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Daniele Pierantozzi
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INTRODUZIONE di Emanuele Pratelli
L’eterogeneità della massa caotica infernale, resa con il gemmare in ogni dove di una numerosa moltitudine, ricorda la ricchezza di figure e piccoli dettagli del maestro del grottesco cinquecento Bosch, la cui arte si ricollega a quel sentire carnale - quasi “carnoso”- tipico del filone della sotto cultura popolare. Eppure non bisogna aspettarsi lo stile pittorico dell’artista tedesco perché il linguaggio, la lavorazione digitale, la stesura della campitura sono solitamente tipici dello stile illustrativo. Questo stile è in contrasto con la realtà che rappresenta: non lasciamoci ingannare dai suoi caratteristici colori vividi, dal loro colore zuccherato e accogliente: la realtà che mostrano è una massa brulicante, crudele e cruenta. La apparente consonanza dei colori vivaci risulta velata di umorismo, nella misura in cui dipingono una realtà infernale governata e sostenuta da una logica dell’indifferenza che fa sì che il condannato, l’esule, sia un pupazzetto senza identità e senza storia, solo tra tanti, e i carnefici mostri senza pietà, in un mondo pieno di occhi che guardano ma non vedono. Un mondo in cui chi viene ucciso non ha volto, e chi uccide ce l’ha, ma non lo usa. Un mondo che secondo il principio simmetrico del contrappasso dantesco, è in stretta relazione con il mondo terreno di un oggi a cui tanto somiglia.
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INFERNO
I-II Mattina del 25 marzo, venerdì. Il fiorentino Dante Alighieri1 non sa bene come sia entrato lì, in quella selva selvaggia, aspra e forte; né sa come uscirne: il cuore freme dalla paura, il corpo è stanco, qualche raggio di lontano è la sua unica speranza. Riposa le ossa e poco dopo riprende il cammino per il pendio desolato: ma ecco che, appena prima della salita, una lonza nera, ringhiando, gli impedisce di proseguire; si volta inorridito per fuggire e subito ha di fronte un leone con le fauci spalancate, poi una lupa inferocita. Barcolla, si sbilancia e rotola giù nella selva. Tra le fronde degli alberi un’ombra, un essere: Virgilio2, che uomo fu, ora lo guida verso la porta di San Pietro. Ben presto cala la notte e tutto intorno si fa orrendamente silenzioso. Non è Enea, non è Paolo3. “Chi sono io per compiere tale viaggio?” Si chiede il fiorentino, dato che prima di lui solo quelle due figure hanno potuto osservare le pene, i dannati, le fiamme, i mostri che vivono laggiù. Di fronte ai suoi mille dubbi quell’ombra gli ha detto: “l’anima tua è da viltate offesa”. Virgilio si muove e lo conduce nell’Oltremondo, solo dopo aver visto la discesa negli Inferi di Beatrice4 - anima beata e amata in vita da Dante - e aver udito parole uscite dalle labbra di colei che fece tremare le vene e i polsi.
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III Dopo essersi inoltrati per il cammino oscuro i due giungono sulle soglie della porta infernale, dove si legge: “Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate”. Tutt’intorno un frastuono di sospiri, pianti, urla e bestemmie, le lingue del mondo racchiuse nel dolore e nell’ira. Dante e Virgilio, in un battito di ciglia, si ritrovano circondati dai corpi dei ribelli e degli angeli che restarono neutrali a Dio. Neanche Satana li accoglie. Poco distante un’insegna che corre rapida è inseguita da una schiera di gente sottratta al mondo dalla morte: sono tutti nudi, il loro viso è martoriato dai pungiglioni delle vespe e scarnificato da altri insetti; il sangue sgorga dalle loro piaghe, pasto succulento per i vermi in terra. Sono i pusillanimi, gli ignavi, coloro che in vita furono privi di forza d’animo e di volontà. Poco oltre l’orrido spettacolo s’intravede una fila di persone lungo la riva dell’Acheronte5: attendono la loro sorte, attendono il nocchiero. Giunge Carontedemonio, un gigante mostruoso che eternamente percorre il fiume infernale, traghettando da una sponda all’altra le anime straziate dal dolore e dalla pena a venire. Egli inveisce contro i corpi, li batte con il remo e li fissa con gli occhi infuocati: salpa la nave e la terra piangente trema, percorsa dal vento e dai fulmini. Il pellegrino sopraffatto cade come uomo invaso dal sonno. Poco dopo gli occhi sonnolenti pizzicano, tentano di riaprirsi e Dante li sfrega con le mani, ma faticano ad orientarsi in quell’aria putrida: si accorge di essere oltre l’Acheronte, giù dalla barca infernale.
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VI Un greve tuono e il buio tutt’intorno, Virgilio, pallido in volto, si fa guida sicura per il cieco mondo. I talloni lasciano orme nel primo cerchio e non s’ode alcun pianto, ma solo sospiri di schiere d’umani che non hanno peccato: sono perduti eternamente, come Virgilio, e la loro pena è l’essere offesi quando desiderano Dio; da qui sono usciti solo i beati, richiamati da Cristo coronato. Avanzano gli antichi poeti - Omero, Orazio, Ovidio e Lucano - e si dirigono fino alla sfera luminosa; nel castello, invece, si aggirano gli spiriti magnanimi di antichi greci e romani, di amazzoni, di giovani caste e del sultano d’Egitto e Siria, vi camminano i filosofi d’ogni luogo e tempo. Ma il viaggio è appena iniziato e già si deve scendere, dove non c’è cosa che faccia luce.
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V A custodire il secondo cerchio c’è un altro mostro ad attendere Dante e Virgilio: Minosse, una bestia marrone, dotata di lunghe corna nere, di quattro gambe ferine e di un’ascia, ringhia e giudica le anime che gli si parano di fronte. Le avvinghia con la lunga coda: tanti più giri questa fa intorno al corpo dannato, tanto più giù nell’Inferno viene spedito il peccatore. Varcata la soglia controllata dal partigiano del Male, s’ode un pianto di genti nel buio imperante: vengono trascinate dalla bufera infernale, sono sbattute e percosse da un lato all’altro del girone, bestemmiano pensando alla redenzione. Sono i peccatori carnali, eternamente vessati dal vento, punizione di chi sottomise la ragione al talento; Virgilio glieli indica uno ad uno, amanti, suicidi, incestuosi, lussuriosi. Due anime, però, appaiono come leggere nel vento tormentoso e il pellegrino le richiama a consiglio: Paolo piange, Francesca6 ricorda dolorosamente la loro storia d’amore, sangue e morte. Dante, sopraffatto dalla pietà e dalla commiserazione, cade a terra svenuto.
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VI Al suo risveglio, miracolosamente, il pellegrino si trova nel terzo cerchio fatto di pioggia, grandine e neve. Marcisce la terra sotto tale getto d’acqua e puzza. Cerbero, mostro a tre teste, latra con le sue gole, ha gli occhi infuocati, le barbe e i menti sono di sangue-misto-melma, i denti - o meglio le zanne - fuoriescono dalle sottili labbra; con le unghie graffia e squarta gli spiriti che urlano come cani sotto la pioggia, li schiaccia con le sue zampe. Sono i golosi: così come in vita furono simili alle bestie, ora fanno il bagno nel fango come animali, schiacciati e oppressi da Cerbero. Quest’ultimo inveisce contro Dante e Virgilio, cercando di ostacolare il loro cammino, ma la guida getta in bocca al mostruoso ferino terra e fango: quello richiude le fauci, sazio del pasto. Dal suolo s’alza ritto e veloce un corpo, ma Dante non lo riconosce, dato il suo essere martoriato, deforme, sozzo e lurido. Ma il dannato lo ha riconosciuto, lo chiama e si presenta - è Ciacco7. Dalle sue labbra sputa parole profetiche: Firenze, città natale del pellegrino, andrà incontro a un destino nefasto e molti cittadini illustri saranno dannati.
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VII Poco più giù, ad attendere la guida e Dante, Pluto. Scatta la mezzanotte del 25 marzo. Per il quarto cerchio echeggiano le urla rauche e stridule del nuovo mostro: “Pape, Satàn! Pape, Satàn! Aleppe8”. Il muso è allungato e simile a quello di un cane-lupo, le sue orecchie sono appuntite e gli occhi, come quelli di ogni bestia infernale, infuocati. La bocca è stravolta da denti lunghissimi, sotto e ai lati dei quali ci sono ciuffi grigi: ma anche tutto il corpo è tappezzato di un vello nero pece, qua e là sprazzi di pelo più chiari. Le sue unghie sono pronte ad afferrare i dannati e farli a pezzi. Pluto cerca di ostacolare il cammino di Dante e Virgilio, ma quest’ultimo lo zittisce e la bestia ricade in terra. Qui sono stipati più corpi che in ogni altro luogo, presi da una spasmodica ed eterna danza: le due schiere - i prodighi e gli avari - spingono massi col petto lungo il Cerchio e in senso opposto, lanciando grida; al loro incontro, gli uni rimproverano le colpe degli altri. Poi i primi tornano nella loro ombra, attendono l’arrivo dei secondi: riunitisi, tornano tutti al proprio semicerchio, dando inizio ad una nuova e identica danza.
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VIII Nel bordo inferiore, presso il quinto cerchio, scroscia lo Stige, rivo bollente e melmoso: corpi nudi immersi nelle acque fangose si percuotono, si sbranano vicendevolmente. I dannati che galleggiano sulla superficie sono gli iracondi, ma Virgilio spiega come al di sotto ce ne siano di altri: gli accidiosi, che ora - completamente immersi - fanno gorgogliare con il loro respiro affannoso la superficie del fiume. Dante si guarda attorno, nel buio infernale, e strizzando gli occhi nota due fiamme vive che dialogano tra loro, scambiandosi segnali da lontano: si scorge già, lungo le acque melmose e annebbiate dal vapore, colui che ha dato il segno. Giunge un vascello rapidamente, alla sua guida un solo rematore: è Flegias, che trasporta gli spiriti maledetti da una sponda all’altra della palude. Dal canale stagnante e putrido emerge un corpo sozzo di fango, s’arrampica sul legno, cinge il volto del pellegrino e lo bacia. Poco dopo si rigetta nel pantano, inghiottito dal limo; tutti intorno gridano il nome suo.
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VIII-IX Flegiàs li conduce verso la città di Dite, dimora di diavoli e genti dolenti. S’intravedono alte torri vermiglie: al loro interno un fuoco sempiterno arde; sui tetti sono appollaiati come falchi i diavoli alati, che sghignazzano con le fauci spalancate. Alla vista di Dante - che è vivo - i demoni inferociti piombano a terra per impedirne l’ingresso: Virgilio si fa di lato con loro, cercando di svelare il cammino. Ma questi nemici dell’uomo corrono dietro le mura e chiudono i battenti: la guida ha gli occhi fissi in terra e scoramento in viso. A guardia della città non ci sono solamente i demoni: dall’alto di una delle torri le tre Furie - personificazioni femminili della vendetta - sporche di sangue e con i capelli serpentini, si squarciano il petto con le unghie affilate, si percuotono e disperdono terrore nell’aria. Invocano Medusa, affinché pietrifichi Dante: Virgilio gli raccomanda di chiudere gli occhi, ma - non sicuro della curiosità del giovane pellegrino - usa come scudo anche le sue mani. La terra sotto Dite inizia a tremare percossa da un vento gelido: così viene annunciato l’arrivo del Messo celeste, sdegnato di fronte a questo luogo infame. Tutti i dannati circostanti, i natanti delle acque dello Stige, si dileguano: la figura misteriosa, con il movimento di una verghetta, spalanca le porte della città; rimprovera, poi, i demoni che hanno impedito l’ingresso dei due viandanti.
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X All’interno vi è un paesaggio ancora più spettrale e terribile di quello già percorso: Dante sposta gli occhi intorno a sé, notando una serie di tombe. Queste ardono costantemente e i loro coperchi sono sollevati: qui bruciano gli eresiarchi e i loro seguaci, che non vedranno mai più la luce nel giorno del Giudizio Universale, quando i loro rifugi verranno completamente sigillati. Dopo aver dialogato con due anime a lui note - Farinata dagli Uberti e Cavalcante de’ Cavalcanti9 -, Dante segue la sua guida, che ha appena imboccato un sentiero che conduce alla parte più esterna del cerchio, da dove giunge un lezzo ripugnante. Con alle spalle la città di Dite, i due intraprendono la discesa verso il settimo cerchio alle quattro antimeridiane del 26 marzo: un crollo ha causato, lungo il sentiero, un ammasso di rocce dal quale proviene un puzzo maleodorante. Dante e Virgilio, cercando riparo, si imbattono in un’altra tomba e tentano di abituare i propri nasi a quell’olezzo infernale: proseguono, poi, il cammino.
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XI-XII I due oltrepassano la soglia del settimo cerchio: all’estremità superiore della rovina sta il Minotauro, uomo-bestia che si morde rabbioso alla vista dei viaggiatori. I suoi zoccoli sono piantati nel terreno e inveisce minaccioso contro Dante: Virgilio lo zittisce - come ha già fatto con gli altri figli di Satana - e il mostro scappa trotterellando, come un toro ferito. Si può ora discendere la rovina, liberi da ogni timore: di fronte si estende una palude di sangue bollente nella quale sono immersi i dannati del primo girone, i violenti. Lungo la fossa del Flegetonte corrono i centauri, grossi uomini-cavallo armati di arco e frecce, che punzecchiano e infilzano con i loro uncini i peccatori. Una di queste bestie scorta Dante e Virgilio lungo il girone, mostrando loro i diversi gradi della pena qui punita: nella pozza sanguigna i tiranni sono immersi fino alle ciglia, altri fino alla gola, alcuni fino al petto e ai piedi.
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XIII Giunti alla sponda opposta della palude, il centauro abbandona i due viaggiatori all’ingresso del secondo girone del settimo cerchio. Dante alza lo sguardo che cade sulla selva di alberi spogli e fitti, che si snodano in forme contorte e minacciose, non ci sono frutti ma spine velenose; il luogo è dimora delle Arpie che, gracchianti, svolazzano di qua e di là: hanno grandi ali, visi di donna e zampe artigliate con le quali graffiano i tronchi. Da ogni parte giungono lamenti e pianti, ma non si scorgono le genti sofferenti: Dante, spinto da Virgilio, strappa un ramoscello da un albero e subito s’ode una voce e del sangue nero gorgoglia dal fusto. Il pellegrino comprende di essere giunto nella selva dei suicidi: qui l’anima di coloro che furono violenti contro se stessi - privandosi della vita - piomba in un punto qualsiasi e germoglia, dando vita ad una pianta selvatica eternamente vessata dalle Arpie. Poco distanti si sentono dei latrati e uno stormire di foglie: due dannati corrono tra la fitta boscaglia, nudi e graffiati, rompendo i rami che impediscono loro la corsa. Delle cagne nere li inseguono, li raggiungono e infine li sbranano, portando via le carni maciullate. Dante fissa inorridito la scena, ma il suo viaggio deve proseguire.
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XIV-XVI Virgilio si è già allontanato verso il terzo girone, dove si apre una landa desolata priva di vita e attorniata dalla selva dei suicidi. Il suolo è formato da uno spesso strato di sabbia infuocata, dove giacciono le anime dannate: i bestemmiatori sono sdraiati supini, gli usurai siedono ai bordi del vallone, i sodomiti camminano senza tregua. Il sabbione, poi, è bagnato da una pioggia di fiamme che condanna al bruciore sempiterno i peccatori. Proseguendo il cammino Dante e Virgilio giungono al punto in cui sgorga il fiumiciattolo bollente del Flegetonte. Qui il pellegrino si sente strattonare per il lembo della veste e si gira meravigliato: nonostante il viso di quell’anima sia completamente bruciato, vi riconosce un’anima amica - quella di Brunetto Latini 10 - costretta a percorrere in eterno, con i piedi nudi, il sabbione infuocato. Il cammino continua tra le anime dei sodomiti che, riconoscendo Dante, lo invitano a fermarsi per discorrere sulle sorti e i costumi corrotti di Firenze: nel frattempo sono sempre più vicini al punto in cui il Flegetonte si getta nel cerchio successivo.
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XVII Arrivati al limite, dove l’acqua scroscia assordante verso il basso, Dante scioglie la corda che ha attorno alla vita e la porge a Virgilio che la getta, segno di richiamo per qualcuno o qualcosa: ed ecco che dal buio pesto dello scoscendimento, nuotando nell’aria scura e densa, risale un’enorme figura. È Gerione, belva dalla coda appuntita che, ovunque si dirige, porta con sé il proprio fetore infernale: il mostro poggia la testa e il busto sul ciglio del burrone, lasciando che la coda fluttui nel nulla. Il suo volto è quello di un uomo buono, il corpo è di serpente, le zampe pelose e artigliate arrivano fin su le ascelle, il dorso e il petto sono tinti con nodi e girelle multicolori. Poco distanti dalla bestia siedono gli usurai in lacrime: hanno attorno al collo una borsa con sopra lo stemma della loro famiglia, le gambe sono a penzoloni giù nel vuoto e coprono il volto con le mani per ripararsi dalle fiamme e dalla sabbia. Gerione, tuttavia, non può più attendere. Dante e Virgilio salgono sul suo groppone, si reggono forte al manto e, pronta a nuotare, la bestia solleva la coda acuminata, compiendo larghi giri nell’aria. Il mostro si allontana, dunque, dalla parete rocciosa, quindi allunga la sua estremità al petto come un’anguilla e inizia a discendere muovendo le zampe pelose: il pellegrino avverte il vuoto attorno a sé, solo l’aria lo colpisce in volto e sulle gambe; ode alla propria destra lo scroscio del Flegetonte. Ma la discesa è quasi terminata, perché sul fondo iniziano a comparire fuochi e pianti.
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XVIII-XX Gerione, quindi, depone Dante e Virgilio sul fondo del burrone, nell’ottavo cerchio, nominato Malebolge: tutto è fatto di pietra color ferro, così come il baratro a strapiombo circostante; al centro si apre un pozzo profondo al cui interno si hanno dieci fossati concentrici, le Bolge, dimora di altre miriadi di peccatori. I dannati della prima bolgia sono nudi e procedono in due file parallele che si dirigono in direzioni opposte, una lungo il margine più esterno - i ruffiani - e l’altra lungo quello interno - i seduttori. I primi, che nella loro corsa sbattono contro i due viaggiatori, vengono frustati, puntellati e costretti a camminare velocemente da demoni che svolazzano nell’aria putrida. Dante e Virgilio, poi, si dirigono verso il ponticello che collega la prima bolgia con la seconda, ma prima passano a osservare il branco di seduttori, anch’essi scudisciati dai diavoli: giunti al ponte, s’odono i nuovi dannati - gli adulatori - che lanciano grida di lamento e soffiano con le narici, colpendosi poi, con le loro stesse mani. Le pareti della roccia circostante sono pregne di muffa per i mal odori che provengono dal basso, irritanti per occhi e naso: i peccatori della seconda bolgia sguazzano nello sterco, come quello che fuoriesce dalle latrine umane; uomini e donne si graffiano la pelle con le unghie sporche di feci, sono sudici e irriconoscibili. Dal punto più alto del ponte si può vedere la roccia piena di buchi circolari, tutti della stessa dimensione: la giustizia divina si manifesta agli occhi di Dante.
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XVIII-XX I nuovi peccatori - i simoniaci - giacciono a testa in giù conficcati nel terreno, scalciano con l’unica parte di corpo che emerge e le piante dei piedi sono arse dalle fiamme. Tutto intorno un puzzo di carne marcescente; diavoli alati sorvegliano e inforcano i dannati. Il pellegrino e la sua guida risalgono il ponte della Bolgia, accingendosi a visitare la dimora degli indovini e dei maghi. Tutte le anime di queste genti riempiono con lacrime di sangue il fondo della fossa e hanno il capo voltato all’indietro, procedendo a ritroso nella processione eterna: Dante esasperato da questa nuova vista - esplode nel pianto, ma Virgilio è subito pronto a redarguirlo con aspre parole. Non si può provare compassione per coloro che in vita hanno tentato di antivedere il futuro, noto solo alla potenza divina. Appare alla vista del fiorentino anche una schiera di donne che in vita si diedero alla divinazione: le streghe che fecero magie, diventando fattucchiere, ora procedono col volto rivolto, intonando una litania infernale.
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XXI-XXII Alle sette antimeridiane del 26 marzo Dante e Virgilio si accingono alla quinta Bolgia, presso la quale sono puniti i barattieri: il fossato nel quale giacciono è pieno fino all’orlo di pece bollente, scaldata dal fuoco divino, dalla quale emergono in superficie soltanto delle bolle. Dei peccatori non c’è traccia alcuna. Ma non è più tempo di occuparsi di loro: un diavolo nero corre lesto verso Dante, ha un aspetto feroce e maligno, spalanca le ali nella corsa e tiene sulle spalle un dannato. Il mostro invita le Malebranche - suoi compagni di Inferno - a gettare i dannati giù nella melma ribollente, così come sta per fare lui: getta quell’anima che ha tra le braccia nel pantano e si ode un tonfo. Dopo qualche istante quell’anima riemerge e galleggia imbrattata: viene sospinto dagli altri demoni a rimanere sotto la superficie; al contempo lo percuotono e infilzano con bastoni uncinati, lo straziano. Il gruppo di bestie latranti, poi, si dirige verso Virgilio, minacciandolo con le armi; ma Malacoda - il loro capo - si fa presto innanzi ed esorta i compagni a non toccare il mantovano, né tantomeno l’uomo in carne ed ossa.
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XXI-XXII Dante e la sua guida, in men che non si dica, si ritrovano scortati per le Bolge infernali da una masnada di dieci diavoli, che digrignano i denti e lanciano ai due occhiate minacciose. In compagnia dei diavoli volgari, il pellegrino e la sua guida continuano il cammino per l’Oltretomba, osservando la pece ribollente in cui sono immersi i barattieri. In superficie, di tanto in tanto, galleggia il dorso di un’anima dannata attenta a non farsi cogliere dagli uncini dei custodi del girone: una, però, s’attarda e un diavolo la sorprende; la solleva, ma solo dopo averla infilzata con un uncino. La mostra agli altri diavoli che ridono beffardi. Dante e Virgilio, inorriditi dallo spettacolo, intraprendono un dialogo con ciò che rimane di quel corpo arso dalla pece e trafitto dal demone: dopo qualche parola, l’anima si ritrova lacerata dalla testa ai piedi; ma ha subito in mente un tranello da sottoporre a quei maledetti mostri infernali. Con la promessa di mostrare ai due viaggiatori altre anime dannate, chiede ai due di far allontanare le Malebranche: questi fiutano l’inganno e si gettano nella pece, senza riuscire ad uscirne.
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XXIII-XXV La scalata è faticosa e dura per arrivare alla cima dell’argine che sovrasta la settima Bolgia. Arrivati sulla sommità, al pellegrino si offre una vista orrida: le anime dei ladri corrono nude, sfigurate dal morso dei serpenti. A ogni centimetro di pelle ferita segue la metamorfosi del dannato. Uno, colpito alla nuca, lestamente viene avvolto da una vampa di fiamme che lo riducono in un mucchietto di cenere, ma da questo risorge in un istante. Nuovamente l’anima viene assalita da altre due serpi, gli avvolgono il collo e gli immobilizzano gli arti. Tutto d’un tratto compare agli occhi del pellegrino il centauro Caco: è ricoperto di serpenti, ingroppato da un drago rosso fuoco. Il mostro avanza verso i dannati, pronto a infliggere nuove pene. Continuano le metamorfosi sotto gli occhi inorriditi di Dante: una serpe si congiunge, in un grottesco amplesso, con un’anima; dopo il morso sulla guancia, le nature di uomo e di rettile si fondono, originando un mostruoso essere che si allontana a passo lento. Un altro serpente assale un dannato poco lontano: anche quest’anima si trasforma, mentre la bestia infernale assume fattezze umane. Dante e Virgilio non possono continuare ad osservare questo scenario inquietante; devono riprendere il cammino.
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XXIII-XXV Dante e Virgilio cercano ora un passaggio che porti alla sesta Bolgia: si allontanano, quindi, lungo l’argine del girone infernale; ma il giovane poeta è assalito da un nuovo dubbio. I diavoli vorranno, quasi sicuramente, vendicarsi della beffa appena subita, e prendersela con i viaggiatori: ed eccoli, infatti, risalire dallo stagno nero bollente e rincorrere i due. Il mantovano, pronto all’azione, afferra il braccio di Dante, trascinandolo giù per la sesta Bolgia. Qui una fiumana di dannati è in coda in una processione senza fine: il passo è lento, colpa delle enormi cappe dorate sotto le quali i talloni tentano di proseguire il cammino. Tali dannati sono gli ipocriti, che nella loro marcia eterna e basculante calpestano altri fratelli, stesi nella melma: tra di loro, crocefisso a terra, c’è Caifa11. Virgilio, dopo aver chiesto a un dannato la via per uscir di lì, invita Dante a seguirlo su per la parete di roccia.
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XXVI-XXX Giungono presso l’ottava Bolgia, dove dimorano i consiglieri
fraudolenti,
imprigionati in lunghe lingue di fuoco. Il fondo del girone è illuminato da fiamme, all’interno delle quali vive, bruciando in eterno, l’anima di un dannato. Una torcia umana, tuttavia, ha la punta bipartita: qui dimorano Ulisse e Diomede12, che, avvicinandosi a Dante e al suo maestro, iniziano a narrare la loro storia. Ma dal basso giungono, improvvisamente, suoni atroci e confusi: un altro dannato vorrebbe intrattenersi con i due viaggiatori; la sua voce esce flebile e strozzata dalla fiamma. Vuol conoscere il destino della sua patria e Dante glielo svela: dopo aver udito parole orribili, l’anima dannata si allontana bruciando per sempre; il pellegrino e la sua guida riprendono il cammino, giungendo sul punto che sovrasta la nona Bolgia, abitata dai seminatori di discordie civili, religiose e domestiche.
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XXVI-XXX Lo spettacolo che ora si offre a Dante è ancora più spaventoso del precedente: i dannati vengono smembrati dalla spada di un demonio ogni volta che gli passano davanti nella loro eterna processione, durante la quale le ferite si rimarginano. Compare un’anima squarciata dal mento al bacino, con le interiora che penzolano di fuori: è Maometto13. Altri dannati si avvicinano, sorpresi, a quel corpo vivo e parlano con lui, ognuno mostrando la propria colpa e spiegando la pena. Dante e Virgilio, proseguendo il viaggio, giungono nella decima bolgia: qui li accoglie un puzzo di membra putrefatte. Coloro che nel mondo sono stati alchimisti, ora sono qui raggruppati a mucchi e si trascinano per la Bolgia afflitti dalle più gravi malattie. Due dannati con le schiene appoggiate l’una contro l’altra si grattano a vicenda, quasi a scrostarsi la carne di dosso, colpita dalla scabbia. Si mostrano, poi, i falsari di sé: corrono in preda a una smania furibonda, addentando gli altri compagni d’Inferno. Ecco apparire i falsari di moneta che, sempre immobili, giacciono a terra colpiti da idropisia: sono deformati, con il ventre prossimo ad esplodere. Infine agli occhi di Dante compaiono i falsari di parola che sono arsi da una febbre altissima e il loro corpo emana vapore e un ripugnante lezzo di unto bruciato.
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XXXI-XXXII Avvicinandosi, finalmente, verso la voragine del pozzo infernale, Dante ode un suono di corno e vede da lontano delle figure erigersi come fossero torri: sono i giganti, che sporgono dall’ombelico in su dal bordo del pozzo. Il pellegrino si ferma ad osservare Nembrot, mostro dall’aspetto colossale e smisurato: distrusse la torre di Babele, ora il suo linguaggio è ignoto a tutti e non conosce nessuna lingua parlata da altri. È solo per l’Inferno, compreso da nessuno e non comprendendo nessuno. Poco distante un altro gigante, ancora più grande del precedente: è legato ad una catena che gli immobilizza le braccia e le gambe. Dante e Virgilio, infine, giungono di fronte ad Anteo14, il mostro che li deporrà sul fondo del nono cerchio: egli dischiude le enormi mani sulle quali i due salgono. Improvvisamente un’aria gelida li colpisce, proveniente dalla distesa ghiacciata che si offre al loro sguardo. Qui, nel Cocito15, sono conficcati i dannati e dal ghiaccio emerge solamente il loro capo: sono i traditori dei parenti e della patria che piangono, ma le loro lacrime si condensano a contatto con il freddo e i loro denti battono fortemente, producendo una sinfonia infernale. Le lacrime di altri dannati si induriscono non appena escono dalle orbite, accecandoli. Poco distante un’altra anima rosicchia avidamente il cranio di un altro individuo: è il Conte Ugolino. Egli subito narra la sua orribile storia di morte e presunto cannibalismo. I due, poi, proseguono il cammino, arrivando laddove vengono puniti i traditori degli ospiti: questi nuovi dannati sono conficcati nel ghiaccio in posizione supina e le loro lacrime ristagnano nelle cavità degli occhi e, congelandosi, creano una visiera di ghiaccio. La veste del pellegrino, improvvisamente, viene mossa dal vento gelido.
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XXXIII-XXXIV Sei pomeridiane del 26 marzo: da lontano si intravedono le insegne del Re del Male. Compare una macchina gigantesca, simile a un mulino a vento circondato dalla nebbia. Si intravedono ancora dei dannati: sono interamente immersi nel ghiaccio in mille posizioni differenti. Conficcato dal petto in su nel lago sta Lucifero. La sua testa è enorme e composta da tre facce, dal groppone spuntano sei ali di pipistrello, che muovendosi provocano quel vento che ha mosso la veste di Dante. Ha sei occhi che versano lacrime: queste si mescolano al sangue gocciolante dalle tre bocche che maciullano tre peccatori diversi. Alle quattro antimeridiane del 27 marzo Dante e Virgilio devono concludere il loro viaggio. Il pellegrino si aggrappa dolcemente al collo della sua guida, la quale, cogliendo il momento in cui le ali di Lucifero si aprono, si afferra alle costole pelose e scende all’altezza dell’anca. Compie una mezza rotazione e comincia a risalire fino a deporre Dante sul ciglio di una grotta: da qui può osservare le gambe del Diavolo rivolte all’insù. I due hanno appena varcato il centro della terra, raggiungendo l’emisfero australe; Lucifero è in quella posizione perché, dopo esser stato cacciato dal cielo, precipitò dalla parte dell’emisfero australe, dove nemmeno la terra lo volle, ritirandosi e formando l’emisfero opposto. Attraverso la grotta naturale, Dante e Virgilio percorrono un sentiero nascosto e finalmente, uscendo di lì, tornano a riveder le stelle.
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Poeta, scrittore e uomo politico, padre della lingua italiana, autore della Divina Commedia.
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Caifa fu un sommo sacerdote di Gerusalemme, e fu colui che condannò Gesu.
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Virgilio, il cui nome completo era Publio Virgilio Marone, fu uno dei massimi esponenti della letteraturatura latina, e guida di Dante nell’Inferno.
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Paolo e Enea sono due figure centrali nella tradizione classico-cristiana, in quanto enea è legato alla fondazione di Roma, mentre san Paolo è l’apostolo che più di ogni altro contribuì a diffondere il Cristianesimo nel mondo.
Ulisse e Diomede furono due eroi greci che furono insieme nel peccato e ora scontano insieme la pena. I due sono dannati per l’inganno del cavallo di Troia, per il raggiro che sottrasse Achille a Deidamia, e per il furto della statua del Palladio.
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Maometto è stato il fondatore della religione islamica.
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Anteo, nella mitologia greca era un gigante, il figlio di Poseidone.
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Il Cocito nella mitologia greca era un immenso fiume che delimitava il confine tra il regno dei vivi ed il regno dei morti.
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Beatrice è il cuore del viaggio di Dante dall’umano al divino, è la donna attraverso la quale egli affronta e realizza il suo “pellegrinaggio”.
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L’ Acheronte è presente nella mitologia classica come fiume dell’Ade, dove lo stesso Caronte ha il compito di traghettare le anime dei morti.
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Paolo Malatesta e Francesca da Rimini sono due personaggi realmente esistiti a Gradara, protagonisti di una triste e sventurata storia d’amore e presenti nell’inferno Dantesco.
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Ciacco è un personaggio letterario, citato da Dante tra i golosi.
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Parole intraducibili pronunciate da pluto che possono avere vari significati: un grido di rabbia o di stupore nel vedere un vivo nell’inferno, o addirittura un invocazione a Satana.
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Farinata degli Uberti, fu uno dei principali capi dei Ghibellini a Firenze nel primo Duecento, mentre Cavalcante de’ Cavalcanti è stato un filosofo epicureo italiano vissuto nel tardo Medioevo.
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Brunetto Latini è stato uno scrittore, poeta, politico e notaio italiano.
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