InArte febbraio 2010

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Rivista mensile a diffusione nazionale - anno VI - num. 02 - Febbraio 2010

Alle sorgenti dell'arte etrusca

Adolfo Wildt

Abu Dhabi, un'altra Bilbao?


L'Account è l'addetto commerciale della casa editrice, è un conoscitore di psicologia, è un buon parlatore, è dotato di gusto estetico, diplomatico e politico e soprattutto è una persona indipendente e ricca di spirito d'iniziativa. Se ti riconosci in questa descrizione contattaci senza esitare. Per maggiori informazioni telefonaci a uno di questi numeri 330 798058 - 392 4263201 - 389 1729735 o invia un e-mail a editore@in-arte.org


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Sommario Editoriale

Una mela è una mela? di Angelo Telesca ......................................................... pag.

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Persistenze

Il fascino segreto di Albano di Lucania di Franco Torraca.......................................................... pag. 5 Alle sorgenti dell’arte etrusca di Gianmatteo Funicelli.................................................. pag. 6-7 Antichi signori di Ruvo del Monte di Michele Scalici........................................................... pag. 8-9 Dimore signorili a Clarus Mons di Giuseppe Nolé........................................................... pag. 10-11

Cromie

Rocco Smaldone: immagini tra sogno e realtà di Francesco Mastrorizzi e Clelia Cannata.................... pag. Messico: il Muralismo espressione di un popolo di Amelia Monaco.......................................................... pag. Maria Fuccillo: raccontarsi esplorando di Giovanna Russillo...................................................... pag. Il Medioevo e la Donna Sacra di Sonia Gammone........................................................ pag.

12-13 14-15 16-17 18-19

Eventi

Giorgione e la pittura veneta di Piero Viotto................................................................ pag. 20-21

Forme

Le maschere di marmo di Adolfo Wildt di Fiorella Fiore.............................................................. pag. 22-23 Un viaggio nella scultura dell'Italia del Sud di Gerardo Pecci............................................................ pag. 24-25

Architettando

Abu Dhabi, un'altra Bilbao? di Mario Restaino.......................................................... pag. 26-27

Mythos

Orfeo ed Euridice di Fabrizio Corselli......................................................... pag. 28-29

Art Tour

a cura di Angela Delle Donne........................................ pag.

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Una mela è una mela? di Angelo Telesca

Cari lettori, alcuni anni fa è stato pubblicato un volume di Giandomenico Semeraro dal provocatorio titolo Una mela è una mela? nel quale l’autore esprimeva una serie di considerazioni sul variegato mondo dell’arte contemporanea. A partire dal titolo di questo libro, proviamo anche noi a fare delle nostre considerazioni a riguardo. È evidente a tutti che una mela, in qualsiasi contesto la si collochi, è una mela. Eppure il contesto determina il significato: la mela letta nello spazio e nel tempo cambia il suo senso, ma la mela in se rimane una mela, quantomeno linguisticamente. L'interpretazione deve sempre tenerne conto. Applichiamo questi semplici concetti ad una serie di atteggiamenti comuni, soprattutto nell’arte: un universo nel quale gravitano artisti, critici ed esperti, riviste, siti e blog. Un vero e proprio mondo nel mondo. In questo sub-mondo è possibile notare come, purtroppo, le interpretazioni vadano spesso ben oltre il loro oggetto e come siano in pochi ad accorgersi di questi abusi interpretativi, che condizionano non poco l’affermarsi o meno di realtà artistiche. Una prassi che molte volte allontana la gente dall’arte e la rende “cosa per pochi”. Anche per questo speriamo, con il numero di In Arte Multiversi che avete tra le mani, di riuscire a comunicare l’arte a tutti coloro che semplicemente la amano e la vivono, al di là delle interpretazioni. Buona lettura!!!

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Quando si percorre la S.S. Basentana, non si può non scorgerlo mentre sovrasta dalla sua naturale posizione privilegiata, il territorio circostante e le sue valli, e sembra quasi voler fronteggiare le vicine Dolomiti Lucane, splendido scenario naturale della regione. Le sue origini si perdono nel tempo: non esistono documenti storici scritti che ne testimonino la nascita. Anche nei vari testi che affrontano la storia lucana non ci sono notizie precise sul piccolo comune che viene menzionato poco e vagamente. La denominazione del paese, che si presta a diverse interpretazioni, sembra risalire al nome del suo fondatore di origine greco-albanese, ma potrebbe anche derivare dalla radice indoeuropea alb cioè monte. Ad ogni modo, l’etimologia del nome stesso di Albano di Lucania, sembra confermare le sue antiche origini. Del periodo medievale abbiamo la Chiesa Parrocchiale, che si trova nella parte più alta del paese, dedicata dal Duecento al Seicento alla Madonna della Neve, ed ora dedicata a Maria SS. Assunta. Di stile romanico a ponente, sembra essere stata costruita su una preesistente chiesa paleocristiana; di fronte all’altare principale si trovava il portone d’ingresso, chiuso nel 1924. Ad oggi l’ingresso dei fedeli è sulla fiancata destra con un portale in stile neoclassico sorretto da quattro colonne. L’imponente campanile è del XVIII secolo. L’interno è a tre navate che poggiano su possenti pilastri, con volta lignea, a capria-

di Franco Torraca

ta. Lo stile barocco caratterizza l’altare in marmo intarsiato con angeli alati del XVIII sec.; notevoli sono anche un organo in legno intagliato e decorato del 1700 e una croce processionale del ‘600. Di pregevole fattura sono anche i dipinti del XVI e del XVII sec., tra i quali una tela raffigurante la Madonna della Neve che con tutta probabilità appartiene alla scuola di Raffaello Sanzio, che racconta il miracolo della neve caduta ad agosto sul luogo dell’edificazione della Chiesa di S. Maria Maggiore all’Esquilino a Roma, e una Crocifissione del 1500 di scuola napoletana. Il paese è un intrico di vicoli e stradine, che spesso si aprono in piccole piazze. Nel centro storico si notano il Palazzo Ducale e splendidi portali in pietra viva, realizzati da maestri scalpellini locali, che caratterizzano soprattutto le abitazioni più antiche. Albano racchiude nel suo caratteristico borgo storico un luogo speciale che apre una sorta di porta magica verso altri tempi. Si tratta del “Museo del giocattolo povero e del gioco di strada” frutto di un progetto, nato nel 2004 e curato dall’Associazione A.R.C.A. Giò (Attività di Recupero Costruzione e Animazione di giochi e giocattoli della tradizione popolare), con l’intento di recuperare e valorizzare il patrimonio ludico tradizionale ed approfondire quel rapporto speciale che esiste tra gioco e storia dell’arte con particolare attenzione all’aspetto ludico delle arti figurative. Foto Arch. APT

Persistenze

Il fascino segreto di Albano di Lucania

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Persistenze

Tra l’area del Lazio settentrionale e il Sud della Toscana, in un percorso iniziatico che prende piede tra la fine del Bronzo finale (XI-X a.C.) e la prima Età del Ferro (IX-VIII a.C.) si diffonde la plurisecolare civiltà dei principes, gli Etruschi. Questo ampio sviluppo evolutivo, sicuramente un patrimonio originario, si articola in un vasto linguaggio storicoartistico costituito da ambizioni del potere, angosce, intrighi, palazzi aristocratici e singolari riti funerari,

Chiusi, Museo archeologico, Sfinge etrusca, VI sec. a.C.

Chiusi, Museo archeologico, Cantaro gianiforme, IV sec. a.C.

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per poi consolidare un tragitto artistico tra i più significativi della storia. Gli studi winckelmanniani, hanno però in passato negato all’arte etrusca una qualsiasi dignità artistica, mentre la critica gli additò il ruolo di manifestazione provinciale dell’arte greca. Solo nel XX secolo la civiltà venne analizzata sino al punto che le sporadiche ricerche sulla storia di questi uomini divennero ben presto una scienza erudita per l’archeologia europea. Verso il X secolo


Alle sorgenti dell’arte etrusca di Gianmatteo Funicelli

a.C., mentre la Grecia mediterranea riporta nuove conquiste culturali, l’Etruria, priva di proprie radici, assimila fortemente i caratteri della grecità arcaica che si spinge, sul suolo italico, sino alle strette competenze di questa nuova società. In un vasto ed intricato quadro di reminiscenze preistoriche, tradizioni di gusto locale e nuovi slanci, la popolazione etrusca si arricchisce di un sostrato socio-culturale che non è il suo: è l’inizio di un mondo nuovo per un popolo nuovo. I primi atteggiamenti di adesione si ricercano proprio nelle produzioni artistiche locali. Una società dal mero carattere religioso, costituita da ovvie necessità sacrali e funerarie, ma sicuramente non priva di affermazioni sfarzose, attinge dai vicini greci pratiche ed usi comuni su cui poter elaborare i propri sentimenti artistici. Oltre le complicate ipotesi sull’origine della popolazione, dispute discordanti tra provenienza asiatica o per altri di origine autoctona, i primi segni di questa cultura vanno sotto il nome di “villanoviani”: il fortuito scoprimento dei sepolcreti nel centro di Villanova (Bologna), riporta alla Chiusi, Museo archeologico, Urna cineraria biconica, VIII sec. a.C. storia del tempo (1853) un’ingente quantità di tombe a pozzo con ulteriori corredi funerari. I primi elementi intrinsechi dell’arte in esame crestati, frutto delle abilità metallurgiche dei mastri sono le urne cinerarie, dove la prassi cerimoniale bronzisti, ed oggetti di guerra che accompagnano il vi esigeva la conservazione dei resti del defunto defunto, nella lastra in pietra, quasi a simboleggiare (bambino e/o adulto) dopo la cremazione. Queste, nell’eternità lo status del guerriero vincitore. Accanto denominate “urne biconiche” – formate da un vaso a questi piccoli elementi gli artigiani etruschi superano fittile chiuso sull’orlo da un coperchio che spesso le sorprendenti capacità tecniche nella realizzazione era una ciotola rovesciata o un elmo bronzeo di elementi personali come oggettistica domestica – si presentano come elementi non del tutto o carrelli cerimoniali in bronzo, su cui la timida formati. L’ornato graffita che compare sulle scultura a tutto tondo si anima di scene pareti dei vasi, difatti, risulta l’unico modulo quotidiane o di enigmatiche allegorie. Una decorativo che ricorre in questa fase (IXrealtà in continua evoluzione, che vedrà in VIII sec. a.C.); in un ritmo ben costante seguito risvolti e nuove forme espressive di fasce concentriche campeggiano negli status symbol orientalizzanti (metà sulla ceramica elementi geometrici incisi VIII-VII sec. a.C.), in cui l’autoaffermazione alternati a nervose puntellature. Di eguale delle classi aristocratiche affonderà i propri interesse risultano gli affascinanti elmi desideri nell’oro e l’argento.

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Persistenze Il sito archeologico di Ruvo del Monte, a sud-ovest dal moderno centro di Melfi, rappresenta un osservatorio privilegiato sulla società indigena dell’Italia Meridionale tra VII e IV sec. a.C. La sua posizione rivela il valore strategico dell’area, posta al centro di vie naturali che mettevano in comunicazione Campania, Puglia e Basilicata. Il sito, segnalato nel 1976 dal “Gruppo Archeologico Lucano”, è stato oggetto di indagini archeologiche da parte della Soprintendenza Archeologica della Basilicata negli anni ’77-’80, ’83 e ‘89. In quella occasione, fu rimessa in luce parte di una necropoli che si estende sul pianoro orientale e sulle prime pendici della collina di S. Antonio, poco al di sopra il paese moderno. Le sepolture individuate sono del tipo a fossa rettangolare, scavate nel banco naturale. All’interno il defunto era disposto in posizione “rannicchiata” con

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Antichi signori di Ruvo del Monte di Michele Scalici

la testa leggermente inclinata di tre quarti e le gambe “iperflesse” verso il bacino. Il lato lungo il quale i corpi erano rivolti sembra essere caratterizzante del sesso degli individui: i maschi sul fianco destro, le femmine su quello sinistro. Il corredo (composto da vasellame, armi e oggetti d’uso personale in osso o metallo) era deposto lungo uno dei lati lunghi, generalmente in corrispondenza della parte verso la quale era girato il volto del defunto, e sul lato corto in prossimità dei piedi. I vasi erano disposti secondo un preciso criterio: quelli di maggiori dimensioni, come le olle, con all’interno piccoli attingitoi, occupavano l’angolo della fossa più distante dalla testa; gli oggetti più preziosi erano stipati in fondo, spesso uno sull’altro, sotto le gambe ripiegate del defunto. Le armi sembra fossero riposte e non indossate, ad eccezione del cinturone. La disposizione delle tombe sembra organizzarsi intorno ad un nucleo principale di ricche sepolture, verosimilmente appartenute a personaggi


che rivestivano un importante ruolo sociale all’interno della comunità. Alcuni indizi, in particolare il rinvenimento di porzioni di graticcio ligneo al di sotto dei resti osteologici degli individui, hanno fatto avanzare l’ipotesi che i defunti di elevato status sociale fossero seppelliti entro grandi casse lignee. In alcuni casi la posizione di rinvenimento degli oggetti, soprattutto delle kylikes (coppe utilizzate per bere il vino), fa supporre che queste fossero state originariamente appese alle pareti della cassa mediante chiodi o funicelle. La singolarità dell’impianto è evidente ed è forte la suggestione che le pareti interne della cassa potessero essere state dipinte come le contemporanee sepolture di Paestum. Due corredi, recentemente esposti al Museo “Dino Adamesteanu” di Potenza, illustrano bene l’immagine dell’aristocrazia indigena nel periodo compreso tra il pieno ed il tardo arcaismo. Nel primo, il corredo della tomba 70, appartenuta ad una giovane deceduta attorno alla metà del VI sec. a.C., spiccano una collana in grani d’ambra con grandi pendenti configurati a conchiglia, “fermatrecce”, fibule e altri monili; a sottolineare il rango della defunta concorre la presenza di un bacino in bronzo di probabile fabbricazione etrusco-campana e di altri oggetti pro-

venienti dall’area greco-coloniale. Il secondo corredo apparteneva ad un uomo adulto deceduto circa trent’anni dopo. Anche in questo caso, lo status del defunto è sottolineato dalla presenza di oggetti pregiati importati dall’area greca ed etrusca: alla ricca serie di vasi si aggiungono spiedi in ferro e armi che connotano la persona come capo e guerriero. Il quadro che si ricava dall’analisi dei contesti funerari di Ruvo è quello di una società caratterizzata da una forte connotazione identitaria, ma anche piuttosto aperta ai contatti con l’esterno. L’appartenenza di questa comunità all’ethnos nord-lucano è sottolineata dalla ricorrenza, come vaso rituale, della nestorìs (detta anche “cantaroide”, forma ceramica con grandi anse sopraelevate rispetto all’orlo), che trova proprio a Ruvo una delle sue più significative attestazioni. Fig. 1 – tomba 64, cimasa del candelabro etrusco, (Bottini 1990); Fig. 2 – tomba 64, in corso di scavo, (Bottini 1990); Fig. 3 – tomba 36, corredo, (foto N. Figliuolo, mostra Principi ed Eroi della Basilicata Antica). Immagini riprodotte su concessione del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, Direzione regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Regione Basilicata - Soprintendenza per i beni archeologici della Basilicata. È vietata ogni ulteriore riproduzione con qualsiasi mezzo.

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Persistenze

Dalla sommità del Monte Catarozzolo, sulle cui pendici è situato l’abitato di Chiaromonte, si gode la vista di uno stupendo scenario di monti e di valli e costellato da piccoli paesi ognuno di antichissime e mirabili origini. Tutto quanto è visibile dal monte in gran parte definisce quell’immenso feudo che dall’XI secolo è noto come la “Contea di Chiaromonte” creata dai Conti Normanni giunti nel Mezzogiorno al seguito di Roberto il Guiscardo. Chiaromonte è uno dei tanti gioielli paesaggistici inseriti nel cuore verde del Parco Nazionale del Pollino. Nel fiorente periodo feudale, Clarus Mons era anche definito "il

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Dimore signorili a Clarus Mons di Giuseppe Nolé

signore delle valli", proprio in virtù della sua posizione dalla quale domina le valli del Serrapotamo e del Sinni a sud. Gode di un clima salubre e asciutto e il paesaggio si mostra splendido e variegato, solcato da numerosi torrenti e diviso in diversi borghi rurali. Visitando il centro storico si possono ammirare caratteristici scorci tra vicoli, abitazioni antiche con splendidi portali, balconi, finestre e soglie in pietra lavorata, nonché vecchie porte. È proprio la bellezza di alcuni edifici che colpisce l’attenzione; in particolare il Castello dei Principi Sanseverino, ex Monastero, il palazzo Vescovile e il palazzo di Giura. Il grande complesso chiamato attualmente “Monastero” nel periodo feudale fungeva da Castello baronale, essendo stato fondato dai primi signori di Chiaromonte in età normanna. Ingrandito e abbellito dai Sanseverino nel XIV secolo, il maniero proteggeva dall’alto del Catarozzolo la Terra sottostante, raccolta in un’ampia e poderosa cerchia di mura, di cui sopravanzano alcuni bastioni con torri. Col declinare della fortuna dei Sanseverino, anche il Castello di Chiaromonte subì un notevole degrado: molte fonti lo descrivono come un palazzone agricolo già nel XVII secolo. Nel 1660, in un apprezzo del Tavolario Gallarano conservato all’Archivio di Stato di Napoli, viene descritto “come un edificio di dimensioni notevoli ma in stato precario; vi sono diverse stanze senza tetto, pur se alcune di esse conservano ancora gli affreschi ed i controsoffitti in legno”. Per salvarlo dalla rovina, nel secolo successivo, la Camera Comitale decise di recuperarne la parte più solida, affidando i lavori ad alcuni artigiani del posto che avrebbero dovuto consolidare e ristrutturare un quartino di tre camere e camerino, una grande sala e una loggia intermedia tra detta sala e quartino. Il resto, formato da quattro case soprastanti, un soprano, un mezzano, otto case sottostanti, finiva di crollare prima del 1850. Acquisito dalla Curia di Anglona e Tursi nel 1849, il Castello fu riadattato e trasformato in monastero. La ricostruzione fu completata nel 1845. Dopo varie vicissitudini nel 1928 fu occupato dalle Suore Figlie dell’Oratorio, che vi istituirono un orfanotrofio, un asilo infantile e una scuola di lavoro. Minacciato


Foto Arch. APT

Chiaromonte. La torre.

da un movimento franoso sul lato sud, fu rinforzato e consolidato nel 1930/31 ed è stato successivamente ristrutturato e abbellito. È formato da tre corpi: uno a sud a tre piani, con finestroni rinascimentali all’ultimo piano; un corpo a due piani sul lato ovest; e un terzo, pure a due piani, sul lato nord. Il giardino interno è abbellito da un’artistica cisterna, è protet-

to sul lato est da un muro dell’antica linea fortificata che curvando a nord chiudeva il Castello all’altezza dell’adiacente Chiesa di San Tommaso Apostolo. Particolarmente belli al primo piano una serie di archi, costituenti l’origine di un loggiato. La posizione stessa del castello, raccolto tra le abitazioni del centro rendono il luogo molto suggestivo.

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Cromie

Rocco Smaldone: immagini tra sogno e realtà

Rocco Smaldone è un giovane artista poliedrico, che ama esplorare diversi sentieri dell’arte, dedicandosi con pari impegno alla musica (nell’ambito dell’heavy metal) e alla pittura, ma non disdegnando neanche la fotografia. Nato nel 1980 a Potenza, dove risiede tutt’oggi, fin da bambino scopre un’innata passione per la pittura, che lo porta a sperimentare le più svariate tecniche e ad approfondire la conoscenza della natura non solo tramite l’osservazione diretta, ma anche attraverso lo studio dei maestri del Rinascimento, del Seicento italiano e olandese e dell’Ottocento. L’epoca che, tuttavia, più di ogni altra ha lasciato il segno nella pittura di Smaldone è certamente il Novecento: chiari sono, infatti, i rimandi a De Chirico e a Dalì, a Magritte e a Ernst. E’ possibile individuare, inoltre, suggestioni accostabili a molto cinema del secolo scorso, a partire da quello espressionista. Rocco Smaldone, La tempesta di neve.

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di Francesco Mastrorizzi e Clelia Cannata

Un’influenza più recente è, poi, quella ricevuta dalle vanitates e dai paesaggi di ascendenza simbolista dell’artista cremonese Agostino Arrivabene. Dopo aver privilegiato per molti anni l’uso degli acrilici e della tecnica mista, di recente si è dedicato sempre più alla pittura ad olio, su tela, su cartone e su tavola. Ha partecipato con le sue opere a diverse collettive, tra cui Vicolinarte a Possidente nel 2005, a tre edizioni dell’estemporanea di pittura Elena d’Epiro, organizzata a Lagopesole, al Premio Enogea 2009 a Ginestra e alla mostra di pittura organizzata nel 2007 dalla Camera di Commercio di Potenza. Una sua ricca personale, con circa cinquanta opere esposte, è stata allestita ad agosto del 2009 a Tolve. Nel settembre 2009 ha ottenuto il primo premio in occasione della competizione pittorica Vanitas: nature floreali, organizzata dallo studio d'arte Il Santo Graal di Potenza.


Nello stile di Smaldone si sposano perfettamente espressionismo tedesco, surrealismo e pittura metafisica. Le immagini, spesso dai toni foschi, sono dominate dalla prospettiva, la quale fa sì che l'osservatore si perda nei meandri di una visione illusoria e trascendentale della vita, senza, tuttavia, mai staccarsene del tutto. La sensazione, spesso, è quella di stare di fronte alla scenografia di un palcoscenico teatrale, sul quale la scena è rappresentata. Nell’opera Apollo e Dafne II proprio l'ottimo uso della prospettiva riporta volutamente al reale l'elemento mitico, "concretizzandolo", quasi ad evocare su tela l'insoluta diatriba amore-sofferenza. Sullo sfondo alcune rocce sembrano disegnare delle mani con-

giunte in preghiera, a suggellare il dolore provocato dalla passione. Anche ne Il lago dei ricordi l'artista spezza l'onirico con effetti che rimandano al reale: il perdersi nell'immaginario viene interrotto, infatti, dalla presenza in primo piano dell'aquila, che, vorace, rapisce il ricordo e risveglia dall'idillio. Un semplice gesto prospettico – la visione obliqua – per un risultato eccellente ne La tempesta. Lo spettatore si sente rapito dalle raffiche di vento che piegano le fronde, incuriosito dall'errare solingo del protagonista, colto di spalle, – escamotage che rende l'insieme ancora più oscuro. Eppure anche qui l'effetto onirico si perde, tramite l'impronta lasciata dall'uomo sulla neve: elemento che, ancora una volta, strappa dal sogno e concretizza l'evento.

Sotto: Rocco Smaldone, Omaggio a Wiene. In alto: Rocco Smaldone, Natura viva metafisica, particolare.

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Cromie

Messico: il Muralismo espressione di un popolo

Dal 1910 al 1920: sono questi anni cruciali per il Messico il quale viene travolto da una grande rivoluzione che, inevitabilmente, non poteva, come avveniva anche in altri contesti, apportare un grande cambiamento sul piano sociale, economico e soprattutto culturale. Agli inizi del ‘900, in Europa, erano stati preannunciati grandi mutamenti dalla Belle Epoque, a cui seguirono purtroppo i disastri della Grande Guerra e la nascita delle dittature in diversi Stati Europei, dittature che, nel loro progetto totalitarista, avvinghiarono a sé anche l’arte ridotta, in alcuni casi, a strumento per far leva e influenzare le masse. Di qui la nascita di svariate correnti capaci di esprimere e rendere proprio il linguaggio e lo stato d’animo della popolazione, l’innovazione come frutto della modernità, l’importanza della psicanalisi quale strumento per indagare l’inconscio. Anche in Messico, la rivoluzione aveva generato un nuovo concetto di arte che sorpassava quello che per secoli ne era stato l’identificativo, cioè un’arte precolombiana espressione di Aztechi e Maya. Nel 1910, la rivoluzione era stato il motore destinato a porre fine alla dittatura di Porfirio Díaz. Al contempo, il movimento aveva avuto un grande impatto sulle masse operaie e sugli agricoltori al punto tale che, con la Costituzione Politica degli Stati Uniti Messicani, promulgata nel 1917, furono per la prima volta al mondo riconosciute le garanzie sociali e i diritti ai lavoratori. Interessandosi non solo alla politica e all’economia che, pure necessitavano di grandi riforme per risollevare le sorti del popolo messicano, il governo aveva riconosciuto all’arte il ruolo ideale per poter educare le masse al nuovo progetto a cui si avviava

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di Amelia Monaco

il Messico. A questo scopo affidò a diversi giovani artisti i muri degli edifici pubblici affinchè potessero lanciare al popolo un nuovo messaggio. Si gettavano così le basi del Muralismo messicano, definito da Luis Cardoza y Aragòn “l’unico contributo originale moderno che l’arte dell’America ha dato al mondo”. Inaugurato dalla decorazione degli edifici della Secretaría de Educación Pública e dalla nomina di José Vasconcelos a suo titolare, il muralismo, ispirandosi alla tecnica degli affreschi italiani, portava in scena una nuova interpretazione del Messico e del suo popolo. Lo scopo principale era quello di dar vita ad un nuovo concetto estetico che, abbandonando il principio della bellezza suprema come ideale classico, si fondava sul recupero delle immagini degli indios, protagonisti di nuove scene destinate a gettare le basi dell’identità messicana. Fautori di essa furono tre grandi personaggi, singolari ed eclettici nella loro personalita: David Alfaro Siqueiros, Diego Rivera, José Clemente Orozco, a cui non si può non accostare il nome di Frida Khalo. I loro temi, trattati in forme diverse poiché espressione spesso di un’interpretazione soggettiva di quanto stava avvenendo, guardavano principalmente alla storia del Messico, con particolare slancio nei confronti degli ideali della Rivoluzione e del Messico presente. Si trattava di una pittura critica nei confronti dalla situazione nazionale, esprimeva al tempo stesso l’ideologia dei committenti divenendo contemporaneamente mezzo di comunicazione e strumento didattico e pedagogico per buona parte dei messicani che, analfabeti, rappresentavano la stragrande maggioranza dell’universo di questo Stato.



Cromie

Maria Fuccillo: raccontarsi esplorando

Maria Fuccillo nasce a Barile nel 1957. A vent’anni, dopo un’infanzia e un’adolescenza trascorse in provincia di Cuneo, dove conclude gli studi, fa ritorno al suo paese d’origine. Quello per la pittura è un amore sbocciato in età matura, che coltiva con successo come autodidatta. Pur avendo sempre manifestato una spiccata creatività è solo in un momento di particolare sconforto che avverte l’impulso di raccontare e di raccontarsi esplorando nuove forme espressive. La sua prima opera, un paesaggio campestre, riscuote subito grande successo. Dopo aver partecipato alla sua prima collettiva di pittura viene notata da Gaetano Maranzino che la invita nel suo gruppo di artisti e la incoraggia ad approfondire la tecnica dell’acquerello. Consiglio che l’artista coglie, dedicandosi alla sua passione con ancor più tenacia. Nei suoi raffinati acquerelli c’è un mondo fatto di cose semplici, di luoghi familiari che raccontano del profondo legame con la sua terra d’origine.

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di Giovanna Russillo

Un legame riscoperto in età adulta, dopo qualche comprensibile difficoltà di adattamento dovuta ad una giovinezza vissuta in una realtà diversa come quella della provincia piemontese. Gli scorci caratteristici della “sua” Barile ci appaiono luminosi, incorniciati dal verde dell’edera o da pergolati di glicini. Sono angoli abbandonati che sulla tela rinascono, si animano di vite comuni, a volte appena suggerite attraverso bucati stesi al sole ad asciugare, o finestre ravvivate da vasi di gerani. Altri soggetti cari all’artista sono nature morte, papaveri, paesaggi della campagna del Vulture. Ha partecipato a diverse collettive di pittura a Melfi, Barile, Rionero, Laurenzana, Avellino. Tra i molti riconoscimenti ricevuti ricordiamo il primo premio assegnatole nel ’98 durante la Sagra dell’Aglianico del Vulture per un’opera scelta in seguito come etichetta per un vino Aglianico da esportazione, e la menzione fuori concorso per la sezione dedicata agli acquerelli ad una collettiva di pittura milanese.



Cromie Da sempre la donna è stata oggetto/soggetto privilegiato nell’arte. Rappresentata come archetipo della dimensione umana, la figura femminile ha ricoperto di volta in volta un significato diverso a seconda del periodo storico nel quale viveva. Il modo di rappresentarla e il ruolo simbolico da essa svolto sono cambiati nel corso dei secoli, di pari passo con l’evoluzione delle tecniche artistiche e degli stili, con il variare del gusto estetico e, elemento non meno importante, con il diverso modo di concepire il ruolo della donna nella società. Nell'iconografia medievale la bellezza femminile era riservata alle immagini sacre. Era la figura di Maria ad essere protagonista indiscussa in tutti i campi dell'arte. Le enormi influenze derivanti dal Cristianesimo portarono ad una rappresentazione della donna solo considerandola nella sua sacralità. La concezione teocentrica tipica di questo periodo, investe ogni ambito della vita e conseguentemente l’arte ne diventa espressione. Le Madonne sono il soggetto sacro per eccellenza: si presentano composte, dolci ed eleganti, come nel caso di Simone Martini; oppure sono ricche di umanità e di tratti più “umanamente” reali, come quelle di

Il Medioevo e la Donna Sacra di Sonia Gammone

Giotto. Nell’opera di Simone Martini Annunciazione la pittura ci presenta l’Arcangelo Gabriele in ginocchio davanti alla Beata Vergine mentre le porge una fronda d’ulivo annunciandole la volontà divina. I loro corpi sono privi di qualsiasi consistenza materiale. Maria è avvolta in un mantello blu con una bordatura dorata. Il suo volto, reclinato sulla spalla destra, indica un sentimento misto tra il pudore e il distacco. Sarà Giotto a dare una svolta radicale alla pittura del tempo. Nella Chiesa di Ognissanti a Firenze si trova la Pala di Ognissanti: la Madonna è una figura solida, reale, e per la prima volta la sua espressione ci appare del tutto "umanizzata". A differenza della Madonna bizantina, solenne e severa, questa accenna quasi ad un sorriso nello schiudersi delle labbra che lascia intravedere i denti. Il suo aspetto, il suo volto, la sua espressione, sono di una dolcezza tipicamente umana, senza alcuna astrazione. Il mantello azzurro scuro che la ricopre scende dalla testa creando una linea verticale netta, ma poi si modella adagiandosi sulle gambe della Madonna: a Giotto basta una leggera scoloritura del colore del mantello per farci vedere pienamente il volume disegnato dalle ginoc-

A lato: Giotto, Pala di Ognissanti, 1306-1310, tempera su tavola, Firenze, Galleria degli Uffizi. Sotto: Simone Martini, Annunciazione, 1333, tempera su tavola, Firenze, Galleria degli Uffizi.

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chia. In ossequio alla tradizione, anche Giotto alla fine utilizza il fondo dorato e una sproporzione "gerarchica" tra la figura della Madonna e del Bambino rispetto alle altre figure. Ma sono solo concessioni che egli fa alla tradizione, senza nulla togliere alla sua grande capacità di controllare visivamente tutti i rapporti spaziali e visivi tra le figure. Queste che per Giotto saranno pure intuizioni presto diventeranno metodo e regola con la scoperta e l’utilizzo della prospettiva. All’unisono con i poeti e i letterati del tempo, le donne sono angeli, sono creature sacre ed immateriali.

Una consuetudine questa, rimasta fino all'epoca rinascimentale, quando, secondo le nuove concezioni che riportavano l'uomo al centro dell'universo, anche la donna si riappropriava dei suoi connotati corporali e la sua figura si sganciava da una dimensione esclusivamente trascendentale nella quale era stata relegata dalla storia. Col Rinascimento tutto cambierà, la donna come soggetto sacro sarà sempre presente. Non più lontana e austera come nelle rappresentazioni medievali, ma reale e terrena nelle espressioni e nei gesti, perfezione dell’umanità che rappresenta.

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Eventi A Castelfranco Veneto, nella sua città natale, una grande mostra celebra il quinto centenario dalla morte di Giorgione, il pittore che segna il passaggio da Bellini a Tiziano nella pittura veneta. Zorzi da Castelfranco nasce nel 1477 o nel 1478 nella famiglia Barbarella, proprietaria di quella casa, che è uno dei due poli di queste celebrazioni, nel cui salone l’artista dipinse il Fregio delle arti liberali e meccaniche. L’altro polo è la cappella funebre Costanzo nel Duomo, sul cui altare si trova la Madonna con Bambino e i santi Nicasio e Francesco, che l’artista dipinse poco più che ventenne. La mostra ha un grande interesse storico, perché non solo raccoglie intorno ai 18 dipinti di Giorgione, altre 126 opere di artisti tra cui alcune di Raffaello, Perugino, Sebastiano del Piombo, Cima da Conegliano, Durer, ma anche sculture, stampe e libri per ricostruire l’ambiente in cui si è sviluppata la breve esperienza dell’artista, interrotta dall’epidemia di peste del 1510. Una vita misteriosa, forse fu allievo di Giovanni Bellini, forse ebbe modo di incontrare Leonardo e Durer nei loro soggiorni a Venezia, fu in contatto con i circoli umanistici veneti, ma non si hanno documenti certi. Eppure ebbe fama tra i contemporanei, e soprattutto con lui esplose quello stile della pittura veneta, così diverso dalla pittura fiorentina ancorata al disegno, che bene descrive il Vasari: “dipingere solo con i colori stessi senz’altro studio di disegnare in carta”. Per comprendere Giorgione bisogna partire da La tempesta, un quadro che ha per soggetto non un fatto sociale, ma un avvenimento naturale, anche se sono presenti un uomo e una donna, collocati ai margini ed assorbiti nel paesaggio. Questi due personaggi, un giovane contadino e la donna che allatta, sono enigmatici, quasi come i personaggi del surrealismo di Magritte o dell’espressionismo di Munch. Chi cerca motivazioni specifiche li individua come Marte e Venere, oppure Adamo ed Eva, ma sono attribuzioni arbitrarie. In realtà l’attenzione è polarizzata sul fulmine che irrompe al centro del quadro, attorno al quale è costruito il paesaggio. Alcuni ruderi di edifici e colonne rimandano all’antichità classica. I curatori della mostra hanno affiancato a questo capolavoro una tela titolata Tramonto, che alcuni critici partendo dai minuscoli personaggi presenti, pensano rappresentare Filottete, il pretendente di Elena abbandonato da Ulisse nell’isola di Lemno perché morso ad un piede. Potrebbe anche darsi, perché l’esile albero, visto in controluce, attorno a cui è co-

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Giorgione e la pittura veneta di Piero Viotto

struito il paesaggio è un pioppo, l’albero sacro ad Ercole le cui foglie venivano proprio usate per curare i morsi di serpente. In entrambe le tele Giorgione non racconta un episodio ma esprime un’emozione di fronte alla natura. Questa attenzione al paesaggio è cosi predominante che nella Madonna del Duomo l’abito della Vergine non è dipinto nel tradizionale blu ma in verde per meglio intonarlo ai colori del paesaggio. Anche quando affronta scene a più personaggi che dovrebbero dialogare tra di loro, l’artista irrigidisce la figura umana, ne blocca la gestualità, mentre dà molto spazio al paesaggio come nel due tele Mosè alla prova del fuoco e Il giudizio di Salomone, presenti in mostra. Nel ritratto Giorgione coglie in profondità i tratti psicologici del personaggio, ma quasi astrae la figura dal contesto, perché la immerge nel buio da cui la fa emergere, illuminando solo il volto. Nelle Tre età dell’uomo, un adolescente al centro, visto di fronte mentre legge un foglio, un vecchio, visto di tre quarti, che guarda lo spettatore, un giovane colto di profilo, documentano l’abilità dell’artista, ma restano un enigma. Qualcuno vi ha visto una Lezione di musica, immaginando il cartiglio come una partitura. Forse, ricordando un opera non presente in mostra, il ritratto di una vecchia che tiene in mano un cartiglio con scritto “col tempo”, e guarda anche lei lo spettatore, si può comprendere meglio quest’opera, che illustra la brevità della vita dell’uomo quaggiù. Le Madonne del Giorgione non hanno la dolcezza di quelle del Bellini, ma la loro bellezza, un po’ statuaria, viene valorizzata dal paesaggio. Il quadro proveniente dal Museo di Leningrado documenta questa poetica. La volumetria del gruppo Madonna con bambino in forma piramidale occupa la metà della superficie, tutto il resto, da ogni parte, è paesaggio, con una vegetazione minuziosamente elaborata. L’arte di Giorgione conserva una coerenza di impostazione, senza ripetersi; l’artista è vissuto troppo poco per sviluppare diversamente la sua creatività. La mostra di Castelfranco è una mostra importante, che resterà nella storia della critica; purtroppo mancano alcuni capolavori, ma gli organizzatori hanno scelto più di confrontare il Maestro con i suoi contemporanei che di presentare bene le opere attribuitegli. Scelta che nasce anche dal fatto che la critica fino ad ora non ha saputo accertare tutte le attribuzioni al patrimonio della pittura veneta di questo periodo.



fOrme

Adolfo Wildt è uno dei testimoni di quell’arte visionaria, messa a servizio per affermare una concezione sofferta della realtà del mondo, che è cavallo tra realismo e simbolismo. Giovanissimo, passa per la bottega di Giuseppe Grandi, l’artista che più di chiunque altro aveva capito il messaggio di Medardo Rosso, e approda all’Accademia di Brera, da cui scappa dopo solo un anno, perché ambiente troppo rigido e poco incline ad esplorare la nuova espressività da cui il giovane era attratto, approfittandone però per studiare da vicino i capolavori di Fidia e Michelangelo. Nel 1894, un incontro importante con Franz Rose, un magnate tedesco che diventa il suo mecenate, gli permette di entrare a contatto con il simbolismo

tedesco, che nella sua opera si mescola al grafismo puro della Secessione Viennese. Ed è proprio quella linearità delicata che diventa subito la caratteristica maggiore della sua opera; egli incide i volti che scolpisce con una cura maniacale, che lo porta a scrivere nel 1921, nel suo scritto L’arte del marmo, che la scultura non deve avere nulla a che fare con il pittoricismo, ma deve delineare alla perfezione i tratti, i volumi, perché solo essa esprime la vera natura della materia: “La scultura non è per gli occhi, è per l’anima”. Questa cura gli fa creare dalla materia una perfezione tanto cristallina da far apparire le sue opere come avorio o ceramica, che nell’inseguimento del perfetto equilibrio tra i vuoti e i pieni lo porta a scava-

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Le maschere di marmo di Adolfo Wildt di Fiorella Fiore

lavoro un’espressione più forte. Io accresco un muscolo al di là del normale, quando voglio esprimere un sentimento che, nella gioia o nella sofferenza, è anch’esso al di là del normale. […] Scolpire significa immettere lo spirito nella materia”. La Vittoria è l’ultima opera che segna il passaggio dell’artista dall’espressionismo degli anni Dieci al classicismo degli anni Venti, in cui gli echi del passato ellenista greco si mescolano alle immancabili influenze simboliste. È il caso di opere come Testa della Madre del 1922, o la Santa Lucia del 1927. Nominato accademico d’Italia, l’artista scompare nel 1931, proprio durante l’allestimento di una sua personale alla Quadriennale di Roma.

re gli occhi, le narici, la bocca, rendendo i suoi volti maschere perfette della forma, come in Prigioni del 1915. Non vi è solo la ricerca della pura forma, ma anche quella dell’anima: nel 1918 Wildt scolpisce l’immagine di una Vittoria, per salutare l’Italia uscita dalla Guerra. Ma l’immagine che ne dà la scultore è molto lontana da quella di una Nike trionfatrice: quella di Wildt è una creatura senza corpo, il cui volto di bronzo, nero, cupo, si apre in un grido che non pare di né di gloria, né di gioia; gli occhi si chiudono in un dolore che è espressione soprattutto di lutto per le giovani viste perse. Come dice lo stesso artista, egli rivendicava a sé il “diritto di contorcere, di alterare un organo, se questa alterazione darà al mio

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fOrme

La scultura, a differenza della sorella pittura, è sempre stata un pò penalizzata perché non sempre ha trovato fertile terreno di studi nell’ambito della ricerca storico-artistica dell’Italia meridionale. Se per l’età classica la presenza di Roma e della Magna Grecia hanno prodotto un considerevole numero di pubblicazioni scientifiche e divulgative anche di grande rilievo, è pur vero che ci sono “guide” turistiche di Pulpito di Melchiorre da Montalbano, 1271, Teggiano, Cattedrale.

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scarsa importanza. Tutto ciò è altrettanto vero per l’arte dell’età medioevale e per quella moderna, ma con un impegno sicuramente minore rispetto a quello archeologico e artistico dell’età antica in ambito meridionale, anche se in questi ultimi anni vi è stato e vi è un rinnovato interesse verso questo settore di ricerca. Soprattutto per quanto riguarda la scultura in legno policromo di età Rinascimentale e fino al Roco-


Un viaggio nella scultura dell'Italia del Sud di Gerardo Pecci

cò, ma anche oltre. Tuttavia, tale produzione storiografica non è ancora del tutto accessibile al grande pubblico, perché rivolta ad un pubblico di specialisti, e finora vi è stata una mancanza di interesse verso questo settore anche perché contestualmente mancava una stampa divulgativa di buona qualità, che fosse in grado di informare correttamente un pubblico di lettori eterogeneo che ieri non esisteva, ma che oggi esiste e sembra essere esigente e attento. Cercare di colmare questo “buco” è doveroso. Farlo in modo semplice, ma filologicamente e storicamente corretto, è indispensabile. L’obiettivo è quello di fare una corretta informazione di tipo divulgativo, con il fine ultimo di far avvicinare le persone a un patrimonio sovente non conosciuto, “nascosto”, ma che è vivo, è dentro e accanto a noi: basta riconoscerlo per amarlo, farlo nostro e rispettarlo. La scultura meridionale di età medioevale e moderna, come tutta la produzione artistica in genere, è legata alla dinamica storiografica e dialettica presente nel rapporto tra “centri e periferie” non intesi in senso puramente meccanico, ma in senso dinamico e interdipendente. Si parte da Napoli, capitale del Regno meridionale Angioino, poi Aragonese e poi Spagnolo, Austriaco e Borbonico, per indagare ciò che è stato fatto di epoca in epoca nelle varie province e viceversa. Altrimenti si rischia di isolare l’opera d’arte, o le opere d’arte, senza quel necessario contesto storico, geografico e umano che è necessario per capire la ricca polisemia della fenomenologia storico-artistica. Per esempio, autori come Giovanni da Nola presente in Basilicata e Campania in età Rinascimentale, o Francesco da Sicignano, attivo anch’egli tra la Basilicata e la Campania, o il toscano Tino di Camaino operante nell’Italia meridionale in età medioevale, a Teggiano in particolare, o Giacomo Colombo, solo per fare alcuni nomi, richiedono attenzione. Cronologicamente, i tempi della trattazione partono dall’epoca medioevale, per passare poi all’epoca angioina e aragonese e, infine, dal Viceregno spagnolo e al Regno borbonico, secondo una scansione storico-artistica già collaudata e validamente espressa da Francesco Abbate, con la quale concordo. D’altra parte il racconto della scultura è un racconto visivo che richiede attenzione massima e massimo impegno, sia nella stesura materiale del testo che nella scelta degli argomenti da pubblicare, per meglio introdurre il lettore verso questo affascinante mondo che riserva ancora oggi molte sorprese e che nasconde

capolavori del tutto inediti, che attendono di essere riconosciuti e pubblicati, spesso si tratta di opere che sono davanti ai nostri occhi eppure sembrano essere del tutto “invisibili” perché finora nessuno li ha studiati perché “nascosti” da un velo di indifferenza e di noncuranza che ha tragicamente deturpato e anche distrutto importanti testimonianze del nostro cammino storico sulle strade della storia. Speriamo che ci sia una sana inversione di tendenza e che si incominci a conoscere e a valorizzare questo nostro patrimonio spirituale e materiale che ci appartiene e che dobbiamo far rivivere con impegno e amore per la cultura, per il sapere, come uniche vie di riscatto della nostra libertà di cittadini e persone. Pulpito Guarna, 1181 circa, Salerno, Cattedrale.

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Architettando Dopo New York, Venezia, Berlino, Las Vegas e Bilbao la Fondazione R. Solomon Guggenheim avrà un nuovo contenitore per l'arte moderna ad Abu Dhabi, capitale federale degli Emirati Arabi, conosciuta soprattutto per la sua ricchezza petrolifera e per il suo turismo di lusso. Il GAD, così si chiamerà il nuovo museo, sorgerà a Saadiyat Island, una suggestiva striscia di sabbia bianca lunga 27 chilometri e distante solo 500 metri dalla costa. L'isola, detta anche della “felicità”, è attualmente oggetto di un ambizioso intervento di urbanizzazione che la trasformerà, nei prossimi anni, in un'area a forte vocazione turistico-culturale e residenziale d'élite. Accanto al museo d'arte contemporanea si affacceranno sul mare del golfo persico altri tre centri culturali: il Classical Museum di Jean Nouvel, già ribattezzato il Louvre di Abu Dhabi, un disco volante tra giardini e fontane, il Museo Marino di Tadao Ando ed il Performing Arts Center dell'anglo-irachena Zaha Hadid, un edificio a forma di yacht proiettato verso il mare, il quale ospiterà cinque teatri con una capacità complessiva di 6300 spettatori. Quattro progetti tutti commissionati dalla Tourism Development & Investment Company la quale, sempre all'interno del distretto culturale di Saadiyat Island, intende realizzare, attraverso un concorso di

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progettazione internazionale, il Sheikh Zayed National Museum, un museo dedicato alla storia e alle tradizioni arabe. Accanto ai tre centri culturali e al museo sorgeranno 19 padiglioni, attraversati da un canale navigabile lungo 1,5 chilometri, destinati ad ospitare una Biennale dell'Arte. Questi saranno progettati dall'arabo Khalid Alnajjar, dal russo Yuri Avvakumov, dallo statunitense Greg Lynn, dal newyorkese Hani Rashid, dal britannico David Adjaye, dal cinese Pei-Zhu e dal coreano Seung H-Sang. Dopo l'impresa “storica” di Bilbao, ma in un ambiente molto diverso da quelli in cui ha finora lavorato, l'architetto americano Frank O. Gehry firmerà il nuovo Guggenheim che sarà, con la sua superficie di circa 30.000 metri quadrati, il più grande della omonima fondazione. Per la sua costruzione saranno necessari cinque anni di lavori, fino al 2012, ed oltre un miliardo di dollari. Il progetto di Gerhy, con i suoi coni alti fino ad 80 metri poggianti su massicci volumi parallelepipedi e giochi di tubi, ricorda molto un dipinto cubista. Quattro piani di gallerie sono disposti intorno ad una corte centrale. Ulteriori due piani di corridoi, dalla geometria circolare, si estendono oltre il nucleo principale della struttura. 12.000 dei 30.000 metri quadrati di superficie ospiteranno aree espositive.


Abu Dhabi, un'altra Bilbao? di Mario Restaino

senza veli, come quelli celebri di Modigliani esposti al Guggenheim di New York. Niente Klimt o Schiele, ma neppure Tiziano, il cui Cristo che porta la croce, recentemente in mostra nella sede gemella di Las Vegas, è stato ammirato da migliaia di visitatori. Una sorta di "censura preventiva" che colpisce quello che si propone di diventare il nuovo polo artistico e culturale del mondo mediorientale. Negli auspici dell'attuale sovrano Khalifa bin Zayed Al-Nahyan, il nuovo edificio attirerà almeno tre milioni di turisti entro il 2015. Arte, sì, ma anche business: Abu Dhabi spera infatti di replicare il miracolo di Bilbao, che con l'arrivo del Guggenheim nel 1997, si è trasformata da cenerentola a nuova destinazione "calda" del grande turismo. Un'altra Bilbao?...il mondo dell'architettura attende curioso...

Foto © Tourism Development & Investment Company

All'interno di questi troveranno posto anche un centro per l'arte e la tecnologia, gallerie per esposizioni speciali, collezioni permanenti, un centro educativo di arte per bambini, archivi, una biblioteca, un centro di ricerca ed un laboratorio di restauro. «Progettare un museo per Abu Dhabi - spiega Gehry - ha significato immaginare un edificio che non sarebbe mai stato possibile realizzare negli Stati Uniti o in Europa. È stato chiaro sin dall'inizio che si sarebbe trattato di una nuova invenzione». La collezione del nuovo museo sarà rappresentativa dell'arte contemporanea mondiale con una sezione riservata al Medio Oriente. Data la particolarità del luogo dove sorgerà, non saranno esposte opere raffiguranti figure e temi religiosi o nudità, così da conciliare al meglio l'audacia dell'arte contemporanea con i valori più conservatori del mondo islamico. Niente quindi ritratti femminili

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L’indimenticabile frase "Che farò senza Euridice, dove andrò senza il mio bene?”, che caratterizza l’aria dell’opera musicale di Christoph Willibald Gluck, Orfeo ed Euridice, per l’appunto, introdurrà come ben si evince il mito relativo trattato in questo nuovo numero di Mythos. E non per caso, primo fra tutti, sarà proprio Nicolas Poussin, già visto nelle precedenti uscite con il mito di Narciso. Si è scelto questo artista, proprio perché il suo approccio classico, formale, riesce magistralmente nel pieno contenimento di una tensione che va al di là dell’energia sottesa a ogni singolo paradigma mitico: il dramma dell’Amore e l’eternità del sentimento. L'opera di Poussin rivela la sua propensione verso un ideale classico inteso nelle sue componenti estetico-formali e anche morali, tanto che il Paesaggio con Orfeo ed Euridice si inscrive all’interno di quelle tavole a tema mitologico e biblico che procurarono all’artista fama in tutta Europa (Orione cieco, I Pastori dell'Arcadia e Le quattro stagioni). Il tema prediletto è quindi la storia, innervata dalla dimensione dei miti. La struttura in sé riprende similarmente quella del Narciso, ossia un paesaggio, luogo per eccellenza della Natura, ma dove tutto viene rigorosamente ricondotto alla sensibilità del sapere artisti-

co. Il mito per eccellenza di questo amore impossibile definisce l’incapacità dell’uomo ad adattarsi alle leggi meccaniche della Natura e conferisce all’Amore stesso, in quanto principio primo, l’accezione non solo di ciò che fugge dalla ragione ma anche causa di sventura. La sorte tragica di Orfeo ed Euridice statuisce l'arte come erede di questa forza superiore, come lo è la Natura. Di contro, la bellezza nasce dalla sofferenza e da un passaggio al quale ogni individuo è sottoposto, così anche chi imprime nella tela l’essenza di tanta forza drammatica. Ma è qui che Poussin infonde al mito, alla sua tragicità, un senso di tranquillità, l’innesto della coppia in un panorama sereno e luminoso, disposto intorno a una distesa d'acqua tranquilla. Anche in questo, l’artista francese ricorre ai topoi della poesia bucolica, il “fiume” o il “lago calmo” che denota il senso di seraficità, il gruppo di bagnanti che conduce indisturbata la propria vita sulla sponda. La disgrazia che separa i due amanti del mito greco è altresì collocata in una cornice romana, e questo individuato dalla presenza di Castel Sant'Angelo, ricordando che quello del 1642, in cui fece ritorno alla capitale, fu il periodo più propizio per l’avvio alla formazione delle famose tavole a carattere mitologico-

Jean-Baptiste Camille Corot, Orfeo guida Euridice fuori dall'Ade, 1861, olio su tela, Houston, Museum of Fine Arts.

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Orfeo ed Euridice di Fabrizio Corselli

biblico. Ma la poliedricità dell'artista ci ricorda in tal maniera quanto sia possibile rendere plausibile, “verosimile”, un accostamento di singoli elementi presi in prestito da contesti diversi, suggerendo che la storia ha in sé un significato di eternità, come l’amore, in ogni tempo e in ogni luogo; come del resto, ben ci ha insegnato Aristotele nella sua Poetica. Sulla scia del paesaggismo pittorico, di un’arte che viene influenzata dai viaggi dell’artista presso luoghi che divengono per lui nodali per la propria ispirazione, non possiamo non citare Jean-Baptiste Camille Corot. La ricerca dell'attimo di eternità contenuto in un paesaggio diviene il suo tema principale, situazione questa che lo avvicina alla tradizione di Poussin, alla tradizione omerica e a quella dei pastori arcadici. Infatti, durante il suo secondo soggiorno italiano nel 1834, l’artista viene colpito soprattutto dall'aspetto selvaggio di alcune regioni; le leggere foschie sul lago di Como o la stessa Volterra risvegliano in lui il gusto per gli orizzonti avvolti nella bruma. Da qui, il suo interesse per gli studi atmosferici, per il lavoro all'aria aperta e per le strade che fuggono verso l'orizzonte. Questo però non lo influenza soltanto nella tematica, laddove l’umidità dell’aria e la fioca luminosità gli suggeriscono di conseguenza un alone di

poeticità, ma anche nel rigore dei suoi studi italiani, sul disegno delle linee paesaggistiche. Egli pertanto coniuga il tranquillo realismo dei paesaggi svizzeri, meta di molti soggiorni, alle atmosfere “selvatiche” dei luoghi italiani. E proprio nel suo Orfeo ed Euridice è possibile scorgere tale intima unione, uno stato rarefatto della coscienza, l’offuscamento dell’intelletto, di quella perennità che viene conservata da una cortina nebbiosa che estromette i due protagonisti dal contesto. Una pacifica dimensione quindi che ritrova la propria eternità nella fissità, sinonimo di determinazione, dello stesso Orfeo che non accenna un pur minimo tentativo di torsione (come accade spesso in altri artisti che basano l’elemento drammatico sull’instabilità dell’azione scaturente la tragedia; per esempio nell’Eros e Psiche, la goccia che sta per cadere dalla lanterna, e che poi, nel completamento della futura visione da parte dell’osservatore, genererà il dramma). Come nella tradizione arcadica, in cui il frutto si mostra e si concede al suo avventore, così la cornice in cui sono avvolti i due amanti corona quel senso di pace e serenità caratterizzanti perfino l’idillio amoroso. Seppur i loro sguardi non s’incrociano, Corot riesce a stabilire magistralmente il senso della promessa di perpetuo amore.

Nicolas Poussin, Paesaggio con Orfeo ed Euridice, 1650 circa, olio su tela, Parigi, Museo del Louvre.

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art Tour a cura di Angela Delle Donne Siviglia Mare Clausum Mare Liberum

tanti, cimeli delle conquiste ed una piccola sezione delle porcellane della compagnia delle Indie realizzati in Cina.

Conegliano Il poeta del paesaggio

Lucco e Matteo Ceriana, presenterà un percorso espositivo di 40 opere: accanto alle grandi pale d’altare si potranno contemplare le opere devozionali e quelle tavole con storie mitologiche, spesso eseguite per cassoni nuziali, che hanno reso Cima da Conegliano il massimo interprete della cultura umanistica veneziana.

Venosa San Valentino in arte

Fino al Maggio 2010 Archivo General de Indias, Siviglia Spagna Informazioni: www.mcu.es La pirateria en la America Española è la mostra che fino a maggio 2010 sarà ospitata presso l’Archivio General de Indias in Siviglia. Si tratta di un percorso documentario tratto dagli oltre ottanta milioni di pagine originali di documenti storici, un percorso che riguarda la pirateria nei mari oceanici durante il periodo della colonizzazione spagnola dei territori americani. Le sezioni sono tante, tra cui: la pirateria nel nuovo mondo, le guerre franco-spagnole e la pirateria, i corsari inglesi, l’organizzazione difensiva contro la pirateria, i corsari olandesi, il dominio spagnolo e la pirateria nel cinema e nella letteratura. La mostra prevede anche la visione di un video di quindici minuti nel quale è descritta la storia dell’edificio che ospita l’Archivio General. I documenti esposti raccontano tre secoli di storia dei traffici marittimi della Spagna e degli assalti subiti durante la navigazione. Ed insieme ai documenti trovano spazio piccoli plastici delle fortezze spagnole in America, ricostruzioni delle imbarcazioni francesi e spagnole, armature e piccoli cannoni da guerra, lungo le pareti ritratti dei comandanti e delle personalità impor-

Fino al 5 marzo 2010 “Galleria 25”, Venosa (PZ) Orari: tutte i giorni 17.00/ 21.00, domenica mattina 11.00/13.00 Informazioni: tel. 0972.36198 Mail: galleria25@tiscali.it Fino al Maggio 2010 Archivo General de Indias, Siviglia Informazioni: www.mcu.es Grazie all’eccezionale sostegno delle maggiori istituzioni museali del mondo per cento giorni sarà possibile ammirare i massimi capolavori di un grande del Rinascimento italiano: Cima da Conegliano. Prodotta e organizzata da Artematica, col patrocinio del Comune di Conegliano, della Provincia di Treviso e della Regione Veneto, l’esposizione su Giovanni Battista Cima è stata curata da Giovanni Carlo Federico Villa, coadiuvato da un comitato scientifico composto dai maggiori studiosi italiani e stranieri su Cima da Conegliano, quali Peter Humfrey, David Alan Brown, Mauro

La “Galleria 25” di Venosa chiude con una collettiva di pittura il suo primo ciclo invernale di mostre, dopo aver ospitato nel corso degli ultimi mesi una serie di personali dedicate ad importanti rappresentanti del panorama contemporaneo nazionale, da Matteo Fiorentino a Giuliano Trombini, da Angelo Fornaciari a Francesco Giacomazzi, da Michele La Sala ad Alfio Sorbello, Carlo Massimo Franchi. Molti di questi artisti saranno anche i protagonisti della mostra organizzata in occasione della festa di San Valentino a partire dal 13 febbraio. Ad essi verranno affiancati nomi del calibro di Romano Buratti, Athos Faccincani, Ernesto Treccani, Walter Piacesi e Romano Mussolini, al quale verrà dedicata una personale per tutto il mese di marzo.



foto archivio APT

Picerno

www.comune.picerno.pz.it


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