Associazione di Ricerca Culturale e Artistica
Poste italiane S.p.A. - Spedizione in abbonamento postale - 70% CNS PZ
€ 1,50
idee
arte
eventi
Rivista mensile a diffusione nazionale - anno V - num. 4 - Aprile 2009
I segreti nascosti dell’antica Achitorem
Futurismo: Velocità + Arte + Azione
L’Arte e la Follia in scena a Siena
Abbònati alla rivista “In Arte”. Solo 12 Euro per avere ogni mese a casa tua una finestra privilegiata su un mondo di arte e cultura. Abbonarsi è semplicissimo: basta compilare un semplice bollettino postale così come nel fac-simile in basso ed effettuare il versamento in qualsiasi Ufficio Postale.
Redazione Associazione di ricerca Culturale e artistica C.da Montocchino 10/b 85100 - Potenza Tel e Fax 0971 449629 Redazione C/da Montocchino 10/b 85100 - Potenza Mobile 330 798058 - 392 4263201 - 389 1729735 web site: www.in-arte.org e-mail: redazione@in-arte.org Direttore editoriale Angelo Telesca editore@in-arte.org Direttore responsabile Mario Latronico Impaginazione Basileus soc. coop. – www.basileus.it Stampa Arti Grafiche Lapelosa - tel. 0975 526800 Concessionaria per la pubblicità Associazione A.R.C.A. C/da Montocchino, 10/b 85100 Potenza Tel e fax 0971-449629 e-mail: pubblicita@in-arte.org informazioni@in-arte.org Autorizzazione Tribunale di Potenza N° 337 del 5 ottobre 2005 Chiuso per la stampa: 8 aprile 2009 In copertina: Hiroshige Utagawa, Il Ponte di Sugatami, dalla serie Cento vedute di luoghi celebri di Edo, 1857, xilografia policroma, Brooklyn Museum, New York. La redazione non è responsabile delle opinioni liberamente espresse dagli autori, né di quanto riportato negli inserti pubblicitari.
Sommario Editoriale
Pittura pittura pittura di Angelo Telesca ......................................................... pag.
4
Persistenze
I segreti nascosti dell’antica Achitorem di Franco Ecino............................................................. pag. Castello che sfida i terremoti di Francesco Mastrorizzi............................................... pag.
5-6 7-8
Cromie
Lettura di un’opera: Il Quarto Stato di Amelia Monaco.......................................................... pag. Ferdy Sapio: veemenza pittorica e di fede di Chiara Lostaglio......................................................... pag. Intimo e spirituale in Franz Marc di Monica De Canio....................................................... pag. Il Pietrafesa a Satriano di Franco Torraca.......................................................... pag. Le movenze pittoriche di Giovanni Todisco di Angela Delle Donne................................................... pag.
9 10-11 12-13 14-15 16-17
RiCalchi
Pianeta Etna Foto Gerardo Caputi...................................................... pag. 18-19
Forme
Una fontana itinerante di Silvia Petrazzulo........................................................ pag. 20-21
Eventi
Futurismo: Velocità + Arte + Azione di Piero Viotto................................................................ pag. 22-23 L’Arte e la Follia in scena a Siena di Fiorella Fiore.............................................................. pag. 24-26 Cartoline dal Giappone di Francesco Mastrorizzi............................................... pag. 27-29
Trame
La domanda di Giuseppe Ungaretti di Andrea Galgano......................................................... pag.
30
Art Tour
a cura di Giuseppe Nolé............................................... pag.
31
con il patrocinio dell’Amministrazione Provinciale di Potenza
3
Pittura pittura pittura di Angelo Telesca
Grande spazio alla pittura in questo numero! Gli articoli che vi proponiamo spaziano dagli antichi affreschi del Todisco al celeberrimo “Quarto Stato” di Pellizza da Volpedo, dal caposcuola Franz Marc all’emergente Ferdy Sapio. E ancora... una serie di interessanti recensioni su alcune delle più belle mostre aperte in Italia: il più importante evento sul Futurismo raccontato da Piero Viotto, il reportage di Fiorella Fiore sulla particolarissima mostra di Siena ideata da Vittorio Sgarbi sul rapporto tra Arte e Follia e, per finire, le suggestioni orientali della mostra di Roma su Hiroshige. Mi preme inoltre segnalare la sorprendente Madonna in Trono “a matrioska” di cui ci parla proprio nell’articolo qui a lato.
4
Persistenze
Dal latino “Acapiter”, che significa “sparviero”, deriva il nome del comune di Accettura (PZ); le origini del paese sono legate alla colonizzazione greca del VIIVI sec. a.C., e non mancano numerose testimonianze archeologiche sul territorio. Sono ben visibili oggi, in località Raja, i resti di una fortificazione, oltre a numerose altre rovine sparse su tutto il territorio dei paesi circostanti. In una bolla pontificia inviata nel
I segreti nascosti dell’antica Achitorem di Franco Ecino
1060 alla curia vescovile di Tricarico, il paese figura con il nome di “Achitorem”, come testimonia una citazione dello stesso papa Niccolò II. Nel centro del paese particolare interesse e rilievo suscitano la Chiesa Madre di S. Nicola e la Chiesa dell’Annunziata. La prima è precedente al XVI secolo ma ha subito nel corso dei secoli numerose ristrutturazioni. Molto bella è la campana fusa da Gaspare di
Accettura (PZ), le tre stratificazioni della Madonna in Trono.
5
Accettura (PZ), chiesa madre di San Nicola.
Missanello nel 1611, situata nella torre campanaria. Dei tesori nascosti al suo interno citiamo il crocifisso ligneo del XV sec. e le statue lignee di Sant’Antonio abate del XVI secolo, San Giuliano, Santa Filomena e San Pasquale della metà del XVIII sec.; pregevoli anche una tela di Maria Maddalena, delle tre Marie e di San Giovanni ai piedi della croce, sempre della metà XVIII secolo. La Chiesa dell’Annunziata, invece, ultimamente si è arricchita di una nuova effige della Madonna in trono, appena restaurata e restituita al culto. Le diverse fasi del restauro hanno curiosamente portato alla luce la presenza, sotto la cartapesta della statua, di ulteriori interventi effettuati nei secoli precedenti. Sono emerse tre stratificazioni: una prima e originaria scultura lignea ascrivibile al XIII secolo con la veste decorata di colore azzurro sul busto, le brac-
6
cia, le ginocchia, il drappeggio nella parte inferiore e i piedini; un successivo rifacimento applicato sulla scultura originaria databile intorno al XVI secolo, che presenta un vestito di stoffa dipinto con acquerelli e ornato di decorazioni floreali impreziosite da inserti in oro; un terzo strato collocabile intorno alla prima metà del XIX secolo, che mostra una struttura in cartapesta realizzata con fogli di carta provenienti da cronache giudiziarie del tempo. È attribuibile a quest’ultimo intervento l’inserimento del bambinello e delle corone. Durante il restauro si decise di estrapolare le varie anime “accumulatesi” l’una sull’altra durante i numerosi rifacimenti di questa Madonna, per permettere a tutti di poter ammirare le tre statue in tutta la loro bellezza e perpetrare il forte sentimento e fervore religioso che da sempre hanno accompagnato la storia di questa effige mariana.
Persistenze
Poche sono le notizie che abbiamo relative alle origini di Cancellara. Dal Dizionario storico-blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane del Di Crollalanza (1886) apprendiamo, però, che già nel 1189 faceva parte del sistema amministrativo del Giustizierato di Basilicata, nell’area controllata dal barone Eustachio Santoro. Il colle su cui si trova attualmente il paese venne fortificato, con castello e mura difensive, verosimilmente durante il periodo normanno-svevo. Sul finire del Basso Medioevo passò sotto la dominazione degli Angioini, che lo assegnarono ai De Beaumont. Successivamente divenne feudo di diverse famiglie nobili, tra cui i Monteforte, gli Orsini del Balzo, i Caracciolo, i Carafa e gli Acquaviva D’Aragona, che intorno al Trecento ristrutturarono il castello. Ancora oggi il magnifico castello medievale domina l’abitato dall’alto della collina con la sua grandiosa
Il Castello che sfida i terremoti di Francesco Mastrorizzi
mole e un’imponenza che suscita soggezione e allo stesso tempo infonde sicurezza. Il borgo annesso, poi, affascina per le sue intatte caratteristiche architettoniche e urbanistiche, che gli conferiscono un’atmosfera d’altri tempi. La posizione del castello in cima ad un’altura e la scarsa presenza nella struttura di elementi decorativi richiamano una tipologia architettonica con preminenti scopi difensivi, in seguito adattata alle esigenze abitative della feudalità. L’impianto dell’edificio è a tre livelli, intorno ad un cortile interno di forma trapezoidale. Il capo esposto a Sud si affaccia su uno strapiombo di 40 metri ed è caratterizzato da finestre disposte su tre file allineate verticalmente con scansione regolare. Sul lato Est si erge un torrione quadrangolare avanzato rispetto all’edificio. Di fianco alla torre è collocato l’ingresso principale, preceduto da una lunga gradinata e da
7
un piccolo cortile. Il portale ha l’archivolto e i piedritti rivestiti da bugnato decorato in stile barocco. Il primo livello, seminterrato e diviso in vani, in passato adibito a deposito, ancora oggi assolve la stessa funzione. Il cortile interno presenta un piano di calpestio inclinato, al quale si accede attraverso una gradinata. In alcuni vani del secondo livello si riscontrano tracce d’affreschi del Seicento, mentre al terzo livello, privo ormai di tutti i vani dell’ala occidentale, demoliti per ragioni di sicurezza, una scala a pioli permette il raggiungimento del sottotetto della torre.
8
Il frazionamento proprietario degli inizi del Novecento ha fatto si che l’intero assetto venisse profondamente modificato. Nel corso dei secoli la costruzione ha dovuto inoltre subire i ben più pesanti attacchi della natura, quali i frequenti terremoti che hanno colpito il paese, tra cui i più gravi, avvenuti nel 1694, 1857, 1930 e 1980, l’hanno seriamente danneggiata. Tuttavia, nella sua maestosità, quasi fierezza, il castello ha comunque sempre resistito ai capricci della traballante terra lucana.
Cromie Nel 1904, in una lettera a Matteo Olivero, Giuseppe Pellizza da Volpedo scriveva: “Quarto Stato – che fu nella mia mente Fiumana prima, quindi Il cammino dei lavoratori – fu una delle mie primissime concezioni, fu il pensiero continuato di un decennio e non riuscii a concretarlo che dopo aver evoluto la mia arte con molto, moltissimo lavoro e con altrettanto pensiero. Ma quando pensiero e forma si fusero nella mia convinzione nulla mi trattenne: non le rampogne della famiglia, non i consigli degli amici, non le maldicenze dei meno benevoli e altre maggiori difficoltà. Fu quale l’avevo voluto. L’avanzarsi animato di un gruppo di lavoratori verso la sorgente luminosa simboleggiante nella mia mente tutta la grande famiglia dei figli del lavoro”. Dipinta tra il 1898 e il 1901, l’opera venne acquistata per pubblica sottoscrizione dal Comune di Milano nel 1920. Pellizza da Volpedo decise di intitolare il dipinto così come ci è noto poco prima di inviarlo alla Prima Quadriennale di Torino del 1902, in sostituzione a Il cammino dei lavoratori. Risultato di diversi anni di lavoro, l’opera assume un valore universale racchiudendo al suo interno non solo, dal punto di vista tecnico, i capisaldi della corrente divisionista a cui l’artista aveva sapientemente aderito, ma aveva generato anche un dipinto nel quale realismo, spiritualismo e parallelamente ideali storici si erano fusi nell’immagine di una folla in cammino. L’opera non può prescindere dal significato intrinseco che ne ha mosso il suo progetto; bisogna perciò comprendere fino in fondo quale sia stato il messag-
Lettura di un’opera: Il Quarto Stato di Amelia Monaco gio dell’autore, vale a dire il tema dello sciopero dei lavoratori che aveva già investito, seppur con esiti diversi, l’attività dei pittori del realismo europeo alla fine dell’Ottocento. Osservando il dipinto, traspare quel rifiuto dell’autore nei confronti di scene di concitata protesta; piuttosto è evidente, invece, come un tema di portata sociale si sommi a quello della sfilata che, tipica delle feste dei lavoratori, si concretizza in una schiera di braccianti che avanza frontalmente, guidata in primo piano da tre soggetti a grandezza naturale: un uomo al centro affiancato, in posizione leggermente arretrata, da un secondo lavoratore più anziano e da una donna con un bambino in braccio. L’atmosfera che domina la composizione è accarezzata dalla luce che, creando un effetto di grande chiaroscuro, definisce le forme dei corpi attribuendo, parallelamente, grande monumentalità alle tre figure in primo piano. In fondo, sono le vibrazioni prodotte dalla luce che, sommandosi alla tecnica divisionista, fanno scattare a un più alto livello simbolico la composizione. È singolare riconoscere, infine, come un’idea di reale movimento domini il dipinto, trasposizione degli ideali in continuo divenire di una fetta della società che tentava affannosamente di uscire dall’ombra, rivendicando, in primis, il proprio diritto di essere lavoratori: il cammino che la classe lavoratrice aveva fatto e si preparava a compiere, un cammino di affrancamento verso una più umana consapevolezza del proprio valore di individui, un percorso frutto di azione, ma anche di pensiero.
9
Cromie
Ferdy Sapio: veemenza pittorica e di fede
Ferdy Sapio è un artista eclettico. Artista, compositore, cantante: diverse sono le sue collaborazioni con musicisti italiani e americani. Nel suo variegato mondo di puro interesse artistico, emerge con forza un’attitudine all’arte figurativa, con incursioni nella sfera mistica che, specie nelle icone, si manifesta con maggiore coerenza. Ma perché l’icona? Perché verosimilmente esaudisce una passione che ha radici lontane, nella sua terra, nella secolare civiltà lucana che fa di Melfi uno dei punti imprescindibili. Perché lì affondano le sue origini, e di quel coacervo di tradizione sia laica che cristiana (che tocca Federico II, i Normanni e prima ancora i Concili Vaticani
10
di Chiara Lostaglio
della sontuosa cattedrale) la storia di Melfi è intrisa. Sapio ha dunque, in questo vasto panorama, tratto spunto dalla sua ispirazione poetica che nell’arte e specie in quella sacra, dona ad un occhio attento il meglio di sé. Le sue mostre compongono un ciclo insito nel progetto culturale dal titolo Stupore Mistico. Molte icone riguardano madonne degli affreschi delle cripte intorno al Vulture, altre sono invece legate al francescanesimo e alle antiche icone del convento di S. Caterina sul Sinai. Molte di queste opere sono state esposte lo scorso anno in diverse mostre: a Fermo, Melfi ed Assisi, ed ancora a Monticchio (nella seco-
lare Abbazia) a Bari, Jesi e Ginestra. Una prospettiva ineluttabile nella tematica ispiratrice di Sapio, si sviluppa anche in un romanzo, “Stupore mistico” e nel personaggio “Samuel”, ovvero l’artista che da Antiochia arriva fino a Melfi per dipingere le cripte delle laure basiliane.
Parlerei di periodi in cui l’ispirazione è davvero una fonte zampillante, perciò esamino e sperimento tante soluzioni che alla fine diventano un’opera omogenea. Nel caso della mostra di icone è come essere riuscito a staccare gli affreschi antichi e a trasferirli sulle tavole.
Quale corrente pittorica l’ha finora maggiormente influenzato? Appena diplomato al Liceo Artistico amavo l’Impressionismo, Vincent Van Gogh era l’artista che più m’intrigava; infatti alcuni anni dopo ebbe un boom mediatico incredibile. Penso che tutte le correnti pittoriche mi abbiano influenzato, ho studiato e continuo a studiare storia dell’arte, ma il mio corso artistico mi ha condotto alla pittura lucana del medioevo e vorrei porre l’attenzione su questa nostra corrente pittorica per darle l’importanza che merita”.
Lei si sente un artista poliedrico che spazia dall’arte alla musica alla letteratura. Dove si colloca dunque l’arte pittorica in questo peregrinare fra le diverse ispirazioni creative? Sono sempre passato dalla musica, alla poesia, alla pittura con molta disinvoltura. L’una non esclude l’altra dalla rappresentazione di ciò che voglio esprimere in quel momento. È un tipo di estemporaneità che colgo nella mia creatività, solamente per non annoiarmi mai. Amo ciò che rinnova la mia anima, perciò l’arte mi è amica, perchè dopo aver esplorato il mondo dei suoni, o delle parole, esploro il mondo del colore, come ho sempre fatto sin da tenerissima età. La mia normalità è lo stupore che voglio condividere in perfetta sintonia col mio prossimo e con chi visiterà la mia mostra.
Qual è la fonte ispiratrice nelle sue opere? Certo la fede rappresenta un aspetto ineludibile della sua formazione e dell’attuale esperienza artistica nei diversi campi. Una sua ulteriore considerazione.
11
Cromie Le opere più importanti di Franz Marc nascono nell’arco di appena quattro anni, tra il 1910 e il 1914, quando condivide le sue esperienze artistiche con autori quali August Macke e Vasilij Kandinskij, con il quale pubblicò l’almanacco “Der Blaue Reiter”, (Il Cavaliere Azzurro) e organizza le omonime mostre. Tuttavia, come molti altri artisti compie un graduale percorso personale che lo porta ad elaborare gli sviluppi stilistici degli ultimi decenni per arrivare a uno stile pittorico personale. Entrato nell’Accademia di Monaco nel 1900, studia nella classe di G. Hackl e W. Von Dietz, che lo tengono distante dalle moderne tendenze del tempo, in quanto seguaci della scuola di pittura di Monaco dell’Ottocento. Perciò nel 1903 decide di lasciare l’Accademia, per staccarsi da una pittura accademica e realizzare opere dai colori più brillanti, con pennellate ampie e leggere, nell’intento di avvicinarsi progressivamente a quegli impressionisti che aveva conosciuto nel suo viaggio a Parigi. Negli anni difficili della ricerca e sperimentazione, conosce Jean Bloé Niestlé, che lo spinge a trasfondere nella pittura il suo positivo rapporto con gli animali, l’essenza di ognuno di loro quale espressione del sentimento dell’artista, «Ho sentito molto presto la bruttezza dell’essere umano; l’animale mi sembrava più bello, più puro». L’intenso studio della rappresentazione animale è dovuta alla sua immedesimazione in esso, assecondando la pretesa dell’arte moderna di dipingere le cose non per come noi le vediamo ma per ciò che esse veramente sono, lo spinge a guardarlo non attraverso gli occhi dell’uomo ma tramite la prospettiva degli animali stessi e tuttavia a dotarlo di sentimenti umani, innalzandolo a se stesso. Il 1910 è l’anno della svolta, lascia Monaco e si ritira nella solitudine dell’Alta Baviera, dedicandosi alla ricerca dell’Arte Nuova. Colori carichi e ampie pennellate vigorose e movimentate, come in Cavalli al pascolo, in cui riduce la rappresentazione all’essenzialità dei loro movimenti. Il campo di colore si arricchisce di contrasti cromatici all’interno di ampie superfici colorate, in Cavallo su paesaggio, l’animale in primo piano guarda all’interno del quadro un campo di grano interrotto da radi cespugli verdi. L’evoluzione è stata possibile tramite la conoscenza degli artisti del gruppo “Neue Künstlervereinigung”,
12
Intimo e spirituale in Franz Marc di Monica De Canio di cui ha scritto una critica entusiasta, in opposizione alle polemiche del pubblico. Nel 1911 diventa membro del gruppo. Inizia i suoi esperimenti sui colori complementari e come Kandinskij li associa a valori musicali ed emozionali: «Il blu è il principio maschile, aspro e spirituale, il giallo è il principio femminile delicato, allegro e sensuale. Il rosso è materia, brutale, pesante, è questo il colore che deve venir combattuto e superato dagli altri due». Una leggendaria lettera di Kandinskij al suo giovane amico, nel 1911 vede la nascita di uno dei più importanti sodalizi nell’arte dei primi del Novecento: Il cavaliere azzurro. Nato con l’intento di organizzare una serie di mostre, vede l’incontro di artisti e movimenti diversi, come quello celebre del 1911 a Berlino tra le due correnti espressioniste tedesche. L’omonimo almanacco è un programma dell’estetica moderna, nel quale sono trattate le basi della creazione figurativa, per un tipo di arte completamente nuova, pervasa di spiritualità. Per Marc la pittura da lui definita “nuova”, cerca «questo lato intrinseco e spirituale della natura», di cui Uccelli del 1914 ne è un’allegoria. L’intero dipinto sembra volare, l’uccello al centro del quadro allude allo “stormo di idee” che si libra “dalla sua cenere come una fenice”. Ma proprio nel 1914 un istinto lo allontana dall’animale, a favore dell’astratto, «L’animale mi sembrava più bello, più puro; ma anche in lui scoprii qualcosa di avverso al sentimento e di brutto, cosicché le mie rappresentazioni istintivamente divennero sempre più schematiche e astratte»: staccandosi dall’oggetto intende rappresentare la propria interiorità. Le quattro opere Forme allegre, Forme giocose, Forme in lotta e Forme distrutte, sono le allegorie dei conflitti interiori dell’artista: l’idillio, l’armonia e i lati positivi della vita nei primi due, la lotta e la morte negli altri due. Proprio Forme in lotta allude, secondo una recente interpretazione, a “una lotta di forze spirituali contro il mondo materiale”. L’adesione da volontario alla guerra nel 1914 e la morte prematura il 4 marzo 1916 in seguito allo scoppio di una doppia granata, interrompono l’intensa attività di un artista, che rimane incompreso fino alla grande monografia dedicatagli da K. Lankheit nel 1976 e alla mostra commemorativa del 1980.
Cromie
Satriano (PZ). Murale rappresentante Giovanni De Gregorio detto “il Pietrafesa”.
È il “paese dei murales”. Satriano, inserito dall’ANCI tra i “borghi più belli d’Italia”, sorge nella valle del Meandro, vicino Potenza. Percorrendo a piedi le viuzze ordinate del centro storico, tra i bei palazzi del XV e XVIII secolo, l’impressione è quella di sfogliare un immenso libro di storia illustrato. Sugli edifici murales di artisti vari, di ogni dimensione narrano storie, usi e leggende di questa comunità orgogliosa di custodire il proprio passato. La tradizione dei murales inizia negli anni Ottanta, dopo il restauro del centro storico gravemente danneggiato dal terremoto. Da allora questo tranquillo borgo è andato trasformandosi in un singolare museo all’aperto, in cui immagini di vita campestre si alternano a quelle di tipiche dimore ritratte con straordinario realismo. Ad arredarle, pochi, semplici elementi: una panca, un tavolo, un camino… È intorno al focolare che il contadino, dopo una
14
dura giornata di lavoro, poteva dedicarsi al riposo (Il riposo, di Luciano La Torre) e agli affetti familiari. Alla magia delle piante è dedicato un’altra interessante serie di opere tra cui spicca quella di Tommy Durante, dedicata al “basilico”. Da questa pianta molto diffusa nella regione trarrebbe origine il nome “Basilicata”. Ricchi di spunti sono i murales ispirati alle tradizionali maschere satrianesi, come quello di Nicola D’Agostino,: l’Orso e l’Eremita, il primo simbolo degli emigrati altrove in cerca di fortuna, il secondo espressione di quanti scelsero di non abbandonare il paese sopportando un vita di stenti. Di recente Satriano ha reso omaggio al suo cittadino più illustre, il pittore seicentesco Giovanni De Gregorio, detto il “Pietrafesa”, dedicandogli un ciclo di murales che ne ripercorrono la vita e la fiorente produzione artistica in Basilicata e
Il Pietrafesa a Satriano
Foto Archivio APT - Basilicata
di Franco Torraca
Satriano (PZ). La bottega di Giovanni De Gregorio detto “il Pietrafesa” rappresentata in un dipinto murale.
a Napoli, dove fu allievo del maestro Fabrizio Sanfede. Uno dei dipinti più significativi riproduce minuziosamente l’edicola di San Giovanni Battista che il Pietrafesa realizzò a Satriano nel 1626. Ma ad incantare il visitatore è senza dubbio il grande murales che abbraccia con discrezione l’intera facciata di un edificio. Dai tenui colori, raffigura un Pietrafesa ormai adulto, colto nell’intimità del proprio
laboratorio, intento ad abbozzare il delicato profilo di una Madonna con bambino. Una delle tele riporta la firma che egli era solito apporre dietro ogni opera “Petrafisianus pingebat”. Dalla finestra ad arco si intravede il verde panorama della valle che di certo seppe essere di conforto e di ispirazione a questo insigne esponente del panorama artistico seicentesco.
SATRIANO ARTE E AMBIENTE Nel piccolo borgo del Melandro l’Arte e l’ambiente formano un binomio perfetto, tanto che fortemente innovative sono le tecnologie utilizzate sull’intero impianto di illuminazione pubblica. Mediante “singolari” quadri elettrici, montati dalla G.I.& E. di Porto Recanati (azienda da poco presente anche nell’area industriale di Tito Scalo), il risparmio dell’energia elettrica negli ultimi mesi è diminuito di oltre il 30 %. Pertanto è chiaro che il notevole risparmio energetico produce di pari passo un minore inquinamento, sia luminoso che nell’ambiente. Satriano di Lucania pionere in Basilicata in campo di risparmio energetico, mescola arte e ambiente ed offre ai suoi visitatori un’ambiente suggestivo ed incontaminato.
15
Cromie
Le movenze pittoriche di Giovanni Todisco
Giovanni Todisco, pittore murale nativo di Abriola, è documentato tra il 1545 e il 1566, dominando così la scena artistica lucana della seconda metà del 500 attraverso percorsi stilistici che ne metteranno in luce le abilità novellistico-narrative. Rielabora, in chiave personale e vivace, le influenze artistiche che hanno caratterizzato l’Italia meridionale e non solo. La genesi culturale del pittore abriolese va ricercata nelle movenze stilistiche di Giovanni Luce da Eboli e di Simone da Firenze, esplorando tracce che lo condurranno alla costruzione di uno spazio in rapporto con luce-colore. I percorsi pittorici del Todisco sono legati alla committenza religiosa, e in particolare a quella francescana: lavora nei conventi di Potenza, Oppido Lucano, Rivello, ed ancora troviamo altre rappresentazioni a Cancellara, Anzi, Abriola, e altri paesini lucani dell’area potentina fino ai confini dell’area materana. La prima opera datata e firmata risale al 1545, si tratta delle pitture murarie del chiostro del convento di Santa Maria d’Orsoleo a Sant’Arcangelo. Ma focalizziamo l’attenzione sugli affreschi della chiesa di Sant’Antonio a Cancellara. La mesta e raccolta chiesa, che si dischiude in un’unica navata, è stata affrescata a quattro mani: dal Todisco e da Giovanni Luce. Nel catino absidale troviamo nel registro superiore Cristo in Maestà ed in quello inferiore Santa Caterina d’Alessandria, lambita da quattro piccole scene, narranti vicende della vita della santa. Al di fuori del catino absidale, sulla parete, troviamo quattro riquadri raffiguranti la Pietà, la Trinità, Madonna con Bambino ed un santo monaco, probabilmente San Leonardo, quest’ultimo affresco è molto lacunoso. Tutta la zona absidale è attribuita a Giovanni Luce. Sulla parete sinistra, rispetto all’abside, trova allocazione un imponente riquadro raffigurante San Giorgio che libera la prin-
di Angela Delle Donne cipessa attribuito a Giovanni Todisco. Infine, frammenti di affreschi sono visibili un po’ ovunque sulle pareti della chiesa. La parete absidale è caratterizzata da una perfetta composizione simmetrica che si evince sia nella suddivisione dei riquadri, sia nelle disposizioni interne ai riquadri stessi. Figure statiche che scoprono vivacità solo nelle scenette della vita di Santa Caterina d’Alessandria. Lo sguardo armonico delle rappresentazioni si coglie nell’insieme delle corrispondenze tra linee e colori; nei paesaggi morbidi e soffusi che degradano dietro le figure protagoniste delle scene. La ieraticità dei personaggi e delle scene si ammorbidisce solo negli sguardi languidi e persi. Così l’occhio dell’osservatore corre subito verso il San Giorgio della parete sinistra. Inconfondibile si coglie il tratto stilistico del Todisco. Un unico grande riquadro che rappresenta due scene: l’uccisione del drago in primo piano e la presentazione del drago infilzato alla principessa e agli astanti in secondo piano sulla sinistra. Purtroppo l’affresco è manchevole proprio della figura del drago durante la sua uccisione. Ma è la conoscenza della produzione pittorica del Todisco che ci permette di immaginare la bellezza e la finezza dell’animale fantastico. Anche qui la scena è adornata di elementi rinascimentali, quali vesti, oggetti rappresentati, cavalli finemente bardati. È possibile notare una grande attenzione per la descrizione degli elementi naturali; ogni personaggio è ben definito nella sua espressione mimica e nelle connotazioni tipiche del ruolo che riveste; ogni dettaglio è evidenziato senza mai ricadere in un affollamento della scena. Un alone leggendario pervade la narrazione, l’espressione drammatica è sottesa, ma l’atmosfera fiabesca ed irreale prevale rivelandoci ancora una volta il dato novellistico del Todisco nelle grandi, come nelle piccole, composizioni.
In basso: Giovanni Todisco, San Giorgio che libera la principessa. Nella pagina a fianco: Crocifissione attribuita a Giovanni Luce.
16
Pianeta Etna
RiCalchi
18
Lavanera
foto di Gerardo Caputi - Archivio Basileus
“non rami schietti, ma nodosi e ‘nvolti” foto di Gerardo Caputi - Archivio Basileus
19
Una fontana itinerante di Silvia Petrazzulo
Sulla banchina della storica zona di Santa Lucia, tra Via Partenope e Via Nazario Sauro, ci soffermiamo per osservare la Fontana dell’Immacolatella, una volta detta Fontana del Gigante e realizzata nel 1601 per volere del duca d’Alba don Antonio Alvarez di Toledo. Collocata nella zona panoramica del capoluogo partenopeo, la monumentale opera guarda da un lato la città dominata dal Vesuvio, dall’altro verso il mare su cui si affaccia nelle immediate vicinanze il mirabile e maestoso Castel dell’Ovo. L’opera è composta da tre archi a tutto sesto: uno centrale e due laterali minori in larghezza e in altezza, memore degli antichi archi trionfali. L’opera, pertanto, ne costituisce una rivisitazione seicentesca negli ornamenti che la decorano e nella configurazione alquanto slanciata ormai lontana dalla vigorosità dell’arte romana. La ripartizione dei tre fornici è scandita da quattro colonne a fusto tondo privo di scanalature. In alto, una semplice trabeazione costituisce un supporto per gli stemmi, sovrastanti ogni arco, che simboleggiano la città, il re e i viceré del coevo periodo storico. Siamo all’inizio del Seicento quando la Fontana del Gigante viene realizzata in marmo bianco e grigio da Michelangelo Naccherino, scultore d’origine fiorentina e allievo del Gianbologna, e Pietro Bernini, pittore e scultore nonché padre del celeberrimo Gian Lorenzo Bernini. I due furono anche
20
artefici della Fontana di Nettuno, su disegno di Domenico Fontana. Sotto l’arco principale vi è una fonte sorretta da un alto fusto con alla base due sirene, sostituite in seguito da animali marini. Sotto gli archi laterali vi sono due tritoni, scolpiti da Pietro Bernini, che stringono tra le mani mostri marini da cui sgorga l’acqua. A inquadrare l’intera struttura troviamo ai lati due gigantesche statue-cariatidi, realizzate da Michelangelo Naccherino, alte quanto le suddette quattro colonne; esse reggono cornucopie, fin dall’antichità emblemi dell’abbondanza e simbolo di prosperità. La Fontana è, quindi, permeata di elementi strutturali e allegorici attinti da un repertorio ormai lontano nel tempo ma ancora vivo nell’operare moderno. Ma come mai una così raffinata opera ha un’esistenza tanto travagliata? Questo dipende dalla sua ubicazione: in principio fu sistemata nei pressi del Palazzo Reale dove ai tempi si trovava la Statua del Gigante, una gigantesca statua di Giove seduto e priva di arti, rinvenuta poi a Cuma. Nel 1815 la Fontana fu trasferita al molo, in prossimità della costruzione dell’Immacolatella dalla quale attinse il nuovo nome. La Fontana “itinerante” dovrà percorrere altri due trasferimenti prima di trovare la sua definitiva collocazione: viene, infatti, traslocata nel 1869 nella Villa del Popolo vicino alla porta del Carmine e poi nei giardini di Via
fOrme
S. Pasquale a Chaia. Nel 1905, infine, il Comune decise di trasferirla per sempre nella sua attuale ubicazione. Era appena stata realizzato il lungo mare di Napoli e il Comune volle abbellirlo con un’opera monumentale che ne esaltasse la bellezza, che fosse in una posizione di rilievo dove tutti l’avrebbero ammirata. La fontana ha impiegato ben tre secoli per trovare una sua sistemazione. Il modus operandi dei due ar-
tisti dimostra il medesimo intento: celebrare la città partenopea. Questo attraverso l’uso dell’allegoria. Fin dall’antichità l’uomo ha comunicato ai suoi contemporanei come ai suoi posteri, attraverso simboli. La Fontana, qualunque sia il suo nome, ha chiaramente un intento celebrativo ed encomiastico. La prosperità fortemente desiderata e augurata alla cittadinanza dipende ancora una volta dal “buon governo” della città stessa.
21
Eventi
Futurismo: Velocità + Arte + Azione
Nel centenario del futurismo, ci sono mostre dappertutto: Roma, Venezia, Rovereto, ma la più completa ci sembra quella di Milano a Palazzo Reale organizzata da Arthemisia, curata da Giovanni Lanza e Ada Masoero. Il futurismo fondato da F.T. Marinetti come movimento poetico di avanguardia, nato con il Manifesto pubblicato a Parigi il 20 febbraio 1909, si sarebbe presto esaurito se a Milano un gruppo di artisti, che comprendeva U. Boccioni, C. Carrà, L. Russolo, sostenuti da G. Severini, che da Parigi li aveva iniziati al movimento, non avessero steso un anno dopo il Manifesto dei pittori futuristi (11 febbraio 1910), trasferendo nel mondo delle arti figurative i nuovi canoni di una estetica provocatoria. Il movimento ebbe breve durata, ma straripò nel mondo della musica, del teatro, del cinema, della fotografia, della pubblicità, dell’architettura, divenne costume con le serate futuriste. A Prampolini dobbiamo il manifesto Scenografia e coreografia futurista del 1915.
Carlo Carrà, Il Cavaliere Rosso, 1913.
22
di Piero Viotto
Dopo la prima guerra mondiale si ebbe una seconda generazione di futuristi, che si compromette con il nascente fascismo, e che si conclude con il manifesto Aereopittura futurista del 1929 steso sempre da F.T. Martinetti; mentre già alcuni fondatori si erano allontanati come Severini e Carrà, per avviarsi verso un realismo trascendentale il primo e verso la metafisica il secondo, entrambi insoddisfatti della scomposizione delle forme e dal culto della percezione dell’attimo fuggente. La grande esposizione di Milano Futurismo 19092009 presenta il movimento in relazione ad altre correnti artistiche come il cubismo e il simbolismo, il divisionismo e il neoimpressionismo, ma anche ne scruta le premesse negli anni precedenti e ne individua le influenze negli anni seguenti. Infatti, a parte alcuni irriducibili, come Martinetti, Prampolini, Balla, Depero, nella maggior parte degli artisti presenti in mostra, la stagione futurista rappresenta solo un
Fortunato Depero, La casa del Mago, 1928.
breve periodo della loro produzione artistica. L’esposizione occupa tutte le sale del Palazzo Reale, con oltre 400 opere tra quadri e sculture, disegni e fotografie, costumi e scenografie teatrali, libri e ceramiche; si presenta quasi come una storia dell’arte italiana del XX secolo. La mostra ha un sottotitolo Velocità+Arte+Azione che sintetizza Il Manifesto del 1910 dove si afferma “Tutto si muove, tutto corre, tutto volge rapido: una figura non è mai stabile davanti a noi, ma appare e scompare incessantemente”. Su questa base ideologica gli scultori hanno voluto scomporre il volume dell’oggetto rappresentato, fosse un volto o una bottiglia, come se fosse visto da diverse angolazioni; i pittori hanno rappresentato nel medesimo quadro i movimenti che la persona compie in tempi successivi. Era il prevalere del divenire sull’essere, dell’azione sulla contemplazione nel culto del progresso e della città industriale. In questa operazione culturale contava più l’abilità tecnica dell’artista, che la sua intuizione poetica, ma il futurismo era diventato una moda e molti si adeguarono. Penso, per fare un esempio ad A. Soffici che prima combatte il movimento sulla rivista “La Voce”, poi quando questa, con Papini, si avvicina al movimento, si adegua alla moda, ma per poco tempo e dipinge diverse nature morte in stile futurista. La mostra si sviluppa in tredici sezioni. In Prima del futurismo troviamo una panoramica dell’arte fine Ottocento, con le sculture di Medardo Rosso, già smaterializzate da una luce soffusa, che quasi cancella i tratti della figura umana, i quadri dal segno tra il mistico e il naturalistico di Previati e di Segantini e quelli di impegno sociale di Pelizza da Volpedo. La seconda sezione è dedicata a Marinetti di cui si presentano raccolte di poesie e i costumi di Paul Ramon per le sue opere di teatro. Seguono altre sezioni che sgranano cronologicamente le opere.
La sezione Gli anni dieci e il dinamismo plastico è il cuore della mostra, con opere di Balla, Boccioni, Carrà, Depero, Funi, Prampolini, Russolo, Severini, Sironi, Soffici. Possiamo seguire tutte le varianti del futurismo nel suo periodo migliore e confrontarlo con il cubismo per cogliere le differenze tra queste due avanguardie. Il cubismo più statico, attento alla composizione delle forme, il futurismo più dinamico, interessato alle variazioni di colore capaci di alludere al movimento per rappresentare un treno in corsa, una danzatrice, un motociclista, un cavallo con il suo cavaliere. Fondamentale il trittico di Boccioni, Stadi d’animo, perché riesce ad esprimere nelle figure appena accennate nel fluire del colore la tensione emotiva La sezione Gli anni venti e l’Arte meccanica raccoglie opere composte nel dopoguerra. Balla e Depero dominano questa sezione con le loro opere caratterizzate da rigide architetture formali, che nella loro astrattezza entrano in consonanza con la metafisica. I volumi prevalgono sulle linee come si può ben rilevare nel nudo femminile di Enrico Prampolini. Siamo lontani dalle morbosità dell’arte rinascimentale e barocca ma la femminilità scompare in una costruzione quasi astratta. Segue la sezione Gli anni trenta: l’Aereopittura. I futuristi ora rappresentano il paesaggio visto dall’alto con opere in cui la visione e i rapporti spaziali si distorcono; è l’ultima stagione del movimento. Interessante la sezione dedicata a Dopo il futurismo, che presenta opere di contemporanei, da Fontana a Burri, per rintracciare l’influenza persistente di questo movimento, anche se in espressioni originali del tutto nuove. L’itinerario si conclude in una saletta dove si può visionare una serie di spezzoni di film futuristi, completando lo sguardo panoramico su tutte le forme espressive di questo movimento che ha caratterizzato la cultura italiana negli anni Venti e Trenta.
23
L’Arte e la Follia in scena a Siena
Eventi Il 31 gennaio, presso il complesso Museale Santa Maria della Scala, a Siena, è stata inaugurata Arte Genio Follia mostra che, ideata da Vittorio Sgarbi, si candida ad essere un tentativo “completo” di indagine sul rapporto tra disagio mentale e arte. Compito non facile, per la vastità dell’argomento e per il numero di opere che possano rientrare nel merito: per questo motivo, accanto agli otto diversi curatori che hanno strutturato il percorso della mostra, un ruolo molto importante è stato condotto dalla Fondazione Antonio Mazzotta, che si è occupato del coordinamento scientifico. Sono oltre 400 le opere presenti che illustrano, nelle dieci sezioni in cui è stata suddiviso il percorso, “l’essere nel mondo” degli artisti
di Fiorella Fiore
protagonisti. Giulio Macchi inaugura la prima sezione, “La scena della follia”, che documenta, in nove settesezioni, ordinate in senso cronologico, l’emarginazione dei folli e il loro “riscatto” attraverso l’arte: partendo da Hieronymus Bosch (presente con Le Concert dans l’Oeuf, dal Musée de Beaux-Arts di Lille) si ammirano incisioni, disegni, ma anche “manufatti” dei pazienti e degli strumenti utilizzati dai medici, che raccontano la vita manicomiale del XVII secolo. La mostra, infatti, si articola sul confronto di coloro che hanno indagato la follia al di qua della follia stessa, e chi invece ha fatto dell’arte uno sfogo catartico per liberarsi dei propri demoni: come nel caso di Masserschimdt, artista vissuto nella seconda
Hieronymus Bosch, Il concerto nell’uovo, Lille, Musée de Beaux-Arts di Lille.
24
Victor Brauner, Le Ver luisant, 1933.
metà del XVII secolo che, nelle sue “Köpfe”, Teste di carattere, ha dato un volto emozionante e grottesco ai fantasmi della propria pazzia, “controllati” solo grazie alla scultura. La terza sezione, curata da Fabrizio Pavone e Karin Schick, ha come protagonisti alcuni tra i più grandi nomi dell’arte: Vincent Van Gogh, che ha creato alcuni dei suoi capolavori durante il ricovero volontario presso l’Hôpital Saint Paul à Saint-Rémy-de-Provence, ritratto in una delle
opere presenti; Kirchner, che ha rappresentato un mondo in “putrefazione”, con uno stile e un colore rivoluzionario; Edward Munch, che nel suo celebre Grido ha racchiuso l’urlo dell’intera umanità. E la follia collettiva per eccellenza, la Guerra, diventa oggetto della sezione successiva, curata da Fausto Petrella: opere di Otto Dix, George Grosz, Mario Mafai, Guttuso, si susseguono con ritmo incalzante, aumentando il dramma dello spettatore, amplificato
Vincent Van Gogh, Hopital Saint Remy de Provence, 1889.
Ernst Ludwig Kirchner, Kopf Erna, 1917
25
dalla presenza di specchi che portano a meditare sul labile confine tra la follia e la realtà. Molto interessante la sezione curata da Giorgio Bedoni relativa all’ampia antologica sulla Collezione Prinzhorn di Heidelberg. Hans Prinzhorn, psichiatra terapeuta, animato da interessi artistici, ha considerato la malattia uno stato possibile dell’uomo, in particolare dell’artista: ha collezionato, quindi, diverse opere di “alienati”, molte delle quali in mostra, per una ricerca, a suo dire, “dell’arte autentica”. Uno spirito che anima anche la sezione dedicata all’Art Brut, creata da Jean Debuffet e qui curata da Lucien Pery: l’arte è pensata come possibilità inventiva, animata dal principio di portare l’atto creativo all’istinto primordiale e genuino, quello fanciullesco, lontano dal mero valore dell’estetica. Diverso il sentimento che anima la sezione, forse cuore pulsante dell’intera mostra, curata da Antonio Augusto Tota, e che ha protagonista Antonio Ligabue. Egli ha trovato nell’arte il mezzo più potente per esorcizzare i suoi demoni, dando vita a capolavori dove la rappresentazione della ferocia del mondo animale, specchio
26
del mondo interiore dell’artista, diventa la tragica allegoria della realtà. Attraversando rapidi l’ottava sezione, dedicata al alcuni casi italiani ai margini della pazzia, come Carlo Zinelli, e la nona, dedicata ai rapporti tra arte e follia in Toscana, il percorso termina con La lucida follia nell’arte del XX secolo. Dalla studio, condotto da J.J Lebel, che analizza attraverso il disegno di Henri Michaux l’espressione dell’inconscio, si passa a tre protagonisti del Surrealismo, che sull’inconscio ha fondato la propria poetica: Max Ernst, Andrè Masson e Victor Brauner (diretti sotto l’allestimento e la curatela di Maurielle Gagnebin). Concludono il percorso le opere del Wiener Aktionismus, il movimento azionista viennese che, negli anni ’60, ha condotto una ricerca estrema sulla pazzia, lontana da ogni romanticismo, che colpisce nel profondo e, a volte, disgusta lo spettatore. Arte Genio Follia è una mostra complessa e ambiziosa che riesce, seppur a fatica, a tenere saldo il filo conduttore su uno dei temi più affascinanti del mondo dell’arte. Chiuderà i battenti il 25 maggio.
Eventi
Cartoline dal Giappone
Dalle arti visive alla poesia, dall’architettura alla danza, l’arte orientale è sempre stata qualcosa di diverso rispetto alle forme espressive occidentali. Un’idea di leggerezza e di apparente semplicità la caratterizza da sempre e le ha permesso di suscitare un notevole fascino sul mondo occidentale. Una delle arti maggiormente rappresentative dell’Oriente è la xilografia, tecnica di incisione che ha raggiunto i suoi picchi artistici in Giappone, dove è giunta dalla Cina nell’VIII secolo. Rimasta per secoli confinata nei monasteri buddisti, dove viene utilizzata per la composizione di stampe per testi sacri, trova funzione artistica a partire dal Seicento, in seguito alla pacificazione del Giappone e alla formazione, con il fiorire dei commerci, di una classe mercantile e imprenditoriale cittadina. Con il sorgere della nuova cultura borghese, infatti, si sviluppa una corrente artistica conosciuta con il nome di ukiyoe (letteralmente “pitture del mondo fluttuante”), che ne condivide gli ideali estetici e che domina l’arte della xilografia tra il XVII e il XIX secolo. L’ukiyoe diviene il termine per indicare un nuovo mondo, un modo di vivere all’insegna dei piaceri effimeri, fluttuanti appunto, come l’arte, la moda, il teatro “leggero”, il sesso.
di Francesco Mastrorizzi Il grande merito della scuola ukiyoe è quello di finalizzare la xilografia non più all’iconografia della religione buddista, ma all’illustrazione di temi profani, contribuendo a creare il ritratto di una società vivace ed esuberante, anticipatrice del mondo moderno. Il suo ricco repertorio è costituito prevalentemente da immagini ispirate al teatro popolare kabuki, da ritratti di attori famosi e di cortigiane, da scene di genere, temi familiari, vedute di paesaggio. Prima in bianco e nero e poi a colori, la stampa ukiyoe si afferma come mezzo espressivo autonomo. La produzione è di facile accessibilità e di larga diffusione, con tirature di migliaia di copie e un livello qualitativo altissimo. Nell’arco di quasi tre secoli i pittori dell’ukiyoe realizzano opere determinanti per la formazione dell’arte moderna, che andranno a influenzare fortemente gli artisti europei (da Degas a Monet, da Manet a Renoir, da Toulouse-Lautrec a Van Gogh) e in particolare quelli delle avanguardie francesi. Sicuramente uno dei momenti più alti per il movimento dell’ukiyoe è costituito dall’opera di Hiroshige Utagawa, nome d’arte di Ando Tokutaro (1797-1858). Appartenente a una famiglia di samurai di basso rango di Edo (l’attuale Tokyo), a tredici anni entra a far parte della famo-
Hiroshige Utagawa, Uomo a cavallo mentre attraversa un ponte
27
Sopra: Hiroshige Utagawa, Kanbara. Neve di sera, dalla serie Le cinquantatre stazioni di posta della Tokaido, 1833-1834 ca., xilografia policroma, cm 25,9x38,6, Honolulu Academy of Arts. Pagina a fianco: Hiroshige Utagawa, Argine di Koume, dalla serie Cento vedute di luoghi celebri di Edo, 1857, xilografia policroma, Brooklyn Museum, New York
sa scuola di pittura Utagawa, dove fino al 1830 crea stampe nello stile tradizionale appreso dal maestro Toyohiro (1773-1828), utilizzando alcuni temi tipici del repertorio dell’arte ukiyoe: belle donne, attori, guerrieri del passato. Intorno al 1830 Hiroshige sperimenta la pittura paesistica, dapprima imitando il “grande vecchio” Katsushika Hokusai (1760-1849), che ha da poco pubblicato le sue “Trentasei vedute del monte Fuji”, poi tentando una propria strada nell’interpretazione del paesaggio, che lo porta all’elaborazione di uno stile personale che gli dà immediatamente ampia fama. Con la serie di vedute create tra il 1833 e il 1834 dal titolo “Le cinquantatre stazioni di posta della Tokaido”, da molti considerata il suo capolavoro, ottiene un enorme successo commerciale, che lo spinge a indirizzare da questo momento in poi la sua ricerca pittorica principalmente verso il paesaggio. La consacrazione definitiva si ha nel 1837 con “Le sessantanove stazioni di posta del Kisokaido”, serie già iniziata da Keisai Eisen (1790-1848) e a cui Hiroshige subentra, creando 47 delle 71 tavole. Mentre nell’ukiyoe tradizionale veniva privilegiata la figura umana rispetto al paesaggio, nelle vedute di Hiroshige si può notare una profonda armonia di tutte le componenti. In questo senso il suo approccio alla natura assume un carattere religioso, in quanto basato sulla concezione dell’unità dei diversi elementi del paesaggio in una comune forza universale. Ciò si esprime nelle sue opere attraverso uno stile che in cui le figure umane, ritratte nello svolgimento delle attività quotidiane, sono equilibratamente rapportate agli elementi naturali, quasi a voler creare una similitudine tra uomo e natura.
28
Negli ultimi anni della sua vita produce nuove importantissime serie paesistiche, tra cui l’altro capolavoro “Cento vedute di luoghi celebri di Edo”, stampato tra il 1856 e il 1858. Questa serie, la più vasta mai realizzata nell’ukiyoe, si caratterizza per l’impiego di forti elementi in primo piano, che attirano l’attenzione dell’osservatore, per poi convogliarla verso la scena in secondo piano. Anche dopo la morte di Hiroshige le sue stampe continuarono a essere tirate a migliaia di copie. Ritraendo i luoghi più belli del Giappone, queste incisioni contribuirono a radicare il sentimento di appartenenza al proprio Paese in strati sempre più larghi della popolazione, grazie sicuramente alla loro facile fruizione, ma soprattutto alla forte suggestione visiva, che ne faceva un efficacissimo strumento di comunicazione. Come altri artisti dell’ukiyoe, Hiroshige ebbe anche la capacità di influenzare i pittori europei del secondo Ottocento, impressionisti e post-impressionisti in primis, i quali si ispirarono alla sua interpretazione dei colori e delle luci, al suo modo di rappresentare i fenomeni atmosferici (pioggia, nebbie, brume) e ne apprezzarono la visione delle cose, il modo di concepire la natura. Il caso più celebre è quello di Vincent Van Gogh, che si ispirò profondamente alla sua tecnica e alle sue tematiche e riprodusse in modo fedele alcune sue opere. Per chi volesse ammirare dal vivo le stampe di Hiroshige Utagawa, fino al 7 giugno al Museo Fondazione Roma, in via del Corso, saranno esposte 200 delle sue opere, nella prima mostra a lui dedicata in Italia dal titolo “Hiroshige. Maestro della natura”.
La domanda di Giuseppe Ungaretti
Tr ame
di Andrea Galgano
Chiuso fra cose mortali (Anche il cielo stellato finirà) Perché bramo Dio? “Dannazione” da L’allegria
Misura e mistero: facce di un’esperienza umana mai elisa. Il canto di Ungaretti è quello dell’homo viator, precario, elementare come una domanda. Tutta la lirica è precaria e vibra di un rapporto tra contingenza e assolutezza, tempo ed eterno, vissuti in un’atmosfera afferrata in un discorso poetico sofferto. Nella contraddizione dolorosa dell’uomo c’è un anelito perenne, mono-tono, all’Illimitato, all’Infinito. Ma nello svanire anche di ciò che è eccelso, nella
30
riunione di stelle in cielo spunta una domanda razionale che colpisce la sua posizione umana di poeta e di uomo. Subentra un contrasto tra la limitatezza del reale e l’urgenza “dannata” delle proprie esigenze costitutive. Ma non tutto finisce, dietro lo stupore di quell’esigenza elementare, pur non eliminando quel dolore che lacera, sta quel punto interrogativo carico di attesa e proteso alla risposta e ad una positività anche di fronte al male, così umile, così umano, così limpido.
art Tour a cura di Giuseppe Nolè Torino Egitto. Tesori sommersi
Fino al 31 maggio 2009 Scuderie Juvarriane della Reggia di Venaria, Torino Orari: tutti i giorni ore 9 - 18.30, sabato ore 9 - 23, domenica ore 9 - 20, lunedì chiuso Informazioni: 011 4992333; www.lavenariareale.it Città come Canopo, Heracleion e Thonis evocano immagini di grande magnificenza nelle parole degli autori antichi, ma nessun archeologo le aveva mai individuate. I loro tesori sommersi sono rimasti per secoli sul fondale marino al largo della costa di Alessandria. Gli scavi a partire dal 1992 riportarono alla luce moltissimi reperti il cui valore superava ogni immaginazione. I circa 500 oggetti che compongono la mostra “Egitto. Tesori sommersi”; statue di divinità e sfingi con le fattezze di re e regine, steli, offerte e oggetti liturgici, ceramiche, gioielli e monete, oggetti della vita quotidiana, bardature di guerrieri: una strabiliante collezione di tesori recuperati dal mare che riportano alla vita, alla cultura e alle credenze degli Egizi. La mostra espone preziosi reperti in grado di testimoniare la storia di un popolo, con un allestimento pensato per esaltare la maestosità che emanano.
Roma Cy Twombly
Fino al 24 maggio 2009 Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea Viale delle Belle Arti 131 – Roma Informazioni: 06 32 29 83 28 La Galleria nazionale d’arte moderna ospiterà la prima grande retrospettiva di Cy Twombly a Roma. Pur toccando tutte le fasi della carriera di questo grande artista americano, stabilitosi in Italia nel 1957, l’esposizione, che comprende circa settanta fra dipinti, sculture e disegni, si concentra su alcuni momenti cruciali e opere chiave. Curata da Nicholas Serota, la mostra è organizzata in collaborazione con la Tate Modern di Londra, che ne ha curato il progetto scientifico, e con il Guggenheim Museum di Bilbao. Il commissario della mostra per la presentazione a Roma è Livia Velani. Saggi di Nicholas Cullinan, Tacita Dean e Richard Shiff.
Parigi Filippo e Filippino Lippi. I capolavori dell’arte rinascimentale di Prato in mostra a Parigi
Fino al 2 agosto 2009 Musée du Luxembourg 9 rue de Vaugirard - Parigi Info: 055 6802474; comunicazione@contemporaneaprogetti.it Si è aperta il 25 marzo presso il prestigioso Musée du Luxembourg di Parigi la mostra “Filippo et Filippino Lippi. La Renaissance à Prato”. La mostra, promossa dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici, Paesaggistici, Storici, Artistici ed Etnoantropologici per le province di Firenze, Pistoia, Prato e dal Comune di Prato, si propone di presentare i maggiori capolavori del Rinascimento pratese attraverso le opere di due tra i più importanti artisti italiani dell’epoca: Filippo Lippi e suo figlio Filippino. La mostra è curata da Cristina Gnoni Mavarelli, storica dell’arte per la Soprintendenza e Maria Pia Mannini, conservatrice del Museo Civico di Prato, ed organizzata da sVo-Musée du Luxembourg in collaborazione con Contemporanea Progetti di Firenze.