il grande noce racconta: sette storie per sette sere

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Testo di Maria Beatrice Masella Illustrazioni di Silvia Balzaretti

Il grande noce racconta: sette storie per sette sere


Indice

1. Il GRANDE NOCE 2. IL GOMITOLO PIENO DI STORIE 3. Il ragazzo che parlava con le nuvole 4. La storia di Diamantina 5. La storia di Lorenzo 6. La guerra 7. Nel tempo che non c’è

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storie e ristorie i luoghi

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Pag. 8 Pag. 11 Pag. 18 Pag. 28 Pag. 35 Pag. 47

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Il grande noce racconta: sette storie per sette sere

Testo di Maria Beatrice Masella Illustrazioni di Silvia Balzaretti


1 Il grande noce In fondo alla strada che porta verso la collina c’è un noce. Anzi, sarebbe meglio dire un signor noce, perché ha un tronco così grande che per abbracciarlo ci vogliono almeno tre bambini in girotondo, e una fronda folta e ampia come una chioma di capelli ricci. Proprio sotto il noce c’è una fonte che scorre con un filo sottilissimo d’acqua. Se vuoi bere devi acchiapparla con la lingua, ma quando alla fine l’hai acchiappata senti in gola il solletico degli animaletti del bosco insieme al profumo dei monti. Il paese se ne sta più in basso e volta le spalle al noce perché da diversi anni gli abitanti preferiscono guardare verso la pianura. Si sa, in pianura è più facile vivere: si coltiva meglio l’orto, si pedala facilmente in bicicletta, ci sono tanti negozi, si può prendere la corriera per raggiungere la città… Così il nostro signor noce ultimamente non sa con chi parlare e soffre di malinconia. Ogni tanto tira su con il naso e gli cade una foglia dalla chioma. Cinquant’anni fa, ma anche cento anni fa, perché il signor noce ne ha quasi duecento anche se non si direbbe, considerando il suo portamento eretto e maestoso, insomma tanti anni fa sul fare del tramonto, d’estate, intorno a lui e sotto la sua ombra si raccoglievano i paesani a raccontar storie e a prendere il fresco. Le donne si andavano a sedere sulla panca fatta con tre assi di legno inchiodate fra loro e mentre parlavano sferruzzavano o lavoravano all’uncinetto, gli uomini si tenevano fra le mani il berretto e scherzavano sugli avvenimenti della giornata, i bambini giocavano lì intorno con una palla fatta di stracci o con una corda da saltare. L’unica che non aveva mai smesso di raccontare e sferruzzare era la Gigina, come se per lei gli anni si fossero fermati. Il noce intanto ascoltava, ascoltava e conservava tutte le storie nelle sue radici, rendendole forti e robuste. Quando tutte le radici si erano riempite di parole, quelle risalivano nel tronco e poi ancora su verso i rami e poi ancora su nelle foglie fino a quando se ne volavano via nel vento. È così che il noce si mise a raccontar storie pure lui: non poteva farne a meno, le parole spingevano, spingevano attraverso il suo corpo nodoso fino a quando non si liberavano e le storie viaggiavano veloci di bocca in bocca. Non ditemi che non sapete che lingua parla un noce! Ma la lingua della natura, è ovvio. Conversava ad esempio con lo scoiattolo Luigi, con la cinciallegra Rosina, con la lucertola Marta, con l’asino Ciccio, con la 4


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capretta Nerina, ma anche con il bruco Pino, con l’ape Valeria e con le formiche tutte quante. Si capivano alla perfezione, beh… quasi alla perfezione, perché dovete sapere che il signor noce era diventato con gli anni un po’ sordo, insomma qualche acciacco dell’età ce l’aveva anche lui. «Oggi vi racconterò la storia di Azzurrina, la bambina dai capelli bianchi e tinti di azzurro scomparsa nelle segrete del castello…» iniziava il noce. «No, no, io vorrei sentire quella del folletto del bosco e dei dispetti», replicava Ciccio, che in quanto a testardaggine non era secondo a nessuno. «I cassetti? Cosa hai messo nei cassetti?», domandava il noce. «Ma quali cassetti! Piuttosto raccontaci la storia della principessa Stelladoro!» cinguettava Rosina. «La storia del pomodoro?», ribatteva il noce… Alla fine comunque riuscivano sempre a mettersi d’accordo e il noce raccontava una storia quale che fosse ai suoi amici animali riuscendo a renderli felici. Invece era sempre più raro che riuscisse a farsi ascoltare dagli esseri umani perché questi, per capirlo, dovevano avere due caratteristiche: bere alla fonte per la prima volta e riuscire a meravigliarsi ancora di qualcosa. Solo in quel caso le parole del noce scorrevano nelle loro orecchie come l’acqua fresca nella loro gola e magicamente prendevano la forma della lingua di chi ascoltava. Ma di forestieri in quel piccolo borgo di collina se ne vedevano davvero di rado, e quando, qualche domenica, si avvicinava qualcuno a bordo di un’automobile strombazzante e puzzolente, non era di certo per ascoltare storie o per stupirsi. Di solito si fermava in prossimità dell’incrocio poco distante, una persona scendeva dall’auto e veniva con una bottiglia di plastica a riempirla alla fonte, aspettava che l’acqua arrivasse fino al collo facendo gluglu e poi correva di nuovo a bordo. Neppure si guardava intorno o si accorgeva della bellezza del noce o gli veniva la curiosità di bere a canna un sorso di quell’acqua cristallina e profumata! Questo stava pensando il signor noce quel giorno d’estate quando sentì stridere i freni della corriera così forte che tutte le foglie gli si rizzarono sulla chioma. Era l’ultima corriera della sera e forse Antonio, il giovane autista, non vedeva l’ora di smontare e andare a far la corte alla sua bella, nonostante il sole non fosse ancora tramontato dietro i monti. La porta si aprì con un botto e scesero traballanti una decina di passeggeri, fra cui una famiglia variopinta con grandi valigie e quattro bimbi di differenti età, di cui due in braccio ai genitori e due sgambettanti sui loro piedini veloci. Mentre gli altri passeggeri si scambiarono rapidi saluti dirigendosi in direzioni differenti verso le case del paese, la famigliola si avviò lentamente 6


per la strada verso la collina, padre in testa. Il noce li guardò sfilare uno dopo l’altro, e si chiese se non andassero a vivere nella casa disabitata in mezzo al castagneto, a poca distanza da lì. Camminavano muti, carichi come somari, con gli occhi bassi, cosicché non dedicarono al noce neppure uno sguardo. Ma quando il figlio che a stento stava dritto sulle sue gambe passò per ultimo accanto alla fonte, fu colpito dal rumore del filo d’acqua e si fermò. La sorellina più grande si accorse che dietro di lei i passi si erano interrotti, si voltò e guardò il fratellino proprio mentre cercava di acchiappare l’acqua con la lingua. «Avanti, sbrigati», disse senza muoversi. «Non dobbiamo perdere di vista mamma e papà». Ma il bambino sembrava non sentirla. Era tutto preso da quel buffo solletico che l’acqua produceva sul suo palato e già gli pareva di udire nelle orecchie una voce che lo stava salutando. Alzò i suoi grandi occhi scuri verso l’alto per scoprire chi avesse parlato ma vide soltanto l’enorme chioma del noce che brillava agli ultimi raggi di sole. Incrociò le braccia sul petto come a volersi tenere ben stretto a qualcosa, perché capì subito che stava per ascoltare l’inizio di una lunga storia, lunga e attorcigliata come un grosso gomitolo di lana.

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2 Il gomitolo pieno di storie Il gomitolo di lana della Gigina era sempre in mezzo ai piedi… cioè… ehm… volevo dire alle radici, che sono poi i miei piedi bitorzoluti e rinsecchiti. Era un gomitolo arruffato di lana grezza dal quale si dipanava un filo lunghissimo, a volte sottile a volte spesso, a seconda della cardatura, ma che andava sempre a finire in babbucce o in cuffiette che la Gigina confezionava con le sue mani svelte. Mentre lei sferruzzava senza sosta con quattro ferri, nel suo grembo nascevano come per miracolo calzini e berretti. Come i funghi nel bosco: un attimo prima non ci sono e un attimo dopo sono già cresciuti di una spanna. All’inizio erano solo una striscia informe di lana che si chiudeva in un cerchio, perché con quattro ferri i vestiti nascevano già uniti insieme e non c’era bisogno di cuciture, ma bastava che ti distraessi un attimo ad ascoltare le storie raccontate dalla Gigina, e subito dopo avevi una babbuccia da calzare o una cuffietta da allacciare sotto il mento. La Gigina, infatti, non sferruzzava soltanto per i suoi dodici nipoti ma anche per tutti i bambini e le bambine del paese. Fino a qualche tempo fa ce n’erano tanti, perché ogni famiglia ne aveva più di quattro e così di piedi e di teste da vestire ne crescevano continuamente. Siccome la Gigina era la più veloce di tutte a usare i ferri da lana, le altre donne avevano preso l’abitudine di rivolgersi a lei e in cambio le regalavano quattro uova, un pugno di lenticchie, un sacchetto di castagne. In questo modo non le mancava il cibo per l’inverno. Ma la Gigina non aveva solo le mani che correvano, aveva anche la lingua che galoppava veloce per intrecciare storie proprio come il filo si intrecciava per confezionare vestiti. Io mi ero convinto che le sue storie fossero nascoste dentro al suo gomitolo, e uscissero fuori insieme al filo. Più filo, più storie. Niente filo, niente storie. Se il filo si rompeva, e bisognava annodarlo ad un altro capo, oppure finiva e si doveva prendere un altro gomitolo, la Gigina interrompeva il racconto, faceva un gran sospiro, e riprendeva a parlare soltanto quando i suoi ferri erano nuovamente in movimento e il filo tornava a scorrere fra le sue dita. Secondo me aspettava che la storia riprendesse a uscire fuori dal gomitolo. La storia che raccontava la Gigina era sempre la stessa eppure ogni giorno 8


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era diversa. Narrava della vita. Cos’è la vita? Non è facile a dirsi. «La vita è una roba che inizia e poi finisce in un attimo», diceva sempre il bruco Pino. «La vita è volare in mezzo al cielo», cinguettava la cinciallegra Rosina. «La vita è fare le capriole sui rami», esclamava lo scoiattolo Luigi. «La vita è poter scalciare e dire di NO! », ragliava l’asino Ciccio. «La vita è stare immobili a prendere il sole…», sussurrava la lucertola Marta. «La vita è brucare l’erbetta appena spuntata», belava la capretta Nerina. «La vita è rincorrere il profumo dei fiori», cantava l’ape Valeria. «La vita è far festa tutte insieme con le briciole», dicevano in coro le formiche. Bisognerebbe ascoltare di più gli animali, perché ognuno di loro dice sempre un pezzetto di verità non sapendo cosa sono le bugie, e a mettere insieme tutti quei pezzetti alla fine raggiungi quasi la verità intera. I bambini credono che gli adulti conoscano il vero segreto della vita, e che lo nascondano in qualche posto lontano. Io, invece, che sono un albero molto vecchio e ho visto tante vite passare, credo che il segreto stia proprio nascosto nei bambini anche se loro non lo sanno, dal momento che riescono ad avere sempre qualcosa da immaginarsi, da scoprire e da desiderare. È un potere magico che man mano si diventa grandi si indebolisce fino a scomparire. A parte alcune persone speciali. E la Gigina era una fra queste, ve lo assicuro, perché con i suoi racconti poteva andare in lungo e in largo fra i campi, scalare le montagne, arrivare fino al mare e toccare persino la luna con un dito, e tutto questo standosene comodamente seduta sotto la mia ombra a sferruzzare. Ad un certo punto vedevi il suo filo allungarsi verso l’alto e salire, salire fino alle stelle, poi girare intorno al sole e tornare veloce fra le mani della Gigina, che nel frattempo aveva ultimato un berretto per l’inverno. Altre volte il filo seguiva il sentiero in mezzo ai campi, ti portava nel casolare sulla collina a conoscere le pecore da cui veniva presa la lana per i gomitoli, sentivi la puzza di formaggio, il ronzio delle api, il coccodè delle galline… «Oh povera me, ho perso un’altra volta il mio gomitolo» esclamava a un tratto la Gigina, e tutti interrompevano i pensieri dietro al filo e si mettevano a cercare quella palla di lana arruffata. Finalmente il gomitolo riappariva… si era nascosto sotto la panchina, o fra i piedi di un bambino, o in mezzo alle foglie, o fra le mie radici, e le storie potevano riprendere. Come quella del ragazzo che abitava fra i monti e sembrava facesse il pecoraio ma in realtà il suo vero mestiere, o per meglio dire la sua arte, era quella di parlare con le nuvole… 10


3 Il ragazzo che parlava con le nuvole Il ragazzo che parlava con le nuvole si chiamava Furio. Suo padre faceva il contadino e sua madre aveva altri sette figli più piccoli da badare, così quando ebbe compiuto otto anni fu mandato a pascolare le pecore sulle colline perché la famiglia aveva bisogno di aiuto nel lavoro di tutti i giorni. Furio partiva di casa con le prime luci dell’alba e tornava al tramonto. Le sue pecore erano undici. Non avevano un vero nome ma lui le riconosceva ugualmente tutte: una aveva una macchiolina sul muso, un’altra una zampa più sottile, un’altra ancora la coda più corta… insomma erano una diversa dall’altra, come le persone. Furio era molto affezionato alle sue bestie, erano le compagne con cui divideva le giornate così come la solitudine. A volte si abbracciavano e si scambiavano gli odori e il calore. Il ragazzo però soffriva il silenzio perché fra i monti non incontrava anima viva, e non aveva nessuno con cui parlare e scambiarsi parole. Il bosco era pieno di rumori: il canto degli uccelli, il ronzio delle api, il borbottio del ruscello, l’abbaiare lontano dei cani, ma lui voleva sentire proprio il suono delle parole. Per questo aveva deciso di insegnare ai suoi animali la lingua degli esseri umani, certo che avrebbero avuto tante cose da raccontarsi. Un giorno, perciò, aveva chiamato una delle sue pecore, quella con una macchiolina sul muso, e le aveva chiesto di ripetere mamma e pane. Aveva scelto quelle parole perché gli erano parse le più semplici e le più vere. C’è qualcosa di più vero di una mamma che ti abbraccia o di una pagnotta ancora calda? Eppure la povera bestia lo aveva fissato, aveva aperto la sua bocca storta e alla fine… aveva belato! Un lungo belato fra i denti gialli, come una supplica. «Ti prego», diceva quel belato. «Non ce la faccio a parlare la tua lingua ma tu prova a volermi bene lo stesso». Furio era un bambino buono, così la accarezzò e le promise di continuare a volerle bene, anche se il suo bisogno di parole non poteva essere soddisfatto. Dopo sette giorni, però, mentre aspettava che le sue pecore finissero di brucare e si radunassero per ritornare a casa, seduto con la schiena appoggiata ad un masso, sentì una voce che lo chiamava. «Ciao ragazzo, hai ancora voglia di chiacchierare?». 11


Per lo spavento Furio scivolò e cadde disteso pancia all’aria. Chi poteva aver parlato? Si guardò intorno ma non vide nessuno. Le pecore ruminavano tranquille e non parevano aver aperto bocca… per lo meno non per parlare. «Non guardare in basso, alza gli occhi!», continuò la stessa voce. Furio si tirò su da terra e guardò in alto ma vide soltanto il cielo. Un cielo grandissimo con tante nuvole. Il sole era già scomparso dietro una cima e le nuvole correvano veloci con la brezza del tramonto. Erano nuvole scure e striate di violetto. Furio le fissò attentamente. Si espandevano e si riducevano cambiando forma e colore continuamente. In quel momento si accorse che una nuvoletta piccola e densa aveva preso la forma di una pecora e gli stava strizzando l’occhio… stava forse ammattendo? «Ehi, non sei matto, sono io che ti sto parlando», disse la nuvoletta pecora. E ora si era messa pure a leggergli nel pensiero! «Ma… ma... tu… chi sei?», domandò il ragazzo balbettando. «Sono l’anima della tua pecora, mi ha mandata lei quaggiù, perché sa quanto tu hai bisogno di parlare con qualcuno, e così eccomi qua!». «L’anima della mia pecora? Ma cosa dici? Non è mica morta». «E allora? L’anima esiste sempre: prima, durante e dopo la vita». «Davvero?». «Certo!». «Ma anche gli animali hanno un’anima?». «Sicuro, e perché non dovrebbero?». «Siamo tutti creature della natura. Ma senti, ragazzo mio, ora non ho molto tempo per chiacchierare, si sta facendo buio e noi anime nuvole spariamo per ricomparire solo al tramonto del giorno dopo. Hai qualche desiderio da esprimere?». «Sì», rispose veloce Furio, che era un bambino svelto e deciso. «E allora?». «Voglio che tu torni di nuovo domani e che continui a parlare con me. Voglio che tu continui a regalarmi parole». «D’accordo, per così poco… a domani allora!». «A domani», concluse Furio e incominciò a chiamare le sue pecore perché si era fatto tardi e sapeva che i suoi genitori si sarebbero preoccupati se non lo avessero visto rientrare prima di sera. Ma era così confuso e agitato che si fece di corsa tutto il sentiero e arrivò a casa ancora prima del solito, quando ancora la pentola bolliva sul fuoco del camino. Quella notte se ne stette sveglio a pensare alla nuvoletta parlante e non riuscì a prender sonno nell’attesa del giorno dopo e nella curiosità di vedere 12


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se il prodigio si sarebbe ripetuto. Forse era stato solo un sogno, forse solo un’illusione ottica, forse il rumore del vento lo aveva semplicemente ingannato, forse la fame della sera gli aveva giocato un brutto scherzo… La mattina dopo, nonostante il sonno, si era sentito arzillo e scattante come mai prima di allora. Aveva raggiunto il monte più presto del solito seguito dalle pecore che cercavano di farlo rallentare e non capivano per quale motivo quella mattina ci fosse tanta fretta di arrivare in cima. La giornata trascorse lentissima, le ore sembravano non passare mai… ma alla fine, come tutti i giorni, poiché il tempo non si può arrestare, giunse il tramonto. Purtroppo, però, con il tramonto arrivò anche un vento dal nord che scompigliò il cielo e in pochi minuti portò aria di pioggia. Gocce grandi come chicchi d’uva iniziarono a cadere sempre più rapide e fitte fino a trasformarsi in un vero e proprio acquazzone. Furio non se ne voleva andare. Fissava il cielo speranzoso ma non c’era ombra di nuvole parlanti, e le sue pecore belavano spaventate. Quando fu zuppo fino alle ossa e la delusione lo schiacciò con le sue zampe pesanti, si decise ad abbandonare il monte e la speranza. Quella notte si addormentò come un sasso e non sognò nulla. Il giorno dopo risplendeva un bel sole nell’aria pulita, Furio portò al pascolo le sue bestie ma non voleva illudersi e così non alzò mai gli occhi al cielo fino all’ora del ritorno. Stava già prendendo il sentiero che portava a valle quando si sentì chiamare. «Ehi, ragazzo!». Si voltò di scatto pensando che dietro di lui ci fosse qualcuno, ma non vide nessuno e pensò di essersi sbagliato e di aver scambiato un rumore del bosco con un richiamo. Ma appena fece per riprendere il cammino… «Ehi, ragazzo, dico a te! Non hai più voglia di parlare?». Furio si bloccò all’istante, poi si girò molto lentamente, come a non voler cancellare la magia delle parole. E alla fine, ancora più lentamente, alzò lo sguardo verso il cielo. La nuvola a forma di pecora lo guardava sorridendo e dietro la sua lana il sole si era messo a tramontare. Furio per la meraviglia non riuscì ad aprire bocca. «È così che conservi i desideri? Te ne stavi già andando senza neppure scrutare il cielo», aggiunse la nuvola. «Ma…ma…ieri non sei venuta e ho pensato che non saresti più tornata, e che forse io stesso mi ero immaginato tutto», rispose alla fine Furio. 14


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«Oh bravo, proprio bravo! Basta una piccola difficoltà, un temporale, una mancanza, per dimenticare il tuo desiderio. Sai che per un desiderio importante bisogna anche lottare se è necessario? Ieri non sono venuta perché quando c’è acqua nel cielo noi anime nuvole non possiamo essere viste. Hai capito adesso?». Furio fece di sì con la testa. «Hai capito anche che bisogna lottare per i desideri che ci stanno a cuore?». Furio fece di sì due volte con la testa. «Bene, ragazzo, si vede che sei sveglio e impari in fretta. Dimmi ora quali parole vuoi sentire». Furio inspirò a fondo, ci pensò su un attimo, e poi disse: «Vorrei sentire parole di altri luoghi, di altri popoli, di altri paesi». «Bravo!», esclamò la nuvola. «Le persone curiose e aperte al mondo sono persone che sanno dare valore alla vita. Però dimmi, come mai vuoi conoscere altri mondi, non ti basta quello dove vivi?». Furio questa volta pensò a lungo prima di rispondere. Alla fine disse: «Voglio bene a mia madre e a mio padre, e anche ai miei fratelli e alle mie sorelle. Le bestie sono la mia unica compagnia e sono affezionato a loro come fossero amici e familiari allo stesso tempo. Però proprio per il loro bene sono costretto a lavorare e a fare tutti i giorni la stessa strada, una strada solitaria dove non incontro quasi nessuno. Inoltre, siccome non vado a scuola e non so leggere non posso neppure scoprire le parole dei libri, che lì ce ne sarebbero tante…». «Bravo Furio, hai proprio ragione. Il nostro mondo è bello, ma quando è troppo stretto si ha desiderio di conoscere altri mondi, e se non lo si può fare con le gambe lo si può sempre fare con le parole della fantasia». «Ma come fai a sapere il mio nome?», chiese sorpreso il ragazzo. «Bisogna conoscere il nome degli amici per poterli nominare. Io sono l’anima di Macchiolina e lei mi ha detto il tuo nome. Da ora in poi anche tu la potrai chiamare per nome». A Furio vennero le lacrime agli occhi per l’emozione ma le ricacciò subito indietro. I suoi genitori gli avevano insegnato che non bisogna perdere tempo a piangere. Così ringraziò la nuvola, le diede appuntamento per il giorno dopo e scappò via con le sue pecore al seguito, anzi davanti, prima che il buio potesse sorprenderli per strada. Ma al riparo del bosco, quando nessuno poteva vederlo e senza rallentare il passo, lasciò che le lacrime gli bagnassero il viso. Da quel giorno in poi divenne il ragazzo che parlava con le nuvole. 16


Qualcuno raccontava di averlo visto al tramonto seduto sull’erba a conversare a voce alta con il naso all’insù, giurando che non c’era anima viva intorno. Qualcun altro raccontava di aver riconosciuto nel cielo delle facce parlanti e Furio che se ne stava appoggiato contro un sasso ad ascoltare. Fino al giorno in cui incontrò sulla sua strada Diamantina e Lorenzo. Ma questa è già un’altra storia.

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4 La storia di Diamantina Un’altra storia che Gigina amava raccontare era quella di Diamantina. Per capirla però bisogna andare indietro nel tempo, in quanto Diamantina era nata tantissimi anni fa, pensate che era nata prima di me che ho duecento anni, anche se poi accadde che venne a vivere per un periodo nella nostra epoca, poiché lei aveva il dono di poter andare indietro e avanti nel tempo con uno schiocco di dita, beh… non proprio solo con uno schiocco di dita, ma aspettate che vi racconto per bene. Questo non era l’unico dono che possedeva. Sapeva trovare nei campi i frutti selvatici buoni da mangiare, sapeva distinguere le erbe benefiche per la salute da quelle velenose, sapeva così curare molte malattie, insomma sapeva come sopravvivere e come aiutare gli altri. Lo aveva imparato dalla sua mamma e la sua mamma dalla sua mamma, come in una catena, perché erano poverissime e non avendo di che vivere si erano arrangiate a raccogliere quello che la terra regalava anche a chi non aveva un campo da coltivare. E proprio arrangiandosi e distinguendo ciò che era buono da ciò che era cattivo per la salute, la sua mamma aveva anche imparato l’arte di guarire. Nel paese si era sparsa la voce e per questo motivo veniva spesso chiamata a curare con le sue erbe e i suoi unguenti qualche ammalato o qualche bestia che pareva più di là che di qua. In cambio riceveva per sé e per la sua bambina qualcosa da mangiare o qualche vestito per difendersi dal freddo d’inverno. Diamantina la seguiva sempre e così, quando divenne grande e sua madre morì, fu facile e naturale per lei prendere il suo posto di guaritrice. Ma non si limitò a questo. Siccome aveva fantasia e passione per i numeri, nonostante non sapesse né leggere, né scrivere e neppure contare più in là del dieci, Diamantina accompagnava le sue cure con delle bizzarre tiritere fatte di numeri, rime e parole. Inoltre, con una corda che si portava sempre appresso legata in vita, misurava gli ammalati, bestie o cristiani che fossero, perché pensava che tutto dovesse avere una simmetria, e che la mancanza di questa portasse inevitabilmente ad ammalarsi. Questi suoi strani comportamenti incutevano rispetto e allo stesso tempo timore nei paesani, che la chiamavano quando avevano bisogno, ma la tenevano alla larga quando il pericolo era passato. Un giorno di settembre successe che un contadino dal carattere iracondo, 18


proprietario di una mucca da latte, la mandò a chiamare nel cuore della notte. Diamantina non fece domande, si alzò dal suo giaciglio fatto di paglia, si avvolse nel suo mantello scuro, si legò la corda in vita, e lo seguì. Quando arrivò nella stalla vide la mucca distesa per terra con gli occhi chiusi, tanto immobile da sembrare morta. «Ecco», disse il contadino. «È in quella posizione da tre giorni, non mangia e non beve, e non apre neppure gli occhi. Ma se continua così troverà la morte!». Diamantina fece cenno all’uomo di posare la lampada per terra, poi si inginocchiò davanti alla bestia e iniziò a osservarla attentamente. La pelle era tesa, segno che era ben nutrita, il pelo era lucido e non mostrava piaghe o ferite. Guardò nelle orecchie ma non c’era pus né spighe incastrate che potessero produrre infezione. Allora posò la faccia sulla pancia per sentire se c’erano dei blocchi dell’intestino, ma sentì solo dei rumori di pancia vuota... e quelli li conosceva molto bene! Risalì con la faccia sulla schiena dell’animale e ascoltò il respiro: regolare. Diamantina davvero non capiva cosa avesse quella bestia. Si alzò in piedi, si slacciò la corda e incominciò a misurarla: la distanza fra le corna, la distanza fra le zampe, la lunghezza della coda e quella degli occhi, e ancora tutto quello che era misurabile. Era la mucca più armoniosa che avesse mai visto! Non aveva neppure una piccola asimmetria, nonostante si capisse che aveva già un certo numero di anni. Stava quasi per arrendersi quando sentì un sibilo, poi più niente. Si immobilizzò e smise di respirare. Sentì nuovamente lo stesso sibilo. Improvvisamente capì. Il sibilo veniva dal cuore. Dovete sapere, infatti, che un altro dono che possedeva Diamantina era quello di comprendere i battiti del cuore e non solo i battiti. Lei riusciva a sentire anche il rumore di un dispiacere, di una paura, di una forte emozione, e questo nessun dottore era capace di avvertirlo. Poggiò la faccia sul petto della bestia e rimase in ascolto. Il sibilo arrivò chiaro al suo orecchio. Era il rumore soffocato di un dolore. Non era una vera malattia, non si poteva curare con le erbe né con le tiritere, eppure poteva portare alla morte in breve tempo se non si fosse intervenuti subito. Sssssssss… Faceva il sibilo. “Perché?” si chiese Diamantina. “Perché questa mucca soffre così?”. “Perché mi vogliono cacciar via da quando, secondo loro, non produco più abbastanza latte”. La voce della mucca proveniva dal suo corpo anche se non si era mossa e se la bocca non si era aperta. 19


Diamantina ebbe un sussulto. Potevano parlarsi attraverso il pensiero? “Mi vogliono vendere giù in paese in un posto da dove nessun animale fa ritorno. Allora preferisco morire qui. Non mi porteranno laggiù”, continuò la mucca. “Ho dato da bere il mio latte a tutti i bambini della loro famiglia, li ho nutriti come i miei stessi vitelli, e non merito questa fine”. No, non la meritava, pensò Diamantina. Aveva assistito a tante ingiustizie in vita sua ed era una donna pratica e con i piedi per terra. Ma non sopportava vedere le bestie soffrire ingiustamente. Fece un grande sospiro, poi disse con il pensiero: “Stammi a sentire, io posso salvarti e portarti via con me. Tu mi darai un po’ di latte, per me sarà più che sufficiente, io in cambio ti porterò a pascolare per i campi. Però ora devi fare esattamente come ti dico e non devi avere paura”. Il sibilo non si sentiva più ma la mucca era immobile come prima. Diamantina si alzò e si ripulì i vestiti. «E allora? Si può sapere cosa diavolo ha questo maledetto animale?» chiese il contadino con malgarbo. Diamantina lo fissò con i suoi occhi azzurri e taglienti come diamanti. Gli occhi erano rimasti quelli di quando era bambina, non erano invecchiati, anche se i capelli erano già bianchi come la neve e le dita erano nodose come radici. Ma Diamantina riusciva a trarre energia dai suoi occhi, così li tenne bene aperti quando parlò di nuovo. «È grave. Qualcuno le ha fatto un maleficio, ma io posso provare a salvarla». «Bene, allora cosa aspetti?». «Potrebbe succedere anche qualcosa che non ti piacerà…». «Basta brutta strega, sbrigati o vado a prendere il forcone!», urlò quello senza farla finire di parlare. Diamantina si mise in piedi davanti alla mucca, avvolse la corda nuovamente in vita legandola con tre nodi e alla fine, con una voce che sembrava quella di una bimba, recitò questa filastrocca: Tre cinque otto Alzati in piedi tutto d’un botto Venti trenta quaranta Guarisci presto con l’acqua santa Sette quattordici ventuno Non ti fermare davanti a nessuno. Trascorsero alcuni secondi e non successe nulla. 20


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Diamantina incominciava a pensare di avere fallito. In effetti riuscire a parlare attraverso il pensiero con una mucca non rientrava nei suoi doni, questa volta aveva davvero esagerato. E invece improvvisamente la mucca scosse la coda come a voler scacciare una mosca, poi spalancò gli occhi e, infine, con una agilità da gazzella si rialzò sulle quattro zampe tutto d’un botto. Andò dritta verso l’abbeveratoio, raccolse con la lingua un grande sorso d’acqua che la guarì come fosse acqua santa, scrollò la testa e partì di corsa infilando la porta. Diamantina, superando in un momento lo stupore, le saltò in groppa e quando il contadino cercò di sbarrare l’uscita, la mucca si lanciò su di lui al galoppo senza fermarsi. Il contadino fece appena in tempo a buttarsi di lato che la mucca uscì dalla stalla e prese il sentiero che saliva verso il monte. Sentirono le grida dell’uomo che risuonavano minacciose nella notte: «Ti prenderò, vecchia strega, te e quella mucca che hai trasformato in un cavallo. La pagherai cara!». Diamantina si strinse forte al collo della sua bestia e la pregò di andare più veloce del vento. Correvano, correvano ma non si liberavano mai delle voci ringhiose che udivano alle loro calcagna. Il contadino non era più solo ma con altre persone e con i cani da caccia. Salirono e scesero il monte, entrarono nel bosco, attraversarono il fiume, si avviarono in un’altra valle e viaggiarono per tre giorni e tre notti di seguito fino a quando si trovarono alle porte di un borgo. Non potevano tornare indietro perché erano inseguite, quindi si avviarono per l’unica strada che portava su un ponte di pietra stretto ma alto e lungo come una schiena d’asino. La povera bestia, stremata dalla fuga e da quell’ultima salita, si fermò, proprio in cima al ponte, piegandosi sulle zampe, e Diamantina capì che non si sarebbe mossa da lì. Le voci si facevano più vicine alle loro spalle e l’alba stava per arrivare, non avrebbero avuto scampo e sarebbero state scoperte se non fossero riuscite a sparire immediatamente. C’era un solo modo, e Diamantina lo conosceva. Avrebbe dovuto utilizzare la seconda possibilità di viaggiare nel tempo. Lo aveva già fatto una prima volta quando era piccola, per gioco, contro ogni raccomandazione di sua madre che però era riuscita a riacciuffarla al volo e a farla tornare indietro senza troppe complicazioni, a parte una sculacciata. Sapeva di avere a disposizione solo tre possibilità e quindi, se ne avesse consumata ora un’altra, gliene sarebbe rimasta solo una, quella decisiva. Questo era rischioso ma ormai gli inseguitori erano vicini, si sentiva il 22


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rumore dei loro zoccoli sui ciottoli e doveva far presto. Cosa doveva chiedere questa volta? Doveva andare avanti o indietro nel tempo? Meglio avanti, si disse, in un mondo dove nessuno sarebbe stato inseguito e perseguitato. Cento anni sarebbero bastati? No, no, troppo pochi per cambiare le cose. Duecento allora? Per stare sul sicuro pensò a trecento anni, magari anche un po’ di più… trecentoquaranta, ecco il numero giusto! Cento duecento trecentoquaranta Tempo che rotola tempo che salta Guardo il mondo a testa in giù In questo tempo non ci sto più. Intorno a lei ogni cosa prese a girare vorticosamente. Vide tutti i colori dell’arcobaleno e poi il nero e il bianco fino a che… si ritrovò esattamente nello stesso punto di prima, sullo stesso ponte a schiena d’asino, mentre già il chiarore dell’alba stava arrivando a cacciar via la notte. C’era anche la mucca, piegata sulle gambe, che per la confusione di aver attraversato tanto tempo in una volta sola aveva un ciuffetto di peli bianchi in cima alla testa. Diamantina si mise in ascolto per essere sicura che gli inseguitori fossero rimasti indietro di trecentoquaranta anni e che non potessero più raggiungerla. Sotto di lei si sentiva solo il gorgoglio profondo del fiume, mentre alle sue spalle, dalla parte della campagna, arrivava in lontananza il canto di qualche gallo che stava dando la sveglia. Diamantina finalmente si rilassò, e stava per dire alla mucca di rialzarsi e di riprendere il cammino, che ormai erano salve, quando in un angolo buio del ponte vide qualcosa muoversi. «Altolà, chi sei tu? Vieni allo scoperto!», urlò Diamantina per lo spavento. Un fagotto scuro e piccolo si fece avanti. Quando arrivò ad un passo di distanza, Diamantina si accorse che si trattava di un bambinetto di sei o sette anni avvolto negli stracci e tutto tremante. «Cosa ci fai a quest’ora in giro così piccolo? Non dovresti stare al caldo in casa con la mamma?», ma mentre chiedeva queste cose Diamantina incominciò a sentire uno scalpiccio sinistro di scarponi e frasi concitate provenienti dall’altra parte del ponte, dalla parte del paese. «Ragazzino, avvicinati e dimmi come ti chiami». «Lo... Lorenzo», rispose quello in un balbettio. «E dimmi un po’ Lorenzo, come si chiama il posto dove siamo?». 24


Maria Beatrice Masella È nata a Taranto e vive a Bologna, dove lavora come insegnante e pedagogista e scrive libri per adulti e ragazzi. In questo racconto narra le storie del passato ai bambini e alle bambine di oggi facendo un salto nel futuro fino ad “un tempo che non c’è”, certa che la memoria non serve solo a ricostruire radici ma anche a far nascere un mondo nuovo aperto al dialogo e all’incontro. Silvia Balzaretti Nata a Milano, lavora e vive a Brescia con Doc e Bonda , una gatta “a ore” dalla quale è stata adottata. Come illustratrice di libri per bambini ha collaborato con numerose case editrici nei settori della narrativa, della scolastica e delle riviste. Da tempo collabora in maniera continuativa con l’Editrice La Scuola, per la quale realizza anche il calendario. ISBN 978-88-96328-32-3 © 2011 Bacchilega Editore, Imola www.bacchilegaeditore.it info@bacchilegaeditore.it Stampato in Italia da:  Galeati Industrie Grafiche Srl (Imola, luglio 2011) Ideazione, progettazione e coordinamento delle collane di Bacchilega Junior: Il Mosaico società cooperativa sociale onlus www.ilmosaicocooperativa.com Coordinamento e redazione: Emanuela Orlandini - Cooperativa Il Mosaico Illustrazioni: Silvia Balzaretti Impaginazione: Agnese Baruzzi

Tempi nuovi per vecchie storie!

Ritrovate, rispolverate, rivisitate... Storie e leggende, fantastiche o reali del territorio emiliano-romagnolo, legate dal filo ininterrotto della memoria, di una tradizione popolare, spesso orale, che arriva fino a noi. “Attenti al drago!” “Ferruccio e l’arrembaggio” “Quando i bambini disegnavano sui muri” fanno parte della collana:

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dai 6 anni

Dello stesso editore:

da 0 a 5 anni


dai 6 anni

Sette storie nei boschi di Castel del Rio Questa è la storia di un albero antico, che ascolta e racconta a chi sa ancora stupirsi. Le parole nelle radici forti e robuste risalgono nel tronco, nei rami e nelle foglie, fino a quando volano via nel vento. Sono storie dell’estate e del tramonto, dei paesani che si ritrovavano un tempo intorno alla sua ombra. E raccontavano e prendevano il fresco. Iniziava la Gigina, con il suo gomitolo pieno di storie: il ponte del diavolo e la strega, una mucca speciale, un ragazzo che sapeva parlare alle nuvole, un bambino in fuga, una casa abbandonata in mezzo a un castagneto, e poi anche la guerra e i partigiani. Un filo nascosto, forse il filo di lana del gomitolo della Gigina, lega insieme le sette storie trasformandole in un’unica storia che il grande noce vuole raccontare ai bambini e alle bambine del futuro.


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