Cristolu1_ Flavia della Camelia

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FLAVIA DELLA CAMELIA

CRISTOLU PARTE PRIMA

DAL ROMANZO DI SALVATORE NIFFOI



Flavia Della Camelia

CRISTOLU

Tratto dal romanzo di Salvatore Niffoi



I chierichetti erano già dentro il cimitero e lo aspettavano giocherellando con l’aspersorio d’argento. Il campusantu novu era nato sopra quello vecchio, a mezzacosta tra il monte Murghiolu e la parte più bassa del paese e si stendeva a forma di pelle di capretto sulla collina di Moddemodde. I morti riposavano vegliati dai boschi della roverella e dissetati dai ruscelli Taffaranu e Bucca ‘ e mele. Don Frunza tirò dritto per il viale dei cipressi lasciandosi avvolgere in un abbraccio di fragranze indistinte. Si ritrovò quasi senza accorgersene dietro la chiesetta, dove Marthuliu, da dietro l’altare della cupola, faceva capolino con un sorriso stramato. Come ogni anno si pose il problema della scelta del primo lotto da benedire per le assunzioni. Alla fine stanco e indignato dalle pressioni che facevano i parenti dei defunti ospitati nel colombario, scelse come al solito il primo carteri, quello a sinistra dell’ingresso, dove in una cripta erano stati trasferiti i resti mortali dei fraticelli del convento e le sacre reliquie di una Madonna Contadina, morta secoli addietro per salvare la sua verginità. Detestava, ché non poteva odiare visto il suo mestiere, fino allo schifo quelle cellette riunite in un’unica costruzione, con quei monconi di lumini appesi alle lucernette di bronzo che sporgevano come ganci in cerca del nulla dalle pareti di cemento. Più che un colombario, lo considerava un tombolaio di facce anonime che dall’alto osservavano con invidia la terra che li avrebbe dovuti inghiottire per darli in pasto ai thilingroni e riportarli alla polvere.

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Nel pomeriggio, quando il paese ebbe come un sussulto e si liberò del fumo sputandolo verso la punta di Monte Paraccu, una nebbia densa e oleosa dipinse le tombe di un bianco umido. Le foto scure e smaltate sembravano occhieggiare dall’aldilà con compassione. C’era ormai poca gente, e quando arrivarono all’ultimo filare rimasero soltanto i chierichetti che distillavano moccio verdastro sulla tunica. Al colombario-tombolaio avrebbe dato una benedizione collettiva, che tanto nessuno lo avrebbe visto e nessuno lo avrebbe rimproverato. I chierici, poi, erano omertosi e riconoscenti, per quel via vai di mercanzie dalla casa parrocchiale alla loro. Era rimasto solo l’ultimo filare, che percorse lentamente pregando e benedicendo un po’ a casaccio. “O Cristo, che piangesti la morte di Lazzaro, e vivo lo rendesti a Marta e Maria...” Fu a quel punto, proprio mentre per il freddo masticava in bocca il nome di Maria, che si accorse, da un cero acceso e rivestito di rosso, di un cenotafio aggiunto all’ultima fila, proprio sotto il cipresso che ospitava il nido del cuculo. Il cero lacrimava su un mattone che qualcuno aveva posato sopra una grossa scatola di latta chiazzata dall’umidità. Don Frunza, incuriosito, prima allontanò i due chierichetti, Máricu e Tzelleddu, poi, pregando a voce alta per non sentirsi solo, sollevò cero e mattone e s’impossessò di quella scatola. Se la infilò sotto l’ascella sinistra e con in mano l’aspersorio vuoto, seguito da Máricu e Tzelleddu, lasciò il camposanto pregando. “Concedi, o buon Pastore, ai fratelli defunti di vedere il tuo volto nella gloria dei cieli.

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“E se non ti dispiace, concedi anche a noi fratelli affamati e infreddoliti, di immergere stasera il muso in un bel piatto di minestrone fumante!” Aggiunse Tzelleddu che già dilatava le nari assaporando il gusto dei pomodori secchi e del finocchio selvatico. Sicchedda era una donna minuscola e nervosa che non si toglieva il cercine neanche per dormire, al punto ch’era diventato un tutt’uno con la sua testa a forma di melagrana in fiore. Vestiva sempre di bigello e volendo la si poteva portare appresso dentro una valigia di cartone, piegata nel modo giusto, con il mento appoggiato al raccordo delle ginocchia. Quella sera aveva preparato il fuoco con tronchi e rami di leccio, che al ritorno di don Frunza dormiva in piccole braci appuntite sotto la cenere. Il prete aprì la scatola e ne tolse in disordine una pila di fogli. Li ricompose in un unico mazzo e lo posò sotto una graticola prima di rigirarlo con cura e per molte volte in quel tepore che induriva di nuovo le pagine come sfoglie di corgioledda di maiale. La calligrafia era curata e minuta, quasi elegante, piegata sul davanti da pensieri ventosi che avevano fretta di essere trasformati in segni precisi e senza sbavature. L’inchiostro era nero pece e si era lasciato un po’ sbiadire dall’umidità solo ai bordi della prima parte. In quella che sembrava una copertina qualcuno aveva disegnato con dei pastelli, serafini e cherubini che danzavano in cerchio intorno a una Vergine Contadina incoronata con tralci di agrifoglio e seduta su mannelli di spighe ambrate. Quella vergine aveva carnagione di rosa canina e un viso da bambina antica. Sulla prima pagina, sotto un Cristo nudo e crocifisso a due tavoloni:

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Barore Suvergiu, noto Cristolu Vita e morte di un frate bandito

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Quello che don Frunza apprese durante la lettura del diario di Barore Suvergiu, figlio di Frantzisca Rosaria e di Felleddu, noto Vurittu, lo intrigò al punto da convocare una trentina di preti senza cura di anime che erano sparsi nel circondario. Anche il vescovo, in un primo momento, si lasciò trascinare. La vita di quell’uomo era in fondo un modello di cristianità da portare ad esempio a tutte le genti della Barbagia, e se era il caso anche ai marghinesi e costerini. Molti avrebbero capito l’inutilità della violenza che acceca e distoglie dalla strada maestra. Non che non avesse dubbi monsignor Cheloni. Su alcune parti del manoscritto era anzi molto critico e sul linguaggio, che riteneva un po’ crudo e troppo spinto, bisognava lavorarci un po’. A quello comunque si poteva sempre rimediare, come da secoli si era fatto sui testi sacri, con un tocco di censura e fantasia. Poi c’era quell’episodio mai chiarito della vita di Barore, che gli faceva storcere il naso affilato dalle prese di tabacco. Non riusciva a capire il motivo che aveva portato un uomo di fede dal convento alla banditanza. Secondo lui Barore era colpevole di non aver saputo porgere l’altra guancia, di essere tornato alla legge antica del taglione: occhio per occhio, dente per dente. Le vocazioni però scarseggiavano e le decime diminuivano. Il seminario della diocesi di Albudero dava piazza gratuita a due giovani orothesi, ma si mangiava sei parti della decima. Un vero e proprio fiume di vino e grano, di miele, carni, formaggi e legumi, che sui carri prendeva la via del mare per Albudero. .

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Nacque così, dopo qualche mese di ripassi e ritocchi, a casa di don Frunza, l’idea di quelle omelie profane da inserire nella messa domenicale, per rinnovare ed allargare il consenso dei fedeli e imporre di nuovo il timor di Dio alle genti di queste terre devote Per un po’ di tempo un brusio confuso riempì le strade di Orotho e di paesi vicini, sino al santo giorno, annunciato dai pulpiti e dai banditori: Dumínica... a tal’ora... a sa missa cantada… su pride… cuminzat a léghere… su contu de sa vida de… Accudide tottus, ómines, éminas e pitzinnos. Don Frunza, che non voleva rassegnarsi a vedere la chiesa piena solo di vecchiette e di ragazzini in cerca di caramelle o amaretti, fece spargere in giro la voce che alla fine della messa ci sarebbe stato anche un piccolo rinfresco nella saletta dove si faceva il catechismo. La campana non fece in tempo a suonare che la chiesa era già gremita fino alle navate laterali delle acquasantiere. Per non rimanere in piedi molti si portarono da casa sedie e sgabelli. I banchetti nuovi, arrivati con il lascito di donna Murisca Thipule, nota Chicca, bastavano appena per i massajos e per i pastori, che si erano messi in prima fila, scavalcando i Melonza, i Sioppo e i Thruccu, i sempre nobili, anche adesso che si erano venduti le terre e avevano comprato cariche pubbliche e titoli di studio. “Bastat in foras chi sunu semper primos chene méritu!” Disse Cralamu Murinu, lanciando la sua berritta sui primi banchi per occupare i posti. “Qui i soldi e i fucili valgono poco, di fronte a Dio contano l’onestà, il lavoro e le opere buone!” Aggiunse la moglie Munica Bandesu, che con lo scialle e le scarpe occupò la terza e quarta fila.

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Don Frunza uscì dal retro della sagrestia seguito dai chierici e circondato da un silenzio caduco che faceva vibrare i vetri della cupola. Aveva un colore non suo, tra l’appassito e il giallino, che i fedeli lessero come un sintomo di paura. Iniziò con le preghiere del mattino, ma tra un Atto di fede e un Gloria al Padre, la gente diventava sempre più nervosa, non ne poteva più di quelle cose sentite e risentite, di quegli Atti di speranza e di carità che finivano sempre con: Signore che io possa goderti in eterno o Signore, che io ti ami sempre più. Poco prima della comunione, qualcuno da dietro il baldacchino del confessionale, si mise a gridare: Cri-sto-lu, Cri-sto-lu, Cri-sto-lu! Fu a quel punto che don Frunza si sentì chiamato in causa e si avvicinò al leggio, dove aspettavano palpitanti le prime pagine del diario di Barore Suvergiu, noto Cristolu. Si schiacciò i capelli un po’ unti col palmo della mano destra, e senza neanche guardare quei fogli, iniziò a raccontare la storia di quell’uomo che nessuno aveva mai visto e pochi avevano sentito nominare.

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Ad Orotho le feste religiose iniziavano con la messa cantata e finivano con la processione. Il Santo di turno veniva portato in giro per le strade del paese dalla famiglia dei pandelari e poi rimesso in qualche sacrestia a farsi consumare lentamente dai tarli. Tutto il resto era profano. Carne e vino fino a vomitare e amori consumati in fretta tra i cespugli. Un tempo questo era per don Frunza come una catena che lo faceva sentire un’anella arrugginita. Adesso, invece, da quando aveva iniziato a leggere la vita di Cristolu ai suoi parrocchiani, si sentiva più vicino a Dio e agli umili, e non si lasciava intimorire o comprare dai Melonza o dai Sioppo: “Un agnellone per lei, don Frunza… Assaggi questo formaggio fresco, se lo faccia arrosto, sulla pietra… Gusti questo vino novello… Benedica il tale e scomunichi talaltro… Quello non lo sposi e quello non lo battezzi… Copra questo scandalo e interceda col Monsignore. Ogni domenica in chiesa pareva che i muri possenti si dilatassero per accogliere quei credenti che avevano negli occhi una luce nuova, di consapevolezza del peccato e del rimorso. I contadini più anziani, quelli che avevano già sputato sui cent’anni, adesso dicevano di averlo conosciuto Barore Suvergiu, durante la banditanza, quando se ne andava in giro per le campagne con i suoi fratelli a fare questo e quello. Lo ricordavano deciso e generoso, sempre pronto a rimediare al massajo spolpato una coppia di giovenche o un carro di grano. Più si andava avanti con la storia della sua vita, e più s’incrociavano altre storie, vissute da chissà chi e chissà quando.

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Il vero e il falso s’incontravano e si mischiavano come il sangue pulito con quello sporco. Di questo don Frunza era felice: la gente frequentava meno le bettole, i furti di bestiame quasi scomparsi, le donne più riverite ed ascoltate. Continuavano solo le prepotenze dei Don, che quelle sono come la gramigna, non le estirpa neanche la peste nera, sono la vera dittatura dei poveri e degli onesti. E questa nuova aristocrazia montagnina era il peggio del peggio: tutta boria, mani mutzos e ‘izos de babbu! Così li apostrofava la gente. Escludendo queste famiglie dei Don, si può dire che tutti erano interessati a quelle funzioni impastate di miracoli e realtà. Si aspettava con ansia la fine del racconto che avrebbe spiegato il mistero della scomparsa e della morte di Cristolu. Quella domenica mattina, don Frunza si lasciò sfuggire con Sicchedda alcune anticipazioni, e lei intuì che gli antenati dei Thruccu, dei Sioppo e dei Melonza, non erano estranei agli eventi della vita di Barore Suvergui. Si schiacciò come al solito i capelli un po’ unti col palmo della mano destra e dal pulpito riprese il racconto interrotto.

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Don Frunza non ne aveva parlato con nessuno, ma prima di prendere la decisione di salire sul pergamo per leggere la vita di Barore, si era dato da fare sui registri della curia e sui libroni dello stato civile. Nudda! Niente! Di Cristolu e del suo parentado neanche traccia! Inguglíos dae su terrinu! Inghiottiti dal terreno, come si dice. Chi mai aveva avuto interesse o odio così forte da cancellare le loro esistenze? Ci fu addirittura un periodo in cui don Frunza mise in dubbio l’esistenza reale del frate bandito. Pensava ad un’invenzione letteraria, a qualche burlone della zona vinto dalla passione di romanzarsi un’esistenza in prestito. Sospettò perfino di un abate e di un vescovo, gentina che considerava senza scrupoli, pronta a sgambettarlo per via dei suoi difettini un po’ lontani dall’eucarestia. La discesa di Su Crapolu era quasi finita, l’aveva percorsa quasi al trotto, tranquillizzato dal fatto che fra pochi passi si sarebbe abbeverato alla sorgente di Su Ruvosu. Si stava recando a piedi alla chiesa di Lirzoi per la novena. Era sudato e solo. I chierici li aveva fatti andare con le mule per la strada bianca, insieme ai paramenti e a un nutrito gruppo di fedeli. Lui aveva preferito quella scorciatoia per stancarsi un poco e riflettere meglio su quello che stava facendo e su quanto stava succedendo ad Orotho. Ogni tanto provava la sensazione di essere uno strumento in mano di qualcuno, e il fatto di sapere con certezza che quel qualcuno non era il padre dei cieli, gli sfreddava il sudore sul viso e gli dava un colore di foglia di cavolo. Di quel frate e della sua famiglia gli restavano ancora molte cose da scoprire, e per Dio e per i Santi aveva giurato a se stesso che non dovevano rimanergli ignote.

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Riprese il cammino e costeggiando il fiume Cancarau arrivò fino al sentiero che sbisciava la falda di Montenuche, bianca e talcosa come la carnagione di Maria Vergine. Il libro con le memorie di Cristolu se lo era messo nella taschedda e quella sera avrebbe fatto un’eccezione, perché si era promesso di leggerne ai fedeli uno spezzone che riteneva in qualche modo scabroso ma interessante. Indolenzito ma appagato giunse in fondo alla valle dove, circondata dai giunchi e dai fiori della menta puleggiata, si trovava la chiesetta. Con le reni allegnate per il continuo sforzo di rimanere dritto durante la discesa, si portò dentro la chiesa dove Máricu e Tzelleddu, aiutati da Marthuliu, avevano apparecchiato l’altare. Quando arrivò il momento dell’omelia e tirò fuori dalla taschedda il libro di Cristolu, il cielo si era fatto scuro e sembrava aderire allo scheletro della chiesa. Un vecchio, che avevano portato lì su un carro bardato di fiori di pruinca e spighe di grano per ingraziarlo alla Vergine di Lirzoi, pensò fosse arrivata la notte e si prese paura del buio. “Mama mea! Mama mea! Oddeu! Oddeu!” gridò, gelando il sangue dei presenti. “Fa così da vent’anni” disse la figlia Nue “Da quando abbiamo perso nello stesso giorno, al calar del sole, la mamma e la nonna. Quando don Frunza si schiacciò i capelli imperlati di sudore grasso per iniziare la lettura, Nue si avvicinò di più al padre e gli strinse forte la mano: “Non timas babbu meu caru, non temere che adesso il prete ci legge un passo della vita di Barore e così ti passa la paura del buio.

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Per la novena della Madonna di Zurrale don Frunza aveva fatto lucidare un vecchio leggio di bronzo e un treppiede di ferro. I Sioppo, i Melonza e i Thruccu sparsero in giro la voce che non avrebbero più partecipato alle cerimonie religiose se non si fosse tornati ai sacri libri e non si fosse provveduto a bruciare in fretta quel diario sacrilego. Aggiunsero che la diocesi da loro non avrebbe più visto un becco di quattrino. Intimorirono anche i loro servi e li costrinsero ad ascoltare di nascosto e di seconda mano il resto delle memorie di Barore Suvergiu. Sentivano odore di bruciato nelle storie di quel frate. Ad Orotho la gente si stava abituando a non temerli e a guardarli con altri occhi. Máricu e Tzelleddu, i chierici, un pomeriggio che giocavano a su bocciulu con altri bambini dopo il catechismo, dissero che i Sioppo erano dei rettili con le zampe, che volevano sempre dominare sugli uomini e su ogni essere vivente. “ E quando non ci riescono sono disposti a spargere veleno!” Aggiunse Ribino il figlio di Caleo il fontaniere. “E anche a uccidere i frati!” Si lasciò andare il nipote di Murisca la tessitrice. Queste cose, che i ragazzi sentivano di sicuro dai grandi, arrivavano veloci e perforanti come schioppettate alle orecchie dei nuovi nobili. E non faceva piacere a quei signorini che sapevano di diritto e di medicina, sentire avvicinarsi l’odore del letame e della morte dentro le casse piene di camicie stirate, pantaloni con la riga e rami di lavanda. Don Frunza fiutò l’aria e accettò la sfida. Per far trionfare la verità era disposto anche a rinunciare ai suoi pochi vizi.

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Facendo un po’ di conti, ne concluse che non c’era piacere più raffinato che tagliar le teste ai serpenti, soprattutto se questi erano profumati e incravattati. Tutt’al più avrebbe perso un po’ di sumeneddu rinunciando a qualche capretto e a qualche grándula. Forse l’idea che si era fatta sugli abitanti di Orotho era sbagliata e adesso poteva confessarlo anche a se stesso. Gli orothesi non erano gente semplice e rude, vecchi precoci o giovani nati stanchi. Gli orothesi erano gente filata col filo dell’agave e del ferro, che incassavano ma non dimenticavano, che sapevano subire e perdonare e, quando era il caso, restituire con gli interessi. E adesso era proprio il caso di restituire! Aprì le pagine sul leggio di bronzo e col solito gesto si accinse a riprendere la lettura. Le porte della chiesa che svettava in cima alla cresta calcarea furono lasciate aperte per consentire l’ascolto anche a coloro che erano rimasti fuori seduti sotto i lecci. Molti erano venuti anche da fuori. Ripensando al primo giorno, don Frunza sentì dentro il cuore una gioia profonda. Si sentì così vicino a Dio da poterlo quasi sfiorare, ma non lo fece perché una luce accecante lo fermò. Adesso non c’era più bisogno di mandare in giro il banditore per far accorrere i fedeli. Questo gli bastava. Per il resto e per il futuro, Dio avrebbe visto e provveduto. Si sarebbe tornati al Vangelo, al’Ave Maria e al Padre Nostro, dopo aver reso giustizia a Cristolu.

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