InArte settembre 2009

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Associazione di Ricerca Culturale e Artistica

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idee

arte

eventi

Rivista mensile a diffusione nazionale - anno V - num. 9 - Settembre 2009

Perle di romanico

Ager Tiburtinus

La Duchessa


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Redazione Associazione di Ricerca Culturale e Artistica C.da Montocchino 10/b 85100 - Potenza Tel e Fax 0971 449629 Redazione C/da Montocchino 10/b 85100 - Potenza Mobile 330 798058 - 392 4263201 - 389 1729735 web site: www.in-arte.org e-mail: redazione@in-arte.org Direttore editoriale Angelo Telesca editore@in-arte.org Direttore responsabile Mario Latronico Impaginazione Basileus soc. coop. – www.basileus.it Stampa Arti Grafiche Lapelosa - tel. 0975 526800 Concessionaria per la pubblicità Associazione A.R.C.A. C/da Montocchino, 10/b 85100 Potenza Tel e fax 0971-449629 e-mail: pubblicita@in-arte.org informazioni@in-arte.org Autorizzazione Tribunale di Potenza N° 337 del 5 ottobre 2005 Chiuso per la stampa: 4 settembre 2009 In copertina: Giacomo Colombo, San Sebastiano, Lagonegro, Chiesa del Crocifisso, particolare. La redazione non è responsabile delle opinioni liberamente espresse dagli autori, né di quanto riportato negli inserti pubblicitari.

Sommario Editoriale

Ritorno al quotidiano di Angelo Telesca ......................................................... pag.

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Persistenze

Perle di romanico tra i calanchi di Giuseppe Nolé........................................................... pag. 5-6 Ager Tiburtinus: una storia nella pietra di Gianmatteo Funicelli.................................................. pag. 10-12

Eventi

Il barocco defilato di Angela Delle Donne................................................... pag. 13-15 I trent’anni della Collezione civica di Pinerolo di Piero Viotto................................................................ pag. 16-17

Cromie

Templa in coelo di Giovanna Russillo...................................................... pag. 18-19 Cultura della terra in Toscana di Francesco Mastrorizzi............................................... pag. 20-21

RiCalchi

L’ombelico del mondo... Foto Gerardo Caputi, Archivio Basileus........................ pag. 22-23

Forme

Dino Basaldella a Matera di Fiorella Fiore.............................................................. pag.

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TecnoCromie

13 minuti e 17 secondi di Maria Pia Masella...................................................... pag. 25 La Duchessa di Chiara Lostaglio......................................................... pag. 26-27

Mythos

Il duplice volto di Narciso di Fabrizio Corselli......................................................... pag. 28-29

Trame

Shelley e il chiarore dello sguardo di Andrea Galgano......................................................... pag.

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PRECISAZIONE: La foto del Castello di Colobraro pubblicata sul numero di Giugno, pag 9, è di Pasquale Troccoli, Primavera - Il castello di Colobraro.

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Ritorno al quotidiano di Angelo Telesca

Dopo un periodo estivo di lavoro per alcuni, di vacanza per altri, sebbene un poco angosciati dalle funeree notizie sulla grande crisi e sulla pandemìa, rieccoci di ritorno al tiepido, confortevole ménage quotidiano. Per fortuna la bellezza creata da secoli di ingegno e talento è intorno a noi per confortarci. Questa volta vi proponiamo una bella cattedrale romanica in quel di Tursi. Immersa nel silenzio di un paesaggio lunare segnato dai calanchi di leviana memoria, racconta con le sue mura mille anni di storia della Cristianità e protegge in esse alcuni preziosi tesori d’arte. Ancora di arte religiosa vi parliamo nel proporvi una bellissima mostra dal titolo Splendori del barocco defilato che porta alla luce una quarantina di sculture lignee dimenticate in conventi e chiese, ma meritevoli – come potrete vedere dalle immagini – di ben altra valorizzazione. Un plauso quindi a coloro che si sono prodigati per offrire a questi piccoli capolavori la visibilità che indubbiamente meritano. A conferma di quanto spesso la provincia più defilata offra innumerevoli gioielli d’arte arriva la Collezione civica d’arte di Palazzo Vittone a Pinerolo (TO) che da trent’anni conserva e rende fruibili opere di pittura, scultura e grafica di grande spessore culturale e artistico. Anche questa volta quindi, vi offriamo un numero ricchissimo di bellezza, suggestioni e suggerimenti. Speriamo sia di vostro interesse.

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Persistenze

Perle di romanico tra i calanchi di Giuseppe Nolè

“La nostra vecchia Cattedrale di Anglona, surta

Foto di Gerardo Caputi

prattutto ad opera di SaraAd Anglona, piccola fraverso l’VIII secolo non sia ancora un mucchio ceni e Bizantini che favorirozione del comune di Tursi di rovine per la presenza che vi ha, da secoli no la nascita di Tursi. È sta(MT), posto devastato dal’augusta Immagine di Maria, che la convertì al ta Cattedra Vescovile fin dai gli incendi e dai saccheggi, suo Santuario.” tempi Apostolici e, secondo immerso nel silenzio dei la tradizione, ricevette l’ancalanchi, sorge il Santuario Codice Diplomatico della Diocesi di Anglona-Tursi nuncio cristiano direttamendedicato alla Natività della te dall’apostolo Pietro nei Vergine Maria, monumento primordi della cristianità. architettonico di eccezioL’impianto architettonico è normanno, con alcune nale valore storico, tra i più belli e importanti della contaminazioni bizantine tipiche del Mezzogiorno Basilicata. d’Italia. L’attuale struttura è datata tra XI e XII secolo Esso è tutto ciò che resta dell’antica città di Angloe costituisce l’ampliamento di una prima chiesetta, na, costruita in posizione predominante sul territorio risalente all’VIII secolo, che corrisponde all’odierna della Siritide che, compreso tra Sibari e Metaponto, cappella oratorio. La costruzione è in tufo e traversi estende tra il fiume Sinni (Siris) e il fiume Agri (Akitino; di notevole importanza il campanile, l’abside, ris). Sorse sulle rovine di Pandosia, la più antica città il portale romanico. All’esterno, nella zona absidale, pagana della Siritide, poco prima dell’era cristiana. si possono ammirare numerosi ornamenti ad intaSemidistrutta dai Goti, si spopolò lentamente, so-

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gli, lesene, archetti pensili, mensole ed un finestrone centrale adornato di colonnine. Sulle pareti esterne la costruzione è arricchita con numerose formelle con figure di animali a rilievo. Il campanile è di stile romanico, quadrangolare, poco slanciato, e presenta quattro bifore coronate in sommità da archetti. Il portale della facciata è preceduto da un atrio, aggiunto nel XIII secolo riutilizzando dei portali della fine dell’XI che presentano decorazioni di influenza normanna. Al di sopra dell’arco sono murati i rilievi raffiguranti i simboli degli Evangelisti ai lati dell’Agnus Dei. L’arco esterno è seguito da un secondo portale, il cui archivolto ha una decorazione a zig-zag, che immette nell’atrio vero e proprio con volta a crociera. Lo spazio interno è a tre navate e sui pilastri risente degli interventi di ampliamento e restauro che si sono susseguiti nei secoli. Molto interessanti sono

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i resti del ciclo di affreschi che in origine ricopriva completamente le murature. Il ciclo doveva raffigurare completamente il Vecchio e Nuovo Testamento mediante una ricca selezione di scene accompagnate da estese didascalie in greco. Oggi rimangono sostanzialmente solo gli affreschi della parete meridionale della navata che sono dedicati alla Genesi. Tra gli episodi meglio conservati, quello della Torre di Babele dove la descrizione del cantiere con gli operai che si muovono sulle impalcature ha un fascino particolare. Le figure sono disegnate senza interesse per l’effetto plastico, di stile greco-bizantino e sono riferiti ad una datazione tra il XIII ed il XIV secolo. La Chiesa di Santa Maria di Anglona è monumento nazionale dal 1931 ed è stata elevata a Pontificia Basilica Minore dal Santo Padre Giovanni Paolo II, il 17 Maggio 1999, a ricordo del Sinodo dei Vescovi.


Comitato scientifico della prima edizione di ArtePollino, presieduto da Mario Cristiani (Presidente dell’Associazione Arte Continua), Vincente Todolì, Laura Barreca, Catterina Seia, Emanuele Montibeller, Giampiero Perri, esperti del territorio del Pollino. Sarà predisposto un servizio gratuito di bus navetta nei giorni 4 - 6 settembre (prenotazione entro il 02/09) e 18 - 20 settembre (prenotazione entro il 17/09) tra gli aeroporti di Napoli e Bari per Potenza e per il tour delle opere. È indispensabile prenotare tramite fax al numero 0971/23465 o via email: info@istarviaggi.it,


progetto graďŹ co: p_fuccella



Persistenze

di Gianmatteo Funicelli

documentazione in pietra ha permesso alla Soprintendenza dei Beni Archeologici del Lazio, di allestire una grande raccolta di elementi atti a presentare al pubblico il frutto dei meravigliosi lavori di rinvenimento provenienti dagli scavi della Palestra di Villa Adriana e del Santuario di Ercole Vincitore a Tivoli, nonché dell’area ad essa gravitante, ossia dell’antico Ager Tiburtinus. Tra gli straordinari materiali che abbelliscono le mura nude e grezze del Canòpo, anche pezzi che per la prima volta lasciano gli angusti Archivio fotografico Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio

Un’affascinante rassegna di arte, storia e cultura antica riscopre l’Antiquarium del Canopo di Villa Adriana presso Tivoli. Ottanta i reperti in questione, tra cui rinvenimenti mai esposti sinora: frammenti di pietra, ceramiche, architravi romani, busti e ritrattistiche fanno da eco alla lussureggiante Villa Adriana e all’intera città di Tivoli nello splendore artistico ed economico del II sec. d.C., proprio quando la regione raggiunse l’apogeo nello sviluppo commerciale e territoriale dell’Antico Impero. La notevole mole di

Ager Tiburtinus: una storia nella pietra

Sopra: ritratto virile. Pagina a fianco: statua frammentaria di Ercole.

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Archivio fotografico Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio


Archivio fotografico Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio

Persistenze

Maschera teatrale.

depositi diventando così i protagonisti della rivisitazione imperiale. Il percorso tematico dell’Antiquarium accompagna il visitatore in un avventuroso viaggio di comprensione storico-artistica, che ricorda l’antica Tibur imporsi nel corso dei secoli tra guerre civili, combattimenti e convergenze di diverse popolazioni affermando così il suo peso politico tramite le innumerevoli espressioni artistiche. Tra le opere in evidenza non mancano chiare espressioni artistiche, come le ricche statuarie della vita lussureggiante nelle villae e residenze di campagna che le eminenti aristocrazie romane edificarono soprattutto nei circuiti tiburtini. Non a caso, già in epoca repubblicana l’area dell’antico agro tiburtino fu il fulcro di oltre trecento insediamenti aristocratici. Gli oggetti che costituiscono la collezione archeologica si presentano come brevi, frammentari ma nel contempo meritevoli documenti artistici, come le rappresentazioni statuarie di Ercole le quali attestano nel luogo la particolare venerazione di Hercules Victor; le numerose classi ceramiche, tra cui coppe

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e coppette di prima età imperiale citano Tivoli come un centro di produzione ceramica per eccellenza. Vari pezzi marmorei ricordano il gusto delle antiche maestranze nelle scelte dei particolari architettonici, come le pregevoli antefisse ed i caratteristici fregi. Tra gli oggetti più disparati, da annoverare è un elemento insolito per i visitatori, l’oscillum, ovvero un tondo marmoreo scolpito su due facce (in genere con scene funerarie) che veniva agganciato al soffitto delle abitazioni in modo da compiere movimenti rotatori ed essere osservato su entrambi i versi. Meritevoli sono anche le grandi quantità di teste scultoree tra cui emerge il ritratto di un protagonista in questione, Adriano. Da evidenziare sono una testa di Eracle in marmo cristallino del I sec. d.C. ed un ricco repertorio statuario parzialmente leggibile, in quanto i segni del tempo e la successiva scomparsa delle opere nel sottosuolo tra il corso dei secoli, ne hanno alterato gli originari caratteri formali. Tutt’oggi rivivono tra memoria e storia come pezzi di pietra sull’allestimento museale, dove un tempo erano parte integrante della vita politica e culturale romana.


di Angela Delle Donne

Foto di Luciano Pedicini

Eventi

Il barocco defilato

Scultore napoletano attivo nei primi decenni del XVIII secolo, Annunciazione. Picerno, chiesa dell’Annunziata.

Dall’inizio dell’estate e per quasi tutto l’autunno i due capoluoghi di provincia della Basilicata ospitano la mostra Splendori del barocco defilato. Il percorso espositivo è stato suddiviso in due parti: a Potenza sono esposte solo opere scultoree e a Matera anche opere pittoriche e documenti d’archivio. Il tutto è a cura della professoressa Elisa Acanfora, con il patrocino dell’Università degli Studi della Basilicata, della Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici ed Etnografici della Basilicata e del MIBAC. La mostra raccoglie la ricognizione scientifica di un percorso di studi incentrato sulle produzioni artistiche che hanno coinvolto la Basilicata nel periodo che va dal barocco e al rococò. Come ha dichiarato la curatrice, gli studi svolti hanno chiaramente evidenziato che non si tratta di una produzione periferica ma “defilata”, poiché le opere prodotte dimostrano un largo margine di libertà espressiva con graziose punte di bizzarria. Si tratta di maestranze artistiche che si muovono anche oltre i confini della Basilicata, sfiorando le regioni vicine, non come riflessi ma come “soluzioni alternative”, immagini di un fervore

culturale che ha coinvolto soprattutto la committenza religiosa locale. In questa sede ci dedichiamo alle opere esposte a Potenza. La Galleria Civica del capoluogo ospita all’incirca una quarantina di sculture lignee, provenienti da conventi e chiese della Basilicata e dalle limitrofe aree della Puglia. Sono statue, busti, gruppi scultorei, ma anche statuette per la devozione privata. Si tratta di pezzi la cui paternità è attestata tramite firma o documentazione cartacea, scelta scientifico-metodologica che sottolinea ancora una volta la volontà di dare luce ad un periodo storico-artistico preciso e pertinente nella realtà locale e non solo. Soffermiamoci su alcune sculture, iniziando con il busto reliquiario di Santa Fausta custodito nella chiesa di Sant’Antonio a Salandra, opera di Nicola Fumo, artista tardo barocco attivo nelle regioni meridionali ma anche in diversi centri della Spagna. Fotografato di profilo, il busto della santa scopre la vezzosità della fluente chioma che raccolta in un nodo scende su di un lato. L’intaglio dell’artista è preciso e brioso, si stacca netta l’attaccatura dei capelli dal viso

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Foto di Luciano Pedicini

Nicola Fumo, Busto di Santa Fausta. Salandra, chiesa del convento di Sant’Antonio da Padova, particolare. Pag. a lato: Scultore napoletano dell’ambito di Giacomo Colombo, San Clemente. Cancellara, chiesa della SS. Annunziata, particolare.

pallido e liscio che si anima sulle gote rossastre. La chioma discende sulle vesti che iniziano un nuovo gioco di forme e colori. La resa enfatica dei gesti ed il confronto con altri scultori coevi permette di datare l’opera agli anni ottanta del Seicento. Il San Clemente è opera di uno scultore napoletano dell’ambito di Giacomo Colombo. La statua è conservata nella chiesa della Santissima Annunziata di Cancellara. L’agiografia del santo ci ricorda che è stato console romano convertitosi al cristianesimo; l’autore lo rappresenta proprio con la tipica armatura, che il recente restauro esalta nel colore e nel disegno. L’incarnato chiaro e roseo delle braccia si staglia sulla tunica color porpora ed il gonnellino si svela nei tratti dorati e azzurrini delle drappeggio. La forza espressiva ed il dato scultoreo chiaramente riconducono la raffinata opera alla cerchia del Colombo, databile alla metà del settecento, quando si diffuse il culto per il santo per via della presenza delle reliquie a Cancellara. Ed infine un sguardo al gruppo scultoreo dell’Annunciazione della chiesa dell’Annunziata di Picerno. L’opera si compone di due statue, la vergine inginocchiata e l’angelo posto su di una nuvola, che sono

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custodite sull’altare maggiore della chiesa. Anche qui lo scultore è anonimo ma chiaro appare il rapporto con l’Annunciazione di Sant’Arsenio realizzata dal Colombo, questi confronti stilistici permettono di fornire dati precisi anche per quanto riguarda la datazione che risale al secondo decennio del XVIII secolo. Il soggetto del gruppo è ricorrente nelle botteghe napoletane del Settecento, ma questi si contraddistingue per la spiccata teatralità che si coglie nell’angelo annunciante ancora in volo con le ali spiegate, nel capo reclinato della vergine che perde lo sguardo sull’inginocchiatoio, nel cherubino che distoglie lo sguardo dalla scena per rivolgerlo altrove. Ed ancora i panneggi sono rigonfi e ondulati, la posa è solenne e prorompente. Un ultimo accenno al catalogo della mostra che contiene anche le schede di opere scelte seguendo il filone di studio ma non esposte. Esso rappresenta un valido strumento di lavoro ed approfondimento. L’esposizione presso la Galleria Civica di Potenza sarà visitabile fino al prossimo 18 ottobre. Sul sito www.splendoridelbarocco.it è possibile trovare un’ampia descrizione dei due appuntamenti, oltre che informazioni ed orari.


Foto di Luciano Pedicini


Eventi

I trent’anni della Collezione civica di Pinerolo

Spesso i musei di provincia sono scrigni preziosi, conservano gioielli che i grandi musei nazionali loro invidiano e a cui gli storici dell’arte debbono ricorrere per completare le loro ricerche. La Collezione civica d’arte di Pinerolo, che compie trent’anni, ha inizio ufficialmente nel 1978, ma già dieci anni prima la pro loco aveva promosso una esposizione dei Maestri dell’Accademia Albertina di Torino che rappresentò il germe di successive iniziate culturali, che portarono alla creazione della Collezione. Nella vita culturale contano più le persone che le istituzioni, quest’ultime sono un supporto necessario, coinvolgono la comunità sociale, ma se manca l’iniziativa, la creatività delle persone, non resistono all’usura del tempo. Queste convinzioni mi si sono rinnovate e rinforzate visitando le sale della Collezione pinerolese e consultando il nuovo catalogo di

L. Spazzapan, Cosma e Damiano

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di Piero Viotto

Mario Marchiando Pacchiola, che documenta il suo percorso storico, attraverso quattro itinerari, presentando le opere di pittura e di grafica, di scultura e di medaglie, raccolte nelle collezioni. Marchiando Pacchiola, che, fin dall’inizio, è stato il responsabile della Collezione, ha saputo promuovere a gettito continuo iniziative culturali, tra cui, a partire dal 1981, la Biennale nazionale «L’arte e il mistero cristiano», che ha impegnato su questo tema artisti italiani e stranieri ed opere difficilmente reperibili. Ricordo le acqueforti di Michel Ciry e i cartoni per la Via Crucis di Gino Severini; i Volti di Cristo di Elsa Veglio Turino della chiesa di Santa Maria Maggiore di Avigliana. L’edizione del 2007 è stata interamente dedicata allo scultore Enrico Manfrini. Oltre a queste biennali, il museo ospita periodicamente, una o due volte l’anno, importanti mostre


Eventi

F. Bodini, Papa Giovanni

personali e di gruppo. Le più importanti sono documentate da un quaderno con la riproduzione delle opere esposte e con saggi critici. Segnalo quello della mostra dedicata ai disegni di Felice Casorati esposti per la prima volta nel loro insieme, con un saggio introduttivo di Francesco Poli. Il catalogo La Collezione civica d’arte di Palazzo Vittone inizia con una breve storia della collezione e la presentazione dell’architettura del Palazzo, fatto costruire nel 1784 da Carlo Emanuele III di Savoia come «Regio ricovero dei catecumeni». Infatti la collezione è ospitata nei locali di questo palazzo e buona parte delle sculture sono collocate nella cappella. Nella sezione “La pittura”, il catalogo presenta quadri soprattutto di paesaggio e ritratti, bellissimo il Mercato in piazza di Alfredo Beisone, inquietante l’autoritratto di Ettore Giovanni May, molto espressivi i santi Cosma e Damiano del goriziano Luigi Spazzapan con richiami alla cultura contemporanea europea tra il cubismo francese e l’espressionismo tedesco. Trento Longaretti con un magnifico Figliol prodigo e Mario Caffaro Rore con una drammatica Flagellazione ci riportano a temi narrativi. Con la sezione “La scultura” possiamo fare un confronto tra Floriano Bodini e Lello Scorzelli, perché entrambi fanno un ritratto a mezzo busto di Giovanni XXIII. Il primo cogliendo le inquietudini del Pontefice preoccupato per il governo della Chiesa, il secon-

do sottolineandone la spiritualità raccolta. Un opera d’arte è sempre un fatto personale, l’artista immerge la sua soggettività nell’oggettività dell’opera che produce. Gli artisti non fanno mai ritratti. Anche la riproduzione fotografica in catalogo, frontale per Bodini, di profilo per Scorzelli, sottolinea questa differenza; ma per comprendere una scultura bisogna poterle girare intorno. Molti altri artisti arricchiscono questa sezione, più diversificata della precedente nella pluralità delle correnti espressive presentate. Molto interessante anche la sezione dedicata a “La grafica” con incisioni, disegni e bozzetti che vanno dal 1888 al 2005, di cui segnalo una coloratissima serigrafia Natività di Giovanni Hajnal. Il museo possiede anche l’intera cartella Chemin de Croix che mons. Pasquale Macchi nel 1965 aveva fatto preparare da un gruppo di artisti per illustrare i testi scelti da Jacques Maritain a commento delle stazioni della Via Crucis. Per celebrare il trentesimo della Collezione e presentare il catalogo è stata organizzata una mostra sul tema Immagine donna, selezionando le opere più importanti raccolte in questi anni, che il conservatore ha ordinato e presentato per temi: l’età verde, l’elogio della bellezza, l’amore, l’attesa della maternità, nel lavoro e nella società, l’ultima età; un percorso che segue le età della donna in tutti i loro risvolti con opere delle più diverse scuole artistiche.

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Cromie «…sono la lava mediterranea della tua Magna Grecia, e le galassie e la mente ancestrale…» Sono vortici sospesi in una dimensione a-temporale quelli che rendono inconfondibile la produzione pittorica di Giuseppe Pedota, eclettico artista di Genzano di Lucania. A lui, nel 1964, Jeorge Luis Borges dedicava una poesia, attratto dall’energia e dai volumi di quelle linee che avvolgono lievemente l’osservatore superando la bidimensionalità della tela. È un cosmo carico di fascino, di mistero e di interrogativi il più grande motivo ispiratore della lunga e prolifica carriera di Giuseppe Pedota, che abbraccia architettura, scultura, design, pubblicità, scenografia e poesia. Negli anni Sessanta, giovanissimo, stringe amicizia con i più importanti artisti e intellettuali del tempo come Carlo Levi (con cui scrive saggi sull’analfabetismo in Basilicata) e Sartre (che incontra a Parigi). Trasferitosi al nord per lavoro si lega a Vittorini, Buzzati, Crippa e Fontana. I suoi dipinti ricevono il plau-

Giuseppe Pedota, A 3, acrilico su tela, 70x100 cm.

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so di Carlo Giulio Argan e le sue personali trovano spazio oltre i confini nazionali: Matera, Roma, la Versilia (dove fonda la Galleria Contrarte), Amsterdam, Parigi, Londra e New York. Interessanti quanto la sua produzione pittorica sono le numerose pubblicazioni e gli articoli su prestigiose riviste. Scrive per Publisher’s Leadership Division e per L’altra Dimensione una serie di articoli sull’intelligenza artificiale. Dal ’95 è redattore e art director della rivista di letteratura Poiesis. Nella pittura di Pedota i colori brillanti si flettono, si curvano fino a tracciare il segno di un lento ma inarrestabile fluire. Quel fluire che evoca lo scorrere del tempo e l’evoluzione dell’universo, il fluire della conoscenza verso nuovi confini da varcare, il mutare degli stati dell’anima. Grazie alla straordinaria intuizione dell’artista il dinamismo delle immagini si


Templa in coelo di Giovanna Russillo

cristallizza in un’atmosfera sospesa e irreale che simboleggia l’infinità del cosmo. La Basilicata ha più volte reso omaggio ad uno tra i suoi figli più illustri. Nel 2007 è la volta della retrospettiva Acronico presso il Museo Provinciale di Potenza, patrocinata dalla provincia di Potenza e organizzata della Fondazione D’ARS di Milano. Quest’estate è la suggestiva cornice dell’Abbazia Benedettina di Banzi a dedicargli, fino al 18 ottobre, una mostra antologica intitolata Templa in Coelo: il rimando è al recinto sacro degli antichi romani che,

come descrive Varrone, è usato con riferimento alla natura (il cielo), alla divinazione (la terra) e alla similitudine (gli inferi). Nell’abbazia benedettina di Banzi è stato rinvenuto, negli anni ’60, un Templum Augurale, unica testimonianza del mondo latino attestante l’esistenza di questo particolare tempio dedicato alle divinazioni e all’osservazione del cielo e del volo degli uccelli. Templa in coelo, come il nome che Lucrezio dava al firmamento, come le opere di Pedota, “mappe” celesti, geografie, grafie di un itinerario di conoscenza e di ricerca dell’infinito.

Giuseppe Pedota, A 4 Orion – 1, acrilico su perspex, 123,5 x123,5 cm.

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Cromie Fino al 29 settembre le sale del Palazzo Mediceo di Seravezza, in Versilia, accolgono la mostra “Cultura della terra in Toscana, mezzadri e coltivatori diretti nell’arte dell’Ottocento e Novecento”. Più di cento opere, in gran parte dipinti, oltre a sculture e disegni, raccontano la campagna toscana tra secondo Ottocento e primo Novecento, illustrando vita, costumi e abitudini delle locali popolazioni contadine, alla luce del complesso fenomeno della mezzadria, una realtà di produzione agricola (contraddistinta dalla partecipazione dei coltivatori agli utili del raccolto) che ha caratterizzato per secoli i territori toscani. In esposizione opere di grandi artisti come Silvestro Lega, Giovanni Fattori, Lorenzo Viani, Ardengo Soffici, Baccio Maria Bacci, Raffaele De Grada, Ottone Rosai, Memo Vagaggini, ma anche due capolavori rimasti per decenni inaccessibili al pubblico: “Ritorno dalla fiera” di Egisto Ferroni e “Le ultime vangate” di Angiolo Tommasi. Le opere in mostra scrutano in profondità il mondo rurale toscano, cogliendo tutti i momenti della vita quotidiana dei mezzadri, i loro gesti semplici, quelli connessi alla stagionalità del lavoro nei campi e quelli legati alle feste familiari o alle ricorrenze religiose, ma anche tutto ciò che li circonda, i paesaggi, gli animali, gli strumenti. Un microcosmo fatto di amAngiolo Tommasi, Le ultime vangate, 1892, olio su tela, cm. 223x343

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Cultura della terra in Toscana di Francesco Mastrorizzi bienti umili e intimi e popolato di uomini e donne dal destino segnato, immobili quasi come nei quadri che li rappresentano, ma portatori di una dignità che solo il duro lavoro sa conferire; un mondo affascinante dal sapore antico che ogni artista ha raffigurato sulla tela secondo la propria poetica e all’interno di filoni iconografici talvolta antitetici. Il ricco e suggestivo percorso espositivo analizza appunto questi filoni, prendendo le mosse dai macchiaioli fino ad attraversare la crisi di questo movimento e approdare alla pittura naturalistica, che restituisce verità oggettiva alla vita delle classi rurali, attraverso tele spesso di grandi dimensioni e dal tono rassicurante. Sul finire dell’Ottocento, invece, viene documentata una tendenza alternativa, dagli intenti sociali, che preferisce insistere sul dolore e sulla fatica dei contadini. Con l’inizio del Novecento aumenta nelle opere esposte la complessità e la diversità di interpretazione del tema trattato, per cui immagini di desolazione e miseria si alternano a vedute mitiche e atemporali, per poi lasciar spazio, nel dopoguerra, a figure e volti carichi di solennità. Ed è qui che si chiude la mostra, nel momento in cui, con la fuga dalle campagne, ha inizio il dissolvimento del fenomeno della mezzadria.


â–˛ Paride Pascucci, Eroi in Maremma, 1895, olio su tela, cm. 75x95 â–ź Nemo Vagaggini, Traghetto in Maremma, 1939, olio su tavola


L’ombelico del mondo...

RiCalchi

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Delfi, capitello ionico foto G. Caputi, Archivio Basileus


Delfi, ruderi del tempio di Apollo foto G. Caputi, Archivio Basileus

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fOrme

Dino Basaldella a Matera di Fiorella Fiore

Il prestigioso appuntamento de “Le Grandi Mostre nei Sassi”, promosso dal Circolo La Scaletta insieme al Comune di Matera e al MUSMA, continua nel 2009 con la retrospettiva dedicata a Dino Basaldella. La mostra, inaugurata il 27 giugno, aperta fino al 3 ottobre, è curata da Giuseppe Appella in collaborazione con Giovanni Bianchi, Paolo Campiglio e dello scrittore Cesare Milanese. Allestita da Alberto Zanmatti nelle Chiese rupestri Madonna delle Virtù - S. Nicola dei Greci e nelle Sale espositive del Musma, la retrospettiva approfondisce le dinamiche artistiche di questi tre fratelli tra i maggiori

scultori italiani ( M i r k o , cui è stata dedicata una retrospettiva nel 2007 ed Afro) soffermandosi sul destino individuale del maggiore dei Basaldella. Nato a Udine il 26 aprile 1909, sin dalle prime opere manifesta la volontà di ricercare una nuova forma di espressione oltre la lezione del classico, a volte in una dimensione quasi caricaturale, evidente soprattutto nei ritratti (Autoritratto, 1930). Un’ascendenza di tipo impressionistico si rivela negli effetti cromatici e luministici sul modellato, ottenuti dalla maestria nella lavorazione dei materiali, che sin da subito si rende palese non solo

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nelle sculture, ma anche nei gioielli. La retrospettiva dedicata a Medardo Rosso a Roma, nel 1931, segna un nuovo percorso nella scultura di Dino, che avverte la necessità di dialogare con la scultura del passato in modo nuovo. Non interessano più i dettami della classicità, ma i modellati lineari e sintetici dell’arte arcaica greca ed egizia perchè fondamento di purezza, lontano dal decoro e dall’orpello. Ecco allora che le forme si assottigliano, la massa alleggerita: inizia, cioè, una composta analisi degli equilibri di pieni e di vuoti e dei relativi giochi di luce. È questo processo che porta a quella che l’artista chiama “nuova strutturazione del linguaggio”, tra il 1945 e il 1955: in un momento storico come questo, in cui il mondo intero cerca una ri-costruzione, l’artista cerca la sua risposta alle origini, nel segno primitivo. La materia viene scarnificata, il decoro annullato, resta il vuoto in una palese degenerazione plastica che diventa citazione picassiana. In sostanza, Dino modella lo spazio: taglia, scava, modella, salda i metalli, fa dialogare in modo dialettico il vuoto e il pieno, l’oggetto e il suo spazio, oltre la mera rappresentazione, varcando i confini della sola scultura verso un contesto quasi architettonico. In questa ristrutturazione un ruolo preminente lo ha la scoperta del ferro quale personale strumento espressivo, ed è questo a portarlo negli anni Sessanta alla realizzazione del puro disegno,alla sintesi più spoglia ed efficace in quella che diventa a tutti gli effetti scultura astratta, permettendogli anche di reinventare il bassorilievo, come nel Prometeo del 1956. Espone in Italia e negli USA, realizza diverse opere pubbliche, come il pannello per la Banca Nazionale del Lavoro di Milano, e continua l’attività di insegnamento, iniziata sin da giovane, arrivando all’Accademia di Brera. Negli ultimi anni della sua attività si concentra sulle possibilità espressive dell’ usura della materia, come nella Croce del 1967. Nel recupero dei tronconi di ferro, rifiuto industriale, attraverso un collage neocubista, l’entità fisica viene portata all’origine, per poter raggiungere una nuova suggestione, arcana ed emblematica, che mira a costruire, come dice lo stesso artista nel 1964, “un paesaggio spirituale anticipatore del mondo del futuro”. Morirà a Udine il 7 gennaio 1977.


13 minuti e 17 secondi

TecnoCromie

di Maria Pia Masella

Oae, video in mostra alla Whitechapel Gallery di Londra, è l’ultimo lavoro di Patrizio di Massimo. Un collage di strutture narrative che vanno dal documentario, al giornale di viaggio, alla raccolta di momenti di quotidianità. Partendo da una panoramica su Tripoli, l’artista inserisce scorci di passato attraverso materiale d’archivio quali foto e un vecchio servizio giornalistico, più alcune scene di The lion in the desert film prodotto nel 1981 da Mustapha Akkad e censurato in Italia. L’incipit, il primo piano di un anello che una mano - di cui vediamo solo la punta di un dito - muove sotto i riflessi del sole, ci porta nel cuore del territorio libico quando, sulla faccia della monetina, si definisce il rilievo di una palma tra due lame incrociate: Tripolis, la parola occupa l’intera schermata. Da lì, la telecamera scorre sulle strade della città di mattina nel sottofondo lamentoso di motivi arabeggianti. Passa sotto i portici a colonnati, sopra le saracinesche chiuse; inquadra i panni appesi, mossi dalla brezza del mare. All’interno di una casa le pareti sono coperte da foto ingiallite, immagini di casa e monumenti via via spariti. Bruno, il proprietario, commenta con rassegnazione che quel palazzo è stato abbattuto nel ‘77, che un arco è sparito dal nulla e sta aprendo un foglio spiegazzato con la lista buttata giù a penna di vittime di guerra, quando un servizio giornalistico d’inizio secolo si sovrappone alla sua voce invaden-

do lo schermo con i colori grigio seppia di una mappa che illustra il progetto d’invasione della Libia nel 1911. “Quello è l’arco di Marco Aurelio?” qualcuno chiede a Bruno mentre la telecamera torna all’interno della casa mettendo a fuoco la foto in cui appare l’arco, stretto tra i palazzi. Partono le sequenze su Leptis, sull’anfiteatro di Sabratha, le colonne imperiali, gli archi, i fregi. La strada che taglia l’antica colonia romana è incredibilmente somigliante all’Appia, come se, scendendo fino in Brindisi e superando il mare, la celebre arteria fosse una sola continuazione tra L’Italia e l’Africa del Nord. Africanina l’anonima canzonetta fascista fa da sottofondo allo sguardo sulle rovine fino a quando è troncata dalla scena in bianco e nero di un’esecuzione di libanesi tratta dal film The Lion n the desert. Denuncia di uno dei capitoli più neri della storia d’Italia? A tratti sembra che di Massimo viaggi su un terreno ambivalente rispetto alle vicende storiche della Libia a cavallo tra il ‘12 e il ’40 lasciando emergere oltre i fatti, temi universali come il diritto di colonizzare, l’identità dei popoli colonizzati, la fine dell’era degli imperi coloniali. Temi aperti a interpretazioni anche d’ironia considerando che il paese che, in quest’occasione, ne dà visibilità è proprio l’Inghilterra, fondatrice del più grande impero coloniale, dopo Roma.

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La Duchessa

TecnoCromie

di Chiara Lostaglio

Un naturale tripudio di colori intensi e caldi ci accompagna nell’Inghilterra del 1774; dalla finestra di un palazzo, William Kavendish, quinto duca di Devonshire, sta osservando con sguardo attento i giochi di allegre ragazze, e tra esse la sua futura sposa. E’ Georgiana Spencer, che a 17 anni viene data in sposa al duca dalla madre, stabilendo i termini dell’accordo: la giovane dovrà dare all’uomo il sesto duca di Devonshire in cambio di un titolo nobiliare e di una cospicua somma di denaro. Parte da qui il recentissimo film dell’inglese Saul Dibb, La Duchessa, che prende le mosse dal libro di Amanda Forman, imperniato (modernamente) sulla condizione della donna vittima della prepotenza del mondo maschile e la dignità femminile che si prostra al potere. La giovane entusiasta del matrimonio, si ritroverà invece nella triste condizione di moglie sottomessa. Il duca si rivela un marito-padrone che s’interessa solo dei suoi cani, la tradisce più volte anche con Elizabeth Foster, l’intima amica della duchessa che diventerà in seguito concubina ufficiale. Georgiana è mero corpo sul quale il duca abusa anno dopo anno, con l’unico scopo di avere da lei l’atteso erede. Ma l’accordo non verrà rispettato. La donna partorirà due bambine e ne adotterà una terza nata da una precedente relazione di William (con la serva). A Georgiana, la duchessa di Devonshire, resta l’amore del popolo, le feste, il gioco d’azzardo, l’alcol. L’amore verso Charles Grey, già suo amico e futuro Primo Ministro del partito progressista inglese, la porterà a riscattarsi dalla sua condizione. Georgiana proporrà al marito un accordo: accettare la concubina in cambio della libertà di amare un altro uomo e di decidere della propria vita.

La ribellione di voler affermare il diritto alla libertà viene stroncata dalla prepotenza del duca-padrone che non lascerà spazio alle istanze espresse. La duchessa sceglierà, per amore delle figlie, di rinunciare a se stessa, come pure è costretta a fare Elizabeth: anche lei, privata dei suoi figli dal marito, sceglie di essere amante del duca, il solo a poterglieli restituire. Nel cast un tetro (quanto efficace) Ralph Fiennes nel ruolo del duca, Charlotte Rampling (la madre), Hayley Atwell (Elizabeth Foster) e Dominic Cooper (Charles Grey). La luce delle candele, nei sontuosi interni dei palazzi ducali, dona al film un fotografia tenue ed illumina lo sguardo malinconico di Keira Knightley (Georgiana) che, a tratti, richiama il viso rinascimentale di Simonetta Vespucci nel ritratto di Piero di Cosimo. Da un lato il delicato corpo di Georgiana, oggetto degli stupri del duca, dall’altro il carisma della duchessa, dopotutto fiera con le alte parrucche e i cappellini come la Marchesa di Pontejos nell’opera dell’artista aragonese Francisco Goya. La duchessa, pur nel suo mondo di feste e opulenza, risolleva la discriminazione della donna e il suo ruolo limitato alla procreazione nel corso della storia, dalla preistoria passando per la Grecia classica, come ricorda Medea nell’omonima tragedia di Euripide:

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« ... l’uomo, quando si è stufato di vivere con quelli di casa, se ne va fuori e pone fine alla nausea che ha in cuore, recandosi da un amico o da un coetaneo. Noi invece siamo obbligate a guardare a un’unica persona. Dicono che noi trascorriamo la vita senza rischi in casa, mentre loro combattono con la lancia, ma si sbagliano: vorrei essere schierata in battaglia tre volte, piuttosto che partorire una sola volta! ».



Un giovinetto di grande bellezza, nativo di Tespi in Beozia, figlio del dio fluviale Cefiso e della ninfa Liriope, sedotta e resa fertile dalle acque dello stesso dio, è l’oggetto di questo nuovo numero di Mythos. Per l’appunto parleremo di Narciso, prendendo prima in esame l’opera di Nicolas Poussin, e a seguire l’interpretazione di Caravaggio. Nel quadro Eco e Narciso dell’artista francese, l’intento artistico è evidente sin dal primo sguardo. Rispetto a molte altre opere, in cui si preferisce trattare il mito durante il suo compiersi, qui le figure sono “statiche”, incorniciate in uno stato di piena malinconia, all’interno del dramma già consumato. Benché Poussin si limiti a relegare i protagonisti in tale fissità apparente, ciò non risulta essere un atto di ingenuità artistica, anzi, essi stessi si caricano di grande valenza simbolica. La presenza di un piccolo erote, infatti definisce concettualmente il potere dell’Amore, in quanto forza cosmica, come lo è per Eros e Psiche, mentre la lievità di Eco che affiora da un sasso, investita dalla penombra, rafforza tale concetto (vedasi la Psiche avvolta in molti quadri dall’ombra, significato del dubbio, dell’esitazione, dell’introduzio-

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ne rituale al mistero). Inoltre la posizione reclina della testa di Narciso, prossima alla fonte, in cui la dea Nemesi sciolse il filo destinale della sua punizione, preannuncia l’ineluttabilità del fato; ma parimenti, come vedremo più avanti in Caravaggio, l’atto delinea la consapevolezza di un compiersi necessario, per giungere così a quel “gnỗthi seautón”, che è sotteso al senso intimo del mito. Nell’Eco e Narciso di Poussin, ritornando al discorso della luce e del colore, un elemento innovativo è senza dubbio l’uniformazione cromatica, diciamo indistinguibile, del masso al quale il personaggio si appoggia, e che per le sue fattezze si modella, quasi insieme al corpo, all’ambiente circostante; tanto che la testa di Narciso si “fonde” con i fiori che verranno ritrovati al posto delle sue spoglie. Assistiamo così alla ripresa del tema della vita contemplativa ma soprattutto al ritorno di Eros e Thanatos: la sua disfatta, la consumazione dell’entità fisica verso un iter che lo porterà al coronamento del proprio sogno (giocato tutto sulla stessa diffusione della luce e su un modello concettuale che riprende la proprietà del fiore del narciso; insito nella radice della parola Narciso,


Il duplice volto di Narciso di Fabrizio Corselli

– narkhé – presente in altri vocaboli come “narcosi”, indica lo stato di torpore dei trapassati e quindi del regno dei morti). Ancor più struggente s’inserisce invece, nella nostra trattazione, l’opera di Caravaggio. Nel Narciso dell’artista italiano, sono subito visibili alcuni particolari che si discostano dallo stile tipico del pittore, e che altresì annunciano una vera e propria innovazione iconografica del soggetto. Infatti, Caravaggio inventa per l’occasione la doppia figura, detta “a carta di gioco”, in cui il ginocchio, posto sotto la luce piena, funge da fulcro ideale. Perché proprio il rapporto tra la bellezza ideale e la rappresentazione della realtà esterna diviene l’aspetto nodale del paradigma mitico (a differenza della sua valenza psicologica, che suggerisce “il rischio del fallimento”). Ma Caravaggio invece di esporre in maniera “classica” la controversa storia di Narciso, ne tesse ulteriormente una versione idealistica, che tende all’indefinito, tanto che lo sfondo risulta in ombra, a dispetto della presenza di un paesaggio o comunque di un ambiente più consono. In tal maniera, il soggetto sembra emergere da quel fosco drappeggio, a sua volta denotativo del principio di meraviglia, di stupore per la scoperta di un altro da sé. È qui che Caravaggio tesse le atmosfere magiche, sospese, contemplative ma anche trascendenti, tipiche di quella intersoggettività che caratterizza l’aspetto profondo del mito di Narciso. Il senso del fallimento qui si libera del peso di tali ascendenti per esplorare il rapporto tra luce e ombra, innalzando il mito a un livello di maggiore drammatizzazione. Il momento in cui Narciso compie il suo destino presso la fonte, dandosi la morte, indotto dalla punizione di Nemesi, qui viene rovesciato nella propria positiva dimensione artistica; ed ecco che quella luce liberatoria sovrasta le spalle e la schiena del figlio di Cefiso e Liriope, mettendo in evidenza lo splendore dei vestiti, i quali fungono da abbellimento a tanta

beltà. Ma non finisce qui. Lo stato di inquietudine e di irrequietezza sembrano quasi stemperarsi in quella “luce ideale”, in quel “passaggio numinoso” che non si limita a essere più un espediente stilistico, ma uno strumento dell’anima che sgrava lo stesso soggetto dal peso di una grande sofferenza, senza turbare per questo la sua bellezza. Narciso diviene consapevole che ormai la realtà, il rapporto con la fisicità delle cose diviene nulla, ma di tale fisicità ha bisogno perché la coscienza di sé (il Narciso reale) possa riunirsi al corpo (Narciso riflesso), e così formare un’unica cosa. Anelito questo che si sviluppa in un rapporto intimo, tanto che le due forme rimangono intrappolate all’interno di un cerchio, una struttura circolare e speculare nello stesso tempo, sottilmente legate da una flebile striscia di terra che fa da limite al contatto tra le mani, per l’appunto il limite tra l’ideale e il reale.

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Tr ame

«I poeti sono i non riconosciuti legislatori del mondo». Questa sentenziale espressione di Percy Bysshe Shelley (1792-1822), uno dei più grandi poeti romantici inglesi, sembra fornire una decisione perentoria sul carattere formativo dell’uomo nei suoi rapporti sociali e politici. Quasi nella sua tacita appartenenza alla esperienza filosofica di Vico, peraltro in filigrana, persegue il suo cammino poetico immergendo il linguaggio in una fervida arcaicità, in cui la parola diviene limpida espressione di orizzonti vasti e dilatati. Poesia di forme, dunque, poesia in-ascoltata, ma creativa e inconoscibile. Ha una tensione il verso di Shelley ad una soggettività mitica, erge la sua forza verso una superiore conoscenza del mondo, in cui l’io lirico avverte il proprio universo percettivo, in uno scenario ora gotico, ora classico, ora moderno. “La sacra ombra di un’invisibile/ forza fluttua benché invisibile a noi vicino/ visita il mondo con una così incostante/ ala come i venti d’estate che strisciano da fiore a fiore…”. Il poeta è legislatore perché obbedisce al sacrale ministero della Bellezza e insegue la sua predestinazione e fusione con l’anima cosmica e palingenetica delle cose. La memoria poetica di Shelley è sospesa su di esse, come nella simbiosi dei riflessi degli alberi di pino sugli stagni: “Come un’amata, la foresta aveva/ prestato al cuore dell’acqua buia ogni sua foglia…” Anche il mito risulta simbolizzato percettivamente, in una dimensione atemporale, è il nome dei prolungamenti onirici sulla realtà, ed è soprattutto, come testimonia il dramma di Prometeo, il pensiero della civiltà. Come scrive il poeta Giuseppe Conte: “Il bene del mondo, della natura e degli uomini è la continuità,

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Shelley e il chiarore dello sguardo di Andrea Galgano

la fusione amorosa; il male è la impossibilità di assurgere a una goia stabile, a una condizione felice che non sia quella del sogno”. (P.B.Shelley, Poesie, a cura di G. Conte, Rizzoli, Milano 2007) Tutto muta nelle sospensioni naturali delle stagioni, cosicché il destino mortale degli uomini si slancia verso la redenzione, purtroppo inattingibile. Sembra quasi che la difficoltà di questo sacro inseguimento abbia radici d’ombra, in una forma in cui “la dialettica dell’infinito desiderio e di limiti finiti tentano di sconfiggere il desiderio” (Harold Bloom). Una allegoria di Spiriti combattenti, il Primo ricorda al Secondo la permanente esistenza delle ombre che tarpano le sue fughe dalla luce, pur riconoscendo la prepotente bellezza dei suoni e dei colori; il Secondo avverte l’infinita potenza del suo Desiderio, attraversabili anche nelle oscurità, nel risveglio ricolmo di alba, un’alba umana, profondamente radicata nella vita: “e una forma argentina, al suo primo amore/ simile, passa con selvaggi luminosi capelli/ e quando si risveglia sopra l’erba fragrante/ La notte è giorno”. Il contrasto tra la sua misura visionaria e l’afflizione di un destino mortale, che la poesia cerca di innalzare nella sua primordiale attrattiva cosmica, vive di un panteismo generoso e ingenuo, forse retorico in alcune venature, che non è paragonabile a quella tattilità musicale e molteplice di D’Annunzio, come già vide Emilio Cecchi nel suo saggio sul Romanticismo Inglese, ma che si proietta verso un itinerario filosofico tout court, in quanto intuizione del reale nella totalità, come testimoniato nell’Ode al Vento di Ponente. Scriverà Oscar Wilde nel 1897: “Il posto di Cristo è veramente con i poeti […] . È vero, Shelley e Sofocle fanno parte della sua compagnia”.




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