La panchina_ Sara Zollo

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La panchina di Sara Zollo


Una verde panchina. Una verde, lucente, stabile panchina. Una verde, lucente, stabile, fissa, ferrea panchina: la mia casa.

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Perfetta come soggiorno, con un paio di cuscini sullo schienale e due mattoni presi da un cantiere come poggiapiedi, ecco il divano. Di tanto in tanto qualcuno mi si sedeva accanto, amici invitati per due chiacchiere. Si stava ad ascoltare musica, degli uccelli o degli artisti di strada, oppure a guardare le persone passare, spettacolo mai banale, nessuna replica né pubblicità.

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Perfetta come cucina, con il suo sedile in metallo fatto a righe alternate che, con un piccolo fuoco acceso sotto, era la più efficace delle griglie. Per non parlare poi dei periodi estivi in cui i larghi braccioli arroventati dal sole fungevano da impeccabili piastre. Finito di mangiare, poi, incastravo stoviglie e posate appena lavati tra le righe della seduta, il mio scolapiatti.

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Perfetta come camera da letto, con i due cuscini posti a un’estremità, una coperta, un grande telo di plastica tenuto su da alcune mollette come baldacchino e i due mattoni come comodino, nelle fessure dei quali potevo infilare libri, fazzoletti e scartoffie. Sopra il comodino, prima di addormentarmi, poggiavo la mia tisana. La preparavo di proposito al calar del sole così che, grazie al fuoco appena spento, il mio metallico materasso fosse ancora caldo.

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Perfetta come bagno, con una tinozza piena d’acqua scaldata sul fuoco e uno scolapasta giallo, il soffione della mia doccia. In un angolo dello schienale la vernice s’era staccata, lasciando il metallo lucido scoperto, ecco lo specchio. Una volta a settimana montavo il baldacchino, riempivo una tinozza d’acqua, rosmarino e menta selvatica e li lasciavo bollire a lungo, la mia sauna. Con la stessa tinozza lavavo i vestiti e li mettevo ad asciugare appesi a un filo legato da un estremo all’altro del retro della panchina, stirandoli, una volta asciutti, grazie ai braccioli caldi e a uno dei due mattoni.

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Oltre che soggiorno, cucina, camera da letto e bagno, quella panchina verde era anche il mio punto vendita. Iniziai a utilizzarla come telaio per intrecciare i fiori trovati nel parco per farne coroncine, bracciali e collane, una bigiotteria. Le famiglie che venivano qui a passeggiare di domenica sembravano apprezzare, ma con l’inizio dell’autunno dovetti smettere per mancanza di materia prima e cercarmi altro da fare.

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Mi venne poi in mente di usare la griglia della panchina per aprire un chiosco, cuocendo le caldarroste che raccoglievo sotto i castagni e vendendole nei cartocci che io stesso facevo con dei fogli di giornale che ogni tanto qualche amico dimenticava in soggiorno. Anche questo, per ovvie ragioni, fu un lavoro che durò poco ma non fu di certo l’ultimo: d’estate raccoglievo i limoni da un albero del parco per farne della limonata, tenuta al fresco dall’ombra della panchina. D’inverno me la cavavo con infusi caldi o fiori messi a essiccare in primavera, raccolti in piccoli sacchetti fatti con dei ritagli di stoffa. Appesi ai braccioli riuscivano a profumare tutto il viale e non mi fu difficile convincere le signore a comprarli dalla mia boutique e ad appenderli ai propri alberi di Natale.

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Tra fiori, limonate e infusi diventai abile a distinguere i vari tipi di piante selvatiche e alcune passanti, vedendo la panchina sempre ricoperta di petali, fogliame e ramoscelli, iniziarono a incuriosirsi e domandarmi quali fossero le piante più adatte per condire l’arrosto, quali da insalata, da zuppe o quali fiori fossero commestibili e utilizzabili come decorazioni per i loro dolci. Ne approfittai per creare e vendere dei biglietti, delle cartoline in cui annotavo le mie ricette. Infilando le gambe nella fessura tra il sedile e lo schienale della panchina, la parte ricurva dello schienale, quella più in alto, diventava un’ottima scrivania e iniziai così a trascorrere la maggior parte del mio tempo seduto al contrario su una panchina verde. Insalata di malva e finocchietto, frittata con erba cipollina, pesto di rucola selvatica, pasta all’ortica e tisana alla rosa canina divennero tra le ricette più ambite. Ad ogni foglietto allegavo anche un ramo o una foglia della pianta in questione, così che fosse più semplice riconoscerle.

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Arrivavano donne di ogni età dalle prime ore del mattino e iniziarono a formarsi delle file chilometriche per ricevere la ricetta del giorno. Per risolvere il problema decisi di comprare dello spago e del cartone con i soldi ricavati e farne un libretto, evitando tutte quelle visite e ritagliandomi del tempo per esplorare il parco alla ricerca di nuove piante. Ogni settimana creavo nuovi libretti e la panchina divenne una libreria. Ampliai il mio ricettario grazie all’autunno, trovando più di cento modi di cucinare funghi, frutti di bosco, melagrane e frutta secca e stupii tutti iniziando a scrivere di zuppe e infusi di radici di arbusti, ora che di verde c’era ben poco. Ogni ricetta veniva da me brevettata durante il corso delle settimane, il fuoco sotto la panchina scoppiettava notte e giorno e i piatti cucinati erano tanti da doverne offrire a chiunque passasse da qui, per non buttar via nulla.

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Così facendo, non solo ricevevo pareri e consigli per aiutarmi a migliorare le ricette ma riuscivo anche a farmi pubblicità senza alcuna fatica. File di persone tra curiosi, casalinghe e cuochi si accalcavano per un assaggio, una cartolina o un ricettario.

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Fu il mio lavoro più duraturo e redditizio. Con l’arrivo della nuova stagione, però, tornò in voga la cucina tradizionale e alle bacche, alle radici e all’ortica si preferivano sughi, pollo e patate. Abituato a lavori brevi e incassi minori non ne feci un dramma, orgoglioso del ricavato dei miei sacrifici ben custodito nel comodino. Contai il denaro e con stupore mi resi conto di averne tanto da potermi permettere un appartamentino in affitto, un’auto...o chessò io. Preferii comprare delle assi di legno e un sacchetto di cemento per costruirmi una pensilina tutta intorno alla panchina, lasciando solo il fronte scoperto. In fondo una casa ce l’avevo già. Comprai pure della carta, tanta carta. Per far cosa, se non scrivere ricettari? Raccontare piccole storie, come questa.

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