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Rivista mensile a diffusione nazionale - anno V - num. 5 - Maggio 2009
Celeste Basilica
Giotto e il Trecento
Emozioni in terracotta
Maggio Potentino 2009
Redazione Associazione di ricerca Culturale e artistica C.da Montocchino 10/b 85100 - Potenza Tel e Fax 0971 449629 Redazione C/da Montocchino 10/b 85100 - Potenza Mobile 330 798058 - 392 4263201 - 389 1729735 web site: www.in-arte.org e-mail: redazione@in-arte.org Direttore editoriale Angelo Telesca editore@in-arte.org Direttore responsabile Mario Latronico Impaginazione Basileus soc. coop. – www.basileus.it Stampa Arti Grafiche Lapelosa - tel. 0975 526800 Concessionaria per la pubblicità Associazione A.R.C.A. C/da Montocchino, 10/b 85100 Potenza Tel e fax 0971-449629 e-mail: pubblicita@in-arte.org informazioni@in-arte.org Autorizzazione Tribunale di Potenza N° 337 del 5 ottobre 2005 Chiuso per la stampa: 9 maggio 2009
Sommario Editoriale
Straordinaria e incomparabile bellezza di Angelo Telesca ......................................................... pag.
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Persistenze
Celeste Basilica di Giuseppe Nolè........................................................... pag. Il Castello di Auletta di Davide Pirrera............................................................ pag. Fregi ed ornamenti: sviluppi di una fortuna decorativa di Gianmatteo Funicelli.................................................. pag.
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Cromie
Vite risorte nell’arte: Masaccio e Yves Klein di Antonio Maiorino........................................................ pag. 10-11 Il teatro ebraico di Mosca di Marc Chagall di Piero Viotto................................................................ pag. 12-13 Luca Celano: Neorealismo “vernacolare” di Chiara Lostaglio......................................................... pag. 14-15
Mythos
Il mito di Eros e Psiche: due scultori italiani a confronto di Fabrizio Corselli......................................................... pag. 18-19
Architettando
Un’architettura con la “A” maiuscola di Mario Restaino.......................................................... pag. 20-21
Eventi
Giotto e il Trecento di Angela Delle Donne................................................... pag. 22-23 Emozioni in terracotta: Mazzoni e Begarelli di Fiorella Fiore.............................................................. pag. 24-27 Gli armonici contrasti di Marialuisa Sabato di Fiorella Fiore.............................................................. pag. 28-29 La Festa del Maggio di Accettura di Sonia Gammone........................................................ pag. 30
In copertina: William Adolphe Bouguereau, A Young Girl Defending Herself Against Eros, 1880 La redazione non è responsabile delle opinioni liberamente espresse dagli autori, né di quanto riportato negli inserti pubblicitari.
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Straordinaria e incomparabile bellezza di Angelo Telesca
“…La bellezza della più giovane era così straordinaria e così incomparabile che qualsiasi parola umana si rivelava insufficiente a descriverla e tanto meno a esaltarla.” Con queste parole, con le quali Apuleio nella Metamorfosi descrive la favola di Amore e Psiche, vogliamo aprire questo nostro numero di In Arte. Un numero ricco di spunti di bellezza artistica e di novità. Ed è proprio la nuova rubrica Mythos, che in questo numero prende il via, la novità più significativa: un percorso alla scoperta del mito greco nell’arte moderna, attraverso il confronto di artisti che, con fantasia, immaginazione e abilità, hanno “fermato” le scene mitologiche in una statua o un dipinto. La serie è inaugurata dal confronto tra Talani e Canova sul mito di Amore e Psiche, ma continuerà nei prossimi mesi con altrettanto interessanti confronti artistici. Prosegue il percorso sulle tracce della devozione all’arcangelo Michele con l’articolo di Giuseppe Nolè sul santuario micaelico di Monte Sant’Angelo nel Gargano. Molto interessanti, nella rubrica Cromie, gli articoli di Piero Viotto e Chiara Lostaglio rispettivamente sulle opere pittoriche di Marc Chagall e Luca Celano; sicuramente curioso l’accostamento, operato da Antonio Maiorino, tra l’opera pittorica di Masaccio e le cromie di Yves Klein. Segnaliamo poi le recensioni di Angela Delle Donne alla mostra di Giotto in corso al Vittoriano a Roma e di Fiorella Fiore alla mostra che a Modena, presso il Foro Boario, ripercorre la vita e le opere dei due plasticatori modenesi Guido Mazzoni e Antonio Begarelli.
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Celeste Basilica Persistenze
Monte Sant’Angelo sorge su uno sperone di roccia di natura calcarea nel promontorio del Gargano, con vista aperta sul Tavoliere delle Puglie e sul golfo di Manfredonia. La particolare conformazione del territorio lo arricchisce di numerose caverne e grotte tra le quali la più nota è quella di S. Michele Arcangelo. La storia dell’intera area infatti prende il via proprio dalla consacrazione e dalle vicende della imponente chiesa dedicata, nel 493 d.C., all’Arcangelo Michele: secondo la tradizione Elvio Emanuele, ricco signore del Gargano, aveva smarrito il più bel toro della sua mandria ritrovandolo casualmente dentro una caverna inaccessibile. Vista l’impossibilità di recuperarlo, decise di uccider-
di Giuseppe Nolé
lo con una freccia, ma la freccia inspiegabilmente invertì la traiettoria e colpì il signorotto ferendolo. Meravigliato si recò da Lorenzo Maiorano, vescovo di Siponto, per raccontare l’accaduto. Dopo averlo ascoltato, il vescovo indisse tre giorni di preghiere e di penitenza al termine dei quali san Michele apparve in sogno al signorotto. Fu così che, a partire da epoche altomedievali, si ebbe un considerevole flusso di pellegrini verso il santuario micaelico, benedetto nei secoli successivi da altre tre apparizioni dell’Arcangelo. Numerose erano le strade che collegavano le città costiere con quelle dell’interno e il santuario fu inserito lungo la direttrice per la Terra Santa, divenendo tappa inter-
Monte Sant’Angelo (FG), atrio superiore del Santuario di San Michele Arcangelo.
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media dell’itinerario devozionale e penitenziale tipico dell’alto-medioevo. L’atrio dell’attuale Basilica è delimitato da un colonnato e sulla destra si scorge l’imponente Campanile ottagonale costruito nel 1274 da Carlo I d’Angiò; la caratteristica del Campanile è data dal fatto che esso fu modellato secondo lo schema e le proporzioni delle torri del vicino Castel del Monte. Diviso in quattro piani con arcate cieche a tutto sesto, con cornici variamente ornate, in particolare le mensole fra il secondo e il terzo piano sono abbellite con motivi floreali e geometrici; nei vari piani si ammirano alcuni elementi architettonici di rara bellezza: una bella monofora e quattro bifore di cui tre ad archi gotici e la quarta ad archi a tutto tondo. Dall’atrio superiore, attraverso due archi, si accede ai due portali; quello di destra, con capitelli e architravi scolpiti, è opera di Simone da Monte Sant’Angelo nel 1395. Da qui inizia la scalinata che porta verso la mistica grotta; essa si chiude con un portale che risale all’anno 1652, chiamato tradizionalmente Porta del Toro, perché in origine era decorato con una rappresentazione della leggenda del toro. Ripercorriamo il cammino di fede e devozione che i pellegrini compiono ininterrottamente dal medioevo. Entrati attraverso il portale romanico ci si trova all’interno della “Celeste Basilica”, luogo prescelto da S. Michele per portare il suo messaggio di pace. La prima parte si presenta in muratura, con una navata di stile gotico (la c.d. navata angioina), divisa in tre campate con volta a crociera e un abside. In fondo alla navata angioina si trova un altare in stile barocco, datato 1690; molto belle le tre statue in pietra di San Giuseppe, San Nicola di Bari e Sant’Antonio di Padova e il tabernacolo che risale alla prima metà
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del XIX secolo. La seconda parte della Basilica è invece una grotta allo stato naturale: la volta rocciosa è irregolare e mostra con chiarezza le venature originate nel passato da un costante stillicidio di acque piovane. Il pellegrino scopre angoli più caratteristici, rimanendo incantato per la naturalità della grotta e per l’arte che in essa vi si può ammirare. Ogni epoca infatti vi ha lasciato la sua impronta: arte bizantina, romanica, gotica, moresca e ravennate fino al Rinascimento. A sinistra, nel presbiterio, si trova la Cattedra Episcopale. Realizzata dallo scultore Acceptus è un’opera dell’arte romanico-pugliese con visibili influssi bizantini. A destra invece è stata collocata la statua di San Sebastiano. Accanto al presbiterio ci si raccoglie in preghiera davanti all’altare della Madonna del Perpetuo Soccorso. Brilla, nella penombra della grotta, il San Michele Arcangelo in marmo realizzato all’inizio del XVI secolo: collocata sull’altare delle Impronte, la statua è opera di altissima qualità; inizialmente si pensava fosse di Andrea Sansovino sulla base di una tradizione locale, ma recentemente è stata attribuita allo scultore toscano Andrea di Pietro Ferrucci. L’Arcangelo è ripreso nell’atteggiamento del guerriero vittorioso che calpesta l’avversario in forma di mostro: ammirabile il viso gentile, sereno e sorridente. Un anonimo pellegrino, quasi mille anni fa, scrisse: “Il Santuario di S. Michele è dovunque conosciuto ed esaltato non per lo splendore dei suoi marmi, ma per gli eventi prodigiosi che qui sono avvenuti: di forma modesta, esso è, però, ricco di celesti virtù, poiché si degnò di edificarlo e consacrarlo lo stesso Arcangelo Michele.”
Il Castello di Auletta Persistenze La Campania è anche terra medievale. Essa offre allo studioso ed al visitatore una grande varietà di tipologie di fortificazioni che indubbiamente qualificano la regione come territorio chiave nei transiti e nella sfera politica e militare dei signori feudatari. Il castello di Auletta, è uno degli esempi più interessanti. Un periodo senza dubbio florido per quanto riguarda la fortificazione e la popolazione, fu l’epoca longobarda, che vide la crescita demografica del paese andare di pari passo con la crescita dell’importanza strategica della fortificazione. Da ricordare, è un illustre possessore e signore: Guglielmo di Principato della stirpe degli Altavilla che, come tutti sanno, ebbero il controllo quasi totale della Sicilia e di parte del nostro meridione, arricchendo le città di sublimi fortificazioni e di esempi di architettura militare degni dei più illustri ingegneri dell’epoca. L’ultima famiglia nobile proprietaria del castello di Auletta, fu quella dei Di Gennaro, famiglia illustrissima iscritta all’Albo d’Oro delle famiglie nobili di Napoli. Possiamo parlare di uno sviluppo vero e proprio del maniero di Auletta nel momento in cui esso viene a far parte del sistema difensivo del Ducato di Salerno che, indubbiamente, permise alla fortificazione di essere oggetto di numerose ristrutturazioni e aggiustamenti che hanno contribuito a preservarlo il più possibile
di Davide Pirrera nel tempo. L’impianto architettonico, che vediamo oggi, è da ricondurre ai primi anni del 1500, quando Antonio Marchesi venne al seguito di Alfonso Duca di Calabria e volle operare dei cambiamenti architettonici adeguandoli ai nuovi tempi ed alle nuove tecniche militari. Riconducibile, con certezza, alla primitiva impostazione architettonica, è il “torrione cilindrico” nell’angolo nord del giardino. Il cortile, di forma trapezoidale, ha la base minore verso il portale d’ingresso e costituisce il cuore del Castello, che vi si affaccia con un piano terreno, destinato a cantina e depositi, ed il piano nobile. Ogni fortezza medievale, infatti, prevedeva sale e ambienti destinati a diversi utilizzi al fine di poter soddisfare ogni necessità e mantenere il castello il più possibile autosufficiente. Nella zona riservata all’ingresso, è possibile vederne il prospetto ed una bella scala che permette l’accesso all’appartamento nobiliare. Altre due scale, collocate ai lati dell’atrio d’ingresso, collegano il cortile con il piano superiore ed il sottotetto. All’interno, vi sono varie sale arredate con semplicità ed eleganza ed anche una piccola cappella. Se Auletta risulta comunque speciale lo deve prprio al suo castello, depositario di storia, che si inserisce in maniera prepotente nel già cospicuo novero delle fortificazioni militari medievali di rielievo del nostro meridione di Italia.
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Persistenze Dal periodo che precede l’immediato stile arcaico, in tutto il periodo arcaico accompagnerà di frequenper poi protrarsi in tutto il primo arcaismo (600-550 te lo spazio scultoreo del tempio. Essa si prefigura a.C.), gli edifici templari coronavano le loro turgide nell’iconografia della “corsa in ginocchio” – primo e monumentali costruzioni inserendo, nel proprio tentativo iconografico capace di superare il ristretrepertorio architettonico di gusto locale, elementi to dinamismo spaziale dell’angusto frontone - dove complementari di linea maggiormente vivace e di la parte superiore della figura rimane in prospetto estetica mirata. mentre le gambe si pongono di profilo. Medusa di La funzione di questi oggetti però fu dapprima funconsueto stringe (o si accentra) i due figli Pegaso, zionale: si tratta di elementi fittili quali lastre ed ograffigurato a sinistra, e Chrysaor di cui in quest’opegettistica acroteriale destinati a proteggere il tetto ra non resta però nulla. Raffigurazione tipica della ancora di legno dei grandi edifici di culto. Con l’ingorgone sono i suoi tratti espressamente mostruonovata “pietrificazione” sull’intera massa del tempio, questi elementi perdono la secondaria funzionalità di paratetti o gocciolatoi per integrarsi nel motivo artistico delle strutture stesse. Così dai primi elementi fittili si passa a realizzazioni in pietra che nel corso dei secoli tendono a monumentalizzarsi, costituendo sui lineamenti del tempio un ruolo di predominanza decorativa. Particolarmente per il mondo italiota e siceliota, il repertorio decorativo sovrabbonda di inventiva e forte gusto cromatico, il quale spazia dal semplice motivo geometrico per poi emanciparsi su vere e proprie rappresentazioni figurate: le decorazioni connotano i grandi spazi metopali, i fregi frontonali e i vertici delle falde del tetto (c.d. acroteri). Nell’area sacra di Ortigia presso Siracusa, dove un tempo vi era il culto di Atena, gli scavi hanno restituito una lastra in terracotta con scena figurante una Gorgone. Questo elemento - datato intorno al 600-575 a.C. e depositato presso il Museo Archeologico di Siracusa - alto pressappoco 50 centimetri, doveva presumibilmente far parte di un fregio frontonale di un tempio dell’alto arcaismo, sul quale questa era fissata con dei chiodi di cui rimangono prova i cinque fori. La figura rappresenta la mitica e convenzionale Medusa, la quale Nike in volo, fine VI sec. a.C. (statua di sinistra)
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Fregi ed ornamenti: sviluppi di una fortuna decorativa di Gianmatteo Funicelli
si, con la lingua cadente da cui fuoriesce il ghigno terrificante. La tunica corta e la tipica acconciatura “a lumachella” rimarranno perpetuati in tutta la corrente stilistica, incluso il forte cromatismo delle vesti e dei particolari anatomici (di cui possiamo attingere maggiore comprensione in una ricostruzione affissa nel Museo Archeologico di Paestum). Questi principi di forte vitalità, sia tematica che cromatica rappresentano sulla scultura frontonale il risultato di un’adozione del mostro marino prettamente apotropaica, destinata cioè a scacciare le entità malefiche
Nike in volo, fine VI sec. a.C. (statua di destra)
dal circuito sacro. Di livello stilistico maggiormente avanzato, ma di eguale valenza artistica, sono invece due acroteri di fine VI sec. a.C. , destinati ad uno edificio sacro non ancora del tutto identificato. Questi rappresentano due Nikai in volo, ossia due vittorie alate molto idolatrate sia nel periodo greco che nel mondo romano. Le statuette furono rinvenute in uno sterro del centro cittadino di Taranto durante uno scavo del 1934, nella piena scoperta del tessuto urbanistico antico. Realizzate in preziosa terracotta, costituivano entrambe la decorazione della sommità del tetto di un sacello di epoca coloniale. Le due figure si presentano rispettivamente simmetriche e nell’atto di avanzare verso il centro nel solito schema “in ginocchio”, indossando un approssimato chitone a manica corta evidenziato da un panneggio lievemente accennato. La mescolanza degli stili espressamente evidente nelle due figure, vuole i due acroteri di gusto ionizzante sui volti – rappresentati molto ovali, goffi e coronati da acconciature simmetriche a grosse ciocche – e le vesti pesanti e rigide di gusto formalmente tarantino, queste ottenute con delle ferme incisioni ‘a stecchetta’ sul prodotto ceramico. Attualmente le due opere sono strettamente corrisposte nel museo nazionale di Taranto. Combinazioni stilistiche si notano anche nei differenti abbigliamenti, di cui una predilige la corona di rose, mentre l’altra il polos svasato integrato al costume tipicamente ionico. Entrambi i reperti, dunque, riescono ad emergere dal contesto archeologico secondario di cui fanno parte, per confermarsi un ruolo di dominanza estetica capace di essere un ulteriore testimonianza della vitalità dell’artista arcaico, nonché un maggiore elemento di studio e comprensione di linguaggi alternati o progressivamente superati.
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Cromie
Vite risorte nell’arte: Masaccio e Yves Klein di Antonio Maiorino
tico di Pisa, è una simbolica resurrezione: dall’inorganico fondo oro su cui campeggia il Cristo, verso l’afflato vitale di un’arte che si scrolla di dosso le gabbie paralizzanti dello stile. «Puro et senza ornato», per l’umanista Cristoforo Landino (1481): purezza d’arte è purezza di vita, che pulsa negli affetti d’una Maddalena inconsolabile, nella fisicità d’una Madonna nerboruta, nella spazialità del perizoma cavernoso d’un Cristo. Due anni dopo, a Roma, una morte precoce coglierà l’artista: ma il dipinto, semmai, è un presagio d’immortalità, con quell’Albero della vita sulla Croce riemerso sotto la tabella “INRI” di età successiva nel restauro del 1958. 1958, 28 aprile: apre alla Galerie Iris Clert di Parigi “Epoque Pneumatique”, mostra poi nota come “Le vide”, poiché esponeva… il vuoto. L’autore è Yves Klein, anch’egli morto giovane (Nizza, 1928- Parigi,1962), come bruciato da troppa vita. Uno scrittore, A. Camus, annota sul registro dei visitatori: «con il vuoto, pieni poteri». I poteri dello spirito – “pneuma” – che aleggia nel vuoto: dove si vive, e non si impaglia la realtà in un’immagine. L’artista nella galleria vuota è come il Cristo pulsante sul fondo oro, senza paesaggio, di Masaccio: il trionfo della vita. «Sono il pittore dello spazio. Non un pittore astratto, ma al contrario un pittore figurativo e realista». Parole che suonerebbero bene in bocca a Masaccio: conquistatore dello spazio, con la prospettiva centrale; figurativo “senza ornato”; realista “doc”, come nella Cappella Brancacci (Firenze), dove le Storie di Pietro sembrano vissute a Firenze piuttosto che in Galilea. Eppure sono parole di Klein, che al pari di Masaccio si sente un realista, perché ogni atto creativo, se dettato da un’ispirazione vitale, è un fatto figurativo, cioè una rappresentazione dell’universo dell’artista: un universo non meno tangibile di quello del pittore fiorentino. Come nei monocromi blu, quadri di un sol colore: «che cos’è il blu? Il blu è l’invisibile che diventa visibile». Quell’”invisibile” è lo spirito, il seme vitale: un seme che, in storia dell’arte, ciclicamente torna a germogliare, nel ‘400 come nel ‘900. In alto un’opera di Klein esposta presso il centro Pompidou. Nella pagina a fianco la Ogni evo artistico ha i suoi ristagni vitali. Nella Firenze d’inizio ‘400 la pittura, mummificata da decenni nella sterile accademia giottesca, si esalta nello spasimo artificiale del gotico internazionale al ritorno in patria di Gherardo Starnina, nel 1401, dopo la full immersion iberica tra Toledo e Valencia. Stupiscono, le genti fiorentine, alle cromie accese del maestro sui gorghi di sete e velluti di figure innaturalmente allungate: pittura elegante, fantasiosa e mondana, ma confinata in un limbo prezioso quanto irreale. Intanto un frugoletto della vicina Castel S. Giovanni, orfano di padre già a cinque anni, cresce giocando col fratellino, lo “Scheggia”, tra vichi popolosi e vocii di piazze, con lo spettacolo d’una violenza sempre pronta ad esplodere. Cresce, il frugoletto, eccome: Masaccio (14011428), robusto apostolo del naturalismo, di un’arte che deflagra i bozzoli dorati del tardo gotico con battito d’ali scrosciante di vita. Le volumetrie di Giotto; la prospettiva di Brunelleschi; la vena popolare di Donatello; il tutto, impastato col lievito di umanità ritrovata: e la rivoluzione è servita, il risultato è di «risvegliare la pittura e di rianimarla con un’urgenza di vita, finalmente reale e terrena, che mai aveva avuto prima di allora» (R. Longhi). La Crocifissione del 1426 conservata al Museo di Capodimonte (Napoli), “nata” dallo smembrato Polit-
Crocifissione del Museo di Capodimonte di Masaccio.
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Cromie
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Qualche tempo fa sono stato al Museo della Fondazione Pierre Gianadda a Martigny per una mostra di Marc Chagall nella quale si poteva ammirare, nella sua completezza, la decorazione del teatro ebraico di Mosca che Marc Chagall aveva dipinto negli anni ‘20. L’artista aveva decorato le pareti della sala come se in questa stanza si svolgesse una festa di nozze. Purtroppo le decorazioni del soffitto è andata perduta, il sipario si può ricostruire solo attraverso i bozzetti che sono stati ritrovati, ma restano una grande tempera di tre metri per otto sulla parete interna senza finestre, quattro pannelli collocati negli spazi di un metro per due tra una finestra e l’altra della parete sul lato della strada, raccordati da una lungo fregio sovrastante, alto 60 cm e lungo otto metri, in cui l’artista ha disegnato i piatti, i bicchieri, le posate e le vivande di un pranzo di nozze ebraico e che costituisce la più lunga natura morta nella storia dell’arte. Si tratta di una festa contadina e Chagall si serve di tutto il folclore russo per rappresentarla, ma per l’artista è qualche cosa di più, è il segno dell’amore
universale tra gli uomini e degli uomini con Dio ed anche una celebrazione della bellezza della creazione. Lo dice l’artista in una intervista citata nel catalogo della mostra “Io amo l’amore. Tutto ciò che dipingo è sull’amore e sul nostro destino. L’amore mi aiuta a trovare il colore ed io non faccio che posarlo sulla tela. È più forte di me e viene dal profondo dell’anima. È cosi che io vedo la vita”. Sono veramente emblematiche le quattro figure monumentali rappresentate sulle pareti tra le finestre, che poi vennero considerate come la musica, la danza, il teatro e la poesia, ma che nell’intenzionalità dell’artista rappresentano i protagonisti della festa. In mezzo la sposa che danza, tra un cantastorie ambulante e il violinista, a lato il rabbino che deve benedire le nozze. La Danza è una signora corpulenta, la sposa, ma che si nuove con agilità con a fianco alcuni strumenti musicali ed in basso, piccolissimo, il marito. La Musica è un violinista, magro, seduto su di uno sgabello con ai piedi e sulla testa le case del villaggio. Il Teatro è un cantastorie, rigorosamente vestito di nero, in piedi
Marc Chagall, Musica
Marc Chagall, Poesia
Il teatro ebraico di Mosca di Marc Chagall di Piero Viotto su di una sedia, quasi sotto al lampadario. La Poesia in realtà è un rabbino che annota e registra avvenimento sul rotolo di pergamena, e sembra quasi ad un evangelista della iconografia cristiana, un san Luca, ma che anziché essere accompagnato dal bue è accompagnato da una mucca. Realismo e fantasia si fondono in un insieme di forme e di colori, con un sottile umorismo traboccante di umanità. Il pannello sulla parete di fronte ha per titolo Introduzione al teatro ed è una sequenza multicolore di personaggi, che gesticolano sulla scena, clown, acrobati, saltimbanchi, musicisti, alcuni a testa in giù, con al centro il direttore d’orchestra. Un arcobaleno attraversa tutto lo spazio e fa da sfondo alle figure, da una parte un attore porta in braccio Chagall con la sua tavolozza: è il trionfo della vita in un villaggio russo. In questa sala per teatro di Mosca c’è già tutta la poetica dell’Artista. Marc Chagall si è interessato molte volte al mondo del teatro, all’opera, alla musica e alla danza. Nel 1942, quando è in esilio in America, mentre soggior-
na in Messico, prepara scene e costumi per il balletto Aleko su musica di Cajkovskj che viene allestito al Metropolitan Opera di New York. Nel 1945 a New York dipinge scenografie e costumi per il balletto L’uccello di fuoco di Igor Stravinskij sempre per il Metropolitan Opera. Rientrato in Francia nel 1958 prepara la decorazione per il balletto Dafne e Cloe di Maurice Ravel per l’Opera di Parigi, tema a cui aveva dedicato una serie di litografie a colori. Nel 1965 lavora per l’opera lirica di Mozart Il flauto magico. ancora allestito al Metropolitan Opera di New York, Ma la sua opera più significativa in questo campo, che in un certo qual senso rimanda al teatro ebraico di Mosca è la decorazione del soffitto del Teatro dell’Opera di Parigi voluta da André Malraux realizzata negli anni Sessanta. Tutte opere in sequenza, da Mosca a New York a Parigi, raccordano la poesia e la musica alle arti figurative, e fanno di Marc Chagall il genio universale dell’arte contemporanea, che sa unire il mondo slavo al mondo occidentale.
Marc Chagall, Teatro
Marc Chagall, Danza
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Cromie Nel suo studio, Luca Celano ha da poco terminato una nuova opera che non ha ancora un nome. Il soggetto, ancora una donna mediterranea e morbida. Chine e indaffarate nel lavoro dei campi o intente a denudarsi, le donne di Celano sono colte nella spontaneità di un gesto laborioso o di una movenza sensuale, prorompenti nelle forme e nell’intensità cromatica. La loro personalità richiama le matrone romane in un contesto bucolico, intriso di lucanità. In esso, talvolta, è presente un cielo che ricorda il Tirolo o l’Austria, luoghi che l’artista ha visitato ed amato. La fusione di vari soggetti è un altro dei motivi espressivi di Celano, che fonde in una pittura autobiografica, i diversi momenti della sua vita. La profonda conoscenza dell’anatomia traspare anche nella fisicità dei braccianti costantemente con un attrezzo di lavoro in mano, feticcio che esprime, in modo neorealista, la fatica del lavoro. “Racconto per immagini” dice l’artista “unisco più temi, più tassel-
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li con una linea comune, come se dirigessi un film. Come se fossi un regista”. Ed è proprio l’amicizia con il regista e sceneggiatore Cesare Zavattini che lo fece appassionare a quel Neorealismo con cui racconta una Lucania “postleviana” e “postscotellariana”, la cultura del lavoro e la natura incontaminata, emblema di una civiltà non ancora calpestata dalla corsa al denaro, dalla perdita di ideali, dalla crisi delle grandi città. Un racconto che evidenzia il suo profondo legame con il territorio. Il lavoro di Celano è una continua ricerca delle cose passate, ma che appartengono al quotidiano, all’esistenza. La pittura per raccontare ma anche come arma di protesta e di denuncia sociale, che dica il non detto. Il Neorealismo pittorico di Celano non racconta solo la Lucania. La sua sensibilità lo ha portato a interpretare anche la sofferenza, la paura della gente che fuggiva dal Kossovo, come nell’ opera I Kossovari. “Prendo in prestito i vocaboli della poesia e della
Luca Celano: Neorealismo “vernacolare” di Chiara Lostaglio
musica per la mia pittura” sostiene “ho fatto mie le parole di Leonardo da Vinci: la pittura è poesia muta, la poesia è pittura cieca”. Ed è proprio dal genere pittorico del XVI-XVII secolo “Poesia” - che indica un dipinto di argomento mitologico, pagano, specie erotico - che il suo linguaggio pittorico prende qualche riferimento. Come pure dal genere bizzarro Capriccio, nato in epoca manierista, sviluppatosi tra Seicento e Settecento che assembla ruderi dell’antica Roma; si tratta di un dipinto di piccole dimensioni che rappresenta un’immagine o una figura fantasiosa, ovvero una composizione bizzarra frutto dell’estro e della libera creatività soggettiva. Molti sono i riconoscimenti di questo artista lucano, Maestro Accademico, che vive ed opera tra la Lucania e Roma. Il suo legame con la Capitale e la sua regione, lo vede sempre impegnato a diffondere la sua arte e l’identità lucana espressa in modo esclusivo, in un continuo rimando alla realtà contadina. Attraverso la pittura “a corpo” pastosa e densa oppu-
re mediante il “guazzo” (monocromo appena diluito), Celano racconta la terra, la quotidianità di gesti autentici, prelevandoli dalla memoria per poi immobilizzarli in vigorose forme e cromie, come in un’istantanea. Ricordi, i suoi, al cospetto della storia.
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2009 Anno internazionale
dell’astronomia A Castelgrande
A Castelgrande (PZ), si erge ad un’altitudine di 1248 m s.l.m. il prestigioso Osservatorio Astronomico del Toppo. Qui per tutto il 2009 si avrà la possibilità di partecipare ad un evento di risonanza mondiale: l’Anno Internazionale dell’Astronomia. A distanza di 400 anni dalla prima osservazione galileiana, 135 Paesi saranno impegnati a rispondere all’invito del Comitato Organizzatore: L’Universo, a te scoprirlo. Castelgrande è già pronto ad accogliere scienziati ed appassionati di astronomia con eventi finalizzati a creare un connubio tra scienza, cultura e tradizione. Il nucleo centrale degli appuntamenti in programma sta nella 1ª edizione del Festival del Cinema Astronomico di Castelgrande, le cui giornate conclusive si terranno il 26 e 27 settembre. Grande rilevanza avrà anche il 1° Campionato dell’Astronomia di Castelgrande, in cui gli studenti delle scuole secondarie potranno misurare il potenziale dei propri studi attraverso originali questionari
a tema, ma anche avere un’occasione di incontro con astronomi e astrofili. Troveranno spazio anche il Concorso di favole astronomiche, un concorso letterario rivolto agli studenti delle scuole primarie, il Concorso di Pittura astronomica (competizione rivolta agli studenti di Licei Artistici ed Istituti d’Arte). Irrinunciabili saranno le visite al Museo della strumentazione astronomica, spazio espositivo appositamente creato per ripercorrere la storia dell’astronomia e delle scoperte scientifiche di settore. L’esperienza diretta non mancherà nelle notti di Osservazione del cielo con visite guidate all’Osservatorio Astronomico, come pure interessanti saranno le numerose Conferenze e Tavole Rotonde. Il programma troverà la sua declinazione accademica nel Corso a numero chiuso di alta formazione astronomica., ma verrà dato risalto anche alle migliori tesi di laurea in materie scientifico-astronomiche attraverso un premio denominato Laurea tra le stelle.
Nel trattare il mito di Eros e Psiche, non possiamo non relazionarci, nel campo della scultura, a due grandi artisti italiani. Il primo ad aprire questo “confronto” sarà Antonio Canova. Canova riprende la vicenda narrata nelle Metamorfosi di Apuleio con grande fervore artistico; una trasfigurazione che travalica la semplice materia, in virtù di quelle caratteristiche di cui i greci furono unici detentori, e delle quali Winckelmann fece sperticato elogio nella propria opera Pensieri sull’Imitazione, ossia la “nobile semplicità” e la “quieta grandezza”. Un senso altamente tragico che si snoda lungo il tema della quarta prova, inflitta a Psiche da Afrodite, e a causa della quale la ninfa “muore” per aver aperto la pisside che conteneva il dono di Persefone, oggetto della stessa fatica. I due protagonisti sono ritratti mentre si abbracciano, nell’atto che precede il bacio, un momento carico di
Antonio Canova, Amore e Psiche.
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tensione che induce l’osservatore a divagare, e che quindi non si esaurisce nel compimento definito di quell’azione apparentemente statica. Una scultura realizzata in marmo bianco, levigato e finemente tornito, nella quale Canova è capace di trasformare gli aspetti leggiadri, e sottilmente sensuali, in una bellezza in cui la purezza e la lucentezza della stessa levigatura la pongono sul piano dell’idealizzazione, divenendo così eterna e universale. Una beltà che viene sottratta all’imperio della violenza e delle passioni troppo forti, lasciando che quella decantata leggerezza e seraficità plastica donino all’immobilità delle statue stesse la sensazione di un proprio movimento, così da renderle vive. Amore e Psiche è un capolavoro nella ricerca dell’equilibrio, in tutti i suoi aspetti. Le due figure vengono incapsulate all’interno di una struttura piramidale, in cui il tutto viene bilanciato da una speculare forma triangolare costituita dalle ali aperte di Eros. E qui, entrano in gioco le braccia di Psiche in un abbraccio che evidenzia il punto focale in cui converge tutta la tensione del momento. Il cerchio che si viene a formare dall’azione di Psiche, incornicia volti dei due amanti, amplificando così un desiderio senza fine che cerca di venir fuori, di esternare il proprio contenimento: lo sprigionamento di un potere così grande come l’Amore. Come molte altre opere che hanno trattato tale mito, per esempio nel Crespi, l’ordine di trattazione non è solo strutturale ma si evolve anche sul piano delle implicazioni. In questa maniera, la dimensione di Thanatos, viene sospesa, e parimenti l’annullamento dell’Eros stesso che ne deriverebbe dalla risoluzione del bacio.
Il mito di Eros e Psiche: due scultori italiani a confronto di Fabrizio Corselli zione e altresì agitazione interiore. La meditazione è lo stato che maggiormente domina la scena; anche qui, secondo il canone estetico greco, la figura è nello stato di tranquillità, poiché, come nel complesso del Laocoonte, «l’anima si conosce e si caratterizza maggiormente nelle passioni violente; grande però e nobile lo è solo nello stato dell’unità, della tranquillità». Psiche infatti, giacente per terra, nell’avere volontariamente aperto la pisside donatale da Persefone non dà segno di vita: non è morta, non è addormentata, ma è in uno stato di torpore che per i greci legava l’individuo alla dimensione del sogno, lambendo quasi la dimensione profetica. È in questo stato che Psiche contempla la possibilità di ricevere in dono quegli strumenti che le consentiranno di sedurre e conquistare il dio dell’Amore. A Tenerani il merito di aver reso con gran capacità di sintesi uno dei momenti più lirici del mito. Un altro grande scultore, legato al mito di Eros e Psiche è, senza dubbio, Pietro Tenerani. Nato a Carrara, capitale del marmo, lo scultore diviene allievo di Canova e di Thorvaldsen. Da ambedue eredita la forte componente neoclassica che riverserà nell’arte scultorea, aderendo ai canoni estetici greci con grande purezza formale. Pur derivando da essi i dettami dell’arte greca, Tenerani comunque approfondisce lo sviluppo delle pose e le espressioni delle sue figure, donando loro una forte carica drammatica, mista a quella levigatezza e gioco di luce che diventarono fondamenti dell’idealizzazione neoclassica. Grande esempio di tensione drammatica e puro formalismo lo ravvisiamo proprio nella sua Psiche Svenuta. Una sintesi di tratti semplici e ideali, che a differenza delle statue di Thorvaldsen, suo mentore, risultano essere molto più morbide, più plastiche, e per questo più vicine al Canova. Nella Psiche Svenuta, Tenerani apre la “scena” in media res, nel momento più difficile se non drammatico della vicenda mitica, dovendosi cimentare nell’espressione di uno stato emotivo che si muove nel “trapasso”, nel “passaggio” dalla veglia all’incoscienza. Le ali sono chiuse e la testa è reclinata di lato, con garbo, presupponendo quasi uno stato di contemplazione nel rendere più serafica la posizione del collo, e non di abbandono totale come ci si aspetterebbe da un contraccolpo. Le braccia sono in uno stato di placida quiete, distese. Tale è la leggerezza degli arti che il braccio sinistro sembra quasi poggiare sulla roccia, e non come un far forza su un appiglio. L’idealizzazione presto scaturisce da un gioco di luci e ombre che sviluppa il senso di cogita-
Pietro Tenerani, Psiche svenuta.
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Architettando Il Solomon R. Guggenheim di New York è, insieme al Peggy Guggenheim sul Canal Grande a Venezia ed al Guggenheim Hermitage a Las Vegas, uno dei tre musei appartenenti alla omonima fondazione istituita nel 1937 dall’industriale del rame e collezionista Solomon R. Guggenheim, ebreo di origine svizzera, e dedita ancora oggi alla collezione, conservazione e studio delle opere d’arte dei nostri tempi. Ma lo stesso edificio che ospita il museo di New York, progettato dall’architetto americano Frank Llyod Wright, su incarico della baronessa Hilla Rebay von Ehrenwiesen, prima direttrice della neonata fondazione, e completato nel 1959, sei mesi dopo la morte del maestro, può essere considerato un’opera d’Arte. Wright era un “visionario” dell’architettura che cercava di esplorare l’inesplorato, allontanandosi dai metodi progettuali tradizionali e forzando il più possibile i limiti dell’ingegneria. Il museo, di cui quest’anno si celebrerà il cinquantesimo anniversario, è stato costruito con metodi anticonvenzionali, diversi da quelli comunemente usati allora e tantomeno oggi. La struttura, realizzata interamente in calcestruzzo proiettato, è stata ottenuta posizionando delle casseforme in compensato all’esterno dell’edificio. Dopo aver posto i ferri d’armatura e le travi a T si è spruzzato dall’interno un calcestruzzo caratterizzato da un basso rapporto acqua/cemento ed appositamente formulato per garantire un’elevata resistenza alla compressione, un contenuto ritiro e, conseguentemente, un’elevata durabilità. Per di più la struttura a spirale, sorretta da undici setti radiali in cemento armato, è un intuizione geniale dal punto di vista statico in quanto i momenti flettenti a cui è sottoposta sono compensati da quelli torcenti che essa stessa genera. Così come afferma Bruno Zevi, in una retrospettiva dedicata al grande architetto americano, il Guggenheim di New York è un intervento urbanisticamente “polemico” perché denuncia l’incongruità della rigida scacchiera newyorkese ponendosi in rottura con essa con la sua suggestiva forma di tronco di cono rovesciato. Inoltre è polemico e blasfemo rispetto alla consueta sistemazione dei musei in quanto rigetta
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l’inerte meccanismo delle sale - scatole giustapposte, ciascuna chiusa in se stessa senza alcuna continuità - proponendo di contro una passeggiata nell’arte che, prolungando quella della città, si riavvolge in una spirale aperta per ricongiungersi poi al circostante contesto urbano. L’edificio, ubicato nell’Upper East Side, al n. 1071 della Fifth Avenue, tra la East 88th e la East 89th Street, contrasta, con le sue forme arrotondate e le nitide superfici in calcestruzzo a vista, con l’architettura squadrata e rigorosa dei giganteschi edifici commerciali di Manhattan. Questa singolare dissonanza realizza un efficace “fuori scala”, tale da fare assumere, al “piccolo museo” un ruolo di polo urbano di primaria importanza. Lo stesso Wright nel 1952, qualche anno prima dell’inizio dei lavori, aveva così sintetizzato i caratteri della sua opera: “un massimo riposo, un’atmosfera di quiete non spezzata: nessun impatto della visione contro brutali cambiamenti di forma”. Progettato per la prima volta nel 1943, ha subito diverse rielaborazioni prima di giungere alla versione attuale solo nel 1956. La tipologia del museo è risolta dall’architetto americano in un modo del tutto nuovo: una serie di ascensori conducono i visitatori alla sommità dell’edificio, di qui una rampa elicoidale, lunga 432 m e con un’inclinazione del 3%, che si avvolge per sei piani intorno ad un grande vano tronco conico rovesciato, conduce i visitatori verso il basso. I dipinti sono esposti lungo i muri della spirale e in oltre 70 nicchie e piccole gallerie che si aprono lungo il percorso. La costruzione è illuminata dalla luce naturale proveniente dal grande lucernario in vetro, di due piani sulla sommità del vano centrale, e da quelli ricavati tra gli intervalli delle rampe lungo l’involucro esterno dell’edificio, integrati da fonti di luce ad incandescenza sistemati lungo la rampa. Alcune delle opere esposte sono illuminate individualmente. La scelta della forma ha altresì un significato simbolico: il cerchio per Wright esprime l’infinito. L’espandersi del cerchio rappresenta il valore dell’arte contenuta nel museo che, dal chiuso del contenitore, si riversa su tutti.
Un’architettura con la “A” maiuscola di Mario Restaino
L’edificio ospita anche un auditorium, una rotonda, una caffetteria e un negozio di libri d’arte. Ulteriori spazi espositivi, tra cui la Tower Galleries, un edificio a dieci piani eretto dietro la costruzione originaria, su progetto dello studio Gwathmey Siegel and Associates Architects, sono stati ottenuti in seguito a lavori di ampliamento e di ristrutturazione ultimati nel 1993.
Il patrimonio fisso del museo, illustrato in un ampio catalogo a disposizione dei visitatori, è costituito da opere di artisti quali Georges Braque, Paul Cézanne, Marc Chagall, Edgar Degas, Paul Gauguin, Vasily Kandinskij, Edouard Manet, Joan Mirò, Piet Mondrian, Pablo Picasso, Pierre-Auguste Renoir, Georges-Pierre Seurat, Henri de Toulouse-Lautrec, provenienti da cinque grandi collezioni private.
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Eventi L’Italia fra due anni si appresta a festeggiare il centocinquantesimo anniversario dell’unità e la mostra del Complesso del Vittoriano a Roma ripercorre la storia e le vicende di un artista, Giotto, che ha contribuito in larga parte a creare un’identità definita italiana molti secoli dopo. Giotto ed il Trecento rischiava di essere un specchietto per allodole, invece la mostra romana è riuscita a mettere in un unico contenitore espositivo la produzione giottesca ed una rappresentanza di tutto il fiorire della produzione successiva e coeva, svelando all’occhi dell’osservatore i colori, le linee e le forme delle origini dell’arte italiana. La ricostruzione della biografia di Giotto di Bondone (1266 circa – 1336 circa) presenta parti lacunose e dubbie, allo stesso tempo è stato individuato un corpus pittorico autografo che ha permesso ai critici di delineare una produzione artistica più ampia e dettagliata riconducibile al pittore medievale. Il nostro protagonista ha percorso l’Italia dando vita ovunque a botteghe di allievi e seguaci, che in vario modo hanno reiterato in maniera più o meno brillante le sue forme. La mostra si ferma lungamente sull’esposizione di opere di Taddeo e Bernando Gaddi, Puccio Capanna, Giottino, ma anche Giuliano da Rimini, Pietro da Rimini, il trittico di Tursi del Maestro di Offida, ed altri ancora. Ma troviamo anche l’ambiente romano rappresentato nelle opere di Cavallini e Turriti, che precede di poco la produzione giottesca e che si inseguono come in un gioco di specchi, dove i riflessi degli uni si possono trovare nei riflessi dell’altro. Ed ancora Cimabue ma anche i Simone Martini ed i Lorenzetti. Quelli di Giotto sono anni di grande fermento culturale anche nelle produzioni scultoree che affastellano “fabbriche” di duomi e chiese, ed ecco in mostra con statue, formelle e bassorilievi, Tino di Camaino, Arnolfo di Cambio, i Pasano. Creatori di un plasticismo
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Giotto e il Trecento di Angela Delle Donne
già monumentale ma che si svincola, come modello tratto dal vero, confrontandosi con lo spazio e la morbidezza delle forme. Da non sottovalutare l’esposizione delle oreficerie e delle opere su carta. Calici, placchette laminate, sigilli, ma anche manoscritti e codici miniati che ci ricordano quanto quei decenni fossero ricchi di produzioni cosiddette minori ma che rappresentano una ampia fetta di tutta la produzione artistica inserita in un più ampio quadro culturale. Ritorniamo al nostro maestro, le opere in esposizione vengono da Firenze, da Padova, da Città del Vaticano, ma anche dalla Francia e dal Nord America. Tutta la prima parte dalla mostra è dedicata alle produzione pittorica su pareti che per ovvie ragioni, non è stata possibile esporre, ma che è stata resa visibile attraverso processi di digitalizzazione: così vengo svelati particolari e dettagli della Cappella Scrovengni, delle Cappelle Bardi e Peruzzi. Attraverso opere concrete e riproduzioni digitali, riscopriamo Giotto ed i suoi coevi, riscopriamo che la produzione artistica di un autore, ancora dibattuto ed oggetto di studi contrastanti, ha contribuito fortemente e chiaramente a definire un processo di identità territoriale che prim’ancora che geo-politico è stato artistico - culturale, iniziando quel lungo percorso che ha portato il territorio italico ad essere humus fertile per il pensiero rinascimentale, ma che già albeggiava nei colori e negli sguardi dei dipinti di un artista di provincia che ha conquistato la committenza più sofisticata e acculturata di quegli anni. A lato: Giotto di Bondone, Madonna col Bambino in trono e due angeli, circa 1295, Tavola, 180 x 90 cm, Firenze, Museo Diocesano. Giotto e bottega, I Santi Apostoli Pietro e Paolo, circa 1325-1335, Tempera trasportata su rame, 130 x 95 cm, Città del Vaticano, Museo del Tesoro di S. Pietro, Basilica Vaticana.
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Eventi
Emozioni in terracotta: Mazzoni e Begarelli
Sarà visitabile fino al 7 giugno, presso il Foro Boario di Modena, la mostra dedicata a Giuseppe Mazzoni e Antonio Begarelli, due maestri del Rinascimento della scultura in terracotta. Una esposizione estremamente innovativa, perché meritevole di aver posto l’accento su due protagonisti a lungo dimenticati dalla critica artistica a causa di un’antica ed erronea convinzione del minor valore della scultura del “porre” (cioè del creare con la terracotta) che non del “tòrre” (ovvero dell’intaglio, come nel caso del marmo); ma anche perché identificati come artisti “popolari”, che di popolare, nel senso dispregiativo del termine, non hanno nulla. Anzi, sebbene le loro opere, soprattutto quelle del Mazzoni, suscitarono, per il loro pathos,
di Fiorella Fiore
un forte impatto sul pubblico, entrambi ebbero committenti illustri: i duchi Estensi, il Re di Napoli, quello di Francia e di Inghilterra. Guido Mazzoni (1450 c.a.- 1518) fu uno dei protagonisti dell’espressionismo emiliano della seconda metà del Quattrocento, insieme a maestri come Cosmè Tura ed Ercole de Roberti, nell’ambito pittorico, ed erede ideale di Niccolò dell’Arca, l’artista che, nel 1463 aveva creato il primo “Compianto” (presso Santa Maria della Vita, a Bologna) ovvero un gruppo scultoreo in terracotta di grandi dimensioni raffiguranti i personaggi del Nuovo Testamento in atto di compiangere il corpo di Cristo morto, attraverso una plastica di forte realismo. Di questa tradizione si fa interprete il Mazzoni: nel
Ercole de’ Roberti, affresco staccato dalla Cappella Garganelli, cm 39,3x39,3, Bologna, Pinacoteca Nazionale. Pagina a fianco: Antonio Begarelli, San Giovanni Battista, terracotta, cm h 38, Modena, Galleria Estense.
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Guido Mazzoni, 1476-1477, Maddalena (h 152 cm), Busseto, chiesa di Santa Maria degli Angeli. Pagina a fianco: Guido Mazzoni, terracotta policroma, cm 26x17x20, Modena, Galleria Estense.
Compianto della Chiesa di Santa Maria degli Angeli di Busseto (1476-77) è profondamente espressiva la disperazione della Maddalena, accentuata in ogni piega delle vesti, nelle lacrime scolpite sul volto, nei capelli al vento. Il Mazzoni enfatizza, con la cura dei particolari di cui fu complice la formazione da orafo, ogni dettaglio, ogni ruga, al limite della teatralità: e, non a caso, egli fu artefice anche di maschere utilizzate per gli spettacoli dei sovrani d’Este, in particolare di Isabella, di cui fu un protetto. Se Mazzoni è il maestro di un realismo carnale, viscerale, Antonio Begarelli (1499 c.a.- 1565), a lungo considerato (ma a torto) suo diretto allievo, trascende il sentimento meramente mimetico, a favore di una maggiore idealità del volto e della carni, per rappresentare una disposizione d’animo, più che la realtà. Una differenza che si palesa anche tecnicamente: Mazzoni colorava le sue sculture (anche se non sempre è rimasta la traccia policroma), proprio per renderle quanto più simili alla realtà. Begarelli, invece, stendeva sulla terracotta uno strato di biacca, ovvero bianco di piombo un po’ untuoso, per assimilarle al marmo: ad opere
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d’arte quindi, più che persone. Una predisposizione all’idealità, quindi, che è influenzata anche dalla pittura del Correggio, di cui l’artista aveva apprezzato l’opera a Parma, dove aveva lavorato per i monaci Benedettini. Lo si può ben vedere nel San Giovanni Battista o nel Crocifisso, entrambi databili agli anni ‘30 del Cinquecento. Particolarità della mostra che, ricordiamo, è curata da Giorgio Bonsanti e Francesca Piccinini, è l’itinerario costruito in città e sul territorio, che prevede la visita della Galleria Estense e del Museo Civico, dove si conservano opere che non si è ritenuto prudente spostare dalla loro collocazione abituale, e delle chiese del centro storico cittadino in cui ancora si custodiscono gruppi scultorei dei due artisti (Sant’Agostino, San Giovanni, San Francesco, il Duomo, San Domenico e San Pietro). Una sessantina le opere esposte, cui si affiancano i dipinti e i disegni direttamente o indirettamente collegati ai due protagonisti, che ben ricostruiscono il contesto artistico padano, in particolare emiliano, tra il 1470 e il 1560, esaltandone l’altissimo valore.
Eventi tele, facendole fremere e vibrare. È, questa, una viIl 23 maggio, presso la Galleria Il Borgo, a Milano, si sione “intimista” della natura che, pur nascendo da inaugura “Armonici contrasti”, personale di Marialuun universo reale, fatto di terra e di mare, viene traisa Sabato, artista pugliese con al suo attivo diversi sformato dal colore e dalla fantasia dell’artista, grariconoscimenti di tipo nazionale e internazionale, a zie al suo occhio e al suo linguaggio pittorico. cura di Sabrina Falzone e Antonella Iozzo . Ma proprio le cromie, a Il contrasto, cui fa riferivolte così audaci, tramento il titolo, è il fil rousmettono anche un senge che domina la mostra: so di inquietudine, che un contrasto tonale, che si allontana da quella ditrasferisce sulla tela, uno mensione fiabesca prima accanto all’altro, rossi citata. Non solo i colori, vermigli e blu estremama anche la pennellata mente freddi. cambia sovente, facenContrastante la direziodosi prima fluida e poi ne del vento che soffia quasi irruente, nei blu sui fiori e fili d’erba che si dati a colpi di spatola che piegano a diverse correncostruiscono i cieli che ti su questi campi immaincombono su orizzonti ginari, dove il dato reale, purpurei. pur visibile e presente, La tavolozza si fa spesso è sublimato attraverso il corposa, materica, quasi colore (protagonista di percorsa da un tremito queste opere) in una dinervoso, laddove invece, mensione onirica, dove il in altre opere, domina cielo e l’orizzonte si meuna calma placida, stescolano tra loro. sa sulla tela con lunghe Un’ ambientazione “fiabepennellate. Ecco, allora, sca”, che non deve stupiche si rivela il vero conre data la feconda attività trasto protagonista della della pittrice (diplomatasi mostra: quello dell’anima presso l’Accademia di dell’artista, “dibattuta tra Bari nel 1994) nell’aml’impulso creativo e la rabito della letteratura per tio, tra lotta e rassegnaragazzi, sia come autrizione”, come spiega la ce che illustratrice, e che Falzone. l’ha vista protagonista Esso viene espresso atdi diversi riconoscimenti traverso questo particoufficiali, non ultimo, nel larissimo accostamento 2005, il primo posto per il cromatico che riporta “Concorso di idee per la sulla tela i colori di una realizzazione di un libro realtà cupa, minacciosa, di fiabe”, bandito dalla sulla quale, però, contiRegione Puglia. nua a soffiare un vento Lo spettatore si perde tra colmo di speranza, che gli oli, le tempere, gli acrilici che gli si presentano In alto: Marialuisa Sabato, Fragile emersione, cm. 40x80, acrilico raramente si fa minacciosu tela. innanzi, quasi cullato Pagina a fianco: Marialuisa Sabato, Inclinazioni opposte, cm. so e sembra invece farsi garante di un moto nuovo dall’ondeggiare di questo 80x100, acrilico su tela. e perpetuo. mare immaginario, che Di un messaggio di fiducia, quindi, di cui la Sabato dialoga con lui, attraverso il movimento lento eppure si fa messaggera. incessante dato dalla brezza che soffia su queste
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Gli armonici contrasti di Marialuisa Sabato di Fiorella Fiore
Eventi Ancora oggi ad Accettura, in provincia di Matera, si celebra un antichissimo rito nuziale propiziatorio che costituisce un vero e proprio unicum, sia per la grande coralità dell’evento sia per il livello di partecipazione intenso e coinvolgente. I riti arborei sono tra i culti pagani meglio tramandati fino ai giorni nostri: ad Accettura risale probabilmente al I sec. a. C. dopo la vittoria di Silla sugli insediamenti lucano-enotri. Successivamente la cristianità l’ha inglobata nel suo calendario. La festa inizia il giorno dell’Ascensione, quando taglialegna e boscaioli vanno a scegliere il “Maggio” nel bosco di Montepiano: dopo aver individuato il cerro più alto e più dritto perché diventi lo sposo, lo puliscono della corteccia e lo levigano. La scelta è dettata dal fatto che più sono maestose le piante e più gli spiriti favoriscono la crescita del grano, degli alberi da frutto, delle vigne, rendono fertili le donne, danno ricchezza e salute. Lo stesso avviene per la “Cima”: la mattina del giorno di Pentecoste, un gruppo di giovani, detti “Cimaioli”, si recano nel bosco di Gallipoli Cognato per cercare un agrifoglio spinoso e ramificato, affinché diventi la sposa del
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La Festa del Maggio di Accettura di Sonia Gammone “Maggio”. Una volta recisa, la “Cima” viene portata a spalla dai più robusti, aiutati da altri con particolari bastoni a forcella decorati con intarsi detti “crocce”. Il tragitto per raggiungere la piazza del paese è lungo circa 12 km. Contemporaneamente dal bosco di Montepiano, i “Maggiaiuoli” accompagnano il lungo e pesante tronco del cerro, trascinato da dodici coppie di buoi di razza podolica, per circa 5 km. Entrambi i percorsi vengono interrotti da banchetti a base di prodotti tipici e vino. A sera i due cortei arrivano nella piazza del paese confondendosi in una grande festa. Solo il martedì, con la processione di San Giuliano, si lavora per l’innesto dei due alberi. Con funi ed argani si innalzano il cerro e l’agrifoglio raggiungendo un’altezza di circa 35 metri. Nel pomeriggio i cacciatori sparano alla chioma del “Maggio” per colpire le targhette metalliche che sostituiscono quelli che una volta erano i premi in natura (in genere animali) appesi ai rami della Cima. La festa si conclude con l’antica usanza della scalata da parte dei più ardimentosi, prova di forza e di passaggio all’età adulta.