Anche il sole del giorno peggiore tramonta_ Samuele Andruccioli

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Un sognatore romantico, malinconico bambino.



Il personaggio di questo libro non ha un nome, o meglio, sicuramente lo ha, ma non è assolutamente rilevante al fine della sua conoscenza. Non si sa da dove venga, cosa faccia nella vita e quali siano le sue origini, anche se le risposte a queste domande esistono, non verranno mai analizzate né rese importanti, poiché tutte queste curiosità sono superflue al fine della sua conoscenza. Vi è dato sapere solo che è un ragazzo molto immerso in ciò che prova, nelle emozioni. Vive in un mondo contornato da tv con schermi piatti che ambiscono alla larghezza piuttosto che alla profondità e tutto ciò lo fa sentire molto solo. Lui è una tv con il tubo catodico a cui ogni tanto va via il segnale, spesso ha problemi con i colori e vede tutto in bianco e nero. Non ha una grande risoluzione, a differenza di quelle nuove tv led, così fatica a mettere a fuoco il suo futuro; però riesce a leggere le cassette in cui è registrato un mondo passato che non gli appartiene, ma che comunque rimpiange. Insomma, è una tv che non può far altro che sentirsi a disagio in questo posto, in questo enorme centro commerciale dove ci si mette in fila per aspettare il proprio turno prima di andare in vetrina. Mentre tutti si aggiornano per non venir rimpiazzati, lui scappa dai centri commerciali per cercare qualcosa di cui innamorarsi e così girovaga nella notte, per i i vicoli stretti, durante i giorni di pioggia, sulle rive di spiagge che fanno cadere il sole. Una continua camminata in cerca di un po’ d’amore che lo convinca a rimanere vivo ancora un giorno in più. E per quanto possa sembrare triste, per quanto possa sembrare solo, se è ancora vivo significa che, sotto sotto, si è innamorato di nuovo.


Quando inizio a pensare poi non ci cavo le gambe. I ricordi sono come sabbie mobili: più ci navighi, più sprofondi.


Il futuro è un binocolo tenuto al contrario: ciò che dovrebbe avvicinarsi diventa distante più della luna e gli orizzonti diventano minuscoli.


Il presente sta in mezzo a questi due tempi ed ha poco spazio. È condizionato, fin troppo, da ciò che ha attorno. Non so come giostrarmi per vivere davvero sereno. Vorrei liberarmi da questa sabbia, vorrei non sbagliare lato del binocolo. Vorrei godermi, ad esempio, questo tramonto e non pensare ad altro. Ma non ci riesco, perché sono solo, con il bisogno di un abbraccio.



Ho il cuore in sovrappeso, si è cibato per troppo tempo di baci che non l’hanno sfamato. Erano tutto zucchero e niente amore.



Gennaio è il primo mese dell’anno, in cui posso sperare di iniziare a fare cose che non ho mai fatto. Come ad esempio credere ad un “per sempre”, fidarmi ciecamente, amare ed essere amato veramente, sognare che il tempo sia stato messo in una clessidra nuova e che tutto quello che ho sprecato finora non conti più niente. Gennaio è il pensare che si stia iniziando una vita diversa, ed io, per restare impigliato nel mio passato, giro da nove anni sempre con la stessa felpa.



Ho una scatola di cerotti al posto dei fazzoletti. Vivo dove nascono i temporali e sono giunto alla conclusione che asciugarsi non serve, ma curare le ferite è essenziale. Perché mentre bevo acqua per far scorta di lacrime, il sangue prima o poi finisce e quindi, in qualche modo bisogna bloccarlo dentro.


Con il tempo ho capito che più si diventa grandi e meno ci si sbuccia le ginocchia, ma sempre più spesso ci si taglia dentro. E così ingoio cerotti per tappezzarmi le costole fragili senza abbracci, il cuore forato dalla solitudine appuntita.


Giornate piene di sole che butto altrove, dove costantemente piove. Consumo le suole, cerco di fuggire da questi temporali che mi inseguono, da questa solitudine che in un lampo diventa tuono.


Mi si appanna il viso, prima avevo un sorriso ma ora non è più nitido. C’è nebbia nei miei pensieri, dubito di tutto, piango a dirotto. Oggi mi pare ieri.


Notti ad occhi aperti con i crampi nello stomaco. Mangio poco, parlo poco, ma in compenso penso troppo. Fammi un cenno se mi senti. A volte vorrei che i miei pensieri potessero arrivare a destinazione e che qualcuno sappia cosa sto passando. Ho una vita davanti e un mondo dentro, quasi spento.



Il sedile del passeggero ha ancora il tuo profumo e vivi ancora in un ricordo passeggero, ma in un attimo puff…tutto fumo. Procedono i chilometri sopra questo asfalto, tra i lampioni che mi illuminano il viso umido di pianto.


Tutto questo mentre la luna rimane ferma a sorvegliarmi, m’imbarazza l’esser rimasto solo con lei. Chissà se ti ricordi quando ci faceva da sfondo. La guardavamo come in un sogno, quasi la toccavamo, quasi i nostri baci arrivavano fin là, quasi quasi, ma alla fine mi hai lasciato qua.


Ma perché è così difficile lasciare andare? Vorrei un buon compromesso prima di tornare ad amare. Ho le mani rotte a forza di tirare questa fune. Il tuo cuore dall’altro lato tira più forte di me e mi fa cadere. Inciampo mentre se ne va.


Non c’è più niente che mi consola, non esiste anima buona. Esisto solo io e la sfiga che ho di amarti ancora. Mentre il tuo cuore ha le forze per andarsene via, il mio è stremato e mi chiede bisbigliando se sei ancora mia.


Dormo per sentirmi al riparo dal mondo, che mi spaventa un po’ da quando ho perso la fiducia, da quando il bene non mi gira più attorno. A volte basta un attimo e le cose più alte cadono, le cose più forti si spezzano. Le mie gambe tremano così tanto che non mi reggo più in piedi. Cerco un appiglio, un aiuto ma non c’è più nessuno. Non pensavo che tra otto miliardi di persone si potesse ancora rimanere soli. Dormo, come se fosse l’unica cosa che mi resta, ma nemmeno i sogni mi lasciano in pace. Lotto con i mostri che da bambino stavano ai piedi del letto ed ora vivono dentro la mia testa.



Vorrei scomparire e non avere più a che fare con la mia stessa vita e con il tempo che la farà finire.



Febbraio è il mese più corto, dicono. Forse perché non l’hanno mai vissuto senza amore. Con il freddo le ore diventano giorni, le albe costanti notti. Febbraio è il bisogno di un abbraccio, un bacio sullo stesso letto. Senza amore febbraio dura un’eternità. Mi fa tremare troppo il mio esser solo mentre fuori piove, il non poter raggiungere chi mi manca perché in strada c’è la neve.



Non mi preoccupo per le mie lacrime, ho solchi sul viso e sanno già dove andare.


Scorrono veloci e mi si staccano dalle guance, cadono pesanti fino a rompersi sulle scarpe.


Mi sento un po’ scomodo dentro questa felpa larga. Mi fanno domande scomode e le prendo alla larga, mi chiedono: “Dove sei? Come mai non torni mai?” Ed io non so mai cosa rispondere, alzo sempre un po’ le spalle.


Passerà, passerà. Passerà anche il “per sempre” così come passa il presente, nonostante rimanga costantemente. La vita è fatta di contraddizioni che si intrecciano. L’amore è fatto di controindicazioni che non si leggono.


Salgo sopra il tetto, non mi sento a casa.


Scendo dentro il petto, ho una fitta dolorosa.


Sono un cane durante la notte di capodanno che non riesce ad apprezzare né a capire come mai ci sia questa voglia di sparare al cielo, come se le stelle ci avessero fatto qualcosa di male. Loro che se ne stanno lì in silenzio ad aspettare che le vengano dati dei nomi, loro così gentili da tenere un briciolo di luce nel buio, così difficili da comprendere, eppure unendole con il dito formano figure semplicissime.


Sono un cane durante la notte di capodanno che si rifugia in un angolo a tremare, pregando che finisca presto tutto questo casino e tutto questo anno appena iniziato nel peggiore dei modi.


La pioggia in fin dei conti fa lo stesso suono di mille orologi analogici dentro la stessa stanza. Un ticchettio infinito non sincronizzato. I secondi non combaciano mai negli orologi impostati manualmente. Sulle mie finestre i “tic-tac” di mille sveglie in ritardo e di mille in anticipo.


Ah! Se solo fossi stato minuzioso nel cercare di sistemare il mio orologio in orario perfetto! Ora non sarei qui a sentire questo suono fastidioso. Chissà come sarebbe una pioggia con ogni goccia sincronizzata. Chissà come sarebbe il mondo se fossimo tutti in perfetto orario.


Fuori è freddo ma io non tremo. Cammino piano, in silenzio e in qualche modo grido. In silenzio grido. Ho dei graffi che non vedo, così come non si vedono le carezze ricevute.



Marzo con te fu il mese più bello dell’anno. Vederti fiorire con la primavera, tra le mie mani che ti facevano da vaso. Con te ho scoperto un fiore che non avevo mai notato, fatto di petali biondi e di attimi immortali durati pochi secondi. Marzo sa di primavera solo se si ha la fortuna di conoscere e coltivare un fiore.



Sono stato un bambino felice. L’essere diventato grande è la più grande tristezza di questo presente.



Man mano che la vita si fa seria le persone si diramano. Ognuna con i suoi pensieri, impegni e doveri. Ed io, spesso, mi sento solo e con poche cose da fare.



Ci facciamo troppe domande per capire dove andiamo. Un tempo me le facevo anche io e cercavo di darmi risposte. Ma le domande erano sempre troppo grandi e le risposte che ottenevo erano sempre troppo piccole.


Così poi ho smesso di chiedere, di pretendere di sapere. Ho iniziato a vivere cercando semplicemente di capire un secondo alla volta, proprio nel momento in cui mi tocca prima di andarsene.


Tutti cercano frasi in ogni dove, per riuscire a continuare a sperare o sognare. Nei Baci Perugina con le parole più famose del mondo, nei biscotti della fortuna con quei foglietti sottili ritagliati da qualcuno con le mani sporche, negli oroscopi, che sono la cosa più terribile del mondo.


Io non mi sono mai riuscito a fidare di quelle parole, sono troppo mutevoli da un cioccolatino all’altro, da un biscotto all’altro, da una lettura delle stelle a quella del giorno dopo.


Io conservo da anni solo una frase contenuta nei Kinder Bueno “ritenta, sarai più fortunato”. Questa puoi star tranquillo che non muterà mai e contiene dentro di sé tutta la speranza e tutti i sogni che hai in testa.


Quando sono triste, o qualcosa non va, mi mangio un Kinder Bueno.


Ho paura che per caso, un giorno, le rondini che voleranno nel cielo non mi faranno più sentire libero, che i tramonti non mi faranno sentire vivo,


che milioni di strade da percorrere non mi faranno venire voglia di andare.


Se mi guardo indietro devo fare piano, perché i ricordi sono come grandi montagne innevate, che se disturbate a gran voce poi ti precipitano addosso come valanghe.



Aprile è instabile, non sa mai cosa scegliere tra caldo e freddo. Questo non fa bene ai meteoropatici come me. Ci sono giorni in cui volo come le prime rondini che tornano, altri in cui sprofondo tra le crepe causate da un terremoto. Ho raggiunto dei picchi di instabilità in cui credo che sia il tempo a dipendere da me. Quando piango per colpa tua non desidero altro che fartelo sapere. È un desiderio così grande che il tempo lo condiziona, le mie lacrime saranno la tua pioggia entro qualche ora. Aprile sarebbe un mese di sole, se non fosse per chi soffre e desidera farlo sapere.



Pensieri in rovina come case abbandonate, che ti fanno sentire solo e allo stesso tempo sentire grande.



L’amore esiste solo se insiste nel volerti felice quando sei triste. L’amore non ha sviste e rende nuove cose già viste.


L’amore non ha piste ma segue logiche miste. L’amore è un ricordare senza liste. L’amore è fatto di ostacoli che diventano conquiste.


Mi sento come un sottomarino che naviga nel fondale del mare.


E che nella solitudine di quell’acqua buia, si chiede perché non sia nato nave.


Ho un’anima ad ombrello, fragile della coscienza che il tempo non è sempre bello.



Di visi divisi da cicatrici, che sono il solco di vecchi sorrisi, ne ho visti infiniti.


Diversi versi di poesie tristi, taglienti appositamente per ricordarci di essere vivi, ne ho lette in quantità mentre i cieli si facevano grigi.


Sento il bisogno di un sogno all’altezza di quel che sono.


Tutte le cose ordinarie con cui mi ritrovo non mi regalano ali adatte al volo.


Ho perso le parole, ho il petto che si contorce. Ho un sacco di cose che non vale più la pena di tenere.


Come quei pensieri tristi che mi fanno passare la voglia di mangiare. Come quei sorrisi persi diventati labbra screpolate, disidratate perché ho perso anche la voglia di bere.


A volte ho come l’impressione di svanire dentro ad un piatto fondo.



Maggio è il mese in cui è nata la luna, o perlomeno da piccolo mi veniva raccontata una favola così. Ora sono cresciuto, ma grazie a quel racconto ancora oggi mi è possibile fantasticare guardandola. Quando arriva maggio fingo di parlarle, le chiedo quale sia il regalo che vorrebbe per il suo compleanno, se le va tutto bene e se può aver cura delle mie notti insonni e piene di solitudine. Le dico spesso che seppur sia così lontana resta sempre, ogni notte, a me la cosa più vicina. Non ho la certezza che mi senta, ma la vedo splendere e fingo che lo faccia per me. Maggio dovrebbe essere il mese dei grandi slanci e dei desideri. Con i cieli puliti mi fa mancare il fiato la distanza che noto tra i pianeti. Provo ad avvicinarmi alle cose lontane stando semplicemente in punta di piedi.



Non sto bene, né a casa, né con la mia mente che mi fa brutti scherzi. Mi specchio in specchi depressi, pieni di crepe e pezzi mancanti. Finalmente posso guardarmi attraverso vetri rotti che rispecchiano la mia anima e non mi fanno sentire in soggezione, diverso da me stesso.


Non mi ci riconosco se rifletto attraverso cose intere, pulite ed incorniciate. Non sono io in quelle immagini. Mi sento più capito se mi guardo attraverso una pozzanghera tra due strade, attraverso un bicchiere che mi deforma, un finestrino sporco o nell’iride di qualcuno capace di guardarmi così da vicino da farmici riconoscere.


Mi sento rotto, disorientato, solo, stanco, un po’ morto. Mi sento in un modo che non vale la pena sentire. Vorrei solo ricordarmi come si fa a vivere con quei sorrisi che non trovo più. Ma dove li avrò messi?


Forse li ho ancora indosso, ma con tutti questi sbalzi d’umore e temperatura si saranno rovinati. Le condizioni atmosferiche vogliono dire tanto, a volte mi sento sole altre nuvole di pianto. Questi cambi repentini non fanno bene.


Se avessero ragione coloro che gettano la spugna subito? Che “o la va o la spacca” al primo tentativo? Se avessero ragione quelli che vivono da soli con i gatti? Se avesse ragione colui che vive da solo come un cane? Se avessero ragione quelli che si sono rassegnati allo sconforto e non credono più nell’amore?


E se avessero ragione quelli che dopo grandi cadute non si fidano più di nessuno? Se avessero ragione tutti quelli che non vogliono più piangere? Se avessero ragione le persone che preferiscono amarsi piuttosto che amare? Se fosse così? Che hanno ragione loro? Beh, allora io avrei torto, sì. Se hanno ragione loro, io ho torto. Ma credo che loro, sotto sotto, vorrebbero una dose di quel coraggio di cui dispongo. Perché so fare poco nella vita, quasi niente, ma per l’amore mi metto in gioco e rischio tutto, sempre.


Perdonami mente se ti uso solamente per ricordare testi di canzoni che mi ricordano occhi distanti.


Ma purtroppo vivo di ricordi che mi creano ingorghi.


Oggi c’è un cielo super azzurro, un mare super blu, i campi super verdi, le nuvole super bianche, l’orizzonte super nitido.


E questo fantastico giorno che sa di estate, coincide con il mio essere super triste. Perché quando il cielo è così limpido non desidererei altro che starci sotto con te.


Ho capito che le possibilità nella vita sono più che infinite, ma solo una piccola parte ci rispecchia e di quella piccola parte solo una è quella che sceglieremo.


E sarà così sempre. Prenderemo costantemente una scelta, una alla volta e in questo modo delineeremo una strada, un percorso. È la vita.


Ma ogni tanto sento che la strada comincia a diventare sterrata e fangosa. Allora mi fermo, forse è ora di fare una scelta che porti l’asfalto su questa lecca.


Mi siedo e rifletto sul come la mia strada sia potuta diventare fango. Cosa mi manca? Cosa c’ho? Cosa devo fare? Cosa non ho fatto?


Fin dove posso andare con le mie scarpe prima che la suola diventi suolo? Mentre proseguo medito sul fatto che la mia vita sia un grande assolo, ed io, molto tristemente, non so suonare alcuno strumento. Sono totalmente impreparato.


Se devo essere sincero, a me degli assoli non frega un granché e se la vita è davvero questo, credo che io qui serva a ben poco.


Giugno è il mese del mare, dell’esame che non esisteva prima che nascesse Venditti. Ma soprattutto è il periodo in cui nacque il sole, o perlomeno mi veniva raccontato così in un’altra favola da bambino. Tornano in silenzio i trenta gradi, le lucciole e riaprono i locali, i concerti si fanno all’aperto e per la strada cambiano i sensi unici. Ed io mi perdo nelle svolte improvvise a cui non ero abituato. Fa male vederti sul marciapiede di un’altra via e non poterti raggiungere, perché poi sarei contromano. Giugno è il mese in cui ti baciai per l’ultima volta, poi niente, ci fu una svolta. Girasti a sinistra mentre io proseguii dritto, sarei tornato indietro volentieri per raggiungerti, ma non potei farlo, sempre per quella storia che poi sarei stato contromano.



A volte, pensando alla morte, mi si è chiuso lo stomaco. Immaginandomi un enorme e infinito nero, un’assenza di coscienza, un interruttore che si spegne, fine, niente. Questo fa veramente paura, o perlomeno a me, ma non per questo voglio convincere il mio cervello a credere che esista un’altra possibilità. Con tanta paura e tristezza penso che abbiamo una sola volta per poter far qualcosa. E la stiamo vivendo ora.



È giugno, ed è strano a dirsi, ma a me manca l’inverno. Fa troppo caldo ora per il freddo che porto dentro. Il mio sudare, oggi, è in realtà il frutto della mia pelle che si buca dall’interno a causa dei prepotenti temporali che mi crea il cuore.


Mi manca l’inverno, non l’avevo mai detta questa frase. Mi sento così triste, così perso che vorrei fermare il tempo, ma non per tutti, solo un po’ per me.


Ognuno è, oltre che se stesso, ciò che gli capita. Ed io sono una porta chiusa proprio quando avrei voluto cambiare aria.



La musica è alta, mi fa male la testa. Attorno c’è gente che salta, sembra proprio una festa.


Mi chiedo come mai solo io non mi diverto. Ci penso spesso, sai, al perché mi senta così diverso.


Le foglie mi cadono in testa, la pioggia nei miei occhi fa festa, le stagioni che passano e mai niente che resta.



Luglio è il caldo da morire, le feste sulle spiagge con le notti che sembrano infinite, i rigori di un mondiale e le storie passeggere che una volta finite non fanno male. Percorro una strada di lampioni conoscendo la tua paura per il buio, sapendo dunque che è l’unica via in cui posso ritrovarti, spero di intravederti prender fiato sotto una luce a led. Infondo entrambi abbiamo paura del buio, tu quello in cui non vedi, io quello in cui non vedo te.



Su di un filo di voce scorrono parole in equilibrio precario, le pronuncio piano per far vibrare il meno possibile le mie corde vocali ed evitare che le parole appese caschino a terra e si rompano, perdendo la loro importanza che hanno solo se pronunciate intere. Le parole sono fragili e instabili, spesso trovo sotto i miei piedi parole bellissime che pronunciai anche non tanto tempo fa e fanno lo stesso rumore dei vetri che si rompono. Mi si sono frantumati tutti i “ti amo” ed ora tagliano se anche solo provo a raccoglierli, così li lascio lì e penso: “Che tristezza l’aver distrutto parole così belle”.


Le parole più importanti forse non vanno mai dette e tenute dentro, magari solo esposte negli occhi che faranno poi loro da vetrina. Parlare significa mettere al mondo parole che come un treno sui binari partono ed ogni orecchio è una possibile stazione. E così siamo tutti legati a quel filo di voce dove vengono trasportate, appese, fatte cadere milioni di milioni di parole. Sì, perché alcune rimangono appese, abbiamo poche mollette a disposizione, ma saranno esattamente quelle che bastano per poter trattenere un discorso per sempre.


Ora non posso più camminare scalzo, mi si taglierebbero tutti i piedi e convivo con il rumore di vetri calpestati.


A volte entro in stanze in cui fatico a respirare per via dell’ammasso di parole accatastate che mi arrivano fino al naso. Insomma, tutto questo per dire che le parole vanno salvate, quelle che vorresti urlare andrebbero dette in silenzio ed ogni “ti amo” dovrebbe essere un segreto detto all’orecchio, in modo che anche se cadesse, rotolerebbe non a terra, ma appunto, dentro al suo orecchio.


Se ti han detto che mi han visto ridere, non ero io. Se sembravo a mio agio in mezzo ai miei amici, non ero io. Se avevo sempre la risposta pronta al “come stai?” Quello sì, potevo essere io, ma se rispondevo “bene”, allora no, non ero io.


Se ogni tanto sembravo assente, credo che ero io. Ma se mentre fissavo il vuoto mi scappava un sorriso, beh, non ero io. Se invece abbassavo la testa e la scuotevo piano per non farmi vedere, in quel caso ero io sicuramente.


Se ti han detto che sto riprendendo in mano la mia vita, ti hanno origliato una cazzata. Forse perché dirti la verità ormai non ha più senso e una bugia che non ti faccia preoccupare è molto più utile ora.


Però che peccato, io mi sto spegnendo e qualcuno scrollando le spalle parlando di me dice che sto bene. Ma la cosa più dolorosa è che sai che è una bugia, ma scrolli le spalle pure tu.


Sono passato dall’acqua alla gola alle onde nelle pupille.



Agosto, ogni tramonto è una malinconia. I giorni si accorciano e la gente comincia ad andare via, presenze volanti attorno a me. Vorrei trattenere qualcosa, qualcuno, ma non ci riesco. Ogni cosa che stringo mi scivola come sabbia, quando sono triste e disperato fingo di averti ancora qui mettendo la tua maglia. Agosto è bello quanto spietato, il mare è calmo perché al vento che lo sposta gli manca il fiato. Tutti stanno male quando vedono che qualcosa di bello sta per finire, anche il mare, il vento e il sole sono come me, tristi di lasciare andare via.



Oggi non pranzo che non ho fame. È meglio che non ceno, mi viene da vomitare. Fuori piove, tutti corrono al riparo. Io rimango sulle scale, tanto mica è grandine, non mi può fare male.


Vorrei scappare anche io e confondermi tra la gente asciutta, ma sarei fuori luogo, già lo so. Mi cadono gocce, nel mio viso piove già da un po’.


Non sono mai stato bravo con gli addii. Esser lasciato solo dopo esser stato conosciuto è la più grande sconfitta.


Ma cosa significa il non aver gli stessi destini?


Qual’è il confine tra speranza e illusione? Qual’è il torto peggiore che ti fa rinunciare ad amare? Boh, ho ventiquattro anni e mi pare di non sapere ancora niente.


Quando mi chiederanno cos’ho fatto nella mia vita, risponderò che ho continuato a respirare anche quando avrei voluto smettere.


Ho imparato a riconoscere le persone che si travestono da sole e poi tramontano. È un travestimento sottile, sta negli occhi dopo un “come stai?” Come stai?

Bene...


Le persone da sole tramontano.


Ho sempre avuto la paura di sentirmi fuori posto. Di centrare poco a tavola nei ristoranti, nelle discoteche con le musiche commerciali e affianco a tutte quelle persone che prima del loro nome sono il lavoro che fanno.


Sentirsi fuori posto anche quando ti è stata tenuta libera la sedia proprio per te. E ti ci siedi, ti metti lì e vedi che non sei comodo, allora ti alzi, metti la gamba sotto il culo per sentirti meglio. In realtà ti stai scomodando, ma è quello il punto, scomodandoti ti senti a posto. Come se non meritassi di stare lì come ci stanno tutti.


Sentirsi fuori posto. La cosa si aggrava quando si girano le parole, posto fuori. Aia! Ogni volta che mi siedo sui gradini delle piazze a bere Spritz d’asporto mentre tutti sono ai tavolini, mi sento come quando da piccolo venivo posto fuori dalla maestra. Perché una presenza come la mia, in mezzo agli altri non ci meritava di stare.


E poi ho finito per crederci che il mio posto è fuori, che in mezzo alla gente mi debba sentire in difetto, a scuola mi hanno insegnato così. Ricordo perfettamente la tabellina del nove, del cinque e del sette e poi niente, un grande vuoto che poi è diventato il posto in cui ho deciso di stare. Però stasera che ho pensato a queste cose mi viene da dire una cosa, che stare sui gradini delle piazze mi fa stare bene, e sai, credo che fuori posto sia un posto bellissimo in cui magari a volte si è un po’ scomodi, però cazzo, che tristezza che mi fanno ora quelli che non cercano altro che comodità.


Settembre è un mese faticoso, pieno di pace e cieli limpidi, ma faticosissimi. Ogni anno provo a nascondere nelle tasche un raggio di sole che vorrei portarmi dentro negli autunni e negli inverni, ma ho constatato che è impossibile. La forza del sole ad un certo punto si scarica, ecco perché non è sempre estate, ecco perché non può vivere nelle mie tasche. Settembre è il mese in cui danzare, tra l’essere sole e l’essere temporale per rassegnarsi al fatto che star bene poi fa star male.



L’essere diversi è l’unico modo per arrivare a mete sconosciute, per entrare a contatto con ciò che non ci riguarda e scoprire che siamo molto di più di ciò che ci etichettiamo. Essere diversi è un gioco e se leggi le sue istruzioni prima di iniziare c’è scritto in grande non di “fare attenzione”, ma di “stare attenti”, attenti a seguire quel processo di intreccio che si sviluppa tra due persone. Perché se si sta attenti si noterà che le diversità dopo un po’ combaciano con tutto ciò che per te è naturale, normale. L’essere diversi a volte è un casino troppo grande, una lotta senza vincitori, altre volte, invece, è come mettere l’acqua in un qualsiasi recipiente. L’acqua non può essere circoscritta da altra acqua, ha bisogno di materiali diversi che la contengano, come la plastica, il vetro, qualsiasi cosa. Un materiale diverso dall’acqua che la contiene, due cose diverse che vivono in un’armonia pazzesca. Certe persone riescono a vivere le diversità come se fossero acqua che si adatta ad un qualsiasi recipiente, una qualsiasi forma; ed è questo l’unico modo in cui essere diversi diventa magico. Perché se si vive con la mentalità dell’acqua, si riesce poi ad essere perfettamente perfetto, giusto, calzante a pennello, capace di diventare affine all’essere simili.


L’essere diversi è un marmo da scolpire per poi scoprire che sotto si è fatta la stessa scultura. Con due massi di marmo completamente diversi uno scultore può tirare fuori due sculture uguali, il punto è che sta tutto dentro, non fuori. E poi il tempo è importante, è lui il segreto, l’acqua per adattarsi al recipiente prima ondeggia un po’ e poi si adagia, lo scultore prima di passare alle rifiniture deve fare un lavoro gigante e per queste cose ci vuole tempo. Avere fretta qui non è una dote, ti fa solo perdere il valore che hanno le cose.


Se riuscissi a vivere il mio presente con la stessa intensità con cui sento la nostalgia del passato avrei una vita incredibile.



24 anni, sto attraversando un numero che mi infastidisce anche tenerlo come volume della televisione. Ho l’abitudine di tenere i multipli di cinque e a pensarci, ho davanti a me forse l’anno giusto in cui potrò sentirmi bene.


Poi però ci penso un po’ su e rifletto sul fatto che la tv con il volume a 25 rimbomba troppo, allora mi giro, mi guardo indietro e rivedo quel fantastico 20. A 20 il volume della tv è perfetto e a pensarci bene, anche della vita. Potessi giostrare il mio tempo con un telecomando tornerei a vent’anni, quasi cinque anni fa. Ma forse è ora di alzare un po’ il volume al posto di cercare inutilmente di abbassarlo? Ormai faccio prima ad arrivare a 25, basta un solo e leggero “click”. 25, multiplo di 5, potrebbe essere un buon numero, un buon anno. Devo solo, forse, accettare il fatto di alzare un po’ il volume. Ecco, io sono questo, un ragazzo che convive con l’angoscia del presente e la voglia di andare avanti che deve affrontantare la tristezza di lasciare il passato.


Come farò ad essere sereno se ogni felicità che accumulo un giorno poi mi verrà a mancare? Sarò sempre più turbato e appesantito da questo ammasso di tempo che mi costringerà a ricordare piuttosto che fare.


È impossibile stare tranquilli, è assurdo per me in questo momento pensare che potrei mai essere sereno. Insomma, l’unica cosa che possiamo fare con il presente è prenderlo e buttarlo velocemente in delle scatole e come si può esser sereni? Boh, non lo so. Ormai anche la felicità mi fa paura perché so già che appena la tocco poi dovrò velocemente chiuderla in una scatola e vivrò gran parte del futuro prossimo a ricordarla, senza averla più tra le mani.


I treni sono sempre in ritardo perché i controllori fanno fatica a separare l’abbraccio tra chi resta e chi va. Il tempo di un bacio non si nega mai, anche se è sempre più tardi e sei abituato ai binari.


Aspetto un treno che non arriva da mezz’ora, sospiro mentre le tengo la mano stretta. Il mio viaggio è già iniziato e un po’ mi manca il fiato, sono pieno di valigie e vorrei buttare via i vestiti per incastrarci poi persone da portare con me, da portare altrove.


Una delle cose peggiori che ti può capitare quando sei triste è dialogare con qualcuno che minimizza il tuo stato d’animo. Con il tempo poi capisci che non puoi parlare con chiunque di come stai, di cosa pensi, di chi sei. C’è chi non ti capisce, chi non ha voglia di ascoltarti, chi è completamente disinteressato e chi non merita le tue porte aperte. Così finisci per confidarti sempre meno e di sfogarti sempre con le solite due o tre persone, se sei fortunato. È difficile ascoltare gli altri, lo capisco, soprattutto se provano un dolore che tu non puoi capire, ma non c’è cosa peggiore dei classici “passerà, vedrai” “sta tranquillo” “non ti preoccupare”.


Mi ricordo di una volta che stavo proprio male e dopo essermi confidato con una persona, mi rispose: “Stare male non serve a niente, svegliati!”. Rimasi un po’ scioccato, contando poi che stavo male proprio per colpa sua. Avrei dovuto mandarla a fanculo e invece rimasi in silenzio. E comunque è così, se è essenziale la felicità lo è anche la tristezza, se è inutile la tristezza lo è anche la felicità. Siamo in un mondo bilanciato dai contrari, non possiamo fingere di vivere in un mondo a metà.


Ottobre, mi nascondo sotto il cappuccio per ripararmi dalle foglie che mi cadono addosso e dagli sguardi della gente che non voglio addosso. Metto le cuffie e vago per strade umide come la mia faccia nei pressi degli occhi. Mani in tasca, un po’ per il freddo serale e un po’ per non vederle tremare di paura. Mi manchi come il bel tempo, come il cappotto in questa sera gelida.



Sto respirando, me ne rendo conto soprattutto quando fatico a farlo. Non lo ringrazio abbastanza quando lo fa senza farsi notare come se fosse un atto involontario.


L’aria che entra, l’aria che esce senza alcun dramma. Leggera come quando si han le finestre aperte in casa. Se è così che dev’essere, allora un “grazie” a che serve?


E invece poi capisci che non è scontato quando poi a volte ti manca il fiato. Ti sale l’ansia e non riesci a darle un nome, non riesci a toglierla dalla mente fino a quando poi l’aria diventa pesante.


Non c’è ricircolo nel mio cervello, che è chiuso come la gabbia di un criceto che corre in senso antiorario nella sua ruota, illudendosi di poter tornare indietro e ripercorrere i suoi passi. Passi che non ha mai fatto, non è mai andato avanti.


Nella mia testa c’è un criceto che corre all’indietro rimanendo fermo allo stesso punto. Spreca un sacco di energie, ma come dargli torto se davanti gli sembra che sia rimasto poco.


Sto respirando e un po’ mi tremano le mani. Ti prego, basta. Criceto che vivi nella mia scatola, impariamo a guardare avanti, proviamo a metterci d’impegno, proviamo a stare meglio. Da soli è dura darsi una mano, quindi aiutami ed io farò altrettanto. Possiamo farcela te lo giuro, tu potrai andare avanti a passo lento ed io vivere tranquillamente respirando, in silenzio.


Mi tocco sempre il petto quando sono di fronte ad un addio, come se dicessi al mio cuore: “Ti prego, resta dentro, non andartene almeno tu”.



Quel sentimento che lega le persone è di una banalità incredibile. Non lega due persone con lo stesso filo ed un unico nodo, ma le lega ognuna con un proprio filo e ognuna con il proprio nodo.


È una fregatura, almeno per me che conosco, penso, solo due tipi di nodi. E a quanto pare sono i meno resistenti che l’uomo abbia mai inventato.


Così mentre io mi faccio legare raccomandandomi che resista ai movimenti e ai cambiamenti che si fanno negli anni, io lego a mia volta in maniera blanda.


Senza nemmeno un graffio, se ne vanno via tutti senza problemi.


Sono rimasto impigliato troppe volte. Forse è meglio che smetta di pretendere nodi da scout esperti.


Che fortuna che hanno quelli che si slegano prima dell’altro, che fortuna che hai avuto che ti ho legata come lego le mie scarpe sempre slacciate.


L’amore è un gioco da ragazzi, certo, come se i giochi da ragazzi fossero facili. Ad esempio, nell’allegro chirurgo dove, come nell’amore, bisogna prendere il cuore dell’altro con le pinze, per voi era semplice? Io lo ribaltavo ovunque, io perdevo e lui moriva. Ed ora accade il contrario, il mio cuore viene ribaltato ovunque, tu hai perso ed io sono morto. Nonostante ciò, mi sento fortunato, sentirsi morti è una sensazione più leggera dell’aver ucciso.



Novembre mi fa piangere. È troppo freddo e mi pare una grande cattiveria mischiare gelo e solitudine. Passo notti in camera a guardare film casuali per non stare a pensare, mentre fastidiosamente piove sulle finestre. Ma non c’è scampo, non pensare è impossibile ed anche sotto le coperte più spesse mi trovo a tremare. Tremo per la temperatura sotto zero che ho nel cuore, ho l’autunno dentro e chissà se a te interessa qualcosa che passi il tempo a ridere nonostante sia tutta colpa tua.



Mi sento come una scatoletta di tonno finita. Come un cane randagio che per colmare la solitudine piscia ovunque e poi ripassa dopo ore ad annusare fingendo che altri cani siano passati di lì.


Mi sento come un gatto sopra un tetto che guarda un po’ il cielo come scusa, ma in realtà sta lassù in alto perché spera di intravedere altri gatti che si amano, o rovistano insieme nella spazzatura. Dall’alto ci sono prospettive migliori, dicono, ed è vero. Anche la vita degli altri sembra di gran lunga migliore se vista da lontano e un po’ dall’alto.


Dormo sempre a pancia sotto e stasera mi rimbomba il cuore contro il vuoto del letto che lo amplifica. Mi fa paura sentirlo battere, mi fa sentire un ingranaggio a pile, mi fa venire un’ansia incredibile il sapermi vivo non per caso ma per coincidenze che vanno tutte bene. Ho il sangue che scorre, i polmoni che trasformano l’ossigeno, il fegato che trasforma il cibo, lo stomaco che inghiotte e così via. Mi va tutto bene e sembra che io viva senza queste cose. Quando niente ti crea problemi è come se niente tu avessi.


Però, sentire il cuore di notte mi fa paura, perché è tutto lì. Un piccolo motore che si tiene in pugno tutta la mia vita. E lo sento, tutta la mia vita è lì e stanotte fa un casino della madonna.


Ti prego, lasciami credere che l’unica cosa con cui dovrò fare i conti sarà il tempo. Ti prego, tienimi vivo ma fallo in silenzio, altrimenti mi sento male, sentirti lavorare così forte mi fa venire in mente che poi un giorno ti dovrai fermare.



Sto sopravvivendo senza i messaggi della buonanotte e quelli del buongiorno, senza cuori rossi che battono tra un discorso e l’altro, senza mani da strofinare e tenere con cura, senza la forza di sentirmi importante per qualcuno che mi sproni a restare vivo anche domani perché poi l’assenza sarebbe dura. Sto sopravvivendo senza sguardi segreti che si raccontano un po’ cos’è l’amore, senza dei capelli da accarezzare, senza costruire sentimenti di nascosto sotto la luna per poi sorriderli alla luce del sole. Sto sopravvivendo, cioè, ho capito che non si muore senza queste cose ma sopravvivere non ha molto a che fare con il vivere, ok, sopravvivo, uau, che gioia!


Non voglio trovare equilibri che mi concedono la sopravvivenza, piuttosto cerco altalene che mi facciano venire il vomito, un calcio nelle palle dato da una ragazza bella da matti ma cogliona, che poi è così, una cogliona non può darti niente più che un calcio nelle palle, però ecco, va bene. Sopravvivere fa schifo, l’ho scoperto ora analizzando il fatto che sono sereno anche senza sentirmi importante, innamorato. Ma io lo so che posso meritare di vivere alla grande, quindi forza, sono sempre a gambe aperte pronto ai più forti calci, ad occhi chiusi per aspettare schiaffi, basta che ad un certo punto qualcuno si prenda cura di me.


Ora che ho un po’ di coraggio per guardarmi dentro senza la paura di soffrire, posso notare quanto sia stato bello il non aver risposto male, neanche quando certe persone meritavano di sentirsi stracci sporchi. L’aver lasciato un ricordo di pace anche in quei momenti in cui avrei potuto gridare insulti in faccia.


Che cosa bella riuscire a non odiare, che cosa utile il non lasciare spazio a queste banalità, che fortuna il credere nell’amore anche quando viene tradito.


Non posso odiarti, perché ti ho amato, capisci? Per me l’amore non muta, sfuma, ma non muta. Ed è per questo che non posso odiarti se mi lasci solo. Sto male, sì, non condivido le tue scelte, certo, ma se mi hai fatto toccare la felicità in passato, io quei momenti non li contaminerò con l’odio.


Io con l’amore non scherzo. Tu invece un po’ sì, ma fa niente. Grazie per avermi fatto sentire vivo, anche se poi mi hai fatto quasi morire, ma non importa. Certo, riconosco che sei stata una grande stronza e poi una grande stupida. Riconosco la “non cura” e la mancanza di rispetto. Ma cosa ci devo fare? Io queste cose non le so valorizzare, le assorbo, le piango e poi continuo ad amare.


Bastasse un addio per scordarsi di esser stati vivi. Bastasse l’esser lontani per dimenticare come si respirava bene la vita, appiccicati nello stesso letto. Bastasse dire “basta!” per non sentire il suono di quella voce che chiedeva “ancora!”. Bastasse lasciare perdere, al posto di continuare a cercare di vincere.


Bastasse riempirsi di altre cose per non sentirsi svuotati da una cosa sola. Bastasse fingere di sorridere per non piangere. Bastasse stare senza di te, sarebbe tutto molto più semplice, ma dopo l’averti conosciuta non basta più niente. Quanto darei per bastarti, quanto darei per te.


Ma va bene così, che altro posso dire? Posso prometterti di aspettarti in qualsiasi domani in cui metterò piede. Posso prometterti che sognerò la tua felicità, anche quando dormirò solo, mentre tu lo farai tra le braccia di qualcuno meno delicato di me. Posso prometterti che se un giorno ti renderai conto di aver fatto una cazzata, io ti abbraccerò poi per sempre. Posso prometterti che per te, il mio tempo, sarà costantemente fermo all’ultimo bacio.


Posso dirti solo che sarà dura prometterti il mio silenzio. Prometterti di non cercarti sulle panchine dei parchi, sulla riva del mare, all’obliteratrice in stazione, nelle moto nere, nei giubbotti rossi, nelle felpe arancioni, nei capelli biondi, nei palmi delle mie mani, nei muri di casa mia, nelle parole di ormai tante canzoni. Tutte queste cose non posso promettertele e so che non cambierà nulla, perché tu non saprai tutto questo. Ma magari capiterà che sarai soprappensiero e casualmente ti chiederai cosa faccio. Ecco, continuerò a fare tutte le cose che non posso prometterti.


Stammi bene, non accartocciarti e non farti buttare via, anche se un po’ lo spero se in tal caso poi sentiresti il bisogno di me. Da ora in poi il tempo per me si ferma, non so quanto dovrò aspettare, non so cosa potrà accadere, ma vivrò sempre per vederti tornare.


In qualsiasi momento, in qualsiasi ora, in qualsiasi giorno, in qualsiasi tempo io sarò qui ad aspettarti. Ti prego, torna presto, non portare via il mio raggio di sole.


Dicembre, luci appese in ogni dove, sapore di natale e di delusione. A me sembrano tutti profondamente tristi e soli, in quei negozi a far regali poco profondi. Se tu fossi qui con me, ti regalerei una lettera scritta a mano, un giocattolo che da bambina non ti hanno mai donato e poi un semplice bacio che abbia il sapore di ciò che tende all’infinito. Dicembre è un casino, è la fine dell’ennesimo inizio. Che tristezza festeggiare una fine con i fuochi d’artificio.



Ho provato ad adeguarmi alla normalità, ho abituato le orecchie a discorsi fragili di contenuti, ho chiesto scusa alle mie labbra per averle appoggiate sulla vita di persone che non facevano per me, ho stressato le corde vocali per farle vibrare di stronzate, anche quando ero cosciente della spiritualità del silenzio. Mi sono inserito spesso in tavolate di persone che mangiavano di gusto, mentre io lo facevo solo per avere la scusa di rimanere zitto. Mi sono circoscritto in un luogo solo e mi sento a casa guardando la solita alba, il solito tramonto, il solito mare, ed ho sbagliato perché ora ho un posto in cui mi sento protetto e il mondo adesso mi fa paura, perché tutto il resto che è fuori dal mio cerchio non è più “solito” ma è il diverso e il diverso non è facile da affrontare. Voglio disimparare a circoscrivermi, voglio avere paura di un luogo in cui non so metterci piede, voglio conoscere tutti i più tramonti possibili, voglio arrivare a nuove albe incredibili e sentirmi a casa ovunque.


In amore ho spesso giocato partite in cui non ero convocato e quando l’ho fatto era perché sentivo che era la cosa giusta, vedevo chi c’era al posto mio e notavo una grande ingiustizia, io avrei giocato una migliore partita anche scalzo e loro con le migliori scarpe, a volte non si capisce cosa frulli nella testa di certi allenatori. Sono molto orgoglioso della mia ipersensibilità e piangere lo trovo un gesto estremamente dignitoso, alla fine il pianto è solo un sorriso più profondo, ridi perché sei felice e piangi perché ricordi di esserlo stato. Sono attratto dalle gambe che tremano, dalle mani insicure, dagli occhi che si abbassano, e dalle labbra che accennano smorfie che sanno di ricordi da raccontare. Mi attrae il silenzio di chi non racconta tutto a tutti, il silenzio di chi sa raccontarsi a pochi. Amo il sole ma vivo meglio di notte, contemplo i sentimenti chiari, pretendo la chiarezza di saper ammettere le oscurità, di dirle, affrontarle e non nasconderle perché l’unico modo per vincere il buio è essendo chiari.


Ho paura dell’infinito ma solo perché non posso stringergli la mano e non posso presentarmici per farmi accompagnare, ho paura del tempo perché ne ho estremamente bisogno eppure si lascia sprecare senza rimproverarmi. Ho paura della mia barba e dei peli che ho dal petto alla pancia, se mi guardo allo specchio mi vedo molto diverso da come mi porto dentro. Se chiudo gli occhi ho i capelli a caschetto, sono alto un metro e trentotto ed ho la stessa tonalità di voce di un colore, le mie corde vocali sono complementari al giallo. Poi riapro gli occhi e ringrazio per ricordarmi chi sono stato: un bambino molto più saggio di questo adulto, con il privilegio di poter salire in braccio alla mamma quando gli arti si sbucciavano e il dolore era riassunto in un “aia!”.



Oggi è un giorno triste? Vieni, non ti preoccupare, ti accompagno al tramonto.


E quindi uscimmo a riveder le stelle.


Arrivederci


Addio



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