettere che i debiti del sistema finanziario sono semplicemente troppi. Dall’altro se nel 2008 i salvataggi delle banche sono arrivati senza condizioni e a tassi bassissimi o nulli, adesso i tassi di interesse per finanziare gli Stati sono molto più alti, e le condizioni durissime. I mercati “pretendono” i piani di austerità. Non si può spendere per il welfare, le risorse devono andare al pagamento del debito e a rimettere a posto i conti pubblici. Dobbiamo accettare i sacrifici per “restituire” fiducia ai mercati, come se all’esatto opposto non fosse questa finanza-casinò a dovere radicalmente cambiare rotta per riconquistarla, la nostra fiducia. Al contrario i mercati finanziari sono lasciati liberi di agire, come e peggio di prima. Nessuna regola, o quasi, è stata imposta ai responsabili della crisi. Il mercato dei derivati segna ogni giorno nuovi record, le grandi banche continuano a lavorare con leve finanziarie spropositate, i paradisi fiscali fioriscono. Ancora peggio, i maggiori attori finanziari possono approfittare delle difficoltà di alcuni Paesi per portare attacchi speculativi, in particolare tramite i CDS, titoli derivati


13 per certi versi simili ad assicurazioni, che consentono di scommettere contro il fallimento degli Stati sovrani, esasperandone la crisi. È necessario e urgente cambiare le regole del gioco. Sono molte le proposte messe in campo negli ultimi anni dalle reti della società civile internazionale. Da un lato una profonda riforma della governance europea, a partire dal ruolo e dalle funzioni della BCE. Dall’altra una radicale cura dimagrante e controlli vincolanti sulla finanza. Tassare le transazioni finanziarie, separare le banche commerciali da quelle d’investimento, chiudere i paradisi fiscali, bloccare la speculazione su cibo e materie prime, diminuire la leva finanziaria e via discorrendo. Nella maggior parte dei casi non ci sono difficoltà tecniche. Sappiamo cosa bisognerebbe fare e come procedere. È unicamente una questione di volontà politica, ovvero occorre superare lo scandaloso potere delle lobby finanziarie che si oppongono ad ogni forma di regolamentazione e controllo. Questa è però solo una faccia della medaglia. Accanto a un sistema di regole “dall’alto”, è da tutti noi, dal basso, che deve partire il cambiamento, prima ancora che in ambito finanziario, sul piano culturale. Quanti di noi presterebbero i propri soldi a chi volesse giocarseli al casinò? Eppure quanti di noi domandano alla propria banca, fondo pensione o di investimento l’utilizzo che ne viene fatto? Stiamo

finanziando l’efficienza energetica e le rinnovabili o il nucleare e i combustibili fossili, l’economia reale o la speculazione, l’economia del territorio o qualche paradiso fiscale? Se l’economia italiana è in recessione, come fanno le pubblicità delle banche a prometterci tassi di interesse del 4-5% netto sul nostro conto corrente? Dove investono per realizzare tali profitti? Se il PIL del mondo cresce del 2-3% l’anno e gli speculatori pretendono tassi di interesse sui loro investimenti 5 o 10 volte superiori, abbiamo un problema. Nel lungo periodo, le possibilità sono solamente due. O la finanza speculativa continua a risucchiare risorse in misura sempre crescente dall’economia reale, o si creano delle gigantesche bolle sul nulla che prima o poi esplodono. Abbiamo il diritto, e per molti versi il dovere, di esigere dalla nostra banca una piena trasparenza. In Italia, Banca Etica pubblica sul proprio sito tutti i finanziamenti concessi a imprese, associazioni e cooperative. Un esempio concreto di come il famigerato “segreto bancario” non sia legato a una qualche obbligo legislativo o a una generica riservatezza: se non c’è nulla da nascondere, non è necessario nascondere nulla. Perché le altre banche non fanno altrettanto? Perché come clienti e correntisti non le obblighiamo a farlo? Singolarmente i nostri risparmi possono essere molto limitati, ma tutti insieme hanno un enorme potere. È ora di


reclamarlo. In conclusione, per uscire dalla crisi il passo più importante deve consistere nel riportare la finanza a essere uno strumento al servizio dell’economia e della società, non l’opposto come avviene oggi. Per questo è necessario da un lato sostenere le campagne e le iniziative che chiedono nuove regole e controlli. Dall’altro dobbiamo evitare di essere, oltre che vittime, anche complici inconsapevoli di questo sistema. Se la nostra banca, il nostro gestore di fondi o la nostra assicurazione continua a giocare con i nostri risparmi come con le fiches di un casinò abbiamo una risposta tanto semplice quanto efficace: non con i nostri soldi.


15 di Andrea Aimar, Alessandra Quarta, Rocco Albanese

Paraloup e l’attrezzatura per fronteggiare la tempesta Confronto/dialogo con Marco Revelli

P

araloup è una borgata di poche case tra la valle Stura e la val Grana in provincia di Cuneo. E’ un luogo perfetto per osservare senza essere osservati. Intorno solo boschi e davanti l’orizzonte che si apre sulla piana e la sua città: Cuneo, stretta dai suoi fiumi. E’ per questa ragione che dal 19 al 20 settembre salgono a Paraloup 12 persone. Non sono pastori, è il 1943 e in montagna ci si sale per altri motivi. Ci sono anche Dante Livio Bianco e Duccio Galimberti tra quella dozzina di partigiani, arrivano alla borgata per un sentiero tra i boschi dov’era difficile, lo è tutt’ora, essere visti. Per quello stesso sentiero decidiamo di arrivare anche noi a Paraloup, partiamo da Valloriate, un paesino poco più a valle. Camminiamo per quasi tre ore e usciti dalla fitta boscaglia scorgiamo quel mucchio di case che raccontano un modo antico di vivere la montagna, forse irrimediabilmente perso. Ad aspettarci c’è


Marco Revelli, storico, politologo, sociologo. Sono tante le accezioni del suo lavoro intellettuale. Di certo è uno di quei chierici militanti da sempre dalla parte dei movimenti e delle loro ragioni. C’era salito anche suo padre Nuto, qui a Paraloup. Ma oggi non siamo venuti per parlare di resistenza, almeno non di quella al nazifascismo. Vogliamo incamminarci con lui per un altro sentiero, simbolico, in cui parlare di destra, sinistra, Stato, Mercato, movimenti, vie d’uscita. Quattro sedie, un registratore, una stanza umida e cominciamo il nostro dialogo, che è anche un confronto tra generazioni. È il febbraio del 1996 e dalle rotative della “Nuova Oflito” di Mappano, provincia di Torino, esce un libro dalla copertina rossa. L’editore è Bollati Boringhieri, l’autore è Marco Revelli, Le due destre è il titolo. Partiamo da lì, in un flashback lungo sedici anni. Sono quasi maggiorenni le due destre e nella loro crescita hanno modificato profondamente il nostro Paese. Un po’ come per i cani, gli anni delle culture politiche valgono molto di più. Per chi è capace di rinnovarsi, di sentirsi sempre giovane, le primavere sembrano non pesare. Per altri, invece, la vecchiaia è isolamento, chiusura, crisi. Appartengono al primo tipo le due destre: la prima, “populista e plebiscitaria”, ha tratti fascistoidi, è quella del razzismo, dell’autismo territorialista, è quella impaurita da un benessere materi-

ale in fuga verso nuovi lidi; la seconda, “tecnocratica ed elitaria”, è un po’ liberale e tanto liberista, ha un solo credo: il Mercato. Appartiene al secondo tipo la sinistra, o le sinistre: quella che “conta, che parla e fa parlare”, Pds nel ‘96 e PD meno “s” oggi, più protesi e appendice del progetto tecnocratico che soggetto politico autonomo; l’altra, la “sinistra-sinistra”, che resiste, nel 1996, e oggi sembra scomparire nella crisi del “moderno”. Sedici anni e non sentirli: sempre giovane la destra “tecnocratica”, ora saldamente al potere, un po’ ovunque. In Italia ha la faccia dei tecnici, da altre parti “usa” ancora uomini della “politica”. Un po’ in crisi, presa nella sue contraddizioni, la versione “populista”. I “neo-post-over” fascisti giocano a mimetizzarsi; il leghismo a forza di essere padrone a casa sua è diventato ladrone pure lui; e Berlusconi pare sia di nuovo senza capelli. L’appendice della destra è convinta di giocare un ruolo importante, si è illusa di rimanere giovane imitando altri, la chirurgia plastica non sempre funziona. In un mondo di prodotti contraffatti il PD prova ad essere un “falso” di buona fattura, ma l’originale è ancora un classico. E la sinistra oltre questa falsa dicotomia? Secondo Revelli per salvarsi avrebbe dovuto imparare ad essere sociale, modificare linguaggi, pratiche, atteggiamenti. L’aveva scritto: “O la sinistra saprà ripensarsi dentro lo spazio globale che costituisce oggi la reale “scena della storia” – lo spazio integralmente planetario


17 delle abissali disuguaglianze, di una nuova “questione sociale” che ripropone su scala infinitamente più ampia le asperità, le durezze, i dilemmi e i compiti che i movimenti operai nazionali hanno attraversato e affrontato tra il 1848 e il Novecento maturo – adeguandovi progetti, modelli organizzativi, linguaggi. O non sarà.» 1 Non è stata. Abbiamo appena iniziato il sentiero e già manca l’aria, c’è solo ombra, non si vede la luce. Nemmeno in lontananza. Chiediamo a Revelli, e ci proviamo anche noi, di capirci qualcosa. Individuare cause, responsabilità, processi che ci hanno lasciato al buio. Continuiamo a camminare e, come gli zapatisti, a domandare. Si ha la tentazione di fare come Pollicino e tracciare il percorso con delle briciole di pane per trovare poi la strada di casa. Sappiamo che andremo lontano nelle nostre riflessioni e ci addentreremo in terreni scivolosi, ambigui, problematici. Ci guardiamo in faccia e ce lo chiediamo quasi insieme: ma noi l’abbiamo ancora una casa a cui tornare? Mentre la sinistre decidevano di non esserci e ognuna procedeva nelle proprie eutanasie, il mondo – e con lui la società – cambiavano radicalmente. A venir meno era la strana coppia Stato-Mercato, una dicotomia che aveva stabilito regole, ruoli, strategie. Due modi 1

Marco Revelli, Le due destre, p.12

diversi di produrre e distribuire ricchezza, soltanto in apparenza. Nel modello socialdemocratico costruito sul fordismo e il keynesismo, la strana coppia cooperava. Più che un privato vs pubblico, un privato con pubblico. Un buon compromesso, tutto sommato. Poi ad un certo punto è saltato l’equilibrio. Per Revelli, e non solo per lui, tra la fine degli anni ‘70 e l’inizio degli ‘80 il meccanismo si rompe: il mercato si finanziarizza, si emancipa dai confini nazionali e decide di giocare la sua partita su di un piano internazionale. Lo Stato a questa sfida non sa più come rispondere, non contrattacca, perde la bussola, s’indebolisce. Le società da tale scontro ne escono disgregate. Emerge qualcosa di nuovo, si rompe un rapporto di identificazione sul quale si erano costruiti nel Novecento la politica, il conflitto, la rappresentazione della società. Viene meno l’equazione Stato=Pubblico, per generazioni intere è come sentirsi dire che Dio non esiste o che Babbo Natale non parte con la sua slitta nella notte del 24 dicembre. Nella rottura dell’equazione il primo a saltare è il meccanismo della rappresentanza politica. Una serie di funzioni di regolazione, di poteri, vengono traslati in alto ad un livello sottratto ai meccanismi di rappresentanza. Non sono più i parlamenti a decidere ma gli esecutivi insieme a poteri extrastatali, lobby, privati molto influenti. Probabilmente siamo già fuori dal patto costituzionale ma nessuno se ne è ancora accorto.


Abbiamo il fiatone. Il sentiero è complesso, ci sono deviazioni, la vegetazione si fa più fitta. Diventa difficile capire dove siamo e come dobbiamo muoverci. Ci servirebbe un machete, intellettuale s’intende, per fare un po’ di pulizia e chiarirci le idee. Revelli prosegue. Quella che partorisce la fine del compromesso socialdemocratico è un’istituzione esplicitamente a garanzia del privato, anzi, del privato forte. Lo Stato non viene più percepito come monopolista dell’interesse generale. L’Europa con la sua unità meramente monetaria lo schiaccia su una dimensione, direbbe Carl Schimtt, di “Stato amministrativo”, totalmente neutralizzato rispetto ai conflitti tra bisogni e interessi. A decidere sono meccanismi tecnocratici, all’apparenza neutri. È la sostanza del “montismo” ma purtroppo non è eccezione, è regola. Con un balzo storico Revelli ci catapulta sui referendum della scorsa primavera che secondo lui hanno fatto emergere con chiarezza il rapporto spezzato tra statualitàrappresentanza-sfera pubblica. La lezione dei referendum è chiara, di quello sull’acqua in particolare: c’è una dimensione del pubblico sottratta alla disponibilità del politico, come categoria, e dalla sfera della rappresentanza. Ci sono una serie di beni comuni che non possano essere disponibili né alla politica, né al mercato. Un messaggio chiaro: non ne devono disporre i rappresentanti che dovrebbero essere “il pubblico”

perché non sono più riconosciuti come tale. Cosa significhi tutto ciò è difficile da capire. È insieme problema e risorsa. Perché emerge anche un terzo circuito che Karl Polanyi chiamava della reciprocità, dell’auto-produzione di socialità che può prendere varie forme. E quali contorni, quali ampiezze, quali caratteristiche queste forme possano assumere, è difficile da stabilire. Quali “poteri”, quali istituzioni possano strutturarsi in questa terra di tutti e di nessuno, che è l’area dei beni comuni indisponibili, non è ancora dato sapersi? Cosa succede alla sfera politica? Siamo di fronte ad una disconnessione generale, ad un processo di scomposizione del “politico” di cui non possiamo non tener conto. Come dannazione si fa a trovare delle risposte? Abbiamo fame di soluzioni, vie d’uscita da intraprendere. Ci fermiamo a rifiatare un attimo. Va bene, lo abbiamo capito. Non possiamo che contare su noi stessi, le nostre gambe, il nostro fiato, le nostre intelligenze. E’ ora di trovare una traccia, un pezzo di sentiero che ci riporti un po’ di luce. Fino ad ora abbiamo compreso il problema, ci sono chiare le ombre e la complessità. La montagna è una buona pedagogia. Quando sei su ti abitui a fare a meno dei tuoi punti di riferimento classici. Sai che la tua auto poco ti serve per percorrere i sentieri; il tuo cellulare quasi sicuramente non ha campo; devi imparare a guardare il cielo, scovarne i movimenti, sentire il vento e carpirne


19 la direzione. In montagna lo devi prevedere se le condizioni del tempo peggioreranno, devi trovare soluzioni: ripararti o scendere a valle. Non ci sono, o ce ne sono poche, d’indicazioni. Devi imparare a leggere le mappe, orientarti, avere nuovi punti di riferimento: fiumi, montagne, alberi. Noi siamo esattamente come in alta montagna: dobbiamo trovare noi nuovi punti di riferimento, tracciare sentieri alternativi, prevedere la tempesta e trovare il modo di salvarci. Prolungare la quiete o attrezzarsi per la tempesta? Siamo nell’impasse. Il “modellino novecentesco” era chiaro: c’erano i soggetti sociali già aggregati dai processi produttivi, c’erano i partiti che funzionavano da corpo intermedio che agiva sul livello decisionale: lo Stato. I movimenti portavano in emersione bisogni, desideri, aspettative a cui la politica doveva rispondere. Il conflitto sociale, che era in qualche modo dato, era il generatore di energia per una società in evoluzione. Oggi tutto è saltato, ognuno di questi ruoli è, in maniere diverse, venuto meno. I partiti un po’ vittime e un po’ carnefici sono svuotati di senso. Lo Stato non è più il solo ed unico decisore. I movimenti non se la passano bene perché non sanno dove e come rivolgere le proprie istanze. Il conflitto è stato espulso dalla sfera pubblica. Che fare?

Data la mancanza di “un’aggregazione sociale in natura” una sinistra sociale e politica deve principalmente darsi l’obiettivo di “fare società”: di non stare solo sopra, nelle istituzioni, ma decidere di stare anche nei gangli della società per favorire forme di auto-organizzazione che anticipino un paradigma diverso rispetto a quello neoliberista. Quindi più che uno stare sopra o sotto, uno stare “infra”: tagliare trasversalmente i vari livelli con la capacità di elaborare, sparigliando prima i giochi, un “paradigma altro”, rinunciando a linguaggi ossificati e identitari propri di una nicchia. Bisogna costruire “isole” di nuove relazioni, dove provare a strappare anche pezzi di ricchezza tramite l’autogestione e la cooperazione nella produzione di beni e servizi. C’è la necessità, sempre secondo Revelli, di affiancare ad un sindacalismo meritorio in difesa dei diritti, un’azione di traghettamento di zone di lavoro in crisi fuori dal modello salariato. Per questo, sarebbe molto significativo se la Fiom, unico soggetto che ne ha ad oggi la forza, riuscisse ad organizzare anche una sola forma di autogestione sul modello argentino: avrebbe la possibilita’ di diventare un esperimentolaboratorio capace di dimostrare e validare una nuova prassi. Sul piano più prettamente politico e istituzionale bisogna fare attenzione alle lezioni degli ultimi anni. Per Revelli ogni qual volta un movimento si dà forma politico-


istituzionale si corrompe perché la rappresentanza cambia persino l’antropologia. Se non accetti quelle regole non ci sei. Non riesci a star dentro con il tuo linguaggio. I comunisti negli anni ‘50 e ‘60 potevano stare in Parlamento perché avevano un potere in fabbrica e nella società che li faceva stare attaccati alla “propria gente”. Detto questo, bisogna però fare attenzione a non rifugiarsi in tentazioni isolazioniste, di totale chiusura rispetto alla rappresentanza politica, anche perché – è pure questa una lezione degli ultimi anni – se non sei dentro non esisti, non hai voce nella sfera pubblica. Bisogna saperla usare, la rappresentanza, come un “armamento leggero”, per dirla alla Tronti. La presenza istituzionale se ben giocata può essere un megafono, può bloccare delle derive, può aprire delle brecce ma devi sapere che il tuo baricentro è altrove, nella società. Anche perché oggi, più che un tempo, al livello della politica parlamentare non si può dare una valenza risolutiva. Può essere un pezzo di una strategia solo se questa va ben oltre quel perimetro. Sentiamo il fiato che ritorna, le gambe un po più leggere, sul sentiero che stiamo percorrendo la vegetazione si fa meno fitta. C’è lo spazio ora per il sole che ci illumina il viso, in certi punti riusciamo a vedere anche l’orizzonte. Per Revelli non esiste “La Soluzione”, il colpo di genio, l’uomo o la donna della provvidenza. I partiti

sono in crisi? I movimenti non sembrano in grado di sostituirli? Bene, giochiamo la partita con quello che abbiamo, consapevoli del contesto in cui siamo. L’unica cosa che possiamo fare è battere strade nuove, seguire le intuizioni. Bisogna smettere di credere nella soluzione ultima. Forse anche questo il Novecento ce lo ha insegnato: è illusorio, oltre che fallace, credere nell’unico mezzo, nell’unica strada che ci condurrà al “sol dell’avvenire”. La rivoluzione è un processo complesso come complesso è il sistema che vogliamo cambiare, sostituire. Poi c’è di mezzo l’essere umano con le sue passioni, le sue debolezze, i suoi limiti. C’è una dimensione del fare politica che va recuperata, oppure creata se non riproducibile: è la dimensione umana delle relazioni sociali, dell’essere alternativi nel modo di gestire il potere e le gerarchie. Prendiamo la mappa e il taccuino per le annotazioni. Finora vuoti. Cominciamo a scrivere qualcosa, non soluzioni ma errori da evitare nel ricercarle. Per descrivere il presente, Revelli usa l’immagine di un grosso masso sul bordo del precipizio, pronto prima o poi a cadere. Questo per dire che nella crisi possiamo al massimo guadagnare tempo, perché se anche portassimo a casa la pelle come Europa, arriverà prima o poi l’effetto del big one (il debito americano). Non sappiamo quando la situazione possa accelerare ma sap-


21 piamo che accelererà. È dunque molto difficile capire quale forma politica darsi dentro un contesto prebellico, dove non sai quando la guerra scoppierà, ma sai che scoppierà. Ti attrezzi per prolungare la quiete, ti attrezzi per affrontare la tempesta? Se tu ti attrezzi solo per la tempesta non esisti nel momento in cui tutto è ancora da decidere. Se ti occupi solo del breve periodo poi nel lungo sei fuori. L’unica certezza che abbiamo è, secondo Revelli, l’auto-organizzazione. La Val di Susa è attrezzata alla tempesta e come le valli valdesi di qualche secolo fa è eretica nell’attuale scenario. Dobbiamo entrare in questa tempesta con un timone molto più robusto. Non conosciamo bene la rotta ma possiamo ritrovare i punti cardinali e quali sono gli ostacoli da aggirare. Dovremmo probabilmente lasciare qualche porto che riteniamo franco, ma questa è la sfida che dobbiamo giocare. Anche azzardare se è il caso. D’altronde quei dodici di Paraloup saliti quassù il 19 e 20 settembre 1943 sapevano solamente cosa si erano lasciati alle spalle, di ciò che avrebbero contribuito a costruire avevano solo una vaga idea. Una nuova mappa Siamo alla fine del sentiero, sul nostro taccuino annotiamo alcune indicazioni utili per le tante camminate che ci attendono. Le rivoluzioni abbisognano di tempi lunghi, servono una buona dose di tena-

cia e di pazienza. Scordiamoci di avere con noi chiara e nitida la via d’uscita, va costruita giorno per giorno. Se vogliamo davvero uscire dal Novecento portando con noi il buono di quel secolo, dobbiamo accettare la complessità e fare i conti con essa. È necessario rifiutare un terreno manicheo del tutto bianco, del tutto nero. Le dicotomie tra partito e movimento, tra società ed istituzioni, tra rivoluzione e riforme, tra il compromesso e il chiamarsi fuori debbono lasciare il passo. Abbiamo bisogno di un “terzo genere” che ci porti oltre questi dibattiti bloccati. Strategia e tattica, insieme. Nel criticare alcune ortodossie bisogna fuggire dal rischio di crearne altre. “Rifiuto della politica, il potere dal basso, la rivoluzione senza potere, anziché tappa di un percorso, verità parziali cui non rinunciare, rischiano di trasformarsi in una subcultura cristallizzata, in una retorica ripetitiva che ostacola una riflessione su se stessi e ogni definizione impegnativa delle priorità”.2 Dopo un’ora d’intenso confronto usciamo da una delle case ristrutturate della borgata. Fuori il cielo è grigio e ogni tanto scende una goccia. Oggi Paraloup fa parte di un progetto della fondazione intitolata a Nuto Revelli. Hanno messo in sesto alcune case, ne hanno fatto un luogo per la memoria e, soprattutto, un posto dove sperimentare nel micro delle relazioni altre, delle idee per il futuro e una speranza per 2

Lucio Magri, Il Sarto di Ulm, p. 20


il presente. Marco Revelli ci saluta, deve fare gli “onori di casa” ai ragazzi e le ragazze del Campeggio Resistente a Valloriate. Grazie al lavoro e alla passione di chi lo ha organizzato oggi qui nella borgata ci sono tanti giovani a confrontarsi su resistenze di ieri e resistenze di oggi. E’ anche questo Paraloup, chiamata così dalla cultura montanara di queste parti perché pare fosse un luogo in cui i lupi, numerosi un tempo in queste valli, non vi arrivassero. Ne abbiamo un disperato bisogno di posti così, che ci riparino dall’aggressione dei “lupi” di oggi. Un ultimo sguardo dall’alto prima di scendere: si torna in valle, il corpo è rinfrancato dalla camminata, i pensieri si attorcigliano, articolano domande e cercano risposte. Abbiamo percorso i sentieri partigiani, camminando verso la nostra Paraloup; in fondo, la chiacchierata con Marco Revelli ha rappresentato per noi un temporaneo rifugio, da dove guardare le contraddizioni, scoprire i nervi sensibili dei problemi e cercare soluzioni. Non ne abbiamo trovate, ma abbiamo capito che non potevamo riuscirci da li’: zaini in spalla, è il momento di affrontare la tempesta.


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di Lorenzo Zamponi

Rovesciare il potere, costruire l’alternativa, liberare l’Europa Intervista ad Alexis Tsipras, leader di SYRIZA, coalizione della sinistra greca Negli ultimi mesi SYRIZA è diventata un esempio in Europa per la sua capacità di contribuire all’opposizione alle misure di austerity imposte dalla Troika e di trasformare questa opposizione in una proposta di governo in grado di conquistare alle ultime

elezioni un consenso senza precedenti nel popolo greco. Quali sono stati, secondo te, I fattori più rilevanti per questo successo? Il catastrofico programma di politiche del memorandum che è stato imposto alla Grecia negli ultimi due anni e mezzo ha causato profondi cambiamenti sociali. La povertà, la disoccupazione e la miseria si sono dif-


fuse rapidamente, la recessione è diventata incontrollabile, la vita e la dignità delle persone sono state calpestate. I cittadini, che prima della crisi hanno votato per 40 anni all’80% o all’85% per i due maggiori partiti, si sono sentiti imbrogliati e offesi. SYRIZA si è schierata dalla parte della società fin dal primo momento. Abbiamo partecipato con tutta la nostra forza nei movimenti di resistenza sociale, abbiamo condotto una battaglia politica rivelando l’inefficacia e la brutalità delle misure di austerity, abbiamo rivolto appelli all’unità a tutte le forze progressiste della sinistra e costruito insieme un’alternativa. Alle ultime elezioni abbiamo detto che era l’ora di un governo della sinistra, che avrebbe aperto una strada alternativa. Questo slogan ha avuto un impatto senza precedenti sulla società, anche sulle persone che non votavano per noi. A seguito di un’incredibile campagna di terrore e intimidazione, non siamo stati, di poco, il primo partito. Ora, da una posizione di maggiore forza, continueremo fino alla vittoria. La sinistra greca ha in comune con quella italiana una storia di scissioni, divisioni e rivalità. Come siete riusciti a costruire un fronte unito in un momento così difficile? Credi che sia possibile, in futuro, costruire una più ampia coalizione della sinistra greca, guidata da SYRIZA, in grado di vincere le elezioni e governare il paese?

Il bisogno di andare avanti puntando su ciò che ci unisce piuttosto che su ciò che ci divide è un’eredità del Social Forum. SYRIZA è composta da dodici differenti gruppi politici. La necessità di allargare quest’unità è diventata ancora più intensa ora che la società sta cercando di difendersi dalla crisi. La bancarotta politica e ideologica della socialdemocrazia ha liberato forze che ora collaborano con noi. L’unità non è solo un fatto di leadership, buone intenzioni e accordi politici. È imposta dalle circostanze. La società la impone in modo da cambiare le cose. Perciò siamo fiduciosi che nei prossimi tempi il fronte che costruiremo intorno alla necessità di una via alternativa si allargherà ancora, rafforzando ulteriormente le potenzialità per un governo della sinistra. La Grecia ha visto, dal 2008 a oggi, un livello altissimo di conflitto sociale, e la vostra scelta di partecipare alle mobilitazioni contro l’austerity è considerata uno dei maggiori fattori della vostra forza. Il recento ciclo di mobilitazioni, in Europa, Africa e America, ha criticato fortemente la democrazia rappresentativa, proponendo la sperimentazioni di nuovi e più avanzati modelli. Quali sono, ora, le sfide più importanti che state affrontando, stando nello stesso tempo in piazza e in parlamento? È possibile costruire nuove forme di partecipazione politica, in grado di tenere insieme la rappresentanza e


25 il conflitto? È ovvio che il dominio del capitale e dei mercati sulle società sta portando il mondo al disastro. Dobbiamo costruire un mondo in cui le persone valgano più dei profitti. Per farlo è ovviamente necessario inventare nuovi modelli di sviluppo, nuove forme di partecipazione, nuovi modi di prendere le decisioni in politica. Queste idee non nasceranno da menti illuminate o in ristrette avanguardie rivoluzionarie, ma attraverso la pratica e l’esperienza del conflito sociale. Il nostro obiettivo è rovesciare i rapporti di forza. Questo richiede una lotta in tutti i campi: le istituzioni, il parlamento, la piazza, le idee. Dobbiamo rimuovere il potere e l’autorità dei nostri avversari, che sono i banchieri gli speculatori dei mercati finanziari, i canali televisivi e i giornali che loro controllano e i politici che li servono. Per fare questo dobbiamo superare le nostre paure, la paura della rottura e la paura di essere integrati nel sistema. La grande sfida per noi è convincere la società che può prendere in mano il proprio destino. La crisi finanziaria dell’UE non può essere risolta da un paese solo, specialmente se è condizionato da memorandum e accordi, e l’urgenza di trovare un’alternativa all’austerity richiede una nuova governance democratica europea. Ciononostante, i partiti politici, le competizioni elettorali e il di-

battito pubblico sono ancora basati sul livello nazionale. Cosa può fare un governo nazionale per cambiare la rotta della crisi? Cosa può essere fatto a livello europeo? E che ruolo possono giocare le prossime elezioni europee del 2014 in questo processo? Potrebbero essere una nuova occasione per un fronte europeo anti-austerity? Noi non crediamo che un cambiamento dei rapporti di forza nel Parlamento europeo possa di per sé cambiare la politica in Europa. Però potrebbe mandare un messaggio. I popoli ricevono i messaggi e li trasformano in battaglie. Questo è quello che è successo anche in Grecia. Quello che ha spaventato maggiormente il sistema di potere nel caso delle elezioni greche e della crescita di SYRIZA è stata la possibilità che il movimento della disobbedienza si diffondesse con un effetto domino ad altri paesi. È vero che i conflitti restano a livello nazionale, mentre le decisioni sono prese a livello europeo. Ognuno di noi può iniziare dal proprio Paese, per poi incontrarci in un movimento di massa per il rovesciare il potere, che si potrebbe diffondere in tutta Europa e in tutto il mondo. Prima della crisi questa sarebbe sembrata una prospettiva distante. Ora le cose stanno evolvendo rapidamente. Come vedi, ora, il futuro della Grecia, che potrebbe fare da es-


empio a paesi come Portogallo, Spagna e Italia? L’uscita dall’euro è un’ipotesi reale? Si tratta dell’unico modo per sfuggire alla trappola dell’austerity? Quali sono le alternative che state considerando? Non è certo che il ritorno a una valuta nazionale svalutata rafforzerebbe le forze del lavoro. Al contrario, i potenti sarebbero in una posizione ancora più forte. I lavoratori greci sarebbero in competizione con gli italiani, gli spagnoli e i portoghesi, sulla disponibilità a produrre merci più economiche con salari più bassi. Noi vogliamo alleati. Noi vogliamo rovesciare il dominio del capitale, e questo è fattibile più facilmente a livello europeo, piuttosto che in ogni singolo paese. L’uscita dalla moneta comune non è un obiettivo. L’obiettivo è avere banche pubbliche, solidarietà sociale, redistribuzione della ricchezza, sviluppo per i bisogni delle persone piuttosto che delle imprese. E questo è un obiettivo comuni per le persone e la comunità del nord e del sud. 10 anni fa, a Firenze, il Forum Sociale Europeo ha riunito un vasto schieramento di attori sociali e politici, anticipando per molti aspetti il dibattito di oggi sulla crisi, il sistema finanziario e la carenza di democrazia a livello europeo. 10 anni dopo, la necessità di una coalizione europea di movimenti, organizzazioni sociali e partiti politici contro l’austerity e per un

nuovo modello democratico e sociale europeo è più urgente che mai. Perché non è ancora successo, da dove possiamo cominciare per costruirla? Il Forum Sociale Europeo ci ha insegnato che la nostra grande potenza è la diversità di mezzi, obiettivi e dei movimenti stessi. Ha sottolineato i problemi e le contraddizioni del capitalismo neoliberista, ma non è riuscito a sviluppare una strategia alternativa. Ora, la via alternativa non è solo una possibilità tra le altre, ma è il nostro dovere di salvare il mondo dalla distruzione. Noi siamo ottimisti. Queste condizioni richiedono formule nuove e ci mostrano cosa dobbiamo fare. Se c’è un movimento di resistenza di massa capace di vincere della battaglie e di imporre le proprie condizioni, il fronte unito si formerà dal basso del modo più naturale, e in maniera molto rapida. Quello che le forze organizzate dovrebbero fare sarebbe partecipare nelle lotte sociali e identificare chiaramente gli avversari. L’ora in cui le società si uniranno intorno a un piano alternativo è molto vicina.


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di Lorenzo Marsili - European Alternatives, www.euroalter.com/IT

Europa e crisi della democrazia: per un’Assemblea Costituente Distruzione di ricchezza, impoverimento, attacco al mondo del lavoro, tensioni sociali, crisi del debito, rischio di implosione dello spazio europeo. Sono questi solo alcuni dei frutti amari della lunga crisi iniziata nel 2007. Ma si fa sempre più strada la percezione che almeno un’altra vittima d’eccezione rischia ora di essere immolata al focolare dell’emergenza: la democrazia europea. E con la chiusura dello spazio per una vera democrazia,

si chiude qualunque spazio per modelli economici, sociali e politici alternativi. Contro la costituzionalizzazione dell’austerità, è ora di richiedere l’apertura di un’Assemblea Costituente eletta a suffragio universale. La rivoluzione dall’alto L’evaporazione della sovranità è parte centrale della crisi della democrazia che stiamo vivendo. La


sovranità che appartiene al popolo evapora quando il risultato di un referendum viene disatteso o quando grandi opere di provata inutilità vengono imposte, così come evapora quando la definizione e la formazione della realtà economica e politica viene spostata in spazi immuni al controllo della cittadinanza. L’esempio più grossolano e più evidente è l’irruzione sulla scena del mercato, anzi, dei mercati. Nell’ultimo anno abbiamo vissuto uno strano spiritualismo finanziario, in cui la moralità della condotta, la retta via, viene dettata dal responso della borsa e dalle umorali omelie delle agenzie di rating e dei grandi investitori. E in cui il fine dell’agire politico non è più la giustizia sociale, il benessere di tutti e di tutte, ma la supplica di un armistizio con il Thanatos della finanza. “I vostri sacrifici saranno riconosciuti da un abbassamento dello spread”, rassicura Angela Merkel. Ma il processo strutturalmente più importante è la ricostituzione dello spazio europeo come spazio di sorveglianza e governance economica esente da qualsivoglia controllo democratico. Qui si entra nel reame delle sigle: Euro plus pact, poi rinforzato con il Fiscal Compact, e il MES, che apporterà nuove munizioni alla vigilanza sul bilancio. Con il Fiscal Compact tutti gli Stati si impegnano nella riduzione del debito eccedente il 60% del PIL in misura di un ventesimo l’anno, facendo

di tagli e riduzione di budget la cifra di ogni finanziaria di qualsivoglia governo seguirà; con le cosidette country-specific recommendations le istituzioni sovranazionali acquistano sempre più potere nel guidare metodi e obiettivi dell’azione politica all’interno dei singoli Stati membri dell’Unione, fino a poterne riscrivere le manovre finanziarie e sanzionare i Paesi inadempienti. Arriviamo così a una costituzionalizzazione di una dottrina economica di parte. Il pareggio di bilancio sempre e comunque, la riduzione del ruolo dello stato nell’economia, il mantra delle privatizzazioni e il rinnego del debito produttivo come strumento di sviluppo sono tutti elementi costituitivi di un certo tipo di pensiero economico. Un pensiero – seppur dimostratosi fallimentare – senz’altro con diritto di cittadinanza nell’agone della lotta politica, ma un pensiero comunque di parte. E a cui si contrappongono gli argomenti sulla centralità dello Stato nel fronteggiare la recessione, garantire una giusta redistribuzione della ricchezza, attivare adeguati strumenti di sostegno al reddito, sviluppare una politica industriale di riconversione anche attraverso il deficit e di monetizzare il debito, fra tanti altri. La democrazia è basata sulla normalizzazione del conflitto fra parti e l’apertura alla cittadinanza del dibattito sul percorso da intraprendere. Con il Fiscal Compact questo spazio di discussione, di alternativa, cessa di esistere. Un certo modo di intendere l’economia viene solleva-


29 to a principio guida e inserito in costituzione con il pareggio di bilancio. Il MES è l’acronimo per Meccanismo Europeo di Stabilità; il successore – salvo sorprese dalla Corte costituzionale tedesca – dello European Financial Stability Facility (EFSF). Concepito come un parente povero del Fondo Monetario Internazionale, il MES è predisposto ad intervenire per calmierare attacchi speculativi o ammanchi di liquidità sotto stretta condizionalità. È con lo EFSF che si comincia a parlare di Troika ed è con il “sostegno” accordato a Grecia, Irlanda, Portogallo e ora Spagna che il balletto della questua è cominciato. Portando con sè una rinnovata frantumazione dello spazio europeo e la divisione fra cittadini europei di serie A e di serie B, con alcuni Paesi costretti ad abdicare il controllo delle proprie politiche economiche e ad elemosinare la comprensione e l’approvazione dei cosiddetti Paesi “centrali”. Etienne Balibar ha descritto il momento che stiamo vivendo come una rivoluzione dall’alto. I nuovi meccanismi europei mirano alla ricomposizione radicale dello spazio europeo, in modo da cristallizzare un nuovo assetto istituzionale con la democrazia e l’alternativa relegate alla periferia. La messa in moto di tali processi e strumenti di coercizione decisionale indebolisce i sindacati, rimasti a lottare su scala nazionale contro sempre più stringenti e inappellabili “rac-

comandazioni” europee che vedono nell’abbassamento dei salari e nella precarizzazione dell’occupazione l’unico metodo per recuperare competitività; rende fatue le lotte dei movimenti per i beni comuni, costringendo gli Stati a svendere infrastrutture e servizi pur di abbattere il debito e garantire la libera concorrenza secondo le logiche vigenti del mercato unico; fa apparire irreali, dinnanzi alla necessità di ridurre di oltre quaranta miliardi l’anno le spese statali per obbedire al Fiscal Compact, le rivendicazioni di quanti chiedono un maggiore investimento nell’istruzione, nelle politiche sociali, nella conversione industriale e nella salvaguardia del territorio; lega le mani ai partiti. E soprattutto priva la cittadinanza della capacità di definire il proprio futuro collettivo e di giudicare autonomamente fra diverse rappresentazioni della realtà e diverse risposte alla crisi. Ma i ponti sono tagliati. Non c’è più spazio per una fuga all’indietro, per appelli alla ricostituzione della sovranità nazionale come strumento per restituire alla cittadinanza la sovranità che gli appartiene. Gli smarcamenti nazionalistici sono oramai il patrimonio di vaneggiatori a cottimo, o, nei casi ben più gravi dell’Europa dell’Est, di forze xenofobe con una forte impronta etnocentrica. I tentativi “riformisti” di governare la transizione europea a livello nazionale collassano inevitabilmente in una genuflessione al pensiero economico unico, e le dif-


ferenze fra schieramenti si limitano a un’adesione più o meno “sentita” e una leggerissima rimodulazione della ripartizione dei costi delle “riforme necessarie”. Mai come oggi le richieste di Europa politica si sentono da tante parti diverse. Ed è infatti ogni giorno più vero che la sola possibilità di invertire la rotta e uscire dalla crisi nel segno della democrazia e della giustizia sociale è nella costruzione di un vero processo costituente europeo guidato dal basso, capace di accettare la sfida del sorpasso della sovranità nazionale e di utilizzare questo processo per restituire ai cittadini la sovranità sopra il proprio futuro. Se la chiusura dello spazio dell’alternativa a livello nazionale è oramai realtà oggettiva e strutturale, la chiusura di questo spazio a livello europeo è realtà squisitamente politica, parte di un disegno di parte e di una visione di società, e per questa ragione è una realtà ancora ribaltabile attraverso la lotta politica. La costituente dal basso In questo periodo si discute della proposta – sfuggita ad Angela Merkel in un’intervista e recentemente rilanciata tra gli altri da Barroso – di una nuova Convenzione per rivedere il Trattato di Lisbona e aggiornare il funzionamento dell’Unione Europea alla luce degli sviluppi della crisi e dei nuovi strumenti di governance economica

rafforzata. Forte scetticismo verso questa proposta è lecito e dovuto, sia per ragioni di metodo che di merito. Il metodo è presto detto. Una prima opzione è la semplice continuazione di trattati e decisioni inter-governative ad hoc, così come fatto per il Fiscal Compact. Un meccanismo che supera qualunque discussione pubblica sulle decisioni prese, relega il Parlamento europeo a mero spettatore e che fa piombare sui cittadini europei tutto il peso di decisioni prese sulle loro teste e senza la loro partecipazione. Ma anche all’interno delle élites di governo si sta sempre più riconoscendo l’insufficienza di un processo di questo tipo. Per ragioni giuridiche – e qui grande ruolo sta svolgendo l’attivismo della Corte costituzionale tedesca – e per ragioni politiche. Il rischio di collasso della coesione sociale e di rivolte sempre più radicali della cittadinanza contro le decisioni prese aumenta nella misura in cui queste decisioni sono percepite come esterne al processo democratico e come costrizioni imposte da poteri distanti e tecnocratici. Una spolverata di legittimità, quindi, è lo scotto da pagare per l’accettazione di misure ancora più draconiane e vincolanti. E qui arrivano le proposte di Convenzione per la riforma dei trattati. Una Convenzione che vorrebbe avere la pretesa di rappresentare un nuovo processo costituente, ma che invece si ridurrebbe a una conferenza inter-governativa


31 con un ruolo modesto e principalmente decorativo della cittadinanza e del Parlamento europeo. Il metodo intergovernativo è strettamente collegato alla questione di merito. Non c’è alcuna volontà di aprire una discussione franca e partecipata sullo “stato dell’Unione” e di immaginarne una nuova definizione. Se la democrazia e la possibilità di alternativa che contiene viene vista come un vaso di Pandora, il metodo intergovernativo è la soluzione migliore per tenere il vaso chiuso, usando la parvenza di legittimità di una Convenzione per costituzionalizzare in una nuova architettura europea la tecnocrazia e il governo della e per la finanza. I governi nazionali sono i principali attori del disastro economico e sociale in cui ci troviamo; le politiche che hanno promosso in sede europea nei cinque anni passati dallo scoppio della crisi danno una precisa indicazione sul tipo di riforme costituzionali che emergerebbero da una Convenzione gestita e decisa dagli stessi governi. Il momento che stiamo attraversando è quindi già costituente, seppure con rapporti di forza profondamente impari e una spinta propulsiva che viene principalmente dalle élites politiche e finanziarie. Per le forze che si oppongono a questo tipo di trasformazione, che ripeto, è già in atto, non è più possibile esercitare il semplice rifiuto, ma occorre mettere in campo una forte iniziativa

politica di eguale rango costituente, avanzando una proposta articolata di ricostruzione della struttura europea e dei suoi processi decisionali. Tale proposta dovrà esercitare una forte rottura con lo status quo sia nel metodo che nel merito. Se si parla di costruire una nuova architettura costituzionale europea, per noi questa costruzione non può che essere portata avanti in primis dai cittadini stessi. È qui che contro la proposta di Convenzione intergovernativa molte forze hanno messo in campo l’idea di un’Assemblea Costituente, eletta a suffragio universale da tutti gli europei e incaricata di redigere una nuova stesura dei trattati in stretta cooperazione con le forze sociali, sindacali e le istituzioni elette in particolare a livello locale. Mentre l’Europa si affretta a un tardivo appoggio alle assemblee costituenti che in Tunisia ed Egitto sono chiamate a riscrivere la costituzione di quei Paesi, non si capisce perché agli europei si debba offrire niente di meno. Nuova proposta costituzionale, quindi, da sottoporre poi all’approvazione di tutti i cittadini attraverso un referendum paneuropeo. Attualmente si discute attorno a due tempistiche possibili: Assemblea nel 2013, seguita da referendum in contemporanea alle elezioni per il Parlamento europeo del 2014, o elezione dell’Assemblea contestualmente alle elezioni europee. Tutte le realtà perdenti nell’attuale definizione dei processi decision-


ali europei hanno un chiaro interesse in una riscrittura delle regole dell’Unione Europea per mezzo di processi realmente democratici. E tutte le realtà perdenti attualmente sono i cittadini defraudati dei propri diritti democratici, i sindacati che si vuole ridurre alla marginalità, gli amministratori locali che con velleitari patti di stabilità sono stati i primi a fare i conti e il Parlamento europeo a cui viene ancora negato il potere di avanzare proposte di legge. Il processo verso la convocazione di un’Assemblea Costituente – che, con uno scatto di reni, potrebbe essere richiesta dallo stesso Parlamento europeo – deve essere un grande processo di coinvolgimento di tutti questi attori. Pensiamo all’esempio della revisione costituzionale islandese: consultazioni regolari con i cittadini, spazi online, apertura a tutto il tessuto associativo. Tramite un coinvolgimento delle amministrazioni locali e con una forte mobilitazione del mondo intellettuale, sindacale, e politico, non è così difficile immaginare la creazione di un processo partecipativo che tocchi veramente l’interità dello spazio europeo. Un tale metodo porta anche a ovvie differenze di merito rispetto alla proposta di Convenzione intergovernativa. Non si tratta qui di dare rango costituzionale alle politiche di austerità e controllo di bilancio approvate fino ad ora dall’UE, ma di rimettere in gioco gli assetti fondamentali dell’Unione. Il con-

tenitore si fa dunque ampio, e può essere riempito di tutte le importanti proposte emerse nel corso di questi anni ma orfane di interlocuzione istituzionale e di reale incisività politica. Pensiamo alle discussioni sulla riforma della finanza e del ruolo della Banca Centrale Europea; alle tante proposte di attuazione di politiche sociali e del lavoro, dal sostegno al reddito a un sussidio di disoccupazione su scala europea, dalla protezione del principio di negoziazione collettiva a misure contro il dumping sociale; alle richieste di salvaguardia su scala europea dei beni comuni e dei servizi pubblici contro l’ossessione del mercato sempre e comunque; alle iniziative di investimenti verdi e riconversione industriale, fra tante altre. Novembre vedrà l’apertura dell’importante manifestazione Firenze 10+10, che segna il decennale dal primo Forum Sociale Europeo e che con una fortissima partecipazione di reti, movimenti e forze sociali da tutta Europa rappresenta un’occasione concreta di rilancio della mobilitazione su scala continentale. La questione della democrazia sarà centrale, con la speranza che da Firenze possa emergere un forte consenso per l’apertura di un processo costituente per la ridefinizione dello spazio politico europeo. È ora di unirsi e di dire che basta così. Che l’Europa non diverrà una pallida imitazione della Cina, condividendone le pratiche tecnocratiche e lo sfrutta-


33 mento del lavoro. Che l’Europa non imploderà, lasciando dietro a se un tracciato di rimpianti, miseria e macerie pronte ad essere svendute al primo offerente. E questo perché l’Europa ha una grandissima forza, che è la forza di una cittadinanza capace, vigile e indisposta a farsi trascinare nel baratro. Dopo cinque anni sprecati dai governanti che si sono succeduti, è l’ora che il testimone sia passato a questa cittadinanza. Se l’Europa si fregia di essere fondata sulla democrazia, una sua rifondazione non può che ripartire da lì.


di Giuseppe Montalbano

Le lobby finanziarie e le basi della crisi in Europa

R

ivolgendo la critica e la lotta ad un sistema di governance esemplificato in una “Europa dei banchieri”, i diversi movimenti sociali e le forze politiche di opposizione ai diktat della Troika e dei neo-conservatori tedeschi rivelano una matura consapevolezza nell’identificare uno dei nodi principali dell’attuale crisi del capitalismo finanziario: quale prodotto, in notevole misura, delle contraddizioni interne al modello neoliberista di integrazione europea. La conquista di un nuovo spazio di democrazia nel governo sovranazionale

dell’economia e della finanza assume quella priorità indispensabile a fronte di un assetto istituzionale, come quello dell’Unione Europea, congegnato per assicurare alle più potenti lobby gli scranni d’onore ai tavoli in cui prendono forma le politiche economiche e finanziarie regionali. Comprendere da vicino la connessione strutturale tra gli organi di governo dell’UE e gli interessi delle società finanziarie transnazionali significa per i movimenti dotarsi di un’ulteriore bussola per affinare le proprie mappe del campo avversario. Dare un’idea essenzi-


35 ale della posta qui in gioco, nel tentativo di strappare una simile questione a una (troppo) ristretta cerchia di studiosi, è quanto si cercherà di fare in questo breve contributo. Nell’articolazione dei poteri interni all’Unione Europea, la Commissione resta il primo organo di governo in cui si concentrano la funzione legislativa, quella esecutiva e in parte la stessa vigilanza sull’effettivo rispetto da parte degli Stati membri delle misure approvate in sede europea. Nonostante il Parlamento abbia acquisito con il trattato di Lisbona maggiore voce in capitolo nella governance europea, con un’inedita capacità di veto sui disegni di legge e la nomina del presidente della Commissione, la bilancia dei rapporti di forza continua a pendere dalla parte di due organi prodotti dalla stessa integrazione del mercato europeo e svincolati da ogni accountability democratica. Da un lato un “Consiglio europeo” nato come un summit informale dei capi di Stato e di governo dei Paesi membri, sul modello del G8, e successivamente istituzionalizzato quale primo organo di direzione politica dell’Unione. Dall’altro la Commissione: un vero e proprio governo “tecnico” formato da commissari nominati tra le figure di spicco, quali professori, manager e dirigenti, dei diversi settori della governance regionale. Un simile organo spicca subito per il suo inedito profilo rispetto alle tradizioni istituzionali, più o meno democratiche,

della vecchia Europa: un tavolo di “esperti” all’infuori delle élites politiche e dei canali di rappresentanza gode del ruolo politico primario all’interno dell’Unione, assumendo la prerogativa dell’iniziativa legislativa e determinando l’esecutività degli stessi provvedimenti. I commissari, a loro volta, sono la punta di un iceberg la cui base si allarga e diventa sempre più difficile circoscrivere quanto più si scende in profondità. Ognuno di questi è infatti a capo di un “direttorato generale” costituito da un pool selezionato di altri tecnici, advisors e consulenti dei primi consulenti che a loro volta danno vita e presiedono a ulteriori sottocommissioni la cui entità e numero dipende dai disegni di legge in questione. Nel fitto intreccio che dà vita a questa imponente burocrazia sovranazionale i cui attori non devono rispondere ad alcun elettorato, si situano quei tavoli di confronto con la “società civile” e gli interessi di categoria che potremmo definire i gangli vitali del processo di costruzione dell’agenda che guiderà l’elaborazione e la stesura delle bozze delle future leggi dell’Unione1. Due sono le caratteristiche essenziali di questi tavoli di consultazione. La prima è che la maggioranza dei posti a sedere disponibili viene inaspettatamente occupata dal set1 Cfr. Bouwen P., The European Commission, in Coen D., Richardson J. (eds.), Lobbying the European Union. Institutions, Actors and Issues, Oxford University Press, Oxford and New York 2009, pp. 19-38.


tore privato, rappresentato in primo luogo dai colossi leader dei diversi settori interessati. Nonostante il regolamento interno alla Commissione per la composizione degli expert groups stabilisca la necessità di assicurare una pluralità di punti di vista, garantendo sulla carta un bilanciamento degli interessi rappresentati, di fatto gli “esperti” non governativi del settore imprenditoriale e delle società finanziarie sono prevalsi in questi anni sulle associazioni dei consumatori, i sindacati, i centri di ricerca pubblici. La seconda è invece il ruolo privilegiato di quegli stessi privati che fanno valere i loro interessi in sede di costruzione a monte delle iniziative di legge e, allo stesso tempo, sono gli stessi a fornire il fior fiore degli advisors e dei consulenti tecnici richiesti dalle diverse commissioni e sotto-commissioni. Le competenze e il sapere necessario alla formulazione delle misure che verranno proposte al voto del Parlamento provengono in sostanza dal bagaglio del know-how aziendale che le grandi imprese e multinazionali possono vantare. Questi tavoli rappresentano quindi il punto in cui gli interessi dei privati e la formazione tecnica dei burocrati europei si incrociano e si confondono rivelando le loro radici comuni, in un inedito meccanismo di scambio e riproduzione delle élites di tecnocrati che i trattati europei pongono di fatto al vertice del sistema di governo dell’Unione2. Il cerchio si chiude nel momento in cui, facendo un

esempio assurdo, un advisor della Goldman Sachs, insigne luminare della Bocconi, diventa a sua volta commissario europeo alle politiche finanziarie, guadagnando una tale rispettabilità da venire designato a capo di un governo tecnico in un Paese membro. Una simile dinamica istituzionale tende a circoscrivere implicitamente lo spazio delle scelte politiche possibili ad una cerchia precisa di interessi forti i cui attori coincidono con quelli che svilupperanno la stesura di misure e regolamentazioni. Diversamente da altri sistemi, in cui la strategia primaria delle lobby nei processi legislativi si basa sulla rete di clientele intessuta con i partiti e i singoli parlamentari, sui cospicui finanziamenti alle campagne elettorali e sulla creazione di rapporti di dipendenza e scambio con le amministrazioni pubbliche (in primo luogo il Congresso degli Stati Uniti, modello di un “pluralismo democratico” come foglia di fico delle oligarchie imprenditoriali), nel caso della Commissione europea e dell’UE squadre di tecnici stipendiati e azionisti di grandi società sono stati e continuano ad essere i primi protagonisti delle politiche dell’Unione fin dai primissimi passi. La storia dell’integrazione europea, come affermazione sovranazionale di un paradigma di governo economico neoliberista, può e probabilmente merita di essere letta anche dal punto di vista del ruolo chiave


37 giocato dai più potenti gruppi di interesse2. Un capitolo centrale di questa storia ancora da scrivere spetterebbe di certo ai sospetti legami e convergenze tra, da una parte, gli interessi dei grandi gruppi bancari, finanziari, assicurativi e delle agenzie di rating e, dall’altra, l’architettura economica e finanziaria assunta dall’Europa su iniziativa della Commissione. Negli ultimi decenni il lavoro del direttorato generale per il mercato interno, cui fanno capo i disegni di legge sul funzionamento e la regolamentazione del sistema finanziario, è stato condotto e controllato da quei giganti bancari cui deve ascriversi il merito di aver affermato e istituzionalizzato a livello internazionale un modello di deregolamentazione e liberalizzazione selvaggia dei mercati finanziari che ha posto le premesse della crisi attuale. Il percorso che ha condotto all’Europa fondata sulla libertà dei mercati e il rigore monetarista è tortuoso e complesso: senza alcuna pretesa di fornirne una chiave di lettura esemplificata, si può in questa sede notare almeno un aspetto in grado forse di gettare luce sul sistema anti-democratico di selezione degli interessi dominanti su cui sono stati edificati la legittimità e il profilo dell’UE. In tutti i consessi, più o meno informali, da cui hanno preso 2 Cfr. I tre capitoli chiave del report del Corporate Europe Observatory, Europe, Inc. – Regional & Global Restructuring and the Rise of Corporate Power, consultabili al sito www. corporateeurope.org

forma le direttive, i regolamenti e i trattati europei sulla regolamentazione delle attività finanziarie, la rappresentanza del settore privato ha sempre surclassato ogni altra: le lobby multinazionali si sono assicurate in questo modo un canale esclusivo per influenzare e determinare da vicino i processi decisionali interni alla Commissione, affermando l’interesse di parte in un parere tecnico. Facciamo alcuni esempi, tanto per rendere l’idea34. Nel 2001 la Commissione pubblica le linee guida per la prima serie complessiva di misure relative alla (de-)regolamentazione del mercato dei prodotti finanziari, il Financial Services Action Plan (FSAP). Il gruppo “tecnico” che ha contribuito maggiormente alla stesura di queste linee guida, il Commission’s High Level Strategy Review Group, consisteva di 16 membri provenienti tutti dal settore finanziario privato: in prevalenza rinomati banchieri, advisors e manager di fondi investimento e pensione. Non a caso l’Action Plan prevedeva la creazione di sei ulteriori gruppi di consulenza che avrebbero dovuto fornire assistenza alla Commissione nell’effettiva creazione del 3 Uno studio pioneristico è quello di Van Apeldoorn B., The Transnational Capitalism and the Struggle over European Integration, Routledge, London 2002. 4 Gli esempi sono tratti dallo studio di ALTER-EU “A captive Commission. The role of the financial industry in shaping EU regulation”, consultabile al link: http://www.alter-eu. org/documents/2009/11/captive-commissionfinancial-industry-shaping-eu-regulation


mercato finanziario unico. Una ricerca di ALTER-EU rivela che, per i quattro gruppi di cui è stata resa nota la composizione, la totalità o la stragrande maggioranza dei membri siano stati esponenti di multinazionali come BNP Paribas, Barclays Bank, Lloyds TSB, ABN Amro e Merrill Lynch. L’anno dopo la Commissione ha dato vita ad una profonda riforma del processo decisionale europeo relativo al settore finanziario, affidando ad una ristretta sotto-commissione di esperti il compito di formulare un disegno di governance complessivo. La commissione “Lamfalussy”, da cui avrebbe preso le mosse un processo di ottimizzazione delle procedure di governo sulle politiche finanziarie, tale da sottrarne una buona fetta di controllo al Parlamento, contava cinque esponenti dell’industria finanziaria su otto membri. In sostanza questa riforma ha lasciato le mani libere ai gruppi “tecnici” della Commissione di definire i “dettagli” delle leggi in materia finanziaria già approvate da Parlamento e Consiglio dei Ministri dell’Unione, curandone la loro effettiva messa in opera per ogni singolo Paese. Queste differenti fasi sono governate da tre sotto-commissioni differenti: una è composta interamente da manager del settore privato, mentre le altre due ne sono dominate con una larghissima maggioranza. Ma andiamo agli anni più recen-

ti: sì, perché i tecnici che hanno messo in piedi il sistema che ha condotto al contagio della crisi del 2008 garantendosi ampi margini di profitto, il salvataggio con i soldi pubblici e (almeno fino ad ora) la totale impunità per lo smercio di titoli tossici, sono gli stessi ai quali si è rivolta la Commissione europea per mettere a punto un piano di misure urgenti per arginare quella stessa crisi. Al tavolo della commissione “Laroisière” troviamo niente di meno che la crème della finanza mondiale: manager e consulenti legati a quelle stesse società direttamente coinvolte nello scoppio della crisi, quali la Lehmann Brothers, la Goldman Sachs, BNP Paribas, Citigroup, il direttore della UK Financial Services Authority, le cui previsioni e rassicurazioni ai risparmiatori si sono rivelate catastrofiche, e infine un tecnico-luminare, Leszek Balcerowicz, di incrollabile fede deregolamentatrice. Anche se non possiamo disporre di resoconti delle discussioni interne a quella commissione, l’orientamento prevalente non è difficile da immaginare. Gli esempi brevemente tratteggiati sono indicativi del livello di dissimmetria strutturale nei rapporti di forza interni alla governance dell’UE. Con un Parlamento europeo privo di ogni capacità di iniziativa legislativa e di un’autentica dialettica politica al suo interno tale da conferirgli una qualche concreta legittimità, con la scarsa se non nulla rappre-


39 sentatività e forza contrattuale dei gruppi di interessi antogonistici alle lobby finanziarie, il sistema di rappresentanza degli interessi dell’UE appare come una chiave di volta decisiva del dominio esercitato da una classe capitalista finanziaria di tipo transnazionale. Un dominio che assume la forma di un’inedita egemonia che non produce più consenso, ma la “tecnica” in grado di tramutare un settore di interessi forti nel migliore dei mondi possibili del governo dell’economia mondiale. Spezzare la neutralità faziosa e violenta dei tecnocrati significa oggi porre, nell’unica via realistica ad un cambiamento, la lotta contro l’austerity come lotta per una rifondazione democratica e sociale di un’Europa voluta e congegnata non per i suoi cittadini, ma per i margini di profitto del capitale internazionale.


di Paolo Roberti e Lorenzo Zamponi

Austerity, welfare e democrazia, il gioco di specchi tra Italia e Germania Stiamo davvero vivendo al di sopra delle nostre possibilità? Welfare a confronto tra Italia e Germania

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a crisi dell’Eurozona sta scavando un solco sempre più profondo tra i Paesi europei. In particolare, la scelta del governo tedesco di centrodestra guidato da Angela Merkel di porre il veto su qualsiasi iniziativa di politica monetaria per far calare gli interessi sul debito pubblico dei Paesi europei maggiormente indebitati ed evitare quindi il rischio di default sta alimentando una spaccatura sempre più forte e pericolosa tra l’opinione pubblica dei Paesi del centro-nord europeo, primo fra tutti la Germania, e quella dei Paesi periferici esposti in questi mesi alla speculazione sul debito pubblico (Irlanda, Grecia, Portogallo, Spagna e Italia). I diktat di Merkel e della Bundesbank contro ogni moderato tentativo di porre un freno agli interessi sul debito e quindi permettere agli

Stati indebitati di finanziarsi stanno rendendo sempre più impopolare all’estero il governo tedesco, alimentando vecchi nazionalismi. Allo stesso modo, nel dibattito pubblico tedesco ed europeo in generale si stanno creando dinamiche simili a quelle della propaganda leghista,


41 che descrivono l’attuale crisi finanziaria dell’Eurozona come un risultato delle spese sociali folli dei Paesi periferici, che si sarebbero indebitati troppo per mantenere sistemi di welfare da privilegiati, e che ora vorrebbero far pagare il conto ai contribuenti tedeschi, che invece da brave formichine hanno tirato la cinghia. Il 22 giugno 2012 Der Spiegel, il settimanale più letto in Germania, scrive in un editoriale: “Merkel chiede solo la fine della spesa pubblica per sostenere l’economia: quel che serve ai Paesi del sud, aggiunge, è un’agenda di riforme come quella realizzata dalla Germania negli anni 2000: qui c’è la chiave per il risanamento e dunque della salvezza dell’euro.”1 L’austerity, quindi, sarebbe una necessaria cura dimagrante per popoli che hanno vissuto al di sopra delle proprie possibilità, mentre i previdenti tedeschi si sacrificavano duramente. La narrazione è potente, del resto Umberto Bossi ci ha costruito una carriera politica. Ma l’esperienza quotidiana di qualsiasi giovane italiano che si trovi a girare l’Europa porta a considerazioni radicalmente diverse: noi nell’austerity siamo nati e vissuti, dato che dal 1992 a oggi i diversi governi di centrodestra e di 1 Spiegel, attacco all’Italia: «La smetta di chiedere l’aiuto di mamma Merkel», Il Messaggero [online] 22 giugno 2012, disponibile a <http://www.ilmessaggero.it/ economia/spiegel_attacco_allitalia_la_smetta_di_chiedere_laiuto_di_mamma_merkel/ notizie/204142.shtml>

centrosinistra che si sono succeduti non hanno mai smesso, pur chiaramente in maniera molto diversa tra loro, di tagliare la spesa sociale, in particolare per quanto riguarda istruzione e ricerca, sanità, servizi sociali e pensioni. L’Italia di oggi non è quella degli anni ‘80 (e anche allora, come ha recentemente mostrato Domenico Moro su Pubblico, la crescita smisurata del debito pubblico era più legata all’impennata degli interessi che ai servizi pubblici, il cui costo era anche allora sostanzialmente inferiore a quello tedesco2), e sicuramente non è il paese di Bengodi in cui lo Stato provvede per ogni nostro bisogno. Andare in Germania, in Francia o in Paesi dell’Europa settentrionale, per noi, resta un’esperienza affascinante: vediamo uno Stato che funziona, che investe sui nostri coetanei, vediamo servizi pubblici ben più diffusi e potenti di quelli italiani, vediamo un’università praticamente gratuita e forme di reddito per i soggetti in formazione. Tornati in Italia, ricominciamo a fare la fila per pagare il ticket in ospedale, a versare rette universitarie stellari, a dover contare sulla famiglia se restiamo senza lavoro, e del sistema di welfare meraviglioso che tutti ci imputano, nessuna traccia. Insomma, sembra, a differenza di quanto propagandato dalla narrazione dominante, sia proprio il forte investimento pubblico 2 Moro, D. (2012) Le vere cause del debito pubblico italiano, Pubblico [online] 31 agosto, disponibile a: <http://pubblicogiornale. it/economia-2/le-vere-cause-del-debito-pubblico-italiano>


nell’economia, cioè la cosa che teoricamente è imputata all’Italia, una delle chiavi del miracolo economico della Germania. Ovviamente si tratta di una semplificazione, perché anche la socialdemocrazia tedesca non è quella di qualche decennio fa, e la Germania esce effettivamente da un periodo di diminuzione del peso dello Stato, la cosiddetta Agenda 2010. Nel 2003 il cancelliere Schroeder, in un discorso al Bundestag, affermò la necessità di riforme strutturali per la Germania, che si sarebbero mosse in tre direzioni: l’economia, lo stato sociale e la competitività dell’economia tedesca nel mondo. Le riforme erano necessarie perché il PIL tedesco da qualche anno non registrava una crescita sostenuta e l’economia tedesca era ormai considerata in declino. Schroeder chiamò questo pacchetto di riforme “Agenda 2010”, richiamando l’agenda di Lisbona, una serie di direttive europee volte alla liberalizzazione del mercato del lavoro, alla riduzione dello stato sociale e al progresso tecnologico. Tra le misure che furono implementate ci furono tagli alle tasse, tagli alla spesa medica, tagli alla spesa pensionistica e agli ammortizzatori sociali. Ma è proprio vero che i tedeschi hanno fatto il lavoro sporco mentre noi ce la godevamo? È vero che, oggi, l’Italia ha uno stato sociale elefantiaco mentre la Germania ne ha uno molto più snello?

Andando a vedere i numeri, nel database pubblico del sito dell’OCSE, che permette di comparare diversi Paesi in base ad alcuni indicatori economici, sembra non sia proprio così. Se mettiamo a confronto la spesa sanitaria pubblica dello Stato tedesco3 ed italiano4, infatti, scopriamo che la prima è l’8,5% del PIL tedesco nel 2003, scende fino all’8% nel 2007 e sale all’8,9% nel 2009. La spesa sanitaria pubblica italiana era il 6.2% del PIL nel 2003, ed è salita costantemente fino a raggiungere il 7.4% nel 2010. Quindi almeno se consideriamo la salute, è la Germania, e non l’Italia, la spendacciona. Ricordiamo che tutte queste cifre non sono assolute, ma calcolate rispetto al PIL, cioè alla ricchezza prodotta complessivamente da un Paese. Non stiamo quindi semplicemente dicendo che la Germania spende in sanità più dell’Italia (essendo un Paese oggi più ricco, sarebbe quasi normale), ma che spende di più in rapporto alla ricchezza, in rapporto a ciò che si può permettere. Andiamo ora a vedere un altro tipo di spesa pubblica, quella che l’OCSE chiama spesa sociale. Si tratta di trasferimenti di denaro, sconti fiscali, ammortizzatori sociali,

3 OECD (2012) Country Statistical Profile: Germany. OECD [online] 18 gennaio, disponibile a <http://www.oecd-ilibrary. org/economics/country-statistical-profilegermany_20752288-table-deu> 4 OECD (2012) Country Statistical Profile: Italy. OECD [online] 18 gennaio, disponibile a <http://www.oecd-ilibrary. org/economics/country-statistical-profileitaly_20752288-table-ita>


43 ed ogni tipo di spesa redistributiva che lo Stato compie. La Germania investiva il 26,6% del proprio PIL nel 2000 nella spesa sociale, aumentandolo fino al 27,2% nel 2005, per scendere al 25,2% nel 2007. Lo Stato italiano spendeva il 23,3% del proprio PIL nel 2000, arrivando al 24,9% nel 2007. Quindi è vero che la Germania ha fatto una cura dimagrante. Ma, nonostante questo, anche per quanto riguarda la spesa redistributiva l’Italia sta costantemente sotto la Germania. Si arriva al pareggio nell’istruzione, secondo i dati del rapporto OCSE “Education at a glance 2011”5: il maggiore investimento italiano nella scuola primaria e secondaria (Germania 2,8% del PIL, Italia 3.2%) è ampiamente compensato dal dato opposto sull’università (Germania 1,2% del PIL, Italia 0,8%), per arrivare a una spesa totale del 4,6% del PIL in entrambi i Paesi. Se però pensiamo che questi dati si riferiscono al 2008, cioè alla vigilia dei più grandi tagli alla spesa della storia dell’università italiana, quelli sanciti dalla legge 133, è evidente come questo equilibrio sia nel frattempo saltato. L’unico settore in cui la spesa sociale italiana è maggiore di quella tedesca è quello pensionistico: il 14.1% contro il 10.7% della Germania nel 2007. Per avere però una misura utile per capire il peso 5 OECD (2001) Education at a Glance 2011: OECD Indicators, OECD Publishing.

dei due sistemi pensionistici sulle finanze pubbliche è da considerare la contribuzione che i lavoratori e i datori di lavoro pagano alle casse pensionistiche. In Italia un lavoratore a tempo indeterminato versa il 33% del proprio stipendio, mentre in Germania il contributo è il 19,6%, e in Italia questi contributi vanno a coprire anche molti strumenti assistenziali (come la cassa integrazione o le pensioni d’invalidità) che altrove sono considerate spesa redistributiva e coperte dalla fiscalità generale. Se si aggiunge il drastico innalzamento dell’età pensionabile (66 anni, ad oggi la più alta d’Europa) sancito dalla riforma Fornero, i numeri sembrano destinati a invertirsi. In generale, quella che ci racconta l’OCSE è quindi una storia ben diversa da quella che è stata venduta ai cittadini tedeschi: il nostro welfare state annaspa dietro a quello tedesco, che, pure ridotto con le misure dell’Agenda 2010, continua a essere ben più sviluppato dal nostro. Smontata questa storiella, resta da capire come mai l’Italia stia soffrendo questa crisi di fiducia degli investitori nel proprio debito sovrano. Com’è noto, il nostro spread continua ad aggirarsi intorno ai 400 punti base. L’altra favola, narrata prima di andare a letto ai bambini tedeschi se non prendono sonno con quella sul mostro dello stato sociale italiano, è che sia il debito pubblico ad aver causato tutti i nostri proble-


mi. Se questo fosse vero, avremmo dovuto notare un aumento del rapporto debito/PIL negli anni precedenti alla crisi economica. Invece il rapporto debito/PIL italiano è sceso dal 121,5% del 1994 al 103,1% del 2007. Come dicevamo prima, insomma, l’Italia non è quella del 1992, ma viene da 20 anni di tagli ed austerity, che hanno fatto radicalmente diminuire il debito pubblico. La crisi finanziaria e la necessità di decisioni politiche europee L’impennata degli interessi sul debito, non essendo dovuta, come abbiamo visto, né a un presunto eccesso di spesa sociale né a una crescita inaspettata del debito, che nel lungo periodo è stato in netto calo, deve quindi essere spiegata in altri modi. Il premio Nobel per l’economia Paul Krugman6 e il nostro Emiliano Brancaccio7 da tempo richiamano l’interesse sul forte deficit della bilancia commerciale: ad accomunare Italia, Grecia, Spagna, Portogallo e Irlanda, infatti, più che il debito pubblico è la tendenza degli ultimi anni a importare ben più di quanto si esporti. E George Soros, uno che in quanto a speculazione la sa lunga, sostiene che il deficit nella bilancia dei pagamenti di molti Paesi sia legato al disegno del sis6 Krugman, P. (2012) European Crisis Realities, NYTimes.com [online] 25 febbraio, disponibile a <http://krugman.blogs.nytimes. com/2012/02/25/european-crisis-realities/> 7 Brancaccio, E. e Passarella, M. (2012) L’austerità è di destra. E sta distruggendo l’Europa. Il Saggiatore, Milano.

tema bancario europeo al momento della creazione dell’euro, che permise l’acquisto illimitato di titoli di Stato da parte delle banche commerciali, senza l’obbligo di mettere da parte del capitale proprio per diminuire il rischio di investimento. In questo modo le banche commerciali hanno trovato conveniente accumulare i titoli dei Paesi periferici per guadagnare alcuni punti base, garantendo credito molto economico a questi Stati, e mandando in deficit le loro bilance dei pagamenti8 Insomma, se si esce dal luogo comune dell’eccesso di welfare, contraddetto dei numeri, non mancano ipotesi ragionevoli sui fattori che hanno portato l’Italia ai famigerati 400 punti di spread: dalla deindustrializzazione, con immediate conseguenze sulla bilancia commerciale, alla deregulation finanziaria, che ha incentivato a speculare sui titoli di Stato. Per non parlare, ovviamente, del fattore monetario, cioè dell’impossibilità, una volta che la politica monetaria è stata messa in comune dai Paesi della zona euro e affidata alla BCE, di utilizzare la leva monetaria per tenere sotto controllo gli interessi sul debito. La richiesta di comprare titoli di Stato attraverso l’emissione di moneta, come all’occorrenza fanno tutte le banche centrali al mondo, quando gli interessi sul debito oltrepassano la soglia di guardia, oppure di emet8 Gvdr e Roberti, P. (2012) Soros al festival dell’economia: 3 mesi o sarà l’impero germanico once again, Il Corsaro [online] http://www.ilcorsaro.info/scienza-media/sorosal-festival-dell-economia-3-mesi-o-sara-limpero-germanico-once-again.html


45 tere titoli europei a garanzia dei debiti nazionali, i famosi Eurobond, arriva da più parti, e colpisce nel punto debole della costruzione dell’euro: la separazione tra politica monetaria e politica fiscale. Quando hanno dato vita all’euro, i Paesi membri hanno messo in comune la propria politica monetaria, rinunciando a strumenti come appunto l’acquisto di titoli di Stato tramite emissione di moneta, oppure la svalutazione competitiva, ma non hanno messo in comune la politica fiscale, e cioè principalmente i debiti pubblici. Chi ora si trova a fare i conti con l’impennata degli interessi sul debito, quindi, come l’Italia, se ne ritrova la responsabilità tutta sulle proprie spalle, ma allo stesso tempo non può utilizzare la più comune leva per tenere sotto controllo il problema, cioè la politica monetaria. Un paradosso da cui i governi europei cercano di uscire invano da ormai più di un anno, attraverso una serie continua di vertici inconcludenti. Sostenere che non si possa separare la politica monetaria da quella fiscale, come fanno ad esempio il governo francese del socialista Francois Hollande e quello italiano del conservatore Mario Monti, è semplice buon senso. Ma se la richiesta, com’è stata avanzata finora, non è quella di tornare a politiche monetarie indipendenti, e quindi di rompere con l’euro, ma di mettere in comune almeno una parte del debito pubblico, attraverso appunto la trasformazione della

BCE in prestatore di ultima istanza o l’emissione di Eurobond, allora le cose si complicano enormemente. Nessun Paese si farebbe carico dei debiti altrui, o contribuirebbe in ogni caso a rifinanziarli, senza sapere come quei soldi verrebbero poi spesi, e quindi senza un meccanismo di controllo dei bilanci dei Paesi indebitati. Data l’evidente posizione di vantaggio di chi in questo momento ha il coltello dalla parte del manico, cioè la Germania, posizione in parte dovuta anche alla debolezza politica dei Paesi periferici, tutti guidati da governi liberal-conservatori incapaci di dotarsi di una strategia alternativa, si è pensato di costruire prima questo meccanismo di controllo, cioè il famigerato Fiscal Compact, attraverso il quale tutti i Paesi della zona euro si impegnano a tagliare drasticamente debito e deficit, rinunciando quindi a una consistente fetta di sovranità sulla propria politica fiscale, e, di conseguenza, su ogni politica pubblica che necessiti spese, rimandando a data da destinarsi ogni decisione sulla messa in comune del debito pubblico. Insomma: della politica fiscale intanto si mettono in comune i tagli alla spesa, con conseguenze dirette sulle vite quotidiane di milioni di cittadini, e poi, forse, un giorno, arriverà anche la messa in comune del debito. Il paradosso Merkel e la crisi del modello intergovernativo Ma leggere questo fenomeno come il risultato dell’autoritarismo tedesco


che, attraverso Angela Merkel, detta legge ai popoli d’Europa in spregio a ogni principio democratico, sarebbe assolutamente superficiale, e porterebbe a un effetto paradossale. Infatti, mentre all’estero la cancelliera tedesca è vista come la potenziale assassina dell’euro in nome dei propri biechi interessi nazionali, in patria è accusata dell’esatto opposto, cioè di svendere gli interessi dei contribuenti tedeschi pur di salvare l’euro, violando il proprio mandato democratico. Lo stesso limitatissimo meccanismo anti-spread proposto da Monti e concordato nel vertice europeo di fine giugno, infatti, ha dovuto passare l’esame della Corte Costituzionale tedesca. E la stessa cancelliera Angela Merkel è dovuta intervenire pubblicamente più volte per rintuzzare gli attacchi del presidente della Bundesbank Jens Weidmann al suo omologo europeo Mario Draghi su ogni timido tentativo di sostenere il debito pubblico dei Paesi membri da parte della BCE. Nel frattempo, anche grazie alla retorica paraleghista di cui sopra, nel dibattito pubblico tedesco si fanno strada posizioni populiste e nazionaliste contrarie a ogni impegno per la difesa dell’euro. E le reazioni scomposte della politica tedesca di fronte all’intervista di Monti a Der Spiegel, in cui il Presidente del Consiglio si appellava ai governi perché forzassero le decisioni pro-euro rispetto alle posizioni dei rispettivi parlamenti, in modo che l’interesse co-

mune europeo prevalesse su quelli nazionali, sono interpretabili sicuramente nell’ottica del gioco delle parti in vista di una campagna elettorale in cui i temi europei saranno inevitabilmente centrali, ma denotano anche un problema reale: i tedeschi tengono alla propria democrazia e riconoscono la sovranità, e quindi il diritto di spendere i loro soldi, o di cedere una parte di quella sovranità, solo al parlamento eletto dal popolo, e non a negoziati tra capi di governo. Questo paradosso, e cioè che mentre intere economie, dall’Irlanda all’Italia passando ovviamente attraverso Grecia, Spagna e Portogallo, vengono commissariate in un battito di ciglio da parte dei summit intergovernativi UE sotto il diktat del governo tedesco, sia proprio in Germania a esplodere la questione democratica intorno alle limitate contropartite offerte, non può essere liquidato come un’ironia della storia, né come un’ingiustizia da parte dei cattivoni tedeschi, bensì va analizzato e approfondito. Dietro a tutto questo c’è evidentemente una questione di rapporti di forza: i cittadini italiani strangolati dalla crisi e martellati dalle quotidiane notizie sullo spread fuori controllo, e in particolare il parlamento italiano – oggi composto per metà da forze reduci da un’esperienza di governo, quella dell’esecutivo Berlusconi, la cui totale inadeguatezza di fronte alle sfide della crisi finanziaria è stata talmente palese da togliere loro ogni eventuale credi-


47 bilità, e per metà da forze di opposizione ben contente di non doversi far carico di gestire direttamente una fase così difficile – non sono particolarmente incentivati a porre questioni di metodo, purché una soluzione, quale che sia, arrivi in fretta. Essendo invece la Germania nella posizione di dettare le regole agli altri, è quasi normale, e perfino si potrebbe dire salutare, che i tedeschi insistano perché questo avvenga secondo le proprie regole, nel rispetto del proprio mandato democratico e, in ultima istanza, a tutela dei propri interessi. Ma il problema, oltre che politico e contingente, è anche e soprattutto istituzionale e costituzionale, e sta nell’assetto della governance europea costruito negli ultimi due decenni. Quando Mario Monti chiede che i governi forzino la mano ai parlamenti perché l’interesse europeo prevalga su quelli nazionali, chiede qualcosa non solo di sbagliato, ma anche di impossibile, e soprattutto di strutturalmente instabile. È il dovere di un governo rispondere al mandato del proprio parlamento, e a sua volta è dovere di quel parlamento tutelare gli interessi e le volontà del popolo che l’ha eletto. E allora a rendere strutturalmente irrisolvibile, sul piano costituzionale, la crisi dell’eurozona, non è semplicemente il fitto schema di interessi contrapposti che i governi rappresentano. Ma è anche e soprattutto che il teatro della discussione e della decisione siano negoziati intergovernativi, nei

quali, strutturalmente, si sommano algebricamente gli interessi nazionali e l’interesse comune non ha cittadinanza. A essere in crisi, con l’euro, è la sua architettura costituzionale, ossia il modello intergovernativo della governance europea. Quando la Corte Costituzionale tedesca pone un problema sulla legittimità del meccanismo anti-spread, che è un seppur limitatissimo tassello della messa in comune della politica fiscale tra i Paesi dell’euro, essa indica una gigantesca falla nell’apparato costituzionale europeo. Se aver fatto l’unione monetaria senza l’unione fiscale è stata una follia, come possiamo definire il tentativo di fare l’unione fiscale senza l’unione politica? È normale e ragionevole che sia un negoziato tra governi a decidere che, da domani, tutti i Paesi europei saranno un po’ meno sovrani, nella gestione dei propri bilanci, e che in cambio ci sarà un, seppur minimo e assolutamente insufficiente, meccanismo di solidarietà da parte della banca comune? Al di là delle decisioni della Corte Costituzionale tedesca, ai cittadini europei sta un’altra riflessione: ora che ci siamo accorti, nel vortice della più grande crisi degli ultimi decenni, che la condivisione della moneta, senza la costruzione di alcun meccanismo decisionale democratico sulla gestione di quella moneta, ha costituito un gigantesco furto di sovranità, e che senza la sovranità monetaria, ad esempio, l’Italia è impossibilitata a gestire


il proprio debito pubblico, possiamo accettare un’altra cessione di sovranità, quella sulla politica fiscale, e quindi, essendo la politica fiscale il finanziamento di tutte le spese statali, su tutte le politiche pubbliche, senza che l’approvazione di questo processo e la gestione di queste politiche vengano affidate a luoghi e soggetti di rappresentanza democratica e a meccanismi di partecipazione popolare? Insomma: più che demonizzare Angela Merkel perché rappresenta l’interesse nazionale tedesco (e sulla costruzione ideologica di interessi nazionali interclassisti andrebbe aperto un altro capitolo di discussione), dovremmo ascoltare la Corte Costituzionale tedesca e rivendicare il nostro interesse democratico e costituzionale. La colpa di Angela Merkel non è tanto, o non solo, quella di porre oggi il veto tedesco in un vertice intergovernativo, ma quella di aver contribuito, insieme a gran parte dei leader della destra europea, da Nicolas Sarkozy a Silvio Berlusconi, con la colpevole complicità di una socialdemocrazia allo sbando, alla costruzione di un’Unione Europea che di federalista, e quindi di democratico, non ha nulla, e in cui il negoziato intergovernativo è l’unico meccanismo decisionale. Il paradosso di Angela Merkel, troppo europeista in patria e troppo poco all’estero, non è altro che la messa di fronte ai propri limiti del modello intergovernativo che

la stessa Merkel, e tanti altri, hanno costruito. La moneta unica, e in particolare l’arrivo di una crisi finanziaria, hanno conferito centralità al piano europeo, con lo scontro tra le varie possibili politiche monetarie da affrontare in questa fase. Ma mentre la moneta è comune, ogni altra politica, a partire dal debito pubblico e dalle eventuali scelte di austerity, sono ancora costituzionalmente affidate al negoziato tra governi, che si trovano quindi a dover scegliere tra forzare il mandato democratico nazionale o rinunciare alla moneta come fattore di risposta alla crisi. E quindi l’austerity non è solo il tentativo da parte delle destre europee e delle élite finanziarie transnazionali che rappresentano di chiudere i conti con il modello sociale europeo e imporre una forzatura autoritaria sul piano nazionale, ma è anche l’occasione da parte delle stesse destre di ribadire il primato del meccanismo intergovernativo su ogni istituzione federale, persino quando questa è tutt’altro che democratica come la BCE. Se è così, allora dobbiamo avere il coraggio di dire che le politiche adottate dai vertici europei, dal Fiscal Compact al meccanismo antispread, non sono solo ingiuste, perché scaricano i costi dell’austerity sulle vite quotidiane di milioni di cittadini mentre l’élite finanziaria resta intoccata, non sono solo sbagliate, perché non fanno che aggravare la recessione e allontanare ogni eventuale barlume di ripresa, ma sono anche drasticamente inefficaci, per-


49 ché senza spazi e strumenti di decisione democratica comune sulle scelte economiche, che rispondano direttamente ai cittadini europei nel loro insieme, ogni passo in avanti dovrà essere basato sulla volontà e capacità dei singoli governi di forzare il mandato democratico nazionale. E allora, di fronte a una destra che ora si gode i frutti del meccanismo intergovernativo, e a una socialdemocrazia che sembra incapace di adottare una propria prospettiva autonoma, spetta alle sinistre politiche e ai movimenti sociali raccogliere la bandiera del federalismo democratico europeo, in chiave conflittuale e riformatrice, ponendo con coraggio l’alternativa: o l’Unione Europea si dota in tempi rapidissimi di un ap-

parato di decisione democratica e partecipazione popolare in grado di gestire in comune bilanci, debiti e politiche pubbliche, oppure tanto vale rinunciare fin da subito all’euro e restituire la sovranità monetaria ai governi nazionali. L’alternativa a questa scelta è la competizione tra Stati, con la retorica paraleghista dei tedeschi contro gli italiani e la gara a chi è meno democratico tra Mario Draghi, Mario Monti e Angela Merkel.


di Peppe Allegri

Reddito e democrazia. Neanche una costituente europea potrà salvarci? L’onda lunga (della riforma) del lavoro che non c’è Circa dieci anni fa, nell’autunno del 2002, Mondadori diede alle stampe un libretto curato da Franco Debenedetti, intitolato Non basta dire no1, con una serie di interventi di sinistri riformisti (il gioco di parole è

sicuramente troppo facile) che se la prendevano con i NO della sinistra radicale (qui latitano anche i giochi di parole!) intorno alla “riforma del lavoro, soprattutto di quell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori che ne è il simbolo”. È “l’Italia a essere danneggiata rinviando il lavoro delle riforme”, sentenziava la quarta di co-


51 pertina. È giù oltre duecento pagine di Tito Boeri, Pietro Ichino, Tiziano Treu e altri “riformisti”. Ad essere scrupolosi avremmo dovuto osservare, già ai tempi, che una sostanziale riforma del lavoro il sinistro riformismo l’aveva già fatta: la legge 196/19972, “in materia di promozione dell’occupazione”! E ci aveva pensato Tiziano Treu, accanto alla riforma delle pensioni del Governo di Lamberto Dini, che creò quel vaso di Pandora (per l’INPS!) della Gestione Separata per i “lavoratori atipici” (i lavoratori si badi, non i lavori, semmai, ma neanche tanto). Un bell’uno-due che se da una parte ha istituzionalizzato la precarietà senza diritti (altro che flessibilità!), dall’altra ha creato una tabula rasa dei diritti sociali per oramai due generazioni di lavoratrici e lavoratori intermittenti, flessibili, indipendenti, autonomi: precarizzati, in una parola. Quel Quinto Stato (come l’abbiamo chiamato con Roberto Ciccarelli nel libro e nel blog La furia dei cervelli) composto da oltre sei milioni di persone, di fatto escluso non solo dalla cittadinanza, ma dalla possibilità di avere una vita degna.

parlamentari della legge ed onnipresenti sinistri riformisti, camuffati nell’austero Governo delle larghe intese; anche se Damiano si offenderà dell’accostamento, poiché ci tiene a definirsi “laburista2”...) quelle lavoratrici e lavoratori sono sprofondati in una condizione di Working Poor – nel caso in cui siano riusciti a mantenere il lavoro o la commessa – se non di povertà a rischio di esclusione sociale – nei casi sempre più comuni di sospensione, e/o assenza, del lavoro o della commessa – non avendo la possibilità di accedere ad alcun “ammortizzatore sociale”. Sono biografie individuali e collettive saccheggiate da questo Governo, ancor prima che dal capitalismo finanziario.

Con l’attuale, ennesima, riforma del lavoro (la legge del 28 giugno 2012, n. 92, ribattezzata “Riforma Fornero”, dal nome del Ministro del Lavoro, ma potremmo chiamarla “Riforma Damiano-Treu1”, Relatori

Il reddito garantito di base è una prestazione sociale prevista, in diverse modalità e tipologie, in tutti i Paesi dell’Unione Europea, tranne Grecia ed Italia. È un nuovo diritto fondamentale alla vita degna, con-

1 Si veda l’articolo sul blog del Quinto Stato http://www.ilquintostato.org/ddl-fornerochiamatela-riforma-damiano-treu/

2 http://www.partitodemocratico.it/ doc/230977/caro-bersani-sei-liberista-o-laburista.htm

Il reddito garantito e le protezioni universali per un nuovo welfare contro l’austera depressione E allora è giusto rispondere oggi, ma già ieri e sicuramente dieci anni fa, a quei sinistri riformisti che non si dicevano solo dei NO, ma molti SÌ, da ribadire tuttora. A partire dall’esigenza, ieri e ancora più oggi, di protezioni universali, come la garanzia di un reddito di base.


tro le condizioni di insicurezza sociale, peggiorate dalle politiche rigoriste imposte dalle dissennate classi dirigenti europee e nazionali, capaci di generare forme di povertà che consideravamo bandite dal nostro Continente. Il reddito di base come opportunità e alternativa3. Del resto anche in quel libretto di dieci anni fa, qualche voce ricordava che nel “Pacchetto Treu” (1995-97) “una delle questioni meno affrontate ha riguardato proprio gli ammortizzatori sociali comprensivi non solo delle forme di sostegno al reddito nel caso di sospensione del rapporto di lavoro, ma delle prestazioni spettanti ai cittadini in quanto tali nelle situazioni di bisogno”. A quasi vent’anni dall’inizio di quel processo siamo ancora messi così: anzi peggio. Gli oltre sei milioni delle due “generazioni precarizzate” incontrano i milioni di disoccupati di lunga durata e i più o meno giovani neo-disoccupati, senza alcuna prestazione sociale che possa sostenerli. È un sciacallaggio sociale, in cui il Governo dell’austero rigore economico, mentre taglia in spesa sociale, parla di “generazione perduta”, dopo essersi allarmato della tendenza NEET (gli oltre due milioni di giovani senza lavoro, istruzione e formazione, Not in Employment, Education, Training) e prende letteralmente in giro milioni di lavoratori della cultura, conoscenza e 3 http://www.bin-italia.org/UP/pubb/ QR%20(2)_Layout%201.pdf

formazione, precari, disoccupati, o inoccupati che siano. Per invertire questa tendenza che pare inesorabile c’è bisogno di pensare e praticare delle coalizioni sociali che suppliscano alle miserie umane e sociali di una classe dirigente co-autrice di una “rivoluzione restauratrice dall’alto” e promuovano dal basso una nuova idea di cittadinanza e di buona vita. È l’urgenza di imporre, dentro e oltre la crisi, nuove scelte di politiche pubbliche contro le speculazioni di un capitalismo finanziario i cui alleati sono seduti nei governi nazionali e continentali, che sempre più appaiono come degli “apostoli senza pentecoste”, in cui si rimane “sudditi di poteri sempre più lontani”, per dirla con le parole di un solitamente non certo “radicale” Giuseppe De Rita4. E queste coalizioni devono avere la forza di porsi immediatamente in una relazione verticale con quei “pochi apicali regolatori” del capitalismo globale, in modo che si possa avere un nuovo rapporto con territori e realtà sociali che sono in movimento; perché, per dirla con Aldo Bonomi5, “le contraddizioni che nei territori emergono non sono solo fibrillazioni di un mondo destinato a sparire, ma segnali di una trasformazione in atto, per quanto 4 http://archiviostorico.corriere.it/2012/ giugno/02/Noi_Sudditi_Poteri_sempre_piu_ co_8_120602012.shtml 5 Il Sole 24 Ore di domenica 16 agosto http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-eidee/2012-08-19/territorio-ebollizione-142806. shtml?uuid=AbCZ8fQG&fromSearch


53 ancora acerba”. È l’imposizione dal basso di un radicale cambiamento sociale. È evidentemente un processo faticoso, che deve soprattutto fare i conti con quel “deficit di democrazia” in cui “se non vi è equilibrio col debito, ci rimettono soprattutto i cittadini”, come ricorda sulla prima pagina de Il Sole 24 Ore di domenica 26 agosto6 Guido Rossi, osservatore anch’egli non certo troppo estremista, il quale insiste: “l’assenza o l’eccesso di denaro (nelle sue varie vesti di speculazione finanziaria, debito pubblico e austerità) è ora purtroppo protagonista delle scadenze elettorali di varie democrazie, o di fine dei mandati dei governi tecnici”. Con il concreto rischio che continueremo ad essere tutti paralizzati, dinanzi al terrore dello spread e del default. Eppure è questa l’occasione costituente che ci è data: nelle fasi di transizione si devono imporre nuove scelte di politiche pubbliche, che disegnino l’utopia concreta di una nuova idea di società e l’esigenza di protezioni sociali universali e di rilancio del welfare, capaci di tenere insieme formazione, salute e autodeterminazione individuale e collettiva delle proprie scelte di vita. Da una parte questi embrioni di coalizioni sociali si stanno coagu6 http://www.ilsole24ore.com/art/ notizie/2012-08-26/deficit-democrazia-dannicome-081036.shtml?uuid=AbHYglTG

lando intorno alla riattivazione di tradizionali strumenti di partecipazione politica, come nel caso della campagna per una iniziativa legislativa nazionale intorno alla previsione di un reddito minimo garantito, per aprire un’ampia vertenza sull’introduzione in Italia di una qualche forma di reddito di base, non solo come forma di garanzia di una vita degna, ma anche come strumento di autodeterminazione esistenziale, contro i ricatti del lavoro a tutti i costi e della sua assenza. Dall’altra il livello europeo diventa quello decisivo, perché è lì che deve essere risolta la contraddizione per imporre un radicale cambiamento dell’ordine esistente delle cose. Anche a livello continentale si stanno aprendo una serie di iniziative delle cittadinanze europee per proporre alla Commissione europea l’adozione di atti normativi per l’Europa sociale, come nel caso di un reddito minimo garantito. Ma, proprio a quel livello, bisognerebbe mirare ancora più in alto. L’occasione costituente europea, ancora? Appare evidente che ci sia un utilizzo strumentale della “crisi della zona euro”, per imporre una ristrutturazione economico-finanziaria continentale della governance bancaria e finanziaria, evitando di intraprendere un percorso di riforma delle istituzioni e politiche pubbliche, che metta in campo l’ipotesi di un’Europa politica e sociale.


Se volessimo dirlo con una battuta: è l’austera ortodossia monetarista del finanz-capitalismo europeo a matrice tedesca che impone una “transizione costituente”, facendo a meno degli strumenti di garanzia e di autodeterminazione politica del costituzionalismo democratico e sociale. È il funzionalismo tecnocratico che vince sempre contro il riconoscimento dei diritti e del controllo pubblico sui poteri, ignorando le domande di giustizia sociale delle cittadinanze. Così i Governi recepiscono al livello statual-costituzionale il Fiscal Compact: è la finanziaria dittatura commissaria degli Stati costituzionali e soprattutto di un Continente. Detta ancora più brutalmente: è una vendetta a sangue freddo delle élites finanziarie europee (tramite una classe dirigente tedesca che ha dimenticato non solo Adenauer, ma addirittura Kohl) contro l’incapacità delle forze politiche nazionali ed europee di realizzare un processo costituente continentale. E qui c’è una responsabilità storica nel fallimento dell’inedito processo convenzionale dello scorso decennio da addebitarsi ai sovranismi francesi ed olandesi e ai loro NO al referendum7 sul Trattato costituzionale del 2005, rinfocolati non solo dal nazionalismo più bieco dei TAN Parties (Tradizionalisti, Autoritari e Nazionalisti, come il Front National), ma anche da parte 7 http://www.criticamarxista.net/ articoli/4_2005allegri.pdf

dell’establishment del socialismo francese, come l’attuale Ministro degli Affari Esteri Laurent Fabius, che giocò cinicamente il NO al Trattato costituzionale, per la sua lotta interna al Partito Socialista francese, permettendo all’allora amministrazione statunitense di brindare a suon di Dom Perignon millesimato, la sera del 29 maggio 2005, mentre un’attonita Place de la Bastille vedeva sventolare bandiere francesi, nere e rosse contro l’Europa, facilitando l’ascesa di Sarkozy al postChirac8. Ma ora siamo qui, autunno 2012, ancora e sempre di più dentro “la malattia dell’Europa”, per prendere in prestito le parole del genio compianto di Fabio Mauri, recentemente richiamate da Manuela Gandini9: “Che cos’è la Germania? E l’Europa? Che significa essere Europa? Non è stata Europa la Germania del ‘30 e del ‘40? Io credo lo sia stata. Credo che la natura (la cultura della natura) della Germania riguardi strettamente l’identità europea”. E dietro le domande di Fabio Mauri aleggia il cuore oscuro del Novecento europeo: l’Heidegger volutamente parodiato nel nostro titolo, la supina obbedienza all’autorità nella Germania e nell’Europa degli anni Trenta e Quaranta, le pulsioni identitarie e totalitarie iscritte nella formazione dello Stato-nazione. 8 http://www.centroriformastato.it/crs/ Testi/ue_conflitti_di_welfare/Allegri.html 9 http://www.alfabeta2.it/2012/07/22/ fabio-mauri-e-la-malattia-delleuropa/


55 Europa e Germania, ancora. Non si è del tutto convinti che “al governo tedesco manchi il coraggio di andare oltre uno status quo divenuto insostenibile”, eppure l’ottimismo della volontà vorrebbe essere d’accordo con il proseguimento delle parole di Jürgen Habermas, quando fa un accorato appello per la convocazione di una “Convenzione costituzionale continentale”. Ma chi si fa promotore di questa opzione semi-costituente in Europa? Habermas e gli altri due firmatari di quell’intervento ritengono debbano essere gli stessi partiti politici tedeschi. Varrebbe la pena buttare il cuore oltre l’ostacolo – che è rappresentato anche dall’inettitudine degli attuali partiti politici e dei loro leaders – e proporre l’opzione civica e costituente delle coalizioni sociali per un’Europa politica e sociale, dotata di un proprio bilancio, di istituzioni politicamente responsabili, sottoposte a controllo pubblico, di meccanismi di partecipazione politica continentale e autogoverno territoriale. Soprattutto che metta le cittadinanze d’Europa nelle condizioni di rifiutare il dogma monetarista, il funzionalismo delle istituzioni comunitarie e i danni umani e sociali del capitalismo finanziario. Che siano le cittadinanze attive, nella loro immediata pretesa di conflittuale verticalità sociale, politica e istituzionale, a proporre una costituente europea che rilanci il sogno

europeo del manifesto di Ventotene, di un’Europa federale, democratica, libera e unita, per “riprendere immediatamente in pieno il processo storico contro le diseguaglianze e i privilegi sociali”, ieri contro i fascismi, oggi contro il capitalismo finanziario, a partire dalla redistribuzione delle ricchezze saccheggiate, per una concreta alternativa di idea di società, progetto continentale, civilizzazione istituzionale e politiche pubbliche. Un’Europa politica e sociale che rifiuti la populistica e intollerante guerra tra poveri cui siamo costretti, a partire da un nuovo universalismo (non retorico e neutralizzante) delle tutele sociali e di processi di sviluppo territoriale e continentale che rispondano al principio di responsabilità individuale e collettiva, eguaglianza e libertà. L’Europa sociale del reddito di base e del nuovo welfare: questa è l’idea e la prassi europea che sconfigge la subordinazione al terrore delle crisi.


di Lorenzo Zamponi

L’antipolitica di Monti e la sinistra senza rappresentanza Intervista ad Alessandro Gilioli, blogger e giornalista de L’Espresso La sua è stata una delle poche voci, nella stampa mainstream, a distinguersi quasi subito dal coro degli entusiasti del governo tecnico. A 10 mesi dall’insediamento di Mario Monti, qual è il bilancio? Io ho visto la fine di Berlusconi come un passaggio importante, perché è stata la fine di un governo che era a rischio di diventare

un regime. Ed è stata una fine tutto sommato indolore, perché Napolitano ha fatto un piccolo capolavoro nel riuscire a mandare a casa Berlusconi in modo tutto sommato pacifico, ovvero con l’accettazione da parte sua della fine – spero definitiva – del suo governo. Questa è la premessa. Non ho certo alcun rimpianto per quello che c’era prima. Ritenevo, e ritengo ancora che,


57 caduto Berlusconi, la scelta giusta sarebbe stata quella di andare alle elezioni con due schieramenti contrapposti. Non perché avrebbe vinto la sinistra, ma perché fallito il governo precedente, che aveva disatteso le sue promesse, portato l’Italia a un livello di scarsissima credibilità, concausato una crisi economica molto grave – prendendola sotto gamba, ostinandosi a dire che non c’era e quindi non prendendo le necessarie contromisure – senza dire degli scandali, sia penali sia etici, che avevano riguardato l’allora Presidente del Consiglio, mi sembrava giusto andare alle elezioni. Così non è stato, ed è arrivato un governo tecnico di fronte al quale io, in una primissima fase, mi sono messo, come tutti, in attesa, dicendo “vediamo che cosa fanno”. Mi è sembrato evidente che questo governo tecnico abbia rappresentato la nascita di una destra per bene, di una destra civile, di una destra non più eversiva e ridicola com’era la destra di Santanché, Brunetta e Cicchitto. Una destra non di cricca, una rispettabile ed educata destra liberista, che ha implementato politiche palesemente, a mio modo di vedere, ispirate a una visione di destra, nel senso più tradizionale del termine. In Italia abbiamo chiamato destra una banda di personaggi interessati solo alla propria affermazione personale. Una cricca, che non era né di destra né di sinistra, e rappresentava invece secondo me un fenomeno tutto italiano di tipo eversivo rispetto alla Costituzi-

one repubblicana. Dopodiché, invece, è nato un governo di destra e, come spesso accade – non è la prima volta nella storia né di questo né di altri Paesi – per fare politiche di destra ci vuole il consenso del maggior partito di sinistra, e questo è ciò è che è avvenuto. Ora, ammesso e non concesso, e io non lo concedo, che in una fase emergenziale, di transizione, fosse indispensabile fare questa scelta che ha portato a politiche liberiste, al pareggio di bilancio in Costituzione, al taglio del welfare, a una sostanziale immobilità rispetto alla patrimoniale che non c’è stata, e che non ha portato nessuna forma di governance della finanza, trovo paradossale e suicida che adesso buona parte della sinistra, PD in testa, ritenga fondamentalmente di voler improntare la prossima legislatura a una continuità con politiche di destra. Secondo Scalfari il presidente del consiglio chiederà presto l’intervento del Fondo SalvaStati, prima delle elezioni si andrà alla firma di un memorandum simile a quello greco, e quindi qualsiasi governo dovesse uscire dalle prossime elezioni si troverà, in qualche modo, con un programma già scritto dagli impegni presi. In questo contesto, c’è ancora spazio per la democrazia, per la scelta di politiche da parte degli elettori? Beh, sì. Figuriamoci, io ero tra


quelli che dicevano che anche sotto il governo Berlusconi eravamo in democrazia. Io non sono tra quelli che gridano all’assenza di democrazia, poiché credo che la democrazia venga a mancare solo quando è la politica che abdica ai suoi doveri, e quando diventa vincente l’inganno secondo il quale nulla si può fare, perché ormai è la finanza a prendere le decisioni. È vero che le decisioni vengono prese dalla finanza – o meglio dalle dinamiche finanziarie, perché non credo nei complotti, nei disegni strategici – però le dinamiche finanziarie, quasi indipendentemente dalle volontà collettive e anche da quelle dei finanzieri, si impongono se la politica decide di non fare la politica. Non considerare governabili l’economia e le dinamiche finanziarie e limitarsi a lisciar loro il pelo ed a cercare di piacere ai mercati è una delle cose peggiori che ha fatto il governo Monti. Poi, paradossalmente, tra gli Stati che hanno ricevuto una tripla A dalle agenzie di rating ci sono Stati che hanno fortissime politiche sociali, come la Norvegia, o come la Germania della cogestione. Il grosso equivoco in base al quale per piacere ai mercati bisogna togliere diritti ai lavoratori, smantellare il sistema di welfare, in realtà non funziona, perché – banalizzando un po’ – così facendo si finisce per creare conflittualità sociale, producendo poi bassa affidabilità in termini di debito. Allo stesso modo, gli Stati che hanno creato una pro-

letarizzazione del ceto medio sono quelli in cui sono crollati i consumi interni, e quando crollano i consumi interni inevitabilmente crolla la produzione, perché comunque, al di là di quello che esportiamo, molto della nostra produzione viene dal mercato interno. La democrazia non è una cosa che o c’è o non c’è, ci sono tanti gradi, tante sfumature di democrazia. Noi siamo ancora in democrazia in ragione del fatto che ciascuno può dire la sua opinione, in ragione del fatto che ciascuno può votare, creare un movimento e presentarsi alle elezioni. Bisogna vedere poi se e come le democrazie vengano gradualmente svuotate dall’inganno secondo il quale la politica non può fare più niente se non arrendersi alle dinamiche finanziarie. Comunque non sono tra quelli che gridano al golpe, no. Lei è sempre stato, a mio parere giustamente, critico nei confronti dell’utilizzo di termini come antipolitica o populismo, segnalando come sia prima di tutto la politica a remare contro se stessa e a rinunciare al proprio ruolo, come diceva anche adesso. Eppure sembra evidente come fenomeni come il grillismo in qualche modo segnino un arretramento in termini di partecipazione democratica. Mentre dall’altra parte la risposta della politica, anche a sentire le recenti dichiarazioni di Bersani, sembra essere quella di un fortino


59 arroccato, incapace di cogliere le questioni che vengono poste. Dobbiamo finire a scegliere tra Enrico Letta e Casaleggio? La parola “antipolitica” l’ho sempre contestata per il modo in cui veniva usata, perché secondo me l’antipolitica è quella di chi fa cattiva politica, chi utilizza la politica per i suoi fini personali, e quindi sto parlando del quindicennio berlusconiano. La cattiva politica è quella di chi utilizza la politica per creare delle oligarchie, delle burocrazie, delle caste – termine abusato che però rende l’idea – per cui di fatto non si lavora per il bene pubblico, ma per il proprio bene privato. Quella è l’antipolitica, quelle sono le cose che fanno male alla politica. Io adoro la politica, la politica intesa come strumento per migliorare la propria società, la propria collettività. Non credo assolutamente che nella base del Movimento Cinque Stelle ci sia antipolitica. Io ho scarsissima stima di Grillo ma, se si può avere un parere sfumato e non un parere del tutto pro o contro, sono convinto che nel Movimento Cinque Stelle ci sia un desiderio forte, da parte della maggioranza degli attivisti, di buona politica. Questa invenzione dell’antipolitica è stata uno strumento mediante il quale le oligarchie hanno voluto giustificare se stesse. I partiti hanno voluto in qualche modo sopravvivere a se stessi, con risultati drammatici, perché hanno allontanato ancora di

più buona parte della cittadinanza dalla politica. E allora il problema non è se prevarrà il Movimento Cinque Stelle, se avrà il 15% o il 20%, il problema vero è la crescita dell’astensione, la sfiducia nei partiti, la convinzione che “tanto fanno quello che vogliono loro”, e purtroppo mi pare che la legge elettorale che ci stanno ammannendo vada esattamente in quella direzione. Quanto alla domanda se saremo costretti a scegliere tra Enrico Letta e Casaleggio, beh, è provocatoria. Credo che il quadro delle alleanze che si sta delineando adesso sia deprimente, perché il Partito Democratico ha rinunciato ad allearsi non con IdV o con la sinistra, ma ad allearsi con i suoi elettori, con il suo mandato di partito progressista, e ha accettato di appiattirsi, sia dal punto di vista dei diritti sociali sia da quello dei diritti civili, su progetti di continuità con il governo Monti. Non è che l’alleanza con l’Udc mi stia sulle palle solo perché ci sono dentro persone che mi stanno sulle palle – i Buttiglione, i Casini, i Passera – ma perché sono convinto, e sfido chiunque a dimostrarmi il contrario, che nel momento in cui si fa una coalizione con l’Udc, non si fa niente. In termini concreti, in termini pratici, sia sui diritti civili, sia sulla lotta alla finanza rapace... Ce lo vedi Passera che fa la lotta alla finanza rapace? Ce lo vedi Buttiglione che accetta di cambiare la legge sulla fecondazione assistita o sui diritti indipendentemente dal proprio orientamento sessuale?


Ce li vedi questi? No, non si farà niente. Ci sarà continuità, ci sarà spartizione del potere. Quanto a Casaleggio, io sicuramente non sarò un elettore di Grillo, perché non accetto la concreta realtà autocratica del movimento di Grillo. Sono convinto che in Italia però esista, non rappresentata, una sinistra, che tra l’altro a livello di base secondo me è maggioritaria anche nel PD, sicuramente in Sinistra Ecologia e Libertà e probabilmente anche negli astenuti di sinistra, una parte molto forte di elettorato, che non ha una rappresentanza, che ne resta priva, nel momento in cui la scelta è tra un PD appiattito al centro e un movimento autocratico e soprattutto incapace di fare politica nel senso di parlare con gli altri, di confrontarsi, convinto di avere tutta la verità in sé. Sono convinto che la politica sia fatta di confronto, di dialogo, di rapporto con gli altri. Quindi la situazione è oggettivamente triste, al momento. Ma è anche molto dinamica, tutto si sta decomponendo e ricomponendo, e non credo che sia impossibile pensare all’ipotesi che dentro queste elezioni o subito dopo si vada ricomponendo una sinistra moderna, libertaria, digitale, basata sui diritti civili e su quelli sociali, che guarda al welfare norvegese, che guarda un po’ più in là del proprio naso e che non è appiattita sull’Udc. Sono convinto che esista perché lo vedo con tante persone con cui parlo, non soltanto il circolo

dei miei amici, ma quando vado a parlare a una festa del PD, o a una festa dell’IdV, o quando mi capita di parlare con amici di SEL o con tanti ex elettori di sinistra che non votano, non votano perché non hanno rappresentanza. Mi pare che che vada in questo senso l’appello per la “Cosa Seria”, che lei e altri avete sottoscritto e pubblicato nei giorni scorsi, per una lista alternativa a chi propone la continuità con Monti... No, l’appello non è una lista e non è neanche un movimento. È semplicemente un tentativo, che io considero disperato mentre gli amici che l’hanno firmato con me sono più ottimisti, di pressione nei confronti della dirigenza di Sinistra Ecologia e Libertà e del PD, perché si rendano conto che il cammino che hanno intrapreso, cioè quello di un’alleanza verticistica con l’Udc e con i banchieri del governo Monti, è una strada che rischia di portare alla polverizzazione della sinistra in Italia. Non mi interessa la sinistra in sé, mi interessa quello che può fare, la sinistra è un mezzo, i partiti sono un mezzo, le elezioni sono un mezzo, per cambiare e migliorare questo Paese e magari portarlo nel XXI secolo, visto che mi pare che non ci sia ancora. Ecco, io sono convinto che questo grande minestrone democristiano, verso cui sta andando Bersani dal novembre scorso e Vendola


61 da metà agosto – perché ancora all’inizio di agosto diceva il contrario – sia una catastrofe. Ma non una catastrofe, ripeto, per la sinistra, ma per il Paese: significa rinchiuderlo in una botte tecno-clericale per i prossimi cinque anni, e sarebbe la peggiore forma di futuro per questo Paese. Questo non è un movimento nel senso che non è una cosa organizzata, è una cosa fatta via mail, tra persone che si conoscono. Però non escludo che, di qui ai prossimi due mesi, ci sia bisogno, in Italia, di un movimento di pressione trasversale ai partiti della sinistra, che cerchi di schiaffeggiarli quotidianamente perché evitino di buttarsi nel burrone. Non lo escludo affatto. Evidentemente l’appello si rivolge a chi oggi ha in mano i destini delle forze politiche della sinistra, ma come lei ha giustamente detto, pare difficile che ci sia qualcuno disposto a raccoglierlo. Allora, se è vero che esiste questa sinistra popolare e maggioritaria, è anche vero che vanno individuati degli strumenti perché questa possa avere un effetto concreto e non sempre un effetto da spettatori e commentatori. Questo appello, come un altro che avevamo fatto con Pippo Civati e con altri amici, che si intitola “Noi crediamo”, fatto solo dieci giorni prima... Adesso basta, questi appelli ormai sono come quando hai in casa un malato terminale, alla fine l’unica cosa che vuoi fare è dire a te stesso “Le ho provate tutte, dalla cura Di Bella allo scia-

mano indiano”, e in questo modo almeno hai la coscienza di posto. L’establishment dei partiti di sinistra, da Bersani a Vendola, in quest’ultimo mese mi sembra fatto di malati incurabili. Non ho la presunzione di guarirli con degli appelli via Internet, non credo che la politica vera si faccia così, sulla tastiera, per carità, però puoi dire di averci provato fino all’ultimo. Io personalmente mi considero ormai un ex elettore del PD, l’ho votato nel 2008, ho votato SEL nel 2010 e temo che potrei diventare anche un ex elettore di SEL, a questo punto. Dopodiché, fare o non fare politica attiva, al di là di questo? Guarda, ti rispondo con una trasparenza al limite della psicanalisi. Io sono lacerato, perché da un lato sono convinto che questi partiti, così come sono, siano irriformabili. A differenza del mio amico Pippo Civati, non credo più nella riformabilità del PD, almeno adesso, poi magari tra 15 anni... E ho visto che in questa deriva si è accodata anche SEL. D’altro canto sono altrettanto spaventato dall’idea di alimentare il tradizionale frazionismo della sinistra, nell’aderire, o nel proporre, o nell’attivarmi per un nuovo soggetto politico. Perché la storia della sinistra, in tutto il mondo, dall’India agli Stati Uniti, passando per l’Europa, è una storia di scissioni, di frazioni, di litigi interni, siamo bravissimi noi a litigare. Mi piacerebbe tanto evitare che questo accadesse, e questa è veramente una forte lac-


erazione, tra la paura di alimentare il frazionismo e la drammatica consapevolezza dell’irriformabilità di questo PD. Tornando a ciò che si diceva prima su Grillo, sembra evidente come Internet abbia portato a una presa di responsabilità, a un impegno da parte del cittadino, che può farsi in qualche maniera attore dell’informazione e non solo spettatore. D’altro canto è altrettanto evidente come questo abbia portato principalmente a un discorso pubblico in cui la fa da padrone chi gode di una notorietà costruita altrove, come Grillo o Travaglio, mentre migliaia di persone scrivono a se stesse in un gigantesco rumore di fondo utile solo a produrre profitti per qualche azienda pubblicitaria. Come facciamo, a partire dalla rivoluzione della rete, a costruire nel web dei modelli sia di cittadinanza responsabile sia di giornalismo affidabile? La mia opinione è che la rete abbia creato soprattutto grosse forme di dialogo. L’aspetto più importante, quello che ha impattato di più sulla società è, per adesso, la creazione di grosse forme di interazione reciproca tra soggetti che prima non ce l’avevano. Quindi il suo impatto sui giornali è una questione veramente gigantesca che riguarda tantissime variabili. Quello che posso dire – citando Alec Ross, uno dei consiglieri di Hillary Clinton

sulla rete, che ha lavorato anche per Obama – è che l’impatto della rete, con tutte le sue variabili, compresi i social network, ha una portata almeno pari all’impatto che ha avuto nell’Europa della seconda metà dello scorso millennio l’invenzione della stampa. L’invenzione nella stampa ha portato, com’è noto, prima al protestantesimo, e quindi alla possibilità di rapportarsi direttamente alla bibbia senza l’intermediazione dei preti, e poi all’illuminismo, cioè due rivoluzioni direi significative nell’Occidente. L’impatto della rete probabilmente è altrettanto importante, quindi va affrontato proprio in termini di cambiamento di civiltà. Dove ci porterà, questo non lo sa nessuno, però capire l’importanza di questo impatto è fondamentale. Se io sento il buon Bersani dire che la rete è fondamentalmente uno strumento per far risparmiare o far fatturare un po’ di più le piccole imprese, capisco che non ha capito niente della rete, al di là delle sue dichiarazioni sui “fascisti del web”. La rilevanza della rete in termini di fatturato per le piccole imprese è forse un suo epifenomeno secondario. La rete cambia i sistemi cognitivi delle persone, cambia il modo di rapportarsi alla politica, accorciando enormemente la distanza con i rappresentanti. Ho molti dubbi sul concetto di iper-democrazia di cui parla Grillo, una specie di democrazia continua in cui la gente da casa prende le decisioni continuamente, non sono assolutamente favorevole a questo, credo


63 nella democrazia rappresentativa, almeno per questo secolo, ma sono anche convinto che la democrazia rappresentativa viva bene solo se capisce che la distanza tra rappresentanti e rappresentati si è accorciata tantissimo con la rete. I politici non possono più fare e dire quello che vogliono, sono continuamente monitorati, e le loro scelte vengono continuamente approvate o disapprovate dalle persone, che non stanno più zitte, ma possono muovere la politica, anche con una tastiera o con un clic. Lo stesso vale in qualche modo per noi giornalisti, sia ben chiaro. I giornalisti fino a vent’anni fa stavano in una torre d’avorio e potevano scrivere quello che volevano senza essere contraddetti, potevano scrivere dei falsi o delle cretinate senza che nessuno li correggesse, adesso siamo tutti immersi in questo dialogo collettivo, in questo controllo. I giornalisti non sono più un establishment, o meglio, sono un establishment che, come quello dei politici, sta perdendo terreno, perché non è più accettabile il loro essere staccati, nel loro caso dai lettori. Questo secondo me è il grande cambiamento che la rete sta portando. Io sono sconcertato quando vedo che questo processo non viene capito, spesso né dai giornalisti né dai politici.


di Giuliano Santoro – autore di “Un Grillo qualunque” in uscita per Castelvecchi, per info www.suduepiedi.net

Costruire il popolo Considerazioni su Beppe Grillo, il populismo e la democrazia Populismo digitale Nel dibattito corrente, l’aggettivo “populista” si utilizza sovente come sinonimo di “demagogo” o magari per alludere a una forma surrettizia di autoritarismo. Queste sfumature, che pure in una certa misura fanno parte del corredo storico del populismo, non sono sufficienti a spiegare un fenomeno, che in qualche modo informa – ovviamente

a diversi gradi ed interagendo di volta in volta con diverse variabili – quasi tutti i discorsi politici degli ultimi decenni e che per certi versi attraversa sia la destra che la sinistra. Qui per “populismo” intendiamo la capacità da parte di un leader di costruirsi attorno un “popolo” che gli corrisponda in pieno, mortificando le differenze e appiattendo le ricchezze della multiversità. Nel momento in cui i grandi blocchi sociali del Novecento appaiono frantumati, questa capacità di costruire gruppi di appartenenza, anche se a scapito della diversità, ritrova centralità. Ma se Berlusconi aveva allevato il suo elettorato attraverso le televi-


65 sioni e Bossi ha dato una nazionalità fittizia ai suoi elettori inventando la Padania, come avrebbe costruito il suo popolo il “populista digitale” Beppe Grillo? Per rispondere proviamo a ricostruire la genealogia del grillismo. Il politico è un brand È dagli anni Cinquanta che la comunicazione politica funziona come la comunicazione commerciale, cioè attraverso quei meccanismi (pseudo)scientifici a cui Vance Packard ha dato un’etichetta di successo: persuasione occulta. Non è un fenomeno recente, anche se in Italia si è verificato con ritardo (dopo la fine della Guerra Fredda) e con caratteristiche affatto peculiari. Ma è solo dagli anni Novanta che il marketing statunitense ha scoperto l’acqua calda: il potere delle narrazioni. La personalizzazione della politica implica la sparizione dei partiti e dunque delle ideologie: ciò che resta – almeno sulla ribalta comunicativa – sono esseri umani, cioè storie. “Le masse vogliono racconti, non liste delle cose da fare: dunque, la pubblicità deve trasformare il brand in un personaggio; e il marketing politico – fatto in casa o pianificato da un team di esperti – deve trasformare il politico in brand, e poi di nuovo il brand in personaggio”, spiega il semiologo Marcello Walter Bruno, autore di un saggio sulla comunicazione politica “da Lenin e Berlusconi” intitolato “Promocrazia”. Il suo collega america-

no Stephen Duncombe ha scritto qualche anno fa, quando la sinistra americana subiva l’egemonia del neocon, un affilato saggio intitolato “Dream”, che cercava di convincere gli oppositori di Bush Jr. di riappropriarsi dell’immaginazione (la famosa “Immaginazione al potere”) per sconfiggere la strategia di story-telling imbracciata dalle destre. “Fate entrare le Veline” L’Italia è il Paese in cui, nell’ultimo quarto di secolo, è andata in onda ogni sera sulle reti dell’uomo più potente del Paese, una trasmissione comica che ha avuto al tempo stesso la pretesa di sostituire il telegiornale e persino “fare denuncia”. Dal 7 novembre del 1988 su Italia1 e dall’anno successivo sulla rete ammiraglia di Mediaset, Canale 5, Striscia la notizia è il programma più visto della televisione italiana da venticinque anni. La trasmissione è costituita da una collezione battute ricorrenti, tic verbali e manie compulsive intervallate da risate pre-registrate che – ecco il vero capolavoro – hanno pretesa di «denuncia». Il più delle volte Striscia non insegue i potenti veri: se la prende con imbroglioni di provincia e furbetti del condominio. Li mette alla gogna alimentando lo spirito di rivalsa del telespettatore in cerca di giustizia mediatica. Il guru del programma è Antonio Ricci, sedicente «situazionista» ed «ex sessantottino» e – ed eccoci al punto che ci interessa in questa sede – sodale


e autore di Beppe Grillo dagli esordi al grande successo nazionale. Ricci venne chiamato da Grillo in Rai. Pippo Baudo aveva scoperto il giovane cabarettista nei locali milanesi, quelli meno rinomati del mitico Derby, e gli aveva proposto di essere uno dei protagonisti di Fantastico, lo show di punta del sabato sera della Rai. Quando Grillo esaurì il suo repertorio di monologhi, ebbe bisogno del suo amico Ricci. Era il 1979. Da allora cominciò il sodalizio tra i due liguri, l’autore di Albenga, nel savonese, e il comico di Genova. Il paradosso consiste nel fatto che Ricci non si accontenta di gestire il successo travolgente dei suoi programmi. Pretende che gli venga riconosciuta onestà intellettuale e anzi verginità politica. Rivendica di essere contro-corrente e chiede di venire riconosciuto come voce d’opposizione. Ha spiegato una volta: «Abbiamo scelto di indagare il parassitismo sulle notizie di cui vive l’informazione tradizionale, con le sue censure e la sua retorica. I suoi tic. Le sue verità rivelate». Il feticismo della parola Nel 2010, lo scrittore Nicola Lagioia, fresco autore di un romanzo sull’immaginario degli anni Ottanta e dunque preparato sulla temperie dentro alla quale si è forgiata la macchina comunicativa di Ricci, ha ingaggiato una dura polemica con il deus ex machina del tg comico berlusconiano. Ha scritto Lagioia:

«Se il compito di Striscia la Notizia fosse davvero lo smascheramento della finzionalità televisiva, come tu non puoi che raccontarci e raccontarti per questioni di sopravvivenza emotiva, oltre vent’anni di programmazione con ascolti altissimi avrebbero dato come risultato un pubblico televisivo consapevole, responsabile, di un livello culturale accettabile, e non quel bacino di share composto da delatori frustrati, aspiranti veline, casalinghe in stato confusionale che si riversa poi nel bacino elettorale coi risultati che sappiamo». Il filosofo francese Peter Szendy ha analizzato il tormentone come il meccanismo attraverso cui «ci lasciamo invadere assillare e abitare da una merce che si riproduce all’infinito dentro di noi». Gli anni che hanno covato il berlusconismo hanno custodito l’assuefazione alla parola e alla serialità del lavoro mentale, veicolando quel cocktail di cose vere e cose false che caratterizza anche gli infotainment di Vespa e i dibattito pomeridiani in Rai de “La vita in diretta”. Nel telegiornale di Ricci, parole serie e argomenti faceti si rincorrono fino a produrre una sorta di indifferenza cosmica, una zona grigia in cui esiste solo l’individuo, tutto il resto si può plasmare a piacimento. Il politico è un attore Margaret Canovan definisce un tipo particolare di populismo: “Il populismo degli uomini politici”. In estrema


67 sintesi, per smentire di essere “di parte”, gli uomini politici tendono a presentarsi come outsider che parlano in nome del “popolo”, oltre la destra e la sinistra e ostentando il superamento degli schemi politici in nome del pragmatismo post-ideologico. Si presentò come outsider Margaret Thatcher, paladina della rivoluzione neoliberista dalla metà dei Settanta del secolo scorso. Il presidente francese Valerie Giscard D’Estaing era uso presentarsi a cena a casa della gente comune, con tanto di fisarmonica per intrattenere i commensali dopo il pasto. Espediente, quest’ultimo, che venne utilizzato anche da Veltroni, che nel corso della campagna elettorale del 2008 si presentò a pranzo di una famigliuola torinese per parlare del più e del meno. A proposito di questo atteggiamento che definiremmo “anti-politico per politicismo”, Canovan usa ancora un paradosso, l’ennesimo del nostro trattamento: si tratterebbe di “simulare di non recitare”. È un atteggiamento che fino a qualche lustro fa era una tattica elettorale, roba da consulenti di comunicazione e spindoctor: un politico doveva dotarsi qualità attoriali. “La trasmissione la fate voi” “La trasmissione la fate voi”, esclamava Nino Frassica nei panni del “bravo presentatore” di Indietro tutta. Come scrisse Guy Debord e come dovrebbe sapere bene il situazionista Antonio Ricci, non es-

iste un fuori dal dominio dello spettacolo integrato. Ecco per quale motivo, la gente ha associato la quint’essenza dell’opposizione alla “politica” (la cosiddetta “anti-politica”) a un leader come Grillo che, proprio come Berlusconi, viene dal mondo dello spettacolo, ha imparato in quell’ambiente i trucchi del mestiere. Lo scenario è quello dell’”egemonia sottoculturale” che Massimiliano Panarari ha definito in un saggio che utilizza le categorie gramsciane per analizzare l’immaginario di massa degli ultimi trent’anni e comprendere come la destra abbia occupato gli spazi della società e della cultura in termini di individualismo e forme di vita colonizzate dalla televisione. Dunque, quando parliamo di Grillo non dobbiamo dimenticare che si tratta di un personaggio televisivo che è riuscito a capitalizzare il successo ottenuto grazie ai paludatissimi programmi del sabato sera su Rai1 e a reinvestirlo nell’arena dei nuovi media, solleticando l’entusiasmo per la rete e la voglia di partecipazione. Proviamo a dirlo in termini più analitici: la divisione netta tra Rete e Televisione che Grillo va sventolando per sottolineare come lui sia espressione del web e i “politici” dei vecchi media non ha nessun fondamento. Mai nella storia un medium ha sostituito quello precedente in un immaginario percorso che traccia un tempo lineare. Al contrario, i diversi mezzi di comunicazione si sono sempre integrati tra loro dando vita a quella che


Henry Jenkins definisce “cultura convergente”. Per di più, dal punto di vista culturale un mass media si afferma quando deve rispondere alla domanda generata dal media precedente. Da questo punto di vista la relazione tra neotelevisione e rete è molto stretta. Come ha intuito in tempi non sospetti Umberto Eco, da anni ormai la televisione ha smesso di essere uno schermo che lo spettatore si limita a guardare. La relazione neotelevisiva investe un pubblico che avverte di poter stare dentro, diventando pubblico in studio, aspirando a fare la velina, rispondendo ai quiz da casa e infine (oh yes!) tele-votando. Questo meccanismo di partecipazione rimanda alla nota profezia Andy Warhol (‘Nel futuro ognuno sarà famoso per quindici minuti) ma costituisce anche i presupposti per il protagonismo ossessivo dei reality show e del cosiddetto Web 2.0. Il feticismo della rete C’è una risonanza tra i due feticismi che caratterizzano la biografia di Beppe Grillo: il feticismo della parola dei tormentoni di Ricci e il feticismo della rete dell’ideologia di Casaleggio. Ogni giorno almeno 14 milioni di italiani controllano il loro profilo Facebook. Internet non è più uno strumento in mano a pochi pionieri (si pensi, per rimanere al tema dell’uso politico del web, al cyberpunk e alle comunità digitali dei centri sociali degli anni Novan-

ta, quando Grillo ancora spaccava i computer) e diventa di massa, si fa oggetto di consumo e al tempo stesso spazio di produzione di contenuti diffuso su larga scala. Negli anni si diffondono le connessioni flat, il web diventa parte della vita quotidiana e, complici le sue immense risorse, viene percepito da molti come una tecnologia che ha una sua forza autonoma. Ascoltando le parole di Grillo e le discussioni dei grillini, ci si accorge che la rete viene descritta come se fosse un mondo a-conflittuale che si evolve da solo, sviluppa l’”intelligenza collettiva” e disegna un orizzonte progressivo quanto ineluttabile. All’inizio degli Anni Zero, mentre i movimenti reduci da Genova fanno i conti con il lutto e la repressione, Grillo si candida a rappresentare il diamante dalle mille facce del lavoro post-fordistra. Una fetta di mondo giovanile pare aver trovato una forma organizzativa nuova e all’apparenza coinvolgente, capace di valorizzare (termine ambivalente che indica il mettere a valore ma anche il mettere al lavoro) le competenze e spacciare la facile ideologia del Web 2.0. Così, almeno nella prima fase della sua esistenza (che finisce con le elezioni amministrative della primavera del 2012 e la conquista di Parma) il Movimento 5 Stelle mette all’opera i net-workers, i lavoratori per lo più precari e forniti di un’istruzione medio-alta, i giovani no-future che sanno utilizzare le nuove tecnologie e che – come ha potuto osservare chiunque abbia


69 frequentato il movimento dell’Onda del – sono pericolosamente attratti dalle scorciatoie del giustizialismo di Travaglio e Di Pietro (altri due che si sono avvalsi della consulenza in marketing dell’agenzia di Casaleggio). Mescolando teoria della rete, culture new age e congetture complottarde, Grillo parla addirittura di una “trasformazione antropologica” che riguarderebbe il modo stesso di funzionare del nostro cervello, le sue sinapsi. Come ha scritto Wu Ming 1, nel mondo descritto da Grillo “la Rete diventa una sorta di divinità, protagonista di una narrazione escatologica in cui scompaiono i partiti (nel senso originario di fazioni, differenze organizzate) per lasciare il posto a una società mondiale armonica, organicista. L’utopia di un uomo è la distopia di un altro”.


di Claudio Riccio

Tornare in piazza

Appunti per una stagione di lotte

C

’è una domanda che molti si pongono in Italia come all’estero: come fare a mettere in campo una risposta conflittuale ed efficace nel silenzio devastante dell’Italia postberlusconiana? Siamo in un’Italia attraversata da pulsioni di insofferenza che però non riescono a trasformarsi in sentimenti di critica e azione, e così l’azione devastante del governo Monti viene accompagnata da una unanimità del silenzio e della inazione. È ormai terminata la luna di miele degli italiani con il governo dei professori – che gode comunque di un ampio consenso specialmente

al netto delle politiche antisociali portate avanti – ma salvo piccole o grandi battaglie territoriali non vi sono state vere mobilitazioni di piazza. È palese l’esigenza di riaprire una stagione di lotte nel nostro Paese, ma il rischio concreto è che ciò non avvenga se non si individuano i punti nodali dell’attuale apatia italiana. I tecnici sono diventati “i primi della classe” nell’Unione Europea nell’attuazione di politiche di rigore. La perseveranza con cui vengono portate avanti politiche antisociali


71 con chiari effetti recessivi è impressionante, e i 10 mesi di Monti sono paragonabili per l’Italia a quel che fu la Thatcher per l’Inghilterra, senza neanche la battaglia e la sconfitta dei minatori, dato che qui da noi la partita non si è neanche disputata. In queste settimane prima che si entri nel vivo dell’autunno si leggono molte ipotesi di lavoro, appelli, editoriali, ma tutti sembrano essere caratterizzate da un limite: tutti guardano esclusivamente a parzialità, tematiche o territoriali. Beni comuni, saperi, precarietà, ambiente, o battaglie ancor più specifiche, vengono presentate come LA lotta centrale. Ovviamente tutti poi si pongono l’obiettivo di allargare il ragionamento all’opposizione generalizzata alla crisi, ma ciò non diviene obiettivo principale, ma solo in via subordinata ad altro. Invece l’esigenza centrale oggi è di mettere a sistema un fronte di opposizione alla speculazione finanziaria, ai governi asserviti ai mercati che ne consentono la “dittatura”, e alle conseguenze sociali dell’austerity, ovvero alla crescente povertà. La crisi in realtà altro non è che un saccheggio, il più grande processo di sottrazione dei ricchezza dal basso verso l’alto della storia del capitalismo. Dinanzi a ciò gli effetti da un punto di vista dei comportamenti sociali sono tra i più differenti, ma quello dominante è la paura.

Il rischio fallimento, con la Grecia che viene usata come monito per i popoli, più che per i governi, degli altri Stati europei, porta in molti alla rassegnazione. Il motto della lady di ferro inglese diventa, per la maggioranza dei cittadini e per la quasi totalità delle forze politiche, cruda accettazione della realtà: TINA, ovvero “there is no alternative”. Ma le alternative ci sono, l’austerity è solo il modo per sprofondare di più. Alcune di queste possibili risposte – quantomeno di breve e medio periodo – sono descritte in questo numero dei Quaderni Corsari, e di certo “tifiamo default” non è una proposta valida, sia per chi si pone il tema di tutelare milioni di persone dall’aggravarsi delle condizioni sociali, sia per chi ha l’obiettivo del consenso attorno alle proprie lotte. Il default, aldilà delle valutazioni più strettamente economiche che non vengono affrontate in questo articolo, fa paura. La crisi fa paura, il default fa terrore, e come si sa il terrore e la paura sono potenti strumenti di disciplina sociale nelle mani del potere statale ed economico. È necessario spezzare questa catena di paura, perché la sola rabbia (che comunque oggi ancora non si palesa davvero) non è sufficiente e rischia solo di produrre una spirale rancorosa senza via di uscita, serve invece riaprire spazi di sper-


anza rifiutando l’austerity e il senso di colpa per il debito di cui molti hanno scritto. Gli anni Novanta, con Amato e Ciampi prima e Prodi poi, con la loro cultura per cui è “socialmente giusto” tenere i conti in ordine, uniti all’emergere della crisi, hanno provocato un pericolosissimo slittamento nell’opinione pubblica – anche di quella di sinistra – che ha finito per legittimare l’austerity, ovvero la macelleria sociale. Se non si riusciranno a scardinare tali logiche qualunque rivendicazione sociale che comporti spesa pubblica verrà semplicemente accantonata con il più classico dei “non ci sono soldi”. Non sarà possibile infatti condurre alcuna battaglia parziale che comporta oneri per lo Stato senza rompere questa catena che ci vincola e che impedisce un largo consenso attorno a una qualunque di queste vertenze, piccole o grandi che siano. Per questo serve abbandonare le parzialità e ricominciare dallo sviluppare il senso di quel “noi la crisi non la paghiamo” del 2008, che a detta di Naomi Klein è stato anticipatore dei movimenti Occupy. Al contempo è necessario proseguire sulla strada dell’elaborazione concreta di alternative a questo modello economico e produttivo, mettendo al centro il rapporto tra occupazione, redistribuzione, ambiente e salute, come ben evidenziato in altri contributi presenti in questo primo numero dei Quaderni Corsari.

In molti sono ancora troppo permeati della logica, tutta provinciale, dell’anomalia italiana. I “nostri” limiti sono, infatti, tanto legati – ovviamente – ai postumi del berlusconismo, quanto ai postumi dell’antiberlusconismo. Lo svuotamento del dibattito politico è andato di pari passo con quello del dibattito pubblico, e con esso anche la distanza tra dibattito di movimento e società italiana si è andato ampliando, lo scollamento della rappresentanza politica non è, infatti, caratteristica che attiene solo ai partiti. Non sempre, ma spesso, tale distanza ed incapacità di coinvolgimento riguarda anche settori ampi dell’opposizione sociale. Un ulteriore lascito del berlusconismo è una provinciale insistenza sulla dimensione nazionale, unita ad una ormai priva di senso ossessione del palazzo. Così come settori della sinistra politica guardano all’ingresso in parlamento come ad un obiettivo e non come ad uno strumento, “dimenticando” l’indebolimento sostanziale dei parlamenti nazionali nella gestione dei processi economici, allo stesso modo i movimenti non hanno ancora superato l’ossessione inversa e speculare dell’assedio al palazzo. Nonostante nelle proprie analisi ormai tutti riconoscano lo svuotamento di senso e ruolo di Camera e Senato legato tanto ai processi internazionali quanto alla corruzione e delegittimazione degli stessi par-


73 lamentari, resta ricorrente l’invito a grandi mobilitazioni nazionali per assediare l’uno o l’altro ramo del parlamento, quando invece servirebbe uno sforzo tutto territoriale di lavoro quotidiano nei luoghi di studio, di lavoro, nella città, e una mobilitazione coordinata sui territori, capace di coinvolgere decine, centinaia di migliaia di persone e di sedimentare, dando una prospettiva più lunga di un solo autunno. Quel che sfugge è che si replicano meccanicamente percorsi di “costruzione” di movimenti spesso inadatti alla fase attuale, quasi seguendo un impianto fordista “appelliassemblee-grande manifestazione nazionale-fine” senza rendersi conto che siamo in una fase profondamente diversa. Bisogna infatti considerare che l’arretramento nel dibattito pubblico negli ultimi 20 anni e la perdita di punti di riferimento e orizzonti ideologici verso cui tendere erano stati compensati dall’individuazione del nemico: Berlusconi, la sua azione di governo, il suo stile becero e sprezzante nei confronti delle istituzioni. Il passaggio da Berlusconi a Monti ha fatto saltare questo punto di riferimento, che consentiva – unitamente ad altri elementi – una altissima capacità mobilitante. La ricostruzione di un’opposizione sociale in Italia passa anche e soprattutto dalla definizione non solo di orizzonti di speranza e di possibilità, obiettivi concreti per cui lottare, ma anche di un “nemico” comune.

Tale “nemico” non può però essere un individuo, o un simbolo. Serve ricostruire un discorso pubblico di qualità, comprensibile ed efficace, che resista ai cambiamenti dello scenario politico. Tale “nemico” non può che essere individuato nelle politiche di austerità e nel saccheggio di risorse pubbliche, del welfare e dei beni comuni, che i mercati finanziari, complice la politica del pensiero unico, stanno conducendo. Obiettivo deve essere invertire i rapporti di forza, offrire un’alternativa alle logiche neoliberiste e ai rigurgiti nazionalisti, razzisti e populisti con cui alcune destre europee rispondono alla crisi, contrastare con forza il Fiscal Compact e questa Europa. Una lotta contro l’austerity non è evidentemente possibile senza una forte dimensione europea ed internazionale, sia in termini effettivi (di relazione, coordinamento, azione) che in termini di cornice generale. Per questo servirà fare un forte salto di qualità nella stagione che si potrebbe aprire in queste settimane, abbandonando parzialità tattiche e tematiche e la presunzione di superiorità nei confronti di quei movimenti che nell’ultimo anno hanno prodotto importanti risultati in Paesi storicamente meno conflittuali del nostro. Si smetta quindi di dire che storicamente siamo un Paese conflittuale e che tra il 2008 e il 2010 i movimenti italiani hanno anticipato i


movimenti Occupy, troppo spesso guardati con presunzione di superiorità all’interno delle “organizzazioni di movimento” italiane, si smetta di dire che abbiamo vinto i referendum e che a Genova avevamo ragione. È ormai da un anno che è cambiato tutto, siamo passati a una fase ancor più elevata della “guerra alla società”. Al bando tatticismi e nostalgie. Serve lucidità e determinazione. È tempo di andare all’attacco.


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di Alfredo Ferrara

Reddito minimo garantito e politica industriale visti da Sud

L

a storia dell’ILVA di Taranto e la vicenda giudiziaria recente ad essa legata ripropongono una vecchia questione: può il Mezzogiorno essere un punto d’osservazione valido per analizzare il capitalismo o resta un’eterna eccezione non valida per giudicare la regola? Quello stesso Sud in ritardo nel vivere una sua matura

rivoluzione industriale, successivamente oggetto di maldestri e malriusciti tentativi di industrializzazione e perennemente refrattario a recepire le evoluzioni dei cicli produttivi che si verificano altrove. Questo quesito trovò una prima risposta affermativa in Gramsci che nel Quaderno 22 denominato


“Americanismo e fordismo”1 unì note di analisi della società americana e dell’industria fordista a note di analisi della situazione di Napoli e del Sud Italia, e dell’ipotetico impatto che l’industrializzazione e l’introduzione della catena di montaggio avrebbero avuto sui ceti parassitari ereditati da una tradizione feudale mai liquidata e sul sottoproletariato meridionale. Ad oggi quell’affresco della società americana e della sua industria, scritto da un uomo che non aveva mai messo piede sul suolo americano e che in quel momento viveva recluso nelle carceri e nei sanatori italiani, resta lo strumento più efficace (e più utilizzato in tutto il mondo) per comprendere le tendenze presenti nelle società di quegli anni che più avrebbero contribuito a ridisegnare gli equilibri sociali nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale. Al Sud le “magnifiche sorti e progressive” del capitalismo e del proletariato (quel soggetto da esso creato che avrebbe dovuto determinarne la fine) prendono vie tortuose e costringono a abbandonare immagini stereotipate, facili catastrofismi o vaghe speranze. In un classico del cinema italiano come “Mimì metallurgico ferito nell’onore” si assiste ad esempio alla storia di un emigrante siciliano che si trasferisce al Nord Italia per essere 1 A. Gramsci, Americanismo e fordismo, Quaderno 22 in Quaderni dal carcere, ed. critica a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 2007.

assunto in un’azienda metalmeccanica. Qui comincerà a fare attività sindacale e politica; tornato in Sicilia trasformato dal suo percorso di vita e di lavoro, determinato nella volontà di restare coerente con se stesso e di non tornare ad accettare compromessi, si scontrerà ancora una volta con le difficoltà della sua terra, dove un abbraccio mortale tra accumulazione capitalistica ed economia criminale provvede ai bisogni della popolazione. Al Sud i nodi del capitalismo sono spesso nel corso della storia d’Italia venuti al pettine del realismo e del cinismo. La vicenda odierna di Taranto pone numerose questioni: impatto ambientale della produzione, conflitto tra capitale globale e lavoro ancorato ai territori, ricatto occupazionale, ruolo del sindacato al tempo della globalizzazione, attualità del welfare lavoristico, proposte di riforma, etc. Dipanare questo groviglio è compito difficile, ma provarci può offrire una visione dei nostri tempi non edulcorata né da trionfalismi né da catastrofismi (figli sia della cultura neoliberista che di quella antagonista).

Un welfare per la società postsalariale Il capitalismo con il quale facciamo i conti oggi e la situazione geopolitica all’interno della quale ci troviamo sono profondamente diversi da quelli descritti da Gramsci: se le società europee nel dopoguerra erano potenzialmente capaci di garantire la piena occupazione (o qualcosa


77 che si avvicinasse a essa), oggi persistono da più di un ventennio livelli di sottooccupazione tali da rimettere in discussione, oltre che abitudini e stili di vita consolidati, anche i sistemi di welfare lavoristici edificati sulla prospettiva di impiego a vita della quasi totalità del corpo sociale attivo. Non è un mistero che chi è entrato nel mercato del lavoro dalla fine degli anni ’90 in poi, in virtù dell’alternanza tra periodi di occupazione e periodi di disoccupazione, non ha alcuna prospettiva di ricevere una pensione dignitosa; inoltre l’introduzione dei contratti flessibili, lasciando inalterato il welfare lavoristico, ha lasciato i lavoratori precari privi di qualunque forma di sostegno nel periodo intercorrente tra un contratto e l’altro. In questo contesto ha ripreso piede la proposta del reddito minimo garantito, ad oggi l’unica proposta organica di riforma del welfare che prenda atto della mutata situazione sociale2. Nata all’interno della Rivoluzione americana su proposta del patriota Thomas Paine, l’ipotesi di un reddito minimo garantito erogato dall’autorità statale indipendentemente dal reddito personale e dalla condizione lavorativa del singolo ha conquistato spazio e credibilità proprio in virtù della metamorfosi del capitalismo avvenuta nell’ultimo trentennio. Provo a riassumere gli elementi 2 Cfr. P. Van Parijs, Y. Yanderborght, Il reddito minimo universale, Università Bocconi, Milano 2006; AA.VV., Reddito per tutti. Basic income network Italia. Un’utopia concreta per l’era globale, Manifestolibri, Roma 2009.

principali cui la proposta di un reddito minimo garantito intende rispondere: 1. In virtù dei processi di globalizzazione il tessuto produttivo nazionale non è più in grado di sostenere una crescita tale da garantire la piena occupazione, pertanto non ha più senso costruire un sistema di tutele basato sull’impiego; 2. La via principale intrapresa dagli Stati occidentali per reggere il peso della competizione globale è stata quella di flessibilizzare il mercato del lavoro attraverso la proliferazione di contratti a termine; tende quindi a verificarsi sempre meno l’alternativa secca tra occupazione e disoccupazione, mentre cresce il fenomeno della sotto-occupazione, l’alternanza all’interno di un ciclo di vita tra periodi di occupazione (con contratti flessibili) a periodi di disoccupazione durante i quali non c’è alcun tipo di copertura previdenziale; 3. Legare all’occupazione l’erogazione di sussidi e sostegni al reddito significa ingenerare fenomeni di illegalità e parassitismo; ai lavoratori e alle imprese converrebbero infatti le assunzioni in nero: i primi non dichiarando il lavoro potrebbero continuare a percepire il sussidio statale, le seconde, in virtù della permanenza di quest’ultimo, potrebbero erogare salari più bassi di quelli stabiliti dal contratto nazionale. Inoltre l’impossibilità per il lavoratore di integrare legalmente il sostegno al reddito a un salario e l’incertezza di perdere il primo a


fronte di un lavoro incerto potrebbero rivelarsi un incentivo a rifiutare proposte di lavoro per chi voglia mantenersi nei confini della legalità. Invece una forma di reddito minimo non condizionata all’occupazione invoglierebbe il beneficiario a integrarla con un salario pretendendo contratti in regola. 4. I cicli produttivi hanno subito una trasformazione tendente alla valorizzazione delle fasi cognitive (progettazione, comunicazione, innovazione etc.) e alla progressiva automazione delle fasi produttive (e quindi all’esubero della manodopera meno specializzata). Pertanto la formazione di lavoratori sempre più preparati e disposti ad aggiornarsi è diventata un elemento sempre più pesante nella produzione di valore. La formazione, soprattutto quella che interessa alle aziende e che è capace di accrescere la produttività, ha un costo che quasi sempre ricade sul singolo lavoratore; pertanto fornire un reddito di base universale significa dare a tutti libero accesso alla formazione accrescendo così, oltre alle possibilità di una mobilità sociale reale, le pre-condizioni per la crescita. Tutt’altro che parassitismo quindi. Alla base di questa proposta vi è un’idea di uomo e un percorso di emancipazione anomalo per la storia della sinistra e del movimento operaio: figlia del ‘68, essa consiste nel ritenere non il lavoro come il momento di autocoscienza e di emancipazione ma la libera volontà di intraprendere un percorso di vita,

di formazione e professionale. In tal senso il sostegno al reddito solleverebbe l’individuo dalla necessità di dover accettare un impiego purchessia liberando la sua vita, il suo ingegno e la sua creatività che a loro volta, mettendo in circolazione nella società le migliori energie intellettuali, contribuirebbero a creare uno sviluppo, un’innovazione e un’occupazione virtuosa. Tale tipo di rivendicazione si propone oltre a un impatto egualitarista sulla realtà sociale anche uno dinamico sulla realtà produttiva stimolando l’innovazione. Essa è infatti stata rilanciata in una fase matura del capitalismo, all’interno di contesti territoriali metropolitani caratterizzati da un tessuto produttivo già instradato sulla via dell’innovazione, capace quindi di valorizzare il lavoro altamente specializzato. Oltre a una predisposizione culturale nei confronti del lavoro specializzato e cognitivo, è infatti necessaria anche un’infrastrutturazione materiale del capitalismo capace di metterlo all’opera.

Il reddito minimo garantito come unica soluzione ai problemi del Mezzogiorno? La circostanza che la rivendicazione del reddito minimo garantito sia stata riproposta a Taranto, e in particolar modo a opera di un gruppo di operai ILVA e cittadini di Taranto in polemica con tutte le sigle sindacali, ci offre un’occasione di riflessione innanzitutto sull’efficacia di tale strumento e in secondo luogo


79 sull’uso che se ne fa come elemento di rivendicazione. La rivendicazione di questi operai verteva sul fatto che non fosse compito loro discutere del futuro degli impianti dell’ILVA o di sindacare sulle decisioni della magistratura e che, qualora la sentenza avesse disposto la chiusura, lo Stato avrebbe dovuto farsi carico del territorio tarantino. Lo striscione “Sì ai diritti, no ai ricatti: occupazione – salute – reddito ambiente” dietro al quale sfilavano ha chiarito ancor più il loro riferimento al fatto che lo Stato avrebbe dovuto farsene carico attraverso una qualche forma di sostegno al reddito. Tra la cultura sindacale e quella antagonista vi è da sempre una diatriba: la prima costruisce attorno al lavoro la propria piattaforma rivendicativa e fa pressione sullo Stato e sul parlamento affinché indirizzino sforzi e finanziamenti a esso; la seconda, in virtù delle trasformazioni sociali degli ultimi decenni e dell’idea di libertà postsessantottina, propone il sostegno incondizionato al reddito che ho descritto prima. La Fiom, sotto la segreteria di Landini, ha operato un tentativo di confronto col mondo antagonista su molte questioni, compresa quella del reddito minimo garantito, operando un profondo rinnovamento della cultura della propria organizzazione. La circostanza che uno strappo intorno a esso e alla sfiducia sul fatto che la politica industriale esercitata da uno Stato possa cambiare in meg-

lio la vita dei cittadini sia avvenuta proprio al Sud Italia, e proprio intorno alla vertenza su una cattedrale nel deserto costruita all’acme del capitalismo di Stato, deve indurci ad alcune riflessioni sull’attualità e l’efficacia di questi due strumenti, in questo caso specifico e nel Sud Italia tutto. La grande industria italiana non è nota per l’investimento in innovazione: l’Italia non è certo la Silicon Valley e gli automatismi del mercato hanno quasi sempre portato le grandi imprese nostrane a rintanarsi nelle nicchie protette di mercato piuttosto che a investire in settori dove il rischio d’impresa è più alto e rende necessaria l’incerta strada dell’innovazione. Quest’ultima in Italia, come hanno analizzato Enzo Rullani e Aldo Bonomi, è lasciata alle piccole e medie imprese, concentrate soprattutto al centro-nord3. Questo fenomeno il Sud Italia l’ha conosciuto solo marginalmente. Immaginare di liberare le energie intellettuali e le occasioni di formazione che il reddito minimo garantito permetterebbe al Sud Italia, senza che parta contestualmente una qualche forma di intervento sul suo tessuto produttivo, sarebbe pari a lanciare una palla su una superficie di ghiaccio: senza attrito continuerebbe a vagare all’infinito senza trovare una qualche collocazione, 3 Cfr. A. Bonomi, E. Rullani, Il capitalismo personale. Vite al lavoro, Einaudi, Torino 2005. Sarebbe interessante replicare questa indagine dopo la crisi economica per vedere come questa importante porzione di tessuto produttivo italiano ne abbia retto l’impatto.


seppur temporanea. Il reddito minimo garantito è inoltre economicamente sostenibile se è in grado di offrire un valore aggiunto al tessuto produttivo e chi di esso discute seriamente da anni cerca di legittimarlo sostenendo proprio la tesi che esso, lungi dal produrre parassitismo, sarebbe un fattore di sviluppo. Al Sud Italia, senza una politica industriale capace di andare oltre le cattedrali nel deserto del capitalismo di stato e di fornire invece gli strumenti per reggere il peso della globalizzazione, un reddito minimo garantito avrebbe la funzione di offrire, soprattutto alle giovani generazioni, l’occasione di acquisire gli strumenti intellettuali, di formarsi e godere della serenità derivante dal sollevamento dai bisogni primari, senza però offrirgli quella concreta di mettere in opera questo patrimonio. L’effetto prevedibile sarebbe molto probabilmente quello di una nuova ondata di fuga dei cervelli.

L’industria senza l’industrialismo e la necessità di una proposta di organizzazione sociale Avanzando queste perplessità in merito all’efficacia di un sostegno incondizionato al reddito al Sud Italia non intendo però sostenere che esso sarebbe impraticabile lì dove rimangono ancora prevalenti forme di capitalismo, altrove superato e che fin quando queste non vengono liquidate occorre attendere. Piuttosto si palesa qui più che mai la necessità di non dismettere frettolosa-

mente strumenti d’analisi e forme di mobilitazione figlie del fordismo, per lasciare il posto a elementi di cultura antagonista post-fordista: solo l’integrazione tra questi due mondi può permettere il rilancio del conflitto sociale nel Mezzogiorno. Non è possibile ad esempio rinunciare a pensare a una politica industriale come a qualcosa di necessario: lasciare agli automatismi del mercato la facoltà di rispondere alle quattro domande in merito al “cosa”, “quanto”, “dove” e “come” produrre ha condannato il Sud alla marginalità politico-economico e oggi, in uno scenario globale, finirebbe per farlo ancor più. Il caso specifico di Taranto e dell’ILVA è emblematico di tale questione; occorre considerare che la palese sfiducia nei confronti dello Stato e della cultura industriale (di qualunque ipotesi mantenga in vita lo stabilimento ILVA stesso) sono frutto dell’esasperazione di un territorio che è stato vittima di politiche criminali per decenni e che ora chiede legittimamente allo Stato di riconoscergli, per la prima volta, lo sforzo che ha mantenuto in piedi un intero sistema industriale. Andando oltre gli elementi più contingenti e specifici di questa situazione, possiamo però immaginare il futuro del territorio tarantino nel caso in cui le comunità decidano di perseguire isolatamente le due strade: politica industriale da un lato, sostegno al reddito dall’altra. Senza un sostegno al reddito il territorio tarantino resta sotto lo scacco


81 del ricatto occupazionale, e l’ipotesi di una chiusura, seppur temporanea, dell’impianto apre scenari talmente negativi da rischiare di far finire in secondo piano la questione ambientale e da legittimare la politica a intervenire per scongiurare quest’ipotesi di fronte a una sentenza della magistratura, non escludendo anche il sollevamento di un conflitto tra poteri dello Stato. Permanendo tale situazione, la forza del ricatto occupazionale resterà sempre più forte dell’esigenza di una riconversione ecologica degli impianti. Qualora invece lo Stato si facesse carico con strumenti di sostegno al reddito degli operai ILVA, pensare che la dismissione degli impianti non-ecocompatibili sia l’unica strada possibile e dismettere, insieme ad essi, la politica industriale tutta (in quanto residuo del novecento), significherebbe rendere ancor più il Sud un deserto produttivo. In questo territorio il capitale ha per troppo tempo con l’assenso dello stato avuto la facoltà di decidere come organizzare il territorio stesso e le vite di chi vi risiede. Dismettere quell’organizzazione senza sostituirla con un’altra, anzi cogliendo la critica alla prima come la critica a qualunque tentativo di organizzazione sociale, proponendosi soltanto di offrire ai singoli gli strumenti per ricostruire individualmente le proprie vite può funzionare nel breve periodo, ma finirebbe per determinare lo spopolamento del territorio. Ostentare sfiducia nei confronti del-

lo Stato, della possibilità che questi possa proporre una politica industriale che non sia un lasciapassare per i desiderata del capitale può essere comprensibile a Taranto, dove lo Stato si è fatto prima promotore, poi connivente, di un disastro ecologico in nome dell’occupazione e dello sviluppo. Tatticamente questa posizione, oltre che comprensibile, potrebbe rivelarsi utile per porre sotto pressione lo Stato affinché alle dichiarazioni d’intenti seguano fatti concreti. Ma ciò non può portare a liquidare il terreno della proposta di una nuova organizzazione sociale. L’equivoco di trasformare questa posizione da tattica in strategia è figlio della sparizione dal dibattito pubblico delle questioni sociali e della conseguente incapacità di formulare proposte che la riguardino. L’industrialismo e lo sviluppo non possono essere gli unici fini ai quali orientare l’azione politica e l’organizzazione sociale; quando lo diventano ecco che passa in secondo piano la questione dell’impatto ambientale, a Taranto come in Val di Susa. La critica a quel modello però non può sfociare nel velleitarismo del non riconoscere che non è pensabile, a oggi, un’organizzazione sociale minimamente egualitaria in Occidente che faccia a meno dell’industria, che si faccia carico cioè del pensare la sua collocazione a fianco di altre questioni, quella ecologica in primis. Accettando questo schema teorico, in un’organizzazione sociale che si


proponga di collocare la produzione industriale paritariamente ad altre questioni, tornando al caso concreto dell’ILVA di Taranto dobbiamo considerare che la produzione dell’acciaio resta necessaria, seppure questo non legittima: 1. i territori più ricchi a sgravarsi del costo delle fasi produttive più complesse scaricandole sui territori più poveri, dove il ricatto occupazionale permette di ridurre i costi (del lavoro, della sicurezza, dell’ecocompatibilità etc.); 2. i capitani d’industria che decidono di investirci e operare senza regole che tutelino l’ambiente e la salute di lavoratori e cittadini. Tener fermi questi due punti, non accontentandosi degli annunci del governo al riguardo, ma orientandovi tutte le energie sindacali, politiche e intellettuali nei prossimi anni, è già un tentativo di proporre una nuova organizzazione sociale. Dalla permanenza o meno in Italia, e particolarmente al Sud, della produzione dell’acciaio dipende la possibilità di continuare a produrre utilizzando materiale non d’importazione, cioè produrre (profitti e occupazione) con costi ridotti e senza contrarre rapporti di dipendenza con Paesi esteri che condizionano pesantemente la sovranità nazionale (la dipendenza di gran parte dell’Europa dalla Russia per l’erogazione del gas ha impedito ad esempio che potesse esser detta una sola parola sulla violazione dei diritti umani in Cecenia).

Inoltre, la questione della sostenibilità del reddito minimo garantito è altrettanto fondamentale. Se in Alaska è stato possibile erogare un sostegno al reddito come frutto della condivisione tra tutta la comunità dello sfruttamento delle risorse petrolifere, laddove non ci sono tali risorse capaci da sole di reggerne il costo ciò è possibile solo grazie a un tessuto produttivo solido e vivace. Avendo conosciuto l’effetto degli automatismi del mercato sul Mezzogiorno è legittimo dubitare che si possa lasciare in mano al capitale la facoltà di rispondere alle quattro domande di cui sopra, a Taranto come in tutta Italia; soprattutto perché il rischio sarebbe ancora una volta quello che, limitando l’orizzonte della rivendicazione al reddito di base e lasciando alla dialettica tra Stato e capitale l’individuazione degli strumenti per garantirne la sostenibilità economica, si continui a perseguire una politica industriale che scarica il rischio d’impresa sui lavoratori. Collocare le singole rivendicazioni all’interno di una complessa strategia di lotta è oggi più che mai difficile, ma resta l’unica strada possibile per ribaltare dei rapporti di forza che vedono nell’isolamento dei luoghi e dei soggetti dei conflitti la loro maggiore garanzia di sopravvivenza.


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di Salvatore Romeo

Taranto e il siderurgico. La parabola della “città dell’acciaio” È difficile capire il senso di quello che sta accadendo a Taranto in queste settimane – e soprattutto è impossibile offrire proposte chiare alla crisi che si è aperta intorno a uno dei principali stabilimenti produttivi del Paese – senza esaminare la storia di quella unità produttiva. Il siderurgico di Taranto viene realizzato fra 1960 e ‘64 ed entra pienamente in funzione l’anno successivo. La capacità produttiva

originaria supera i due milioni di ton./anno di acciaio grezzo (ciò lo rende sin da allora la più potente acciaieria del Paese), portata di lì ai primi anni ‘70 a 4,5 milioni ton./ anno. Fra ‘70 e ‘74 viene realizzato il “raddoppio”, che consente alla capacità produttiva di raggiungere 10,5 milioni di ton./anno. Da allora ai giorni nostri la potenza dello stabilimento cresce di poco (quella attuale raggiunge circa 11,5 milioni/ ton.), ma vengono sostanzialmente


modificate tante altre cose, fra cui gli assetti proprietari: nel 1995 infatti viene conclusa la privatizzazione di ILVA a favore del gruppo Riva. I tre passaggi appena accennati sono altrettanti snodi fondamentali della vicenda del siderurgico ionico, importanti non solo dal punto di vista strettamente industriale, ma anche politico. Affrontarli criticamente è la chiave per far luce sul presente e provare a immaginare possibili soluzioni che superino la contrapposizione artificiosa fra lavoro e ambiente. Acciaio per l’industrializzazione del Sud Poche opere industriali hanno alle loro spalle un dibattito politico e persino culturale così ampio come quello che condusse alla nascita del siderurgico ionico. La sua realizzazione fu proposta per primo da Pasquale Saraceno, nel 1956. Saraceno1 – figura purtroppo dimenticata – era fra i principali animatori di quell’ambiente intellettuale noto nel secondo dopoguerra sotto la definizione di “nuovi meridionalisti”2. Si 1 Per l’elaborazione meridionalista di Saraceno v. Pasquale Saraceno, Lo sviluppo economico dei Paesi sovrappopolati, Roma. 1952; idem, L’Italia verso la piena occupazione, Milano, 1963; e le raccolte di scritti id., Il Meridionalismo dopo la Ricostruzione, Milano, 1974 e id., Gli anni dello Schema Vanoni, Milano, 1982. 2 V. Giuseppe Galasso, Vecchi e nuovi orientamenti del pensiero meridionalistico, in Nord e Sud nella società e nell’economia italiana di oggi. Atti del convegno promosso dalla Fondazione Luigi Einaudi, Torino, 1968 e Vera Zamagni e Luigi Sanfilippo, Introduzione, in

trattava in prevalenza di “tecnici”, in gran parte provenienti dall’IRI, dove erano stati direttamente impegnati nei salvataggi bancari e nelle ristrutturazioni industriali del decennio 1933-’43. A guerra finita questo gruppo, che vedeva nel futuro governatore della Banca d’Italia – già direttore generale di IRI – Donato Menichella il suo esponente di punta, promosse la costituzione dell’Associazione per lo Sviluppo Industriale del Mezzogiorno (SVIMEZ). A questa impresa contribuirono anche altri soggetti, aggregatisi nel clima intellettualmente e politicamente effervescente dei mesi immediatamente successivi la Liberazione; su tutti merita menzione il socialista Rodolfo Morandi, allora Ministro dell’Industria del gabinetto De Gasperi (d’altra parte lo stesso Saraceno era iscritto alla DC, anzi: insieme al cognato Ezio Vanoni era stato fra gli autori del Codice di Camaldoli, il manifesto ideologico del nuovo partito cattolico). I “nuovi meridionalisti” avevano elaborato col tempo una visione molto precisa del divario territoriale che sin dall’unificazione caratterizzava il nostro Paese. In sintesi, esso era stato causato in parte dalle politiche economiche favorevoli alle industrie del Nord (come aveva già rilevato Gaetano Salvemini da tempo), in parte dall’azione di un SVIMEZ, Nuovo meridionalismo e intervento straordinario. La SVIMEZ dal 1946 al 1950, Bologna, 1980.


85 preciso meccanismo economico3. Questo era tratto dalla più recente letteratura intorno alle relazioni economiche internazionali; e, in particolare, da quella fondamentale critica alla teoria dominante della “divisione internazionale del lavoro” definita “teoria dello sviluppo”4. I teorici dello sviluppo negavano che alla base delle differenti specializzazioni produttive presenti in diverse aree del mondo sussistessero presunte “vocazioni” industriali o rurali; inoltre rilevavano che alla base del crescente divario fra contesti a differente livello di sviluppo vi fosse la tendenza delle industrie – dunque delle attività a maggiore valore aggiunto – a concentrarsi laddove già esisteva un sistema produttivo avanzato. La ragione era da ricercare nelle cosiddette “economie esterne” (know how, 3 Questa interpretazione è contenuta in quello che può essere considerato il Manifesto della SVIMEZ, l’opera di Giuseppe Cenzato e Salvatore Guidotti, Il problema industriale del Mezzogiorno, edito originariamente dal Ministero dell’Industria e successviamente contenuto in Il Mezzogiorno nelle ricerche della SVIMEZ 1947-1968, Milano, 1968. 4 Sorta a cavallo della seconda guerra mondiale, maturò a seguito dei contributi di Ragnar Nurske (si ricordi in particolare Problems of Capital-Formation in Underdeveloped Countries, 1953, Oxford University press) e Paul Rosenstein Rodan (v. Problems of Industrialization of Eastern and South- Eastern Europe, 1943 , ora disponibile anche qui http://www.depfe.unam. mx/actividades/12/curso-crecimientoydesarrollo/03_rodan_1943.pdf) in particolare. I suoi temi furono sviluppati tuttavia anche da altri economisti, fra cui meritano di essere ricordati Gunnar Myrdal e Raùl Prebisch, che nella veste di presidenti della Commissione sociale ed economica dell’ONU rispettivamente per l’Europa e per l’America Latina contribuirono alla diffusione delle politiche economiche ispirate a quella teoria nei contesti di rispettiva competenza.

domanda e offerta di semilavorati e prodotti finiti, servizi finanziari ecc.) che una struttura economica con un’articolazione già relativamente ampia genera. La dinamica di crescita degli investimenti industriali nell’area a maggiore intensità di sviluppo provocava – secondo gli esponenti di quella corrente – un effetto di divergenza rispetto alle aree relativamente arretrate di uno stesso spazio economico (caratterizzato da libertà di movimento di capitali e merci e da parità monetaria): non solo le prime crescevano a ritmi più intensi, ma le loro produzioni tendevano a scalzare quelle delle seconde per via della maggiore competitività. I “nuovi meridionalisti” furono profondamente influenzati dalle opere dei “teorici dello sviluppo” (è noto, in particolare, il rapporto che maturò nell’immediato dopoguerra fra Pasquale Saraceno e Paul Rosenstein Rodan, che era in quella fase capo economista della BIRS, la futura Banca Mondiale). Seguendo questa linea si convinsero che solo un intervento esterno alle forze economiche – dunque dello Stato – e in grado di alterare il meccanismo di sviluppo che era alla base del divario corrente fra diverse parti del Paese, avrebbe permesso di risolvere l’annosa “questione meridionale”. D’altra parte questa era considerata una priorità nel quadro di una ristrutturazione complessiva dell’economia nazionale, che fino a quel momento aveva sofferto di


una strutturale ristrettezza del mercato interno – da cui era derivata l’instabilità delle principali imprese che col tempo aveva portato al massiccio intervento pubblico degli anni ‘30. Con l’ampliamento della base produttiva del Mezzogiorno – funzionale a una reale unificazione economica del Paese – l’Italia avrebbe così raggiunto livelli di sviluppo prossimi a quelli dei grandi sistemi industriali. I settori d’intervento individuati dai teorici dello sviluppo erano circoscritti alle produzioni di beni d’investimento: “capitale fisso sociale” (infrastrutture) o produzioni di base (siderurgia, chimica, meccanica strumentale ecc.). Questi avrebbero facilitato le condizioni d’avvio delle restanti iniziative economiche, dando l’impulso a un meccanismo di sviluppo tendenzialmente autopropulsivo. Fu all’interno di questa visione generale che emerse l’idea di Saraceno di realizzare un nuovo siderurgico a ciclo integrale (sarebbe stato il quarto per il nostro Paese, dopo Bagnoli, Piombino e Cornigliano) da localizzare nelle regioni del Mezzogiorno. Esso avrebbe dovuto rappresentare la prima opera del “secondo momento” della politica di sviluppo per il Sud avviata nel 1950 con il varo della Cassa del Mezzogiorno5. Questa aveva sod5 Questa poté contare su un prestito di 1.000 miliardi (da erogare in dieci anni) da parte della stessa BIRS. V. Salvatore Cafiero, Men-

disfatto solo in parte i “nuovi meridionalisti” – nonostante il testo della legge istitutiva fosse stato scritto da Menichella in persona – dal momento che gli interventi previsti si concentravano nel solo campo delle infrastrutture. Iniziò da quel momento un lavoro costante di critica e aggiornamento dell’opera della Cassa, che diede luogo anche ad alleanze inaspettate per l’epoca. Per esempio, al Congresso della Cassa del Mezzogiorno del 1953 si registrò la sostanziale convergenza fra Saraceno e Giuseppe Di Vittorio sulla necessità di ampliare le finalità dell’istituto – e, in generale, della politica meridionalista6. Nel frattempo però degli squilibri si erano manifestati anche sul fronte del mercato siderurgico. Nell’intera area CECA (che comprendeva Germania, Francia, Belgio, Olanda, Lussemburgo e Italia) dal 1954 si era aperto un momento di intensa crescita del fabbisogno di beni siderurgici, che aveva sostanzialmente saturato le capacità produttive correnti. Questo fatto comportava rischi notevoli di mancato approvigionamento soprattutto per

ichella meridionalista, in Franco Cotula, Stabilità e sviluppo negli anni ‘50, vol. 2, Bari-Roma, 1998.

6 Ivi, p. 14. Di Vittorio d’altra parte era il dirigente comunista che manifestò maggiore interesse per la Cassa del Mezzogiorno, e l’intervento straordinario in generale. Nel 1950 egli era per votare a favore del nuovo ente, ma la sua posizione venne sconfitta da Giorgio Amendola, allora responsabile PCI per il Mezzogiorno. V. Giovanni Gozzini e Renzo Martinelli, Storia del Partito Comunista Italiano. Dall’attentato a Togliatti all’VIII Congresso, Torino, 1998, pp. 123-124.


87 il nostro Paese – che disponeva dell’industria siderurgica al momento più debole. Si manifestò pertanto la necessità di un ampliamento delle capacità produttive, nel senso di un’estensione della produzione a ciclo integrale (in Italia allora – e ancora oggi – minoritaria rispetto alle tecniche legate al forno elettrico), in modo da eludere la crescente scarsità del rottame. Una “cordata” di produttori privati – con a capo i due gruppi maggiori, FIAT e Falck – tentò di organizzarsi per realizzare un nuovo stabilimento a Vado Ligure, ma l’iniziativa risentiva di diverse contraddizioni. In particolare, FIAT nel 1952 aveva siglato un contratto di fornitura di coils (laminati piani utilizzati nelle produzioni di autovetture, elettrodomestici ecc.) a prezzi agevolati con lo stabilimento di Cornigliano, di proprietà del gruppo pubblico Finsider, a seguito del quale aveva rinunciato ad avviare una sua propria produzione di quel genere di beni: la realizzazione del nuovo centro avrebbe implicato inevitabilmente una revisione degli accordi presi e ulteriori investimenti per aggiornare la capacità di laminazione delle ferriere del gruppo – dal momento che Vado avrebbe dovuto produrre solo semilavorati7. 7 Gian Lupo Osti, all’epoca giovane dirigente della Cornigliano S.p.A., nel suo libro intervista curato da Ruggiero Ranieri a proposito di questo progetto ha dichiarato: “(...) a Cornigliano non abbiamo mai preso troppo sul serio il programma di Vado, specie dopo che venne deciso di costruire a Novi Ligure il grande nuovo laminatoio a freddo della Cornigliano [si riferisce al progettato del 1959, ndr]. Alcuni di

Pasquale Saraceno – ben consapevole della situazione della siderurgia europea in quanto membro della commissione incaricata dall’Alta Autorità CECA di elaborare le stime di crescita del mercato dell’acciaio nel medio-lungo periodo – approfittò della situazione per avanzare la proposta di un nuovo centro da ubicare nel Mezzogiorno88. Sin da subito apparve evidente che l’onere dell’impresa sarebbe dovuto ricadere sulla Finsider, che nel frattempo però stava completando l’ambizioso piano d’investimenti avviato nel 1948 dal presidente di allora, Oscar Sinigaglia. Questa circostanza portò la dirigenza del gruppo a declinare l’impegno: l’obiettivo della siderurgia pubblica in quel momento era adeguarsi quanto prima ai livelli di efficienza – e quindi di prezzi – dei principali concorrenti comunitari – coi quali, dal 1958, avrebbe dovuto competere in una situazione di totale apertura dei mercati, dal momento che veniva a decadere il periodo di residua protezione concesso all’Italia dai Trattati costitutivi noi pensavano che Vado fosse una mossa della FIAT per ampliare gli accordi di collaborazione in essere con Cornigliano, in condizioni di vantaggio. In effetti alla FIAT occorreva aumentare i suoi approvigionamenti di lamierino e peraltro doveva affrontare anche degli onerosi programmi d’investimento nel suo settore chiave, quello automobilistico.” in Gian Lupo Osti, L’industria di Stato dall’ascesa al degrado, Bologna, 1991, p. 196.

8 Significativamente questa proposta fu estesa in prima battuta all’allora Presidente del Consiglio, Antonio Segni, e al Governatore della Banca d’Italia, Donato Menichella, in una missiva dell’8/6/1958. Archivio Storico Banca d’Italia (ASBI), Ufficio Studi, pratiche, corda n° 294, pp. 144-155.


della CECA siglati nel 1952 per via della struttura relativamente arretrata della sua siderurgia9. D’altra parte, la stessa Confindustria di Alighiero De Micheli si oppose alla realizzazione del progetto, con i classici argomenti anti-interventisti e rispolverando la vecchia teoria della divisione internazionale del lavoro, che assegnava al Mezzogiorno una duplice specializzazione, agricola e turistica10. Questo nonostante un autorevole conoscitore dell’agricoltura meridionale come Manlio Rossi Doria avesse già da tempo rilevato che la modernizzazione delle campagne meridionali conseguente l’adozione di nuove tecniche e di nuovi rapporti produttivi avrebbe implicato un esubero di braccia tale da richiedere l’emigrazione di almeno un terzo della popolazione corrente, in assenza di ulteriori impieghi. Fu a quel punto la politica a sostenere il progetto attraverso una coalizione ampia, che raccoglieva la maggioranza della Democrazia Cristiana – che, superata defini9 Il Presidente di Finsider, Ernesto Manuelli, espose a Donato Menichella la sua ostilità nei confronti del progetto in una lettera dell’ottobre successivo. V. ASBI; Direttorio Menichella, corda n. 98.1, fasc.2. 10 L’ascesa alla presidenza di De Micheli, nel 1953, portò l’organizzazione sul terreno dello scontro politico: l’anno seguente venne costituita la Confintesa (dall’unità d’azione fra Confindustria, Confagricoltura e Confcommercio), che promosse l’ingresso di candidati filo-padronali nelle liste del PLI e della DC nelle successive elezioni. V. Luca Busotti, Studi sul Mezzogiorno repubblicano: storia, politica ed analisi sociologica, Cosenza, 2003.

tivamente l’esperienza centrista, cercava nuovi equilibri politici – e le sinistre, ma anche pezzi delle forze laiche minori11, tra cui particolarmente incisiva fu l’azione del ministro e parlamentare liberale Guido Cortese. A quest’ultimo in particolare è dovuto l’emendamento alla nuova legge di aggiornamento di tempi e compiti della Cassa del Mezzogiorno varata nel 1957, in base al quale si disponeva un massiccio impegno delle imprese pubbliche nella industrializzazione del Mezzogiorno (non meno del 40% degli investimenti annuali di questi gruppi – e il 60% dei nuovi progetti – avrebbe dovuto essere diretto verso il Sud)12. Questo fu un evento di svolta, che indusse la stessa dirigenza Finsider a rivedere le sue posizioni: all’interno di quel gruppo emerse in particolare la mediazione di Mario Marchesi, presidente della Cornigliano S.p.A. (l’azienda titolare dello stabilimento genovese), che riprese il progetto del siderurgico meridionale piegandolo però alle esigenze industriali della siderurgia pubblica. In sostanza il nuovo centro avrebbe dovuto realizzare prevalentemente prodotti che sarebbe11 L’ascesa alla presidenza di De Micheli, nel 1953, portò l’organizzazione sul terreno dello scontro politico: l’anno seguente venne costituita la Confintesa (dall’unità d’azione fra Confindustria, Confagricoltura e Confcommercio), che promosse l’ingresso di candidati filo-padronali nelle liste del PLI e della DC nelle successive elezioni. V. Luca Busotti, Studi sul Mezzogiorno repubblicano: storia, politica ed analisi sociologica, Cosenza, 2003. 12 Archivi Parlamentari Camera dei Deputati (APC); Legislatura II – Discussioni – Seduta pomeridiana del 5 luglio 1957, p. 33222.


89 ro stati rilavorati da altri centri del gruppo. In quella fase infatti Finsider stava provvedendo anche alla ristrutturazione di un’altra vecchia acciaieria, quella di Novi Ligure, dove si progettava di dismettere i forni e installare un laminatoio a freddo. Veniva così prendendo corpo una strategia che mirava a potenziare fortemente la produzione di laminati piani del gruppo – posto che la domanda di quel genere di prodotti risentiva in quel momento dell’impetuoso andamento dei settori cardine del cosiddetto “boom”. Da Taranto i coils avrebbero dovuto raggiungere Genova e di qui Novi, da dove, rifiniti, avrebbero potuto essere smerciati ai produttori dei comparti meccanici del NordOvest. Questa struttura avrebbe richiesto un coordinamento tecnico e una capacità finanziaria notevole; si decise pertanto di affidare la realizzazione della nuova unità a una società sorta dalla fusione delle due aziende proprietarie degli stabilimenti a ciclo integrale esistenti, ILVA e Corngliano. Nacque così Italsider, una delle principali imprese siderurgiche europee del tempo. Dal punto di vista imprenditoriale l’idea di Marchesi era oltremodo brillante, perché mirava a intercettare la domanda crescente d’acciaio delle più dinamiche industrie italiane del tempo, ma di fatto snaturava la logica meridionalista che era stata alla base dell’idea di siderurgico meridionale. In gran

parte la produzione di Taranto non sarebbe servita a sollecitare lo sviluppo di un contesto economico più articolato e avanzato nelle aree limitrofe allo stabilimento, ma ad alimentare l’ulteriore crescita della parte più industrializzata e ricca del Paese. La decisione finale di realizzare il nuovo siderurgico non rientrò dunque all’interno di una politica industriale volta a favorire l’obiettivo dichiarato di dotare il Mezzogiorno di un’economia completa. Il “raddoppio” e la “monocultura dell’acciaio” Negli anni che fecero seguito alla costruzione del nuovo centro questi presupposti trovarono conferma. Una parte significativa della produzione di Taranto era sistematicamente diretta via mare verso Novi. Nel frattempo, affrontate brillantemente le difficoltà legate all’avviamento, Taranto divenne progressivamente la punta trainante del gruppo: i suoi risultati economici – sistematicamente in attivo fino alla crisi del 1974 – compensavano abbondantemente le perdite accumulate contestualmente dagli altri stabilimenti. Intanto, nella seconda metà degli anni ‘60, dopo la dura contrazione degli investimenti pubblici verificatasi nel corso della “congiuntura” del 1963-65, si tornava a parlare di interventi di industrializzazione del Mezzogiorno. Il boom dei primi anni del decennio infatti


aveva provocato la crescita impetuosa dell’economia nazionale, cui era corrisposto tuttavia un incremento del divario Nord-Sud: in sostanza, l’espansione del reddito aveva riguardato esclusivamente le aree di più antica industrializzazione e quelle immediatamente limitrofe – concentrate interamente nelle regioni settentrionali. Questo tema venne affrontato nel corso dell’elaborazione del Programma Economico Nazionale, che avrebbe dovuto caratterizzare la base della politica economica del governo di centrosinistra costituitosi dopo le elezioni del 1963, che vedeva il socialista Antonio Giolitti assumere l’incarico di Ministro del Bilancio. Tuttavia il Programma, completato nel ’64, sarebbe diventato legge solo nel 1967: a frenarne l’adozione sarebbe intervenuta la politica restrittiva imposta dalle autorità di politica economica (Banca d’Italia e Ministero del Tesoro) per ricomporre gli squilibri monetari indotti dalla crescita caotica degli anni del boom (favoriti dalla stessa politica monetaria accondiscendente promossa dal nuovo governatore Guido Carli)13, che provocò la rottura di Giolitti e della sua componente nel PSI con la coalizione. Il nuovo corso della politica meridionalista prese a maturare con l’approvazione di un’ulteriore legge di proroga delle attività della Cassa 13 V. Augusto Graziani, Lo sviluppo dell’economia italiana. Dalla ricostruzione alla moneta europea, Milano, 2000.

(la 717 del 1965), che disponeva la realizzazione di piani pluriennali per investimenti nel Mezzogiorno coordinati con il Programma Economico Nazionale; di lì a poco il governo decideva di vincolare la concessione dei finanziamenti straordinari all’ampiezza dell’investimento proposto e alla sua articolazione con altri progetti industriali. Erano in gestazione nel frattempo importanti iniziative, su tutte l’insediamento di una nuova produzione di massa di autovetture a Pomigliano d’Arco da parte di Alfa Romeo (all’epoca proprietà del gruppo pubblico Finmeccanica). Contestualmente la domanda d’acciaio in Italia continuava a crescere con maggiore vigore che negli altri Paesi CECA, ponendo un problema di bilancia siderurgica (e commerciale) quanto mai urgente, dal momento che di fatto i produttori stranieri approfittavano della dinamica del consumo italiano per riversare sul nostro mercato le rispettive eccedenze produttive. Si pose così nuovamente alla fine degli anni ‘60 l’urgenza di aggiornare la capacità produttiva siderurgica del Paese. Nel dibattito, che investì ancora una volta il vertice IRI, emerse chiaramente l’alternativa fra raddoppiare la potenza di Taranto o provvedere al rifacimento del centro di Piombino convertendolo alla produzione di laminati piani (fino a quel momento era specializzato in laminati lunghi di grandi dimensioni)14.


91 Sul centro toscano d’altra parte si era concentrata l’attenzione di Mario Marchesi sin dai primi anni ‘60. Stando a quanto riporta uno dei suoi più stretti collaboratori del tempo, Gian Lupo Osti, sarebbe stata intenzione di Marchesi delocalizzare progressivamente sul litorale toscano la produzione a caldo di Cornigliano – che nel frattempo aveva raggiunto la dimensione massima resa possibile da una situazione logistica, che lo vedeva incastrato a ridosso della città di Genova, non proprio ottimale15. Il dibattito che si svolse nel Comitato Tecnico Consultivo IRI convocato nel 1969 per dirimere la questione mise in evidenza d’altronde i vantaggi economici che sarebbero derivati tanto dalla realizzazione di un centro quasi integralmente nuovo, quanto da una posizione di relativa vicinanza ai principali poli di consumo (ancora ben radicati nelle regioni settentrionali). Tuttavia l’opzione del raddoppio di Taranto avrebbe permesso di mobilitare a breve termine finanziamenti significativi – legati alle politiche meridionaliste – che avrebbero alleggerito l’onere di investimento per Finsider. Questo argomento fu decisivo non solo in relazione alla scelta del raddoppio di Taranto, ma anche riguardo un’altra deliberazione partorita dal 14 V. Archivio Storico IRI (ASIRI).Rossa. AG.10001.20019.30001.FINSIDER, Comitato tecnico-consultivo per la siderurgia 1969/70; Comitato tecnico-consultivo per la siderurgia 1969/70; Comitato Tecnico Consultivo per lo Sviluppo della Siderurgia, Roma, 1 luglio 1969. 15 A questo proposito v. Pinuccio Stea, Taranto da Lorusso a Cannata. Ovvero il ritorno dei rossi (1971-1982), Taranto, 2012.

CTC: la realizzazione di un ulteriore stabilimento a ciclo integrale nel Mezzogiorno (l’anno seguente si sarebbe optato per Gioia Tauro, quasi a risarcire il “sacrificio” del capoluogo di regione che era stato imposto l’anno precedente a Reggio Calabria, e che aveva scatenato la più violenta rivolta della storia repubblicana). In questo modo si ridisegnavano gli equilibri della siderurgia pubblica: l’asse dei laminati piani andava rafforzandosi (anche a Gioia si sarebbe realizzato questo genere di prodotti), mentre Piombino finiva sostanzialmente emarginato e si decideva di convertirlo alla produzione di acciai speciali, affidandolo a una società ad hoc – la Acciaierie di Piombino –, che sarebbe stata gestita in compartecipazione fra Italsider e FIAT. La decisione presa dal CTC ratificò anche il definitivo cambio di guardia all’interno del gruppo pubblico: di fatto la posizione di Marchesi – nel frattempo diventato Presidente di Italsider – finiva emarginata a vantaggio di quella sostenuta dall’amministratore delegato di Finsider, Alberto Capanna, che in sostanza non esprimeva nessuna strategia industriale, mirando semplicemente a compiacere le autorità politiche. Questa impostazione avrebbe avuto effetti profondi tanto sull’azienda quanto sulla gestione del consenso a livello locale. Il raddoppio portò Taranto a diventare il più grande centro siderurgico


d’Europa. Oltre tutto, nei primi anni ‘70, fu avviata una linea di laminazione a freddo che avrebbe finalmente consentito allo stabilimento ionico di realizzare prodotti finiti; tuttavia la politica di prezzo esercitata dall’azienda – che non prevedeva differenze legate alla maggiore o minore distanza dalla produzione in territorio italiano – non poneva alcun vantaggio localizzativo per eventuali attività che avessero voluto trasformare in loco l’acciaio tarantino. D’altra parte, il fabbisogno del nuovo centro di Pomigliano e delle altre unità metalmeccaniche sorte in altri punti del Sud avrebbero esaurito in misura relativamente efficace la produzione dell’unità pugliese. Fu in queste circostanze che maturò una vicenda destinata a incidere profondamente tanto sull’evoluzione successiva della grande acciaieria quanto sull’economia del territorio ionico. A conclusione dei lavori di raddoppio circa 6.300 addetti alla costruzione degli impianti non vennero riassorbiti come maestranze dello stabilimento. Si aprì allora la cosiddetta “vertenza Taranto” per il ricollocamento di questi “disoccupati di ritorno”. La giunta dell’epoca, a guida comunista, e i sindacati, con in testa la FLM, provarono a dare alla vertenza uno sbocco positivo per l’intero territorio, chiedendo l’avvio di una diversificazione produttiva1616. Questa opzione venne so-

noramente sconfitta: i disoccupati furono sì riassorbiti, ma all’interno dello stesso siderurgico (che raggiunse così circa 23.000 addetti) e soprattutto nelle ditte che gravitavano nel sistema dell’appalto dello stabilimento, che assunse in questo modo dimensioni elefantiache, destinate a gravare tanto sui risultati economici del centro quanto sui bilanci Italsider17. Le difficoltà gestionali che derivarono da questa situazione e dalla stessa impreparazione del management rispetto alle dimensioni e alla complessità della nuova struttura andarono a sommarsi a una situazione di mercato profondamente mutata. Era infatti subentrata nel frattempo una contrazione della domanda di beni siderurgici, provocata dallo shock petrolifero del 1973; negli anni a venire tuttavia le conseguenze di tale evento si rivelarono nei termini di una ridefinizione degli equilibri del mercato: mentre le grandi imprese – con le quali fino a quel momento Italsider si era relazionata in maniera privilegiata – riducevano significativamente i propri ordini, emergevano nuovi acquirenti, caratterizzati però da atteggiamenti apertamente spec-

16 Osti, L’industria di Stato, cit., pp. 6566 A questo proposito v. Pinuccio Stea, Taranto da Lorusso a Cannata. Ovvero il ritorno dei rossi (1971-1982), Taranto, 2012.. 17 L’aggravio delle spese per prestazioni di terzi nei bilanci Italsider fu del 206% fra 1975 e ‘80 – in rapporto al fatturato quella voce passò contestualmente dal 7 al 10%. V. Margherita Balconi, La siderurgia italiana (1945-90). Tra controllo pubblico ed incentivi del mercato, Bologna, 1992, pp. 307-309.


93 ulativi. Organizzare le operazioni e i ritmi produttivi per lotti di misura inferiore e di qualità maggiormente diversificata rispetto a quelli cui la direzione aziendale e di stabilimento era abituata avrebbe richiesto uno stile gestionale più orientato al versante commerciale che non a quello propriamente industriale. Questo per Italsider avrebbe voluto dire un capovolgimento delle priorità. In definitiva, i problemi relativi all’organizzazione della produzione e del lavoro andavano sommandosi a quelli dell’organizzazione commerciale – e del suo rapporto con le linee produttive – creando così un mix letale. Taranto a partire dal 1975 iniziò ad accumulare una serie impressionante di deficit, che trascinarono Italsider e l’intera Finsider in una situazione di crescente indebitamento – aggravando in questo modo una situazione finanziaria già di per sé delicata per via del fatto che buona parte delle spese sostenute per il raddoppio erano state finanziate a credito. Ma la dilatazione dell’appalto Italsider ebbe conseguenze forse ancora più gravi sull’economia locale. Fu in quegli anni che iniziò a consolidarsi la cosiddetta “monocultura dell’acciaio”. Lo stabilimento distribuiva salari e stipendi, ma anche profitti – e, in diversi casi, vere e proprie rendite – per il tessuto imprenditoriale che gli gravitava attorno. La restante parte della struttura economica della provincia ionica era caratterizzata da altri grandi

insediamenti industriali di origine esogena (cioè proprietà di grandi gruppi nazionali o esteri), mentre le attività endogene – in gran parte piccole e medie – avevano subito nel corso del tempo un forte ridimensionamento. Per spiegare questo esito anomalo dell’industrializzazione dell’area vi fu chi parlò di “cattedrale nel deserto” o, meglio, di “cattedrale che crea il deserto”, attribuendo alle alterazioni del mercato locale che i nuovi insediamenti avrebbero provocato (incremento del livello dei salari e dei prezzi, in primis) la causa del fallimento del tessuto d’imprese preesistente. Questa posizione – sostenuta dall’inizio degli anni ’60 da ambienti vicini al PCI18 – venne superata nel corso degli anni ‘70 dagli studi empirici condotti dal gruppo di economisti raccolti intorno alla Scuola Agraria di Portici e, in particolare, alla figura di Augusto Graziani19. Ne risultò una spiegazione più complessa: l’incremento del livello dei consumi determinato dalle nuove attività e, al contempo, la facilitazione delle comunicazioni fra diverse parti del Paese e la definitiva apertura commerciale verso l’area CEE avevano 18 V. Eugenio Peggio, Santo Mazzarino e Valentino Parlato, Industrializzazione e sottosviluppo. Il progresso tecnologico in una provincia del Mezzogiorno, Torino, 1960. 19 V. Alfredo Del Monte e Adriano Giannola, Il Mezzogiorno nell’economia italiana, Bologna, 1978 e Augusto Graziani e Enrico Pugliese, Investimenti e disoccupazione nel Mezzogiorno, Bologna, 1979).


attivato una dinamica di mercato che tendeva ad emarginare le imprese locali. In sostanza, i bisogni indotti dall’innalzamento dei livelli di vita proiettavano una domanda di beni e servizi che poteva essere immediatamente soddisfatta dai principali produttori italiani ed europei senza ostacoli di natura geografica o normativa. Il vantaggio di quei soggetti consisteva nella possibilità di offrire beni e servizi che il mercato locale non produceva – aggiudicandosi così una quota significativa dell’incremento dei consumi – o che, quando produceva, non raggiungevano i livelli di qualità, di prezzo e di assistenza garantiti dagli operatori maggiori. La posizione di quel gruppo di economisti tendeva inoltre a mettere in evidenza tutti i limiti delle politiche di sviluppo promosse fino a quel momento: queste di fatto non erano bastate a sollecitare la crescita dimensionale e tecnologica che avrebbe permesso alle imprese – ancora in buona parte semi-artigianali – delle regioni meridionali di affrontare la sfida dell’esplosione dei consumi e dell’apertura del mercato. In definitiva, anche la nuova fase delle politiche per il Mezzogiorno si chiudeva senza aver centrato l’obiettivo che i nuovi meridionalisti avevano posto nell’immediato dopoguerra: di fatto, gli squilibri caratteristici dell’economia italiana si erano riprodotti, in scala allargata per intensità del divario fra aree sviluppate e aree arretrate, nelle stesse regioni meridionali, e persino nelle

stesse città fra ambienti sociali diversi. Sul piano sociologico, il mancato sviluppo di imprese locali moderne accentuò, a Taranto e in altre città del Mezzogiorno, il consolidarsi di una borghesia sostanzialmente parassitaria, legata sia alle economie esterne generate dai grandi stabilimenti sia alle conseguenze sociali indotte dagli stessi. Il sistema dell’appalto divenne brodo di coltura dei più disparati legami clientelari, che culminarono nell’infiltrazione da parte della malavita organizzata locale: la potente famiglia dei Modeo – guidata da Tonino, detto “il messicano, affiliata alla Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo – riuscì ad insediarsi in uno dei segmenti più importanti del ciclo, l’acquisto e lo smercio del rottame. D’altra parte, l’intensa crescita demografica che la città maturò in quel periodo fu occasione per vasti scempi edilizi: l’approvazione tardiva del Piano Regolatore Generale (avvenuta solo nel 1974) e le opposizioni che la sua attuazione incontrò portarono a uno stravolgimento dell’impianto urbanistico disposto dallo stesso PRG. Invece di svilupparsi in direzione Nord, attorno alle insenature del Mar Piccolo – progetto che avrebbe consentito di riassorbire il quartiere Paolo VI, costruito appositamente per i lavoratori Italsider – la città prese a espandersi “spontaneamente” e senza vincoli verso Est. Nel frat-


95 tempo crescevano come cespugli selvaggi anche i sobborghi dislocati a ridosso della Litoranea, provocando la cementificazione massiccia della costa (in barba a qualsiasi ambizione di sviluppo turistico). Contro questa componente delle classi dirigenti emerse l’opposizione progressiva di un robusto movimento operaio, alimentato dal fortissimo incremento degli addetti nell’industria, che permise nel 1976 l’ascesa a Palazzo di Città di un sindaco comunista (non accadeva dal 1956). Giuseppe Cannata a Taranto rappresentò in quel momento, insieme a Maurizio Valenzi a Napoli, il segnale di un Sud diverso. Si è già detto del ruolo svolto dai sindacati e dalla giunta nella cosiddetta “vertenza Taranto”; non si può altresì dimenticare l’opera di denuncia dell’inquinamento e dell’insicurezza sul lavoro che queste forze portarono avanti assieme a pezzi importanti della società civile (su tutti, Italia Nostra e l’ARCI), fino alla dichiarazione di parte civile del Comune nel primo maxi-processo per reati relativi all’inquinamento contro dirigenti Italsider, IP, Stabilimenti Navali e AGIP.20 L’arrivo dei Riva e il declino della città Alla privatizzazione del siderurgico ionico si giunse attraverso una serie di vicende che ribaltarono 20 Stea, Taranto da Lorusso a Cannata, cit., p. 158.

sostanzialmente il quadro consolidatosi nel corso degli anni ’70. Alla base di tutto vi fu un nuovo shock petrolifero – quello del 1979, ancora più duro del primo – che nei Paesi industrializzati consolidò, dopo il primo momento di brusca contrazione, una dinamica della domanda di beni siderurgici caratterizzata da ritmi di crescita relativamente contenuti. Questa circostanza fece esplodere il problema che la siderurgia europea trascinava sin dagli anni ’60: una situazione di strutturale sovracapacità. L’Alta Autorità CECA decise di intervenire in maniera drastica, dichiarando nel 1980 lo “stato di crisi manifesta”: la produzione veniva contingentata e, soprattutto, si disponeva a livello comunitario un piano di dismissioni di capacità produttive. In Italia questa politica ebbe ripercussioni estremamente pesanti: il nuovo treno nastri previsto per il rilancio dello stabilimento di Bagnoli non poté mai entrare in marcia al pieno della sua potenza; contestualmente, a Cornigliano si decise la chiusura dello storico treno che Oscar Sinigaglia aveva fatto installare dopo la guerra. La siderurgia pubblica colse però l’occasione anche per affrontare due problemi strutturali maturati nel corso del decennio precedente: l’eccesso di manodopera e i livelli di produttività relativamente bassi delle proprie unità. In entrambi i casi, era chiamato in causa principalmente il siderurgico di Taranto.


La contrazione dei livelli occupazionali fu affrontata attraverso i dispositivi della cassa integrazione e del prepensionamento. Nel corso del successivo quindicennio la manodopera del siderurgico ionico diminuì così fino a raggiungere 12 mila unità circa nel 1995. L’efficientamento gestionale fu invece perseguito attraverso un contratto di consulenza stipulato nel 1981 con la Nippon Steel, che fornì propri tecnici nel quadro del cosiddetto programma TARAP – il team leader, Hayao Nakamura, sarebbe diventato in seguito amministratore delegato ILVA – che diede i suoi frutti nei quindici anni a venire, consegnando uno stabilimento in grado di competere con i principali concorrenti internazionali. Queste operazioni tuttavia non bastarono a invertire la china del deterioramento finanziario: le perdite di Finsider raggiunsero invece livelli record, costringendo IRI a liquidare la società nel 1987. La siderurgia pubblica venne così ristrutturata anche sul piano societario. Cornigliano sin dal 1984 era stato ceduto al COGEA (Consorzio Genovese per l’Acciaio), gestito in compartecipazione fra Finsider e una cordata di imprenditori privati (fra cui Riva e Lucchini); con la liquidazione della finanziaria pubblica, si dispose la piena privatizzazione: la nuova società, Acciaierie di Cornigliano, venne acquisita in maggioranza dai Riva nel 1988. Analogo destino per lo stabilimento di Piombino, che quattro anni più

tardi venne ceduto a Lucchini. I restanti pezzi di Finsider (Taranto, Bagnoli, Terni, Novi) furono invece trasferiti a una nuova azienda controllata da IRI, che riprendeva il nome di ILVA. L’obiettivo del management – guidato dall’ambizioso amministratore delegato Giovanni Gambardella – era arrivare in tempi brevi alla quotazione in borsa, ma la spregiudicata politica di acquisti praticata negli anni seguenti e la nuova repentina flessione della domanda subentrata nei primi anni ’90 determinarono nuovamente una grave crisi finanziaria. A quel punto la Commissione Europea vincolò il salvataggio della società – attraverso un nuovo intervento di IRI sulla massa debitoria – a un piano di dismissione e privatizzazione: Bagnoli avrebbe dovuto essere definitivamente chiuso, mentre gli stabilimenti restanti – riorganizzati in due distinte società: ILVA Laminati Piani (Taranto e Novi) e Acciai Speciali Terni (Terni) – sarebbero stati venduti entro la fine del 1994. Questi passaggi vennero accompagnati da un profondo mutamento nella politica siderurgica – e, in generale, nella politica industriale ed economica – del governo. Dalla fine degli anni ’70 andò emergendo all’interno della Democrazia Cristiana una componente che interpretava la funzione delle partecipazioni statali in maniera diversa rispetto a quanto fatto fino ad allora dalla maggioranza del partito, ponendo decisamente l’accento


97 sull’economicità come principio fondamentale nella gestione delle aziende e mirando a un disimpegno progressivo dello Stato dall’industria. Questo gruppo – che aveva in Beniamino Andreatta il suo esponente di punta e in Ciriaco De Mita il suo referente privilegiato – riuscì a conquistare nel 1982 la leadership dell’IRI con la presidenza di Romano Prodi, il cui programma si contraddistinse per una forte spinta verso la privatizzazione (in quegli anni fu conclusa la cessione di Alfa a FIAT) e la dismissione di attività. Si ruppe così irreversibilmente il blocco che aveva sostenuto fino a quel momento l’intervento pubblico nell’industria: la sinistra – lo stesso PSI era tutt’altro che un sostenitore entusiasta della politica di privatizzazione – e i sindacati finirono schiacciati fra le crescenti pressioni comunitarie e l’attivismo della componente liberista della DC. Tuttavia vi furono ripercussioni significative anche per questo partito: fino a quel momento infatti l’industria pubblica era stata per la Democrazia Cristiana sia uno strumento di potere sia un veicolo di consenso. Il suo radicamento nel Mezzogiorno era stato favorito dall’insediamento dei grandi poli produttivi e dalle dinamiche sociali e politiche innescate dalle trasformazioni conseguenti; con il progressivo ridimensionamento di questa presenza lo stesso consenso per la DC iniziava pericolosamente a vacillare e con esso il particolare sistema sociale promosso nelle provincie meridionali con

l’intervento straordinario. Si aprivano scenari imprevedibili – e sotto certi aspetti inquietanti. Da questo punto di vista la vicenda di Taranto è molto interessante. L’esperienza delle giunte di sinistra si esaurì nella prima metà degli anni ’80; all’indebolimento graduale del PCI – legato in buona parte al ridimensionamento della classe operaia – si sommò l’imposizione dall’alto di una giunta pentapartito sul tema della realizzazione del nuovo arsenale NATO. Il nuovo quadro di crescente precarietà economica sociale indotta dal ridimensionamento degli organici delle grandi industrie e delle loro commesse fu interpretato da Giancarlo Cito21. Personaggio quanto mai controverso – già picchiatore fascista (espulso dal MSI per “indegnità morale”), in buoni rapporti con i clan locali (al punto da essere condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa) – Cito divenne noto al grande pubblico grazie alla sua televisione, Antenna Taranto 6 (AT6), dalla quale lanciava strali velenosissimi contro il sistema politico locale e nazionale. Fondato un movimento politico dal sapore leghista, AT6 Lega d’Azione Meridionale, Cito vide crescere i propri consensi di elezione in elezione, fino a prevalere nel ballottaggio per le comunali sul candidato 21 Sulla vicenda di Giancarlo Cito v. Stefano Maria Bianchi, Geometra Cito sindaco di Taranto, Roma, 1996, Alessandro Leogrande, Un mare nascosto, Napoli, 2002 e Idem, L’eterno ritorno di Giancarlo Cito, in AA. VV., Il corpo e il sangue d’Italia, Roma, 2007.


della sinistra, nel 1993. Tre anni più tardi venne eletto alla Camera con oltre 30 mila voti. Cito non solo riuscì a scompaginare il quadro politico, diventando l’avversario da battere, ma creò attorno a sé un consenso variegato: vi confluirono pezzi di mondo operaio declassato, ma anche parti di quella borghesia anomala cresciuta all’ombra del siderurgico e che in quella fase iniziava a presagire la fine di quel sistema (che sarebbe stato definitivamente superato con l’arrivo dei nuovi proprietari privati, che imposero una drastica stretta sull’appalto dello stabilimento). Così, mentre la città era investita da un profondo declino, i principali gruppi di affari andavano riorientando la loro tendenza parassitaria verso la spesa pubblica comunale – passaggio che si sarebbe pienamente realizzato con la “finanza creativa” delle giunte Di Bello (2000-2007), da cui sarebbe scaturito il dissesto del Comune. A questo proposito è interessante segnalare quanto scritto in momenti diversi da Giuseppe Galasso e Michele Capriati22. Il primo, incaricato nel 1959 dall’IRI di compilare un’analisi sociologica della città che sarebbe diventata sede del nuovo siderurgico, rilevò che la borghesia locale operava in un rapporto 22 V. Michele Capriati, Nascita, raddoppio e crisi di un polo siderurgico: l’Italsider a Taranto, in Massimo Florio (a cura di), Grandi imprese e sviluppo locale, Ancona, 1991, pp. 195-221.

parassitario con le produzioni navalmeccaniche23; quasi alla fine della parabola dell’industria di Stato, Capriati ribadiva le stesse conclusioni a proposito del rapporto con le grandi attività impiantate nel secondo dopoguerra – e, in particolare, con lo stabilimento siderurgico. La persistenza di questo atteggiamento potrebbe indurre a pensare che in settori chiave della comunità sia maturata una coazione a ripetere a seguito di reiterate esperienze di grande industrializzazione. In realtà, un approccio di tipo storiografico alla questione ci permette di cogliere un elemento: la crisi delle partecipazioni statali e della “monocultura dell’acciaio” avrebbe potuto aprire nuove strade per l’economia locale; in quel contesto Cito giocò come un’opzione di conservazione, ampiamente sostenuta da chi non aveva nessun interesse a modificare il proprio atteggiamento. Una conclusione di questo tipo sarebbe tuttavia parziale, in quan-

23 Quasi icastica la descrizione fornita da Galasso: “L’imprenditore tarantino, ignorando i problemi dell’organizzazione industriale moderna, perché è rimasto sempre più un appaltatore che un industriale, si trova estremamente impacciato quando deve affrontare problemi di mercato. Egli è abilissimo nell’organizzare la sua piccola o meno piccola impresa, ma sempre nei confini delle previsioni delle commesse che riuscirà ad ottenere. Per non parlare poi di coloro che si limitano alla prestazione d’opera presso gli stabilimenti maggiori, che lavorano cioè senza nemmeno un’attrezzatura propria. In questi casi sarebbe fuori luogo parlare di ceti imprenditoriali: a chi si dedica a queste forme di attività si richiede solo una certa abilità organizzativa e una buona dose di spregiudicatezza. Questo tipo di impresa ha caratteri di provvisorietà e dell’avventura e confina con la speculazione ed il parassitismo”. Cit. in Ivi, pp. 197-198.


99 to non tiene conto del mutamento negli indirizzi di politica economica ricordato sopra. Nel 1993 venne liquidato non solo il Ministero per le Partecipazioni Statali, ma anche lo stesso intervento straordinario nel Mezzogiorno. Negli anni che seguirono il ridimensionamento delle PP.SS. ebbe pesanti ripercussioni soprattutto sull’economia meridionale – dove i gruppi pubblici erano maggiormente concentrati –, mentre il venir meno del sistema d’incentivi rese più complicata la localizzazione di nuove attività. In definitiva, si ricreò la situazione da cui si era partiti negli anni ’50, con un nuovo forte impulso alla centralizzazione dei capitali a vantaggio delle aree più sviluppate del Paese – e d’Europa, considerata la sempre più intensa integrazione fra i mercati UE. In queste circostanze effettivamente sarebbe stato quasi impossibile per soggetti che mai avevano avuto rapporti col mercato aperto convertirsi a nuove attività con qualche prospettiva di successo. In definitiva, dunque, la reazione della borghesia tarantina fu dettata da una sorta di horror vacui rispetto agli esiti difficilmente prevedibili che si aprivano nel nuovo inedito scenario. Questa spinta regressiva ha posto le basi per il consolidamento di un sistema di potere clientelare, in cui la distribuzione delle risorse è avvenuta per dispensazione dai gruppi che controllavano i centri di spesa pubblica. L’altra faccia di

questa situazione è stata rappresentata dall’imponente flusso migratorio, riguardante in particolare le intelligenze più giovani – che ha impoverito la città del suo capitale umano, ma ha garantito, al contempo, l’allentamento delle tensioni sociali che sarebbero derivate dal mancato impiego di quei soggetti. E ora? Appunti per un nuovo intervento nel Mezzogiorno Una nuova politica per il Mezzogiorno venne tentata a partire dalla fine degli anni ’9024. In questo caso gli incentivi miravano a sollecitare presunte “vocazioni territoriali” – si ricordi la polemica dei nuovi meridionalisti verso questo concetto – e dunque prevalentemente attività in settori “tradizionali” (tessile, calzaturiero, industria del mobile e delle confezioni ecc.). In realtà la concorrenza scatenata negli stessi comparti dai produttori emergenti e, negli ultimi anni, la crisi che ha colpito i consumi, hanno condotto al sostanziale fallimento dei progetti avviati in quella fase. Oggi l’economia di Taranto e di tante altre realtà del Mezzogiorno è caratterizzata dunque da una tendenza 24 V. Ministero del Tesoro, del Bilancio e della Programmazione Economica, La nuova programmazione e il Mezzogiorno: orientamenti per l’azione di governo redatti dal Ministero del Tesoro, del Bilancio e della Programmazione Economica, Roma, 1998 e Fabrizio Barca, La nuova politica per il Mezzogiorno, Roma, 2001. Per una critica complessiva di quest’esperienza v. Carmen Vita (a cura di), Sviluppo dualistico e Mezzogiorni d’Europa, Milano, 2006.


esasperata al dualismo: naufragato anche l’ultimo tentativo di politica di sviluppo per il Sud, non restano che pochi grandi stabilimenti – sempre meno – che operano per i mercati più ricchi, con attorno un deserto che avanza pericolosamente. Situazioni come queste accentuano oltretutto quella degenerazione del conflitto sociale che prende le forme della “guerra fra poveri”: gli addetti delle poche attività ancora vitali vengono percepiti come “privilegiati” dalla massa crescente di disoccupati e precari – nella quale sono sprofondati ormai anche quei segmenti di popolazione che in una fase di maggiore vivacità delle aree più avanzate del Paese avrebbero preso la strada dell’emigrazione. A ciò si somma la crisi – provocata dal drastico ridimensionamento della spesa pubblica centrale e locale – dello stesso sistema clientelare che nell’ultimo quindicennio ha garantito una relativa pace sociale. Il Sud, insomma, è una polveriera pronta ad esplodere ed eventuali ulteriori chiusure di centri produttivi potrebbero innescare il detonatore. In questo senso è assolutamente urgente porre al centro del dibattito politico, a Sinistra, il tema delle politiche industriali sviluppato in un altro saggio di questo volume da Alfredo Ferrara. Nel farlo sarebbe bene imparare attentamente le lezioni della Storia. 1. Il Mezzogiorno – e il Paese – hanno bisogno di strutturare un sistema industriale unitario, trasfer-

endo nelle regioni meridionali produzioni ad elevato valore aggiunto, integrate fra loro in filiere produttive. 2. L’intervento pubblico per promuovere le nuove attività è indispensabile. Esso potrebbe recuperare una vecchia idea del nuovo meridionalismo, mai messa in pratica: la partecipazione dello Stato al capitale delle nuove imprese25. Questa formula consentirebbe sostegno finanziario, ma anche tecnico e commerciale. 3. L’intervento potrebbe essere coordinato da un’agenzia specializzata che – per evitare inutili dispersioni – individui i settori verso cui dirigere l’intervento, selezioni i progetti meritevoli di finanziamento e operi rispetto a questi ultimi nel campo della formazione (non solo degli addetti, ma degli stessi imprenditori) e dell’assistenza tecnica e commerciale. 4. I settori individuati dovrebbero rispondere alle direttrici di una precisa strategia di politica industriale, che venga elaborata a livello centrale tenendo conto delle esigenze economiche del Paese. 25 Ad avanzarla fu per primo Raffaele Mattioli, amministratore delegato della Banca Commerciale Italiana, in una nota all’allora Ministro dell’Industria, Rodolfo Morandi, nel 1946. V. Cafiero, Menichella meridionalista, Appendice documentaria, Proposta dell’amministratore delegato della Banca Commerciale Italiana Raffaele Mattioli sull’impiego dei fondi UNRRA per lo sviluppo del Mezzogiorno, cit., p. 517.


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