Ítaca: Quaderns Catalans de Cultura Clàssica

Page 1

Quaderns Catalans de Cultura Clàssica N. 24 25 26

Quaderns Catalans de Cultura Clàssica Núms. 24, 25 i 26 2008-2010

Comitè internacional

Geza Alföldy (Universität Heidelberg), Angelo Casanova (Università degli Studi di Firenze), Eugen Cizek (Universitatea din Bucuresti), Catherine Darbo-Peschanski (CNRS, Paris), Riccardo di Donato (Università di Pisa), Bruno Gentili (Università degli Studi di Urbino).

Director

Carles Miralles (Universitat de Barcelona).

Consell de redacció

Jaume Almirall (Universitat de Barcelona), Josep Maria Escolà (Universitat Autònoma de Barcelona), Montserrat Jufresa (Universitat de Barcelona), Marc Mayer (Universitat de Barcelona), Jaume Pòrtulas (Universitat de Barcelona), Josep Lluís Vidal (Universitat de Barcelona), Mariàngela Vilallonga (Universitat de Girona).

Secretari

Carles Garriga (Universitat de Barcelona — cgarriga@ub.edu).

© 2011, Institut d’Estudis Catalans

Carrer del Carme, 47. 08001 Barcelona

Primera edició: juny de 2011

Tiratge: 500 exemplars

Compost per Fotocomposició gama, s. l.

Travessera de les Corts, 55, 2n 1a. 08028 Barcelona

Imprès a S.A. de Litografía

ISSN: 0213-6643

Dipòsit Legal: B. 49865-1998

Índex

Record de Vernant i de Vidal-Naquet

Da Teseo a Clistene. Lo spazio politico negli studi francesi sulla Grecia antica nel XX secolo. Riccardo Di Donato .................................................................................. 9

Vidal-Naquet sobre Vernant; Vernant i Vidal-Naquet. Carles Miralles ..................... 31

Homer a l’escola de París. Jaume Pòrtulas..................................................................... 41

Tragèdia

Aesch. PV 6: varie lezioni e interventi congetturali. Matteo Taufer ......................... 55

Il senso del colore in Euripide tra tradizione e innovazione. Morena Deriu ......... 65

Somnia nvgaeqve merae. Sobre la cronologia de les tragèdies de Sèneca: mètodes i resultats. Antoni Seva ..................................................................................... 101

Tragèdia i retòrica en la novel·la grega. Roser Homar ............................................... 157

Centenari de Carles Riba. El darrer dels seus projectes poètics

El Kavafis de Riba. Carles Miralles .................................................................................. 185

Record de Vernant i de Vidal-Naquet

Ítaca. Quaderns Catalans de Cultura Clàssica

Societat Catalana d’Estudis Clàssics

Núm. 24, 25 i 26 (2008-2010), p. 9-29

DOI: 10.2436/20.2501.01.19

Da Teseo a Clistene1. Lo spazio politico negli studi francesi sulla Grecia antica nel XX secolo

Riccardo Di Donato (Università di Pisa)

0. Buon documento di una soggettività vivace, i Mémoires di Pierre VidalNaquet appaiono opera meditata e compiuta nel primo dei due tomi, La brisure et l’attente, che esprime una compiuta riflessione esistenziale2. Il secondo, Le trouble et la lumière, —più frammentario— appare nondimeno buona fonte di notizie, tanto più preziose quando meno elaborate o rielaborate dalla finale ricomposizione dell’autore3. Spiego questo giudizio con un esempio che ci introduca alla nostra comune impresa di rivisitazione. Nel capitolo Entre la Grèce et l’Algérie, il nostro amico Vidal racconta con passione del suo impegno nel comitato costituito nel nome di Maurice Audin, giovane matematico comunista, arrestato, torturato e poi ucciso da militari francesi nel 19574. Nel riferire della prima riunione, il 26 novembre del ‘57 aggiunge apparentemente senza una sottolineatura di rilievo: A la sortie de la conférence de presse, je m’entretins longuement avec Gernet et avec Jean-Pierre Vernant de l’article que j’avais rédigé sur le temps chez les Grecs. Mes deux préoccupations ainsi se rejoignaient5 . Messa da parte per un attimo la volontà dell’autore di trovare un nesso tra impegno sul passato e sul presente, noi procediamo. L’articolo Temps des dieux, temps des hommes era il primo suo scritto sul mondo greco6. A quello

1. Pubblico il testo così come letto a Barcelona,, il 3 novembre 2008. Sono molto grato alle Istituzioni organizzatrici delle Jornades d’homenatge a J.-P. Vernant i P. Vidal-Naquet, la Societat Catalana d’Estudis Clàssics e l’Institut Català de Arqueologia Clàssica, e alle colleghe e ai colleghi intervenuti. Mi è caro dedicare queste pagine a due nuovi giovani amici, Montserrat Reig e Jesús Carruesco, con auguri sinceri per il loro impegno a Barcelona e a Tarragona.

2. VIDAL-NAQUET 1995.

3. VIDAL-NAQUET 1998.

4. VIDAL-NAQUET 1958, 1989.

5. VIDAL-NAQUET 1998, p. 67.

6. VIDAL-NAQUET 1960a.

sarebbe subito seguito l’altro su Epaminondas pythagoricien ou le problème tacticien de la droite et de la gauche, scritto con Pierre Lévêque, principio di una riflessione sullo spazio, poi sviluppata, nella medesima compagnia, nel piccolo e importante volume Clisthène l’Athénien, il cui sottotitolo Essai sur la représentation de l’espace et du temps dans la pensée politique grecque de la fin du VI siècle à la mort de Platon mostrava piena e forse eccessiva consapevolezza del quadro teoretico dell’indagine, che collocava nella dimensione soggettiva della rappresentazione7. Sul libro dei due storici, il filosofo Vernant, di cui era fresca la sintesi de Les Origines de la pensée grecque, interveniva immediatamente nelle Annales, con il saggio Espace et organisation politique en Grèce ancienne, subito entrato, in Mythe et pensée chez les Grecs, a concludere la sezione dedicata a L’organisation de l’espace8 Le nozioni di spazio e di tempo cioè occupavano in quegli anni Vidal-Naquet, in diretto contatto e sotto l’influenza di Vernant, da questo esercitata attraverso il suo seminario all’EPHE, e dall’altro dichiaratamente ammessa come decisiva, fino al terzo saggio, pubblicato nel 1970, sulle Valeurs religieuses et mythiques de la terre et du sacrifice dans l’Odyssée, che con i due precedenti comporrà il primo capitolo della raccolta del 1981, Le chasseur noir, fondamentale a definire il contributo dello storico Vidal-Naquet allo studio della relazione tra forme di pensiero e forme di società in Grecia antica9. Altri aspetti di questo intreccio risulteranno meglio considerati in una successiva parte di questa mia riflessione che toccherà il versante vernantiano dello studio del tempo e dello spazio. Credo qui sufficiente ritenere il punto che il documento iniziale, evocazione di un momento occasionale, indica con precisione: l’incontro intellettuale —prima ancora dell’amicizia che durerà tutta la vita— tra Vernant e Vidal-Naquet avviene in un’atmosfera d’impegno civile —sotto l’egida di Louis Gernet— sul terreno dello studio dello spazio e del tempo, che i due affrontano con ottiche distinte e solo parzialmente e solo temporaneamente convergenti.

I. Qui vorrei, per mia parte, tentare di mostrare una rinnovata praticabilità del tema dello spazio, che è oggetto ordinario di studio nel quadro della filosofia antica, nel diverso ambito dell’antropologia storica e quindi ancora come fenomeno di rappresentazione e percezione umana, come manifestazione di soggettività individuali e collettive.

Che cosa io proponga di intendere, con precisione, per antropologia storica, applicata al mondo antico, è premessa che richiederebbe una illustrazione assai lunga. Ad alcuni aspetti di questo tema ho personalmente dedicato studi scanditi ormai nell’arco di un quarto di secolo10. Mi limiterò qui ad indicare la loro esistenza e a sottolineare come in quelli appaia centrale l’attenzio-

7. VIDAL-NAQUET 1960b ; LÉVÊQUE-VIDAL-NAQUET 1964.

8. VERNANT 1962, 1965a, 1965b.

9. VIDAL-NAQUET 1970, 1981.

10. DI DONATO 1980-2009.

10

ne alla cultura francese che è, nel quadro europeo, quella meglio distinguibile per originalità e anche per pervasività. Poco incline alla teorizzazione e assai misurata nella pratica della sintesi, la linea che va da Louis Gernet a Jean-Pierre Vernant e ai collaboratori e amici di quest’ultimo, dopo l’incontro con Pierre Vidal-Naquet nei primi anni Sessanta, attraversa per intero il XX secolo e lo arricchisce di numerosi puntuali contributi su singoli aspetti. Alle sue spalle, o forse meglio, in filigrana dentro di questa, si avverte la forza di un pensiero filosofico —la psicologia storica di Ignace Meyerson— che costituisce uno dei risultati più originali e fecondi dello svolgimento della vicenda intellettuale europea della prima metà di quel secolo11 La psicologia storica è quella che vuole studiare l’uomo e il suo funzionamento mentale attraverso l’oggettivazione di questo in opere e istituzioni: la lenta ricostruzione della storia delle funzioni psicologiche nel pensiero greco è stata la risultante di un cammino in un terreno certamente d’elezione. L’antichista che si accosti allo studio dei problemi dello spazio nel mondo greco ha bisogno di molte precauzioni preliminari. Potrebbe aver senso naturalmente elencarle e affrontarle anche in via puramente metodologica ma è certamente più efficace vederle in concreto, nel caso di una ricerca reale, storica o storiografica essa sia. Per la scelta metodologica indicata possiamo allora lasciare da parte ogni precauzione di ordine filosofico, in particolare non hanno importanza per noi quelle relative al valore, categoriale o meno, della nozione di spazio: in quanto antropizzato e rappresentato, lo spazio è, per la psicologia storica e quindi anche per l’antropologia che ne deriva, una funzione psicologica12

Disponiamo, a questo punto, alcune proposizioni introduttive. Proviamo a definire inizialmente in termini sommari e approssimativi un obiettivo conoscitivo, come indicato nel titolo.

Perché intitolare Da Teseo a Clistene una riflessione a proposito della rappresentazione e della percezione dello spazio pubblico ad Atene? Perché mettere insieme una figura mitologica, Teseo, e un protagonista della vicenda storica della sistemazione delle forme istituzionali ateniesi, nel senso della democrazia, come Clistene? Non si tratta di dar corpo ad una suggestione di mero effetto letterario. Basta cercare di pensare in greco, dando una forma al ragionamento che sia consonante con quella degli antichi che vogliamo capire. Per gli uomini di Atene, Teseo e Clistene apparivano come parte di una medesima vicenda esaminabile nel suo complesso e nei suoi diversi momenti.

Confesso di essere stato personalmente colpito, in via preliminare, da una constatazione tanto immediata quanto apparentemente banale, perché relativa ad un insieme di analogie e di differenze che funzionano rispetto alla visione della questione che è propria dei moderni. Nell’immaginario degli Ateniesi la figura di Teseo, saldamente collocata nella dimensione del mito come protagonista di una serie assai vasta di racconti, appare connessa ad un even-

11. MEYERSON 1948, 1987.

12. MEYERSON 1948.

Da Teseo a Clistene 11

to fondativo —non importa quanto corrispondente al vero (quale vero dobbiamo pensare per un eroe del mito?)— che prende il nome di sinecismo dell’Attica. La Atene di Teseo appare cioè, secondo questa visione, prodotto di una ricomposizione unitaria dello spazio che viene almeno istituzionalmente ricondotto al proprio centro, la città, con le sue componenti fisiche, geografiche (corografia, orografia e idrogeologia), materiali (gli edifici nel tempo e nello spazio) e con quelle simboliche (le forme e i loro significati).

Teseo appare, in questo quadro, al tempo stesso, come eroe fondatore e come eroe civilizzatore13. E’ protagonista di un lungo percorso iniziatico dalla città della madre a quella del padre, finalizzato alla riconquista della propria identità personale. Deve superare prove, al confine del sovrumano, al servizio della propria comunità per emanciparla con l’impresa cretese, e per assumerne la guida. Deve infine realizzare il proprio intervento imponendo un suo segno individuale sulla comunità umana e sul territorio che questa occupa e a lui è affidato.

Lo spazio della sua sovranità non è né indistinto né indeterminato ma è quello che i Greci dicono politico, pertinente cioè alla formazione sociale di riferimento peculiare della civiltà dei Greci in età storica, la polis, e lo è nella forma —paradossale per un sovrano fondatore— della città democratica. La democrazia appare quindi mitologicamente connessa ad una esperienza di unificazione, di assemblaggio umano ma anche territoriale tale da ricomporre una khora con la sua polis per il tramite di un processo istituzionale14. Tutto questo proietta, attraverso la creazione fantastica del mito, in una età che i Greci avrebbero potuto dire senza equivoci prepolitica, quella che è storicamente la soluzione istituzionale dei rapporti tra spazi diversi, centro e periferia, campagna e città, luoghi della produzione e luoghi del potere o meglio dei poteri. In questo quadro la presenza del sacro, nella dimensione spaziale, costituisce un elemento organico e non separabile dall’insieme. Tutte le distinzioni che noi moderni operiamo nell’ambito della dimensione pubblica dello spazio tra sacro e politico-istituzionale debbono essere verificate di nuovo su base effettiva per capire se corrispondono —oltre che alla nostra— alla concezione degli antichi15

Fin qui, in termini, ancora soltanto enunciativi, sollecitati dalla mera evocazione del nome del sovrano responsabile mitologico della definizione del rapporto tra la città e il suo territorio, indichiamo il primo dei due elementi che definiscono l’arco di svolgimento del fenomeno di antropizzazione coordinata del territorio dell’Attica, prima di una più attenta analisi delle fonti storiche. Se intendiamo seguire la sequenza insieme diacronica e prosopografica evocata dal nostro titolo, dobbiamo ricordare almeno due nomi prima di arrivare al termine finale del percorso. Mi riferisco ovviamente ai nomi di Solone —primo riformatore, presentato dalla tradizione come portatore di

13. BRELICH 1958; CALAME 1996.

14. Per il problema teorico: cfr. LEPORE 1968.

15. DI DONATO 2001a.

12

Teseo a Clistene 13

istanze che noi diremmo sociali— e di Pisistrato —rinnovatore del potere autocratico nella forma, peculiarmente greca, della tirannia, e al tempo stesso, rafforzatore finale del processo di costruzione della ideologia della città. L’uno e l’altro, intervenendo sul terreno che noi diciamo politico e istituzionale, agiscono fortemente sulla dimensione spaziale della realtà, come tutti sanno.

Come Solone e Pisistrato e certamente più del primo, almeno, Clistene —diversamente da Teseo— appare totalmente collocato nella dimensione reale che diciamo storica. E’ un personaggio ben testimoniato anche da autori non molto lontani, temporalmente, dalla sua esperienza, ed è oggetto di narrazione ma non pertinente alla sfera —naturalmente vocata alla menzogna— che è propria del mito. E’ significativo che la sua figura non subisca alcuna sostanziale riplasmazione mitologica nei secoli successivi alla sua opera storica. Clistene appare tanto reale da non potersi piegare ad un uso diverso da quello cui la sua opera lo indirizza chiaramente.

Riflettiamo tuttavia ad un particolare: Clistene appare come il fondatore della democrazia storica e allo stesso tempo appare come colui che attua, almeno rispetto al territorio, una operazione che è eguale e contraria rispetto a quella di Teseo. La democrazia di Clistene consiste in una ripartizione, in una divisione dello spazio antropizzato, del territorio abitato dagli uomini, in un’opera, potremmo dire, di segmentazione territoriale che introduce un ordine nuovo innanzi tutto perché rompe e rimescola quello precedente.

Verrebbe la voglia di chiedersi che cosa sia mai accaduto tra l’uno e l’altro dei due momenti, quello di Teseo e quello di Clistene, per arrivare a giustificare un rovesciamento tanto radicale nel rapporto tra azione fondativa e territorio abitato dagli uomini. E’ ben nota la spiegazione di Vernant che identifica nelle formazioni sociali aristocratiche una forma di radicamento degli uomini sul territorio che appare esclusiva e incompatibile, ovviamente con esiti istituzionali diversi da quello oligarchico16. Forse è bene ricordare poi come lo stabilimento della temporalità relativa tra i due termini della nostra comparazione sia totalmente arbitrario e, in un senso almeno, anacronistico. La storicità del sinecismo di Teseo, le sue caratteristiche effettive, il suo significato, appaiono dipendenti da una serie di fattori interpretativi connessi a documenti che non sono sostanzialmente anteriori a quelli —storici— relativi alla cosiddetta riforma clistenica ma, anzi, in buona parte, sono successivi e tali quindi da non potere essere utilizzati come meri realia aproblematici e certi nel loro significato. Non possiamo nemmeno escludere la possibilità che, nel costruire o nell’arricchire alcuni aspetti del mito di Teseo, nel rappresentare, il sinecismo, ci sia valsi nel tempo di aspetti —riplasmati fino al rovesciamento— di situazioni reali, tra le quali c’è beninteso, anche quella relativa alla storica figura di Clistene e alla sua riforma. Dovremmo vedere se questa ricostruzione che agisce sulla vulgata storiografica relativa alle due figure, quella mitica di Teseo e quella storica di Clistene,

16. VERNANT 1962.

Da

possa resistere ad una analisi delle fonti, condotta con un qualche rigore, e poi verificare quanta parte di essa mostra corrispondenza con gli interventi dell’uomo sullo spazio, così come ci sono documentati dalla evidenza archeologica, come lo spazio è stato progressivamente modellato e definito sulla base di forme del pensiero identificabili e identificate.

II. Nel definire i nostri temi ci siamo finora liberamente valsi di categorie che appartengono alla sensibilità collettiva a noi contemporanea. In particolare, noi riteniamo di poter utilizzare liberamente una categoria come quella di pubblico contrapposta a quella di privato. Riteniamo di poterlo fare in qualunque ambito e quindi anche a proposito dello spazio.

Poco più di dieci anni fa, il gruppo di studiosi francesi, che si sono uniti nel centro di ricerche che porta il nome di Louis Gernet, ha dato vita ad una esperienza di studio e di confronto proprio riguardo alla legittimità di applicare, per il mondo antico, la coppia antinomica pubblico/ privato. Gli atti del colloquio dedicato a Public et privé en Grèce ancienne: lieux, conduites, pratiques, realizzato a Parigi nel marzo del 1995, furono pubblicati più tardi a Strasburgo17. Come spesso accade nel caso di ricerche collettive, condotte con scrupolo sulla base di una precisa suddivisione tematica, i risultati analitici appaiono numerosi e importanti. Ad essi tuttavia non si accompagna in questo caso nulla che possa apparire utile come conclusione sintetica, né in termini categorici o sincronici, né in termini di ricostruzione diacronica. Gli apporti di tanti specialisti ci fanno capire come la coppia pubblico/privato non possa funzionare per i Greci, ma ci lasciano con molti dubbi —anche teoretici— su che cosa sia effettivamente pubblico per gli antichi di cui ci occupiamo. Uno degli studi analitici assolve tuttavia utilmente ad una funzione introduttiva per quella che non è per noi una diversione ma un indispensabile arricchimento del ragionamento con l’introduzione in esso della categoria del sacro.

François de Polignac aveva già licenziato nel 1984 un libro breve e assai denso dedicato alla nascita della città greca18. In quello aveva formulato una teoria relativa alla origine prima del politico nel doppio senso, quello dei moderni e quello proprio dei Greci, a partire dalla ridefinizione degli spazi derivante dalla interazione tra due realtà cultuali localizzate: quella centrale dell’ agora o dell’acropoli, e quella periferica dei santuari del territorio e delle sue frontiere. La suggestione maggiore di quel saggio consisteva proprio nella sottolineatura del fattore umano come quello che, trasferendosi da una località all’altra per la pratica dei culti in forma rituale, determinava la coincidenza tra elementi spaziali e comunità umana. Sacro e sociale sostanzialmente finivano per coincidere e determinavano così —stabilizzandosi— la nascita del politico inteso come ciò che è proprio di una ordinata convivenza. Alla ricerca su pubblico e privato Polignac contribuiva invece con un saggio

17. Ktema Civilisations de l’Orient, de la Grèce et de Rome antique 1998.

18. POLIGNAC 1984.

14

il cui arco problematico in parte coincide ma in parte estende il quadro che andiamo disegnando19. La società di cui l’autore si occupa è quella che si definisce come transizione dalla fine della età micenea (XI secolo) all’età arcaica (VIII secolo). È il periodo che comprende le età che si dicono oscure e quelle che, per la forma delle decorazioni artistiche della ceramica arrivata fino a noi, si dice geometrica20 Come appare evidente —in assenza di documentazione scritta contemporanea— siamo obbligati, in questo caso, alla interpretazione dei siti archeologici e soprattutto alla ricostruzione delle funzioni che possiamo immaginare per ciascuno degli edifici. Da questo deriva una sostanziale incertezza, che in qualche caso appare assai forte, nella definizione tra sale d’abitazione signorile, sale da banchetto con funzione cultuale, sale per possibili pasti funerari, tutti possibili predecessori dei primi templi, intesi come luogo di contatto cultuale tra uomini e dei piuttosto che come casa di questi ultimi.

Nel ragionamento di Polignac, data la centralità assegnata alla relazione tra visibilità e memoria (la seconda essendo cioè connessa alla prima), assume primo rilievo la questione funeraria. Questo accade per il tentativo di comprendere il processo di rifunzionalizzazione cultuale delle tombe eroiche —da una origine aristocratica, di memoria individuale e familiare fino a una qualificazione politica, nel senso della esaltazione cultuale dell’archegete. Ancora di più accade per quel che si riferisce alle prime necropoli cui è affidato il compito di fungere da specchio delle città dei vivi21. I semata rinviano alla duplicità dei momenti della prothesis la esposizione familiare del morto, occasione per l’espressione del goos femminile, e alla pubblicità della ekphorà, il trasporto del cadavere dalla casa dei vivi a quella dei morti, che dà luogo a una processione o corteo, che è la manifestazione che soprattutto permette alla collettività di affermare il proprio rapporto con gli spazi che costituiscono il territorio. Nel caso di Atene, le prime tombe compaiono ovviamente nei primi siti abitati dall’uomo e quindi sulla acropoli e immediatamente dopo nell’area in cui si svilupperà in seguito l’agorà ma colpisce la precoce vocazione di un’area vasta —immediatamente contigua all’agorà, il Ceramico e il vicino Dipylon, che assumono il ruolo cimiteriale e lo mantengono attraverso i secoli22

Gli studi condotti sulle tombe attestate tra l’XI e il VI secolo hanno dimostrato che i riti funerari si trasformano ad Atene ben cinque volte in cinque secoli con alternanza tra inumazione e cremazione. Per interpretare coerentemente i dati —non abbondanti ma significativi— è necessario ammettere variazioni nel tempo del diritto alla sepoltura. In due fasi —nel IX secolo e tra il 700 al 575— esso fu riservato ad una élite, ma nelle altre tre fasi fu assai largamente diffuso nel corpo sociale. E’ naturalmente possibile connettere

19. POLIGNAC 1998.

20. FINLEY 1970; COLDSTREAM 1977; MORRIS 2000.

21. MORRIS 1987; KEARNS 1989; MORRIS 1992; ANTONACCIO 1995; D’AGOSTINO 1996; CUOZZO 2003.

22. CAMP 1986; 2001.

Da Teseo
Clistene 15
a

questi dati con una interpretazione socio-politica della storia dei periodi corrispondenti, nei quali si deve immaginare un conflitto costante —con esiti alterni— nella lotta tra aristocratici (agathoi) e popolo minuto (kakoi) ai quali si accompagna l’alternanza tra restrizione e allargamento del diritto alla sepoltura. Si è osservato come questa via di lettura obblighi ad una revisione della concezione della riforma oplitica (675-650) che avverrebbe all’interno del ceto aristocratico dominante senza alcun allargamento della base sociale impegnata nelle funzioni civiche.

Antropologicamente, la sequenza diacronica delle tombe sancisce la linea evolutiva che conduce da una società di grandi capi ad una società di cittadini che vivono in una condizione di isonomia. Se uno studio della funzione politica appare fortemente limitato dallo stato della documentazione, passi avanti significativi —nel processo di comprensione della funzionalizzazione degli spazi— possono essere fatti nel dominio del sacro. Uno studio della dislocazione dei santuari permette innanzi tutto di definire il territorio nel suo complesso e nel suo rapporto con le pratiche umane. Questo dà senso alla importanza dei luoghi eminenti, le montagne con le loro grotte e le loro vette e i confini, per un tratto importante dell’Attica lungo la linea costiera del mare23.

I caratteri geografici dell’Attica definiscono piuttosto chiaramente gli spazi di una pianura, attraversata da tre corsi d’acqua, Cefiso, Ilissos ed Eridano (dal corso più problematico) seclusa da formazioni montagnose (o piuttosto collinari), da est a ovest Imetto, Pentelico, Parnaso, Egialeo quasi a sottolineare la centralità dell’Acropoli da un lato e lo sbocco naturale del Pireo dall’altro. Comprendere la marcatura religiosa del territorio attraverso la sequenza di santuari e di templi è la strada più diretta per comprendere la presa di possesso degli uomini sugli spazi, la vera antropizzazione dell’Attica. Questo percorso appare semplificato se si segue da vicino, come in questa sezione noi faremo, l’attenta ricostruzione, ben documentata sulle fonti storiche, realizzata da Roland Etienne24. Nel nostro ragionamento, una precisa comprensione della sequenza diacronica degli edifici cultuali nel sito centrale dell’intera regione —l’acropoli di Atene— appare essenziale per comprendere lo svolgimento di tutti i processi sociali che hanno relazione con il primo e più importante dei fattori identitari della comunità umana di cui ci occupiamo, che è naturalmente il culto di Atena. Se si esclude una frettolosa identificazione dei resti del palazzo miceneo con la sede (o una delle sedi) della dea, bisogna scendere molto in basso, addirittura al VII secolo per trovare evidenza archeologica che permetta di pensare ad una sorta di centralizzazione cultuale che sia significativa di un fenomeno totale come quello che prende il nome di sinecismo dell’Attica25.

Accanto all’identità garantita dal riferimento cultuale, religioso, si deve allora

23. PARKER 1996; DI DONATO 2001a.

24. ETIENNE 2004.

25. ETIENNE 2004; CALAME 1996.

16

cercare —sul terreno— quella che garantisce alla comunità una possibilità di contatto integrale e definito. Per questa seconda funzione spaziale il greco fornisce un sito dalla evidenza etimologica, un luogo di raccolta in cui si esercita anche la parola pubblica come indica il campo semantico di ago, ageiro, agorà, agoreuo26 . Al nome di agorà corrispondono, nella tradizione documentaria ateniese, siti diversi nel tempo. Un fortunato ritrovamento epigrafico assai recente ha dato, solo nel 1983, la certezza della ubicazione dell’Aglaurion, il santuario di Aglauros —testimoniato dalle fonti a caratterizzare la agorà arkhaia. Questa era non, come si credeva fino allora, alle pendici settentrionali dell’acropoli ma a quelle orientali. In questa agorà antica, il periegeta Pausania collocava una serie di edifici dalla molteplice significazione: un altare della Pietà (eusebeia), il Pritaneo, il santuario di Teseo e quello dei Dioscuri, qui venerati con il nome arcaico di Anakes. A questi edifici —sulla base di altre testimonianze sempre tarde— andrebbero aggiunti un Boukoleion, un Basileion e un Horkomosion. Ciascuno di questi edifici testimonia etimologicamente di una funzione che noi diciamo pubblica, luogo di magistrature i primi due e luogo per i giuramenti pubblici il terzo. Si può escludere che quest’area antica contenesse già un Bouleuterion, una sede di un consiglio che non era ancora stato concepito né realizzato. Tutto questo va collocato in piena età storica, nel VII secolo27

Subito dopo, una serie di indizi archeologici fa pensare ad una nuova operazione di ristrutturazione degli spazi urbani nel quadro di una comunità più vasta e trasformata che reduplica, nel sito della nuova agorà, quella arrivata fino a noi con i suoi resti monumentali, tutti gli edifici di cui abbiamo detto e altri ancora ne aggiunge per soddisfare progressivamente le esigenze funzionali e quelle simboliche della comunità. Questa fase di grandi mutamenti e di diversa utilizzazione degli spazi che circondano l’Acropoli è quella che fa pensare all’avvento di una forte autorità collettiva capace di forzare le resistenze dei ceti dominanti, gli aristocratici, che esprimevano il loro conservatorismo anche nell’attaccamento al territorio della famiglia, quello su cui giacevano i morti delle generazioni precedenti. Due date fanno ben capire i termini temporali del problema: il 683/2 indicato dalla tradizione come inizio degli arconti annuali e 594 anni dell’arcontato e quindi della legislazione soloniana che sarebbe stata, un secolo dopo, conservata in forma pubblica e duratura nella stoa basileios, il portico regio.

I due secoli che precedono l’avvento della democrazia sono quelli dell’avvio della monumentalizzazione degli spazi, a partire ovviamente da quelli dell’Acropoli, progressivamente destinati alla dimensione del sacro con una preminenza tanto assoluta quanto ovvia della divinità poliade e quindi di Atena e dei suoi culti. Un esame della evidenza materiale mostra sostanzialmente due fenomeni diversi per quelle che sono le due fasi principali docu-

26. CHANTRAINE 1968.

27. ETIENNE 2004, p. 31.

Da
Teseo a Clistene 17

Riccardo Di Donato

mentate dalle fonti storiche e letterarie. Da un lato è difficile trovare effetti materiali apprezzabili della età di Solone e delle sue riforme. Dall’altro è impossibile negare l’impatto fortissimo degli interventi di Pisistrato e dei suoi figli: i tiranni, con la loro politica popolare e antiaristocratica rimodellano la città e i suoi spazi a livello pratico e a livello simbolico. Sul primo vanno collocati i miglioramenti o la costruzione di un sistema viario e di un sistema di adduzione delle acque in città dall’Imetto —il cosiddetto acquedotto di Pisistrato— la cui evidenza è stata esaltata dagli scavi relativamente recenti per la metropolitana di Atene28. Per l’altro vanno registrati i numerosi e decisivi interventi di trasformazione e sistemazione del sistema festivo e cultuale che tanto contribuisce alla definizione monumentale della città29. E’ questa una materia in cui la discussione tecnica tra gli archeologi è molto vivace e bisogna guardarsi da ogni forma di semplificazione, comunque motivata. In ogni caso una serie di dati sono sostanzialmente certi e permettono una interpretazione unificante.

La costruzione, a nord dell’agorà, di un altare dei dodici dei (olimpici) fornisce il punto di riferimento per le distanze tra il centro urbano e le diverse località dell’Attica. Le vie sono punteggiate di erme, che assolvono alla funzione pratica di pietre miliarie, indicatori di direzione e di distanza, e di riferimento simbolico e cultuale. Su di esse viene anche svolta azione di propaganda, con la diffusione delle massime sapienziali dei tiranni.

Anche in ragione del racconto che è connesso all’avvento (o meglio al ritorno) al potere di Pisistrato, in corteo su di un carro che ospita una fanciulla armata che ricorda ai semplici Atena promakhos, il culto della dea eponima, nella sua massima manifestazione delle Panatenee (le grandi sarebbero tuttavia state istituite antecedentemente, nel 566), ha un ruolo centrale che si traduce nel tracciato di una via panatenaica, che attraversa l’agorà per salire all’acropoli e disegna un nuovo percorso privilegiato per la collettività riunita solennemente. Il carattere simbolico di quella processione, come massimo fenomeno della identità ateniese è sancito, un secolo dopo nei marmi del fregio fidiaco del Partenone. Ma i tiranni non curano soltanto la dea dell’asty, la civica e urbana Atena. Essi trasferiscono in città i culti periferici (e soprattutto agresti) di Dioniso —con importanti sviluppi cultuali di armonizzazione civica e di unificazione cultuale dell’intero territorio dell’Attica e confermano —con la riaffermata centralità del culto di Zeus, un punto importante di propaganda antiaristocratica. I culti di due eroi —spesso assimilati, malgrado le evidenti differenze— Eracle e Teseo, contribuiscono alla definizione di una ideologia che appare progressivamente caratterizzarsi come portatrice di valori di incivilimento che saranno meglio chiariti nel secolo successivo. Il modello civiltà contro barbarie vale a spiegare l’esito dei conflitti locali (Eleusi, Megara etc) prima di essere sviluppato nel grande conflitto che aprirà il secolo nuovo.

28. ETIENNE 2004, pp. 38-58; PARLAMA-STAMPOLIDIS 2003.

29. ANGIOLILLO 1997; NEILS 1992.

18

Autori di un programma non solo demagogico e monumentale i tiranni sono spazzati via nell’ultimo decennio del sesto secolo e la statua dei tirannicidi, elevata nel luogo pubblico per eccellenza, diviene il simbolo della nuova ideologia democratica che Clistene realizza con le sue riforme30. Il principio fondamentale della democrazia appare essere quello della isonomia. Al livello ideologico-istituzionale della eguaglianza e corrispondenza rispetto al sistema normativo corrisponde un livello fisico di corrispondenze spaziali tra centro e periferie. La complessa ridefinizione di demi, trittie rispetto alle dieci tribù, tutte ridenominate, con un fortissimo radicamento epicorico, rivela l’esigenza di un contatto con la concretezza del territorio, luogo d’insediamento di comunità umane che agiscono in molti campi, nelle forme della solidarietà e della reciprocità. proprie delle età precedenti. Il nuovo ingloba l’antico, si sovrappone o meglio si aggiunge piuttosto che sostituire. L’ideologia della città democratica finisce per tollerare survivances (soprattutto cultuali) di origine e di orientamento ideologico diverso. Fattore esterno (se non contraddittorio) al quadro ideologico della democrazia, l’imperialismo appare essenziale alla raccolta delle risorse che permettono l’avvio di una politica di redistribuzione delle ricchezze a vantaggio di ceti più vasti. Essenziale a riguardo appare il fattore rituale, cultuale e comunque la dimensione del sacro entro cui tutto questo confluisce. La democrazia clistenica, piuttosto che affermare un collettivismo generalizzato, afferma una parcellizzazione e una moltiplicazione dei momenti di socialità con la costante preoccupazione —che abbiamo visto nelle fonti letterarie più tarde— di mescolare gli uomini rispetto al territorio. Un bisogno di razionalità e di ordine si esprime in forme e proporzioni numeriche e geometriche che coinvolgono le due dimensioni dello spazio e del tempo, unificate dal terzo elemento che è quello umano: la sequenza delle pritanie che si succedono a consumare i pasti nell’edificio posto al centro della città esprime il massimo possibile livello di simbolizzazione. Il politico e l’istituzionale si affiancano al sociale originario e affermano proprie sfere di preminenza che non possono tuttavia essere intese come esclusive o assolute: i residui delle forme sociali (gene) e delle forme di pensiero precedenti sono numerosi e riemergono nei grandi come nei piccoli fatti della vita pubblica e privata. Un esempio è la molteplicità dei riferimenti giuridici con diverso referente ideologico che pongono il problema di un diritto rivelatore di realtà sociale quasi polisegmentaria31 Riferimento materiale, il bouleuterion che serve ad ospitare il Consiglio dei cinquecento, magistratura collettiva emblematica del regime clistenico, riprende significativamente le forme di edifici sacri. La sistemazione fisica della collina della Pnice, per ospitare l’assemblea, sperimenta circolarità praticosimboliche, che si concluderanno —un secolo più tardi— nella definizione del teatro, luogo fisico della funzione educativa e produttiva della ideologia della città.

30. LÉVÊQUE-VIDAL-NAQUET 1964.

31. MAUSS 1998; DI DONATO 2000.

Da
Clistene 19
Teseo a

Lo spazio, gli spazi appaiono funzioni dell’agire umano da cui derivano processi di funzionalizzazione che variano nel tempo.

III. Il terreno per una conclusione non può che partire, oggi come sempre, dai testi antichi.

Prendiamo allora in esame le due fonti principali, relative al sinecismo di Teseo, la trattazione di Tucidide32 e quella , assai più tarda ma comunque non dipendente dalla prima, di Plutarco nella Vita di Teseo33 . Tucidide tratta le questione del sinecismo a partire dalla abitudine dei cittadini-agricoltori dell’Attica di abitare nei campi. Lo storico ateniese che vuole far comprendere uno degli effetti, umanamente più rilevanti, delle invasioni militari stagionali dei Peloponnesiaci nei primi anni della guerra, con la devastazione delle campagne e il rifugiarsi degli abitanti in città, si riferisce all’antichità che definisce remota (apò tou pany arkhaiou) per caratterizzare un consolidato costume di vita. Sulla verosimiglianza di quanto riferito ai tempi che vanno da Cecrope al protagonista del sinecismo è legittimo sospendere qualunque tipo di valutazione. Naturalmente non è questo ad essere in questione. Fino al tempo di Teseo, ricorda Tucidide, l’Attica era abitata kata poleis, secondo diverse piccole agglomerazioni, ciascuna delle quali aveva propri prytaneia te kai arkhontas. Gli abitanti si governavano e prendevano decisioni, così senza recarsi presso il re (ovviamente di Atene), quando non c’erano condizioni di pericolo o di timore, tanto che restava —tra le singole città dell’Attica— una situazione di fermento fino a conflitti espliciti come quello, mitologicamente attestato, tra Atene ed Eleusi che fu risolto dal duello tra i due re Eumolpo ed Eretteo. Alla saggezza di Teseo, alla sua potenza e alla sua prudenza, viene connesso un insieme di iniziative che danno un nuovo ordinamento al territorio (diekosmesen ten khoran) attraverso la eliminazione di consigli e magistrature, per dir così, periferiche, e con l’accentramento delle stesse in una sede unica per la collocazione della boulè e del pritaneo. L’effetto di tale iniziativa viene indicato come tale da determinare (con un verbo d’azione: xynoikise) il sinecismo mentre ciascuno degli abitanti continuava a vivere laddove sempre aveva vissuto. La città di cui ciascuno era parte era una soltanto: qui lo storico estendeva in modo assai significativo il suo pensiero e lo svolgeva con una certa ampiezza, affrontando anche il tema degli spazi della Atene reale e storica. Prima del sinecismo —scrive Tucidide— la città consisteva in quella che poi sarà la sola acropoli con la sola appendice della parte sottostante in direzione di noto, verso mezzogiorno, quindi. Il tekmerion, la prova, secondo il lessico tecnico tucidideo, della affermazione stava nella ubicazione dei templi e dei santuari più antichi e importanti, a partire naturalmente da quello della dea eponima. Abbiamo in questo modo una prima affermazione relativa alla essenzialità dello spazio sacro alla definizione dello spazio urbano.

32. II. 15.

33. Thes. 24-25.

20

Il racconto plutarcheo relativo al sinecismo appare abbastanza diverso dal precedente in conformità del carattere generale della narrazione biografica. Il sinecismo viene introdotto come mega kai thaumaston ergon, come un’impresa grande e meravigliosa34. L’unificazione politica degli abitanti dell’Attica viene poi presentata come un fenomeno di inurbamento, oltre che di trasformazione istituzionale. Il processo aggregativo viene descritto secondo una modalità arcaizzante, con il racconto del sovrano che va da una comunità all’altra a convincere gli incerti ed intimorire i riottosi. Il regime proposto a tutti è connotato come demokratia e anche come isomoiria. Decisivo e identico a quanto testimoniato da Tucidide appare il fatto istituzionale connesso alla eliminazione di pritanei, consigli e magistrature che esistevano presso ciascuna comunità e la loro sostituzione con un unico pritaneo e un unico consiglio, fondati là dove effettivamente sorge la città. Siamo a un passaggio per noi decisivo: la città ha un proprio centro e questo viene identificato con la sede delle magistrature di governo. Il pritaneo è un luogo diverso dagli altri e appare essenziale alla definizione stessa della città. Siamo obbligati ad occuparci di un luogo, di uno spazio precisamente definito rispetto a una funzione e rispetto ad un’altra serie di spazi. Non si tratta a questo punto soltanto di spazi, ma anche di edifici, come meglio vedremo in seguito. Le fonti paiono confermare l’esistenza della questione da cui siamo partiti, vediamo il termine finale. Anche in questo caso c’è un pensiero antico da capire nella sua specificità. Cercherò di argomentare tornando a leggere le fonti. Anche in questo caso abbiamo infatti due fonti principali, lontane nel tempo anche se in misura inferiore al caso che abbiamo appena esaminato. La distanza culturale appare tuttavia addirittura maggiore.

Erodoto ci parla di Clistene di Atene nel quadro del breve resoconto che dà delle lotte politiche in Atene, successive alla caduta dei Pisistratidi35. Di Clistene tuttavia ci parla non con proiezione verso il tempo successivo, verso le dinamiche delle lotte politiche della città democratica, ma nel quadro di una storia culturale che appare immersa nella vità delle società aristocratiche del VI secolo con la descrizione dei comportamenti di grandi personaggi, detentori di autorità o di sovranità nella forma tirannica, assimilabili a modelli vicino-orientali di sovranità e autorità. La mediazione tra queste tematiche e il problema dello spazio avviene per noi attraverso un sostantivo, polisemico e polivalente come pochi altri, quale è il greco demos.

Demos indica in generale una comunità umana insediata su di un territorio, ma indica anche il territorio in quanto partizione, arriva poi ad indicare il popolo come totalità e —in parziale contraddizione— la parte politica che diciamo volentieri popolare in quanto contrapposta a quella aristocratica che si costituisce in forma oligarchica.

Se ci limitiamo a leggere le poche righe di V. 69, questa complessità problematica rischia di sfuggirci completamente. Se invece leggiamo interamente il

34. Thes. 24. 1.

35. Hdt. V. 67-69.

Da
21
Teseo a Clistene

testo dal capitolo 67, quando ci racconta di particolari aspetti della vita di Clistene, tiranno di Sicione, nonno del riformatore ateniese, veniamo informati di particolari antropologicamente interessanti come quello relativo alla denominazione che il tiranno aveva imposto alle tribù di Sicione, per tre delle quali aveva scelto nomi di derivazione animale in senso palesemente spregiativo, riservando alla propria tribù di appartenenza un denominativo di sovranità come Arkhelaoi. La luce che questi racconti gettavano sul meccanismo delle denominazioni avviato dal riformatore ateniese può apparire inquietante anche a chi non subisca in alcun modo la suggestione di un rinvio ad una dimensione totemica —comunque denominata. Per certo rende difficile la possibilità di identificare il senso delle scelte rispetto alla collocazione degli uomini sul territorio, nei vari sensi, materiali, pratici, di sostentamento e simbolici, di prestigio e di identificazione sociale che questi processi possono assumere.

Per questo, la testimonianza aristotelica della Athenaion Politeia appare immagine di un mondo completamente nuovo e diverso fino a obbligare il lettore moderno a domandarsi se questa modernità sia da attribuirsi totalmente alla mentalità del IV secolo, quella in cui si determina la riflessione del filosofo di Stagira, e non a quel decennio finale del VI secolo in cui l’intero quadro di riferimento della vita degli Ateniesi, spazio, tempo, istituzioni, denominazioni viene a subire un processo di trasformazione su cui domina la volontà di rimescolamento (boulomenos anameixai, volendo mescolare scrive Aristotele e poi ribadisce con anamisgesthai to plethos, rimescolare la moltitudine il fine del rivolgimento realizzato)36

La circostanza non consente uno svolgimento completo delle argomentazioni e dei pensieri ma giustifica l’avanzamento di ipotesi e di formulazioni riassuntive. se pure di ordine soltanto generale. Escludo di poter fare passi avanti nella comprensione del tema dello spazio utilizzando i soli referenti che ho citato. Credo sia necessario inserire nella scala diacronica almeno un altro passaggio che è quello relativo a Solone e all’importanza del rapporto che quel legislatore affermò con la terra attica. Credo infine che —nel rapporto con le fonti— sia da introdurre un forte elemento di cautela relativo alla possibilità che queste veicolino significati più remoti dei significanti che impiegano. Non mi dispiace affatto di concludere questa rilettura delle fonti sottolineando il permanere di domande alle quali potremo cercare risposta.

IV. Gli studi di antropologia storica, evocati introducendo, registrano poco più di mezzo secolo di contributi su questa delicata tematica e secondo un ordine che non risponde immediatamente alla nostra esigenza. Nello specifico della civiltà greca ed in quello della tradizione storico-antropologica francese, il punto di partenza degli studi sulla concezione dello spazio, e in particolare dello spazio pubblico, è costituito dal classico contributo di Louis Gernet Sul simbolismo politico: il focolare comune che apparve nel 1952

36. 21.2.

22

dopo essere stato oggetto di una comunicazione al parigino Institut de sociologie, una delle istituzioni entro cui si rinnovava, a contatto con la terza serie della “Année sociologique”, la tradizione della scuola sociologica di Emile Durkheim37. Per questa particolarità della sua collocazione il saggio gernetiano ebbe una risonanza limitata e comunque interna alla tradizione culturale che inaugurava: per una diffusione effettiva di quel testo e dei suoi contenuti bisognò attendere la pubblicazione nel volume del 1968, Anthropologie de la Gréce antique, quando già si era realizzata la parte del percorso di Vernant e Vidal-Naquet cui ho fatto riferimento introducendo Quel saggio si concentrava sullo sforzo di comprensione del significato che assume, nella città antica e soprattutto ad Atene, la sede fisica, la casa diremmo noi, delle principali magistrature dalle quale prende il proprio nome, il Pritaneo, il luogo in cui i capi (prytaneis è, come altri del medesimo ambito semantico del potere, termine di probabile origine orientale) vivono e prendono il loro nutrimento. Il Pritaneo appare in Atene connesso ad una serie limitata di funzioni che è difficile rubricare unitariamente: esso appare essere innanzi tutto sede della hestia, del focolare comune della città, e richiama con ciò alla funzione svolta entro ciascuna aggregazione sociale elementare —noi diremmo entro ogni famiglia— dal singolo focolare, centro della elementare vita domestica, fattore elementare di civilizzazione trasferita nel vivere quotidiano ma sempre nella consapevolezza —che il mito rammemora— del valore decisivo che il dono di Prometeo, la tekhne, o meglio le tekhnai derivanti dall’uso del fuoco, assumono per il miglioramento della vita della umanità e per il rinnovamento del rapporto —attraverso una forma di sacrificio— con gli dei.

Oltre al focolare e al suo significato profondo, il Pritaneo è connesso con una tradizione di pasti in comune —nella realtà storica riservati ai magistrati— che rinviano oscuramente a forme di società di molto antecedenti quella politica, e in modo particolare alle società guerriere che appaiono premessa alle aristocrazie di età storica. Ad Atene, queste connessioni comuni a una più vasta tradizione panellenica, si congiungono a una tradizione di azioni sacre, connesse alle Bufonie, le feste che ricordano —annualmente— l’eziologia della trasformazione in sacrificio cruento del rito —originariamente di sola offerta di grani— che univa la città allo Zeus Polieus, quella tra le manifestazioni del dio supremo, che i Greci sentivano congiunta alla istituzione civica38 All’esercizio pratico e concreto di funzioni che possiamo dire sacre, ma in cui va apprezzato il prevalere della dimensione umana rispetto a quella divina, si univa ad Atene quello di una più generale funzione simbolica che meglio esprime i significati della dimensione politica. Il Pritaneo costituisce un nuovo umano centro della vita dei cittadini, per il suo essere qualcosa di radicalmente diverso dagli edifici che lo hanno preceduto come referenti di diverse forme del vivere sociale: il palazzo della sovranità assoluta, e il tempio, inte-

37. GERNET 1952 = 1968, pp. 382-402. 38. DURAND 1986.

Da
Teseo a Clistene 23

so come dimora del dio e come luogo d’incontro tra questo e la comunità nel corso della pratica dei culti.

Il Pritaneo esprime una ulteriore diversità rispetto a luoghi per certo importanti nella vita delle comunità primitive, come le tombe degli antenati e —in modo del tutto particolare— le tombe di quegli uomini, che nella perdita della vita acquisivano una caratteristica di trasformazione fino alla vera mutazione in eroi, partecipi del divino in quanto destinatari di forme di culto e capaci di confermare messaggi identitari. Si tratta di un luogo destinato a una comunità che ha la funzione di rappresentarne una più numerosa. Per usare un’immagine espressiva: si tratta davvero del cuore pulsante della città, la formazione sociale di uomini che sono governati da uomini.

Nella corrente di studi cui facciamo riferimento, tutti i passaggi successivi sono stati finalizzati ad una maggiore precisazione degli elementi che siamo venuti indicando ma, soprattutto, nella ricerca e nella definizione di principi generali di interpretazione e di comprensione.

In particolare, all’inizio degli anni Sessanta, Jean Pierre Vernant concepì e realizzò una serie di studi, uno solo dei quali, con caratteristiche di sintesi programmatica, Les Origines de la pensée grecque, in cui erano contenute, a riguardo, due tesi di fondo39. La prima era relativa alla sostanziale corrispondenza che l’autore identificava tra le concezioni cosmologiche dei Greci e i principi ordinatori, nello spazio e nelle istituzioni, della loro convivenza politica. La seconda interpretava il fenomeno, il cui culmine veniva indicato nella riforma clistenica, come un aspetto di un più generale processo di razionalizzazione e addirittura di laicizzazione del pensiero. Entrambi questi punti sono stati poi criticati e corretti. Al lavoro di revisione e di critica ha partecipato assai attivamente lo stesso Vernant. In stretta correlazione con la sintesi, elaborata ed esposta anche nel seminario tenuto da Vernant all’EPHE, erano i saggi analitici su Hestia et Hermès e su Structure géométrique et notions politiques40. La prima esposizione del primo era avvenuta, presente ancora Gernet, nel giugno del 1960 al Centre de Psychologie comparative di Meyerson.

Su quella linea di pensiero, Pierre Lévêque e Pierre Vidal-Naquet che partecipava attivamente al seminario vernantiano, conclusero, come abbiamo detto, nel 1964 la ricerca dedicata a Clisthène l’Athénien. Quel passaggio della storia critica del tema aveva una qualità immediatamente evidente: gli autori si occupavano esplicitamente della rappresentazione dello spazio ma non la separavano da quella del tempo. Questo facevano applicandosi allo studio del pensiero politico greco di una età storica relativamente ben documentata. Quello che per noi costituisce il termine finale della riflessione era per loro il termine iniziale, sulla base di una premessa che è diversa dalla nostra. Nel loro caso, era evidente il desiderio di partire da un momento di realtà per affrontare poi —sulla base delle certezze che questo permetteva— l’analisi

39. VERNANT 1962.

40. VERNANT 1963 ; 1968.

24

del formarsi di un complesso pensiero politico, quello di Platone, che nella realtà non riuscì, malgrado le intenzioni dell’autore, a ritornare con l’effetto di trasformazione e di edificazione di una politeia filosoficamente giustificata, che lo scolaro di Socrate sognò per tutta la vita. Il merito primo di quella ricerca restava tuttavia la comprensione relativa alla sostanziale indissolubilità delle due nozioni, di spazio e di tempo, all’interno della cosiddetta riforma clistenica. Il processo distintivo arrivava anzi alla identificazione di un terzo momento —logico matematico— il quale, attraverso l’applicazione privilegiata del sistema decimale, arrivava a spiegare la complessità della operazione politica realizzata dall’alcmeonide Clistene, con la sua istituzione, appunto su base decimale, delle nuove tribù e con la conseguente diversa distribuzione degli spazi ma anche dei tempi della vita della città. Questo secondo aspetto —la cosiddetta riforma del calendario attico conseguente alla esigenza di una regolare successione delle pritanie— affermava una preminenza dell’astratto sul concreto, del nuovo sul vecchio, dell’artificiale e convenzionale sul naturale che certamente deve aver grandemente impressionato i contemporanei. Non pare almeno a me altrettanto certo che il fenomeno, o meglio l’insieme di fenomeni connessi con la decisione politica, sia stato accompagnato da una precisa comprensione degli aspetti relativi alle questioni di cui ci stiamo occupando. La spiegazione poté tuttavia subito essere cercata nella rilettura che Vernant fece dell’insieme nella recensione apparsa nelle Annales ma conosciuta da tutti dalla contemporanea pubblicazione di Mythe et pensée chez les Grecs41 . Con il che forse il cerchio si chiude.

Per certo qui si chiude la mia riflessione di storia culturale.

INDICAZIONI BIBLIOGRAFICHE

SIMONETTA ANGIOLILLO, Arte e cultura nella Atene di Pisistrato e dei Pisistratidi, Bari 1997.

CARLA M. ANTONACCIO, An Archaeology of Ancestors. Tomb Cult and Hero Cult in Early Greece, Boston-London 1995.

ANGELO BRELICH, Gli eroi greci. Un problema storico-religioso, Roma 1958.

CLAUDE CALAME, Thésée et l’Imaginaire athénien, Lausanne 1996.

JOHN M. CAMP, The Athenian Agora, London 1986.

— The Archaeology of Athens, Yale 2001.

PIERRE CHANTRAINE, Dictionnaire étymologique de la langue grecque. Histoire des mots, Paris 1968.

J. N. COLDSTREAM, Geometric Greece, London 1977.

MARIASSUNTA CUOZZO, Reinventare il passato. Immaginario sociale, ideologie e rappresentazione nelle necropoli orientalizzanti di Pontecagnano, Paestum 2003.

41. VERNANT 1965a ; 1965b.

Da
25
Teseo a Clistene

Riccardo Di Donato

BRUNO D’AGOSTINO, «La necropoli e i rituali della morte», ne I Greci, II. 1, Torino 1996: 435-70.

BRUNO D’AGOSTINO e B. D’ONOFRIO, recensione a Morris 1987, Gnomon 65, 1993: 41-51.

Riccardo Di Donato, 1980-2009.

— «Un paradigma di critica sociologica. Le recensioni di L. Gernet su L’Année sociologique» , ASNP, S. III, 10, 1980: 413-29.

— «Louis Gernet, Solon, Les bases de la cité classique, Quaderni di Storia»13, 1981: 221-35.

— «Aspetti del diritto di proprietà in Grecia secondo Louis Gernet», ASNP S. III, 10, 1980: 1259-310.

— «Louis Gernet, Constitution et Religion, Quaderni di Storia»16, 1982: 205212.

— «Invito alla lettura dell’opera di Ignace Meyerson. Psicologia storica e studio del mondo antico», ASNP, S. III, 12, 1982: 603-64.

— «Usener n’habite plus ici. Influenze tedesche negli studi francesi di storia della religione greca» in: A. Momigliano (ed.), Aspetti di Herman Usener filologo della religione, Pisa 1982: 213-28.

— «L’anthropologie historique de Louis Gernet», Annales E.S.C. 5/6, 1982: 984-96.

— «Louis Gernet, Les débuts de l’Hellénisme», Annales E.S.C. 5/6, 1982: 965-83.

— «Forme e strutture della parentela in Grecia antica. Tre inediti di L. Gernet a cura di R. Di Donato», AION. Archeologia e Storia antica V, Napoli 1983: 110-210.

— «On the Men of ancient Greece. A review of Myth, Religion and Society. Structuralist Essays by M. Detienne, L. Gernet, J.-P. Vernant and P. Vidal-Naquet», Comparative Criticism 5, 1983: 333-42.

— «Di Apollon sonore e dei suoi antenati. G. Dumézil e l’epica greca arcaica», Opus II, 1983: 401-12.

— «Il se, il quando, il quanto e il come. Antropologia e storia, ne Gli antichi a molte dimensioni», supplemento a Il Manifesto 27. 10. 1983: 1.

— «Le laboratoire d’un travailleur intellectuel: les Archives Louis Gernet», Études durkheimiennes 8, 1983: 8-15.

— «La fabbrica dell’Antropologia», Studi storici 24, 1984: 91-99.

— «Aspetti e momenti di un percorso intellettuale: Jean Pierre Vernant», Rivista Storica Italiana XCVI, 1984: 680-95.

— «Louis Gernet, Le droit pénal de la Grèce ancienne», in Du châtiment dans la cité, Rome 1984: 9-35.

— Gli uomini, le società, le civiltà. Uno studio intorno all’opera di Marcel Mauss, a cura di R. Di Donato, Pisa 1985.

— «La cité de Fustel à Glotz. Méthode historique et science sociale», in Poikilia. Études offertes à Jean-Pierre Vernant, Editions de l’EHESS, Paris 1987: 451-61.

— «Il secondo occhio. Il diritto materno nell’École sociologique», ASNP, Serie III, 20, 1988: 429-43.

26

— «Ignace Meyerson dal suo archivio», Belfagor 254, 1988: 327-34.

— «Postilla vernantiana», Iride, Filosofia, ermeneutica, filosofia della scienza, 1, 1988: 17-19.

— «Pour une histoire de la psychologie historique. Lettres et notes d’Ignace Meyerson», Technologies, Idéologies, Pratiques VIII, 1989: 65-91.

— Per una antropologia storica del mondo antico, La Nuova Italia, Firenze 1990.

— «Anthropologie historique de la Grèce ancienne», Préfaces 18, avril-mai 1990: 78-81.

— «Invito alla lettura dell’opera di J.-P. Vernant», prefazione a: J.-P.Vernant, Le Origini del pensiero greco, Roma 1993.

— «Un Homme, un livre», postface à Meyerson 1995: 223-72.

— «L’impossibile paradigma: sociologia e letteratura», ne Lo spazio letterario dei Greci vol. II, Roma 1995: 763-90.

— «Le Journal de Psychologie d’Ignace Meyerson: au carrefour des sciences de l’homme», in Pour une Psychologie historique, Paris 1996: 119-30.

— «Marcel Mauss et la Völkerpsychologie», Revue Européenne des Sciences Sociales XXXIV, 105, 1996: 67-74.

— «Aurora di una Antropologia», in Gernet 1997: 7-20.

— «Tra selvaggi e bolscevichi», in Mauss 1998: VI-LXXVIII.

— «Tra passato e presente. L’impegno di J.P. Vernant. Un percorso intellettuale», Studi Storici, 2000: 7-15. (a)

— «La funzione giuridica tra individuo e società». Premessa a Gernet 2000.

— «Recensione a: J.P. Vernant, Tra Mito e politica» , in Eikasmos IX, 1998 (2000): 510-513. (c)

— Hierà. Prolegomena ad uno studio storico antropologico della religione greca, Pisa 2001a.

— «Omero in compagnia», in Vidal-Naquet 2001b.

— «Lontano da Dioniso?» in Vidal-Naquet 2002: VII-XXVII.

— «Un mondo mitico», in Vernant 2003: 79-97.

— «Immaginario e civiltà», in Gernet 2004: 7-18.

— «L’Oblio nella memoria. La polis di Nicole Loraux», Ítaca. Quaderns catalans de Cultura clàssica 22, 2006: 89-96.

— «Commiato». Postfazione a Vidal-Naquet 2006: 129-132.

— «Ricordo di J.-P.Vernant», Annali di Archeologia e Storia Antica, n.s. 13-14, 2006-2007: 11-12.

— «Ciao Jipé. Umanità e amicizia di J.-P.Vernant», La Rivista dei libri, Giugno 2007: 12-14.

— «Storia della cultura e analisi dei testi», in Marrucci Taddei 2007: 5-14.

— «La leggenda eroica come memoria sociale de Greci, Appendice», ibid.. cit. : 137-49.

— «Postilla 2009», in Vernant 2009: 79-80.

JEAN-LOUIS DURAND, Sacrifice et labour en Grèce ancienne. Essai d’anthropologie religieuse, Paris 1986.

ROLAND ETIENNE, Athènes, espaces urbains et histoire, Paris 2004.

Da Teseo a Clistene 27

Riccardo Di Donato

MOSES I. FINLEY, Early Greece: the Bronze and Archaic Ages, London 1970. tr. it. Roma-Bari 1972.

LOUIS GERNET, «Sur le symbolisme politique: le foyer commun», Cahiers internationaux de sociologie, 1952: 22-43.

— Anthropologie de la Grèce antique, Paris 1968.

— Les Grecs sans miracle. Textes 1903-1960 réunis et présentés par R. Di Donato, préface de J.-P. Vernant, postface de R. Di Donato, Paris 1983.

— Antropologia della Grecia antica, a cura di R. Di Donato, prefazione di J.P. Vernant, Milano 1983.

— I Greci senza miracolo. Testi raccolti e presentati da R. Di Donato, prefazione di J.-P. Vernant, Roma 1986.

— La famiglia in Grecia antica, a cura di R. Di Donato, Roma 1997.

— Diritto e civiltà in Grecia antica, a cura di Andrea Taddei, Firenze 2000.

— Polyvalence des images. Testi e frammenti sulla leggenda greca editi da Antonella Soldani, Pisa 2004.

EMANUELE GRECO, «Definizione dello spazio urbano: architettura e spazio pubblico», I Greci II.2. Torino 1997: 619-54.

— La città greca antica, istituzioni, società e forme urbane, Roma 1999. Teseo e Romolo. Le origini di Atene e Roma a confronto, Atene 2005.

EMILY KEARNS, The Heroes of Attica, London 1989.

ETTORE LEPORE, «Per una fenomenologia storica del rapporto città-territorio in Magna Grecia», in La città e il suo territorio in Magna Grecia, Taranto 1968.

PIERRE LÉVÊQUE - PIERRE VIDAL-NAQUET, Clisthène l’Athénien, Paris 1964.

MARCEL MAUSS, I Fondamenti di un’antropologia storica, a cura di R. Di Donato, Torino 1998.

LUCIA MARRUCCI-ANDREA TADDEI (edd), Polivalenze epiche. Contributi di Antropologia storica, Pisa 2007.

IGNACE MEYERSON, Les fonctions psychologiques et les oeuvres, Paris 1948, 19952

— Ecrits 1920-1983. Pour une psychologie historique, Paris 1987.

— Psicologia storica, a cura di Riccardo Di Donato, Pisa 1989.

IAN MORRIS, Burial and Ancient Society, Cambridge 1987.

— Death-Ritual and Social Structure in Classical Antiquity, Cambridge 1992.

— Archaeology as cultural History, Oxford 2000.

JENNIFER NEILS, Goddes and Polis. The Panathenaic Festival in Ancient Athens, Princeton 1992.

ROBERT PARKER, Athenian Religion. A History, Oxford 1996.

LIANA PARLAMA-NICHOLAS CHR. STAMPOLIDIS, (curators), The City beneath the City. Finds from excavations for the Metropolitan Railway of Athens, Athenes 20032.

F. DE POLIGNAC, La naissance de la cité grecque, Paris 1996 (1984).

— «Mémoire et visibilité: la construction symbolique de l’espace en Grèce géométrique», Ktéma 23, 1998: 94-101.

JEAN PIERRE VERNANT,

— Les Origines de la pensée grecque, Paris 1962.

28

— «Hestia-Hermès. Sur l’expression religieuse de l’espace et du mouvement chez les Grecs», L’Homme 1963: 12-50.

— «Espace et organisation politique en Grèce ancienne», Annales ESC 1965: 576-595.

— Mythe et pensée chez les Grecs, Paris 1965b, 19712,, 19853, tr.it. Torino 1970.

— «Structure géométrique et notions politiques dans la cosmologie d’Anaximandre», Eirene 7, 1968: 5-23.

— Passé et présent. Contributions à une psychologie historique réunies par Riccardo Di Donato, 2 voll., Roma 1995.

— Mito e religione in Grecia antica, a cura di Riccardo Di Donato, Roma 2003, 20092.

PIERRE VIDAL-NAQUET,

— L’Affaire Audin, Paris 1958.

— «Temps des dieux et temps des hommes», RHR 1960: 55-80.(a)

— «Epaminondas pythagoricien ou le problème tactique de la droite et de la gauche», Historia 9, 1960: 294-308.(b)

— «Valeurs religieuses et mythiques de la terre et du sacrifice dans l’ Odyssée», Annales ESC 25, 1970: 1278-97.

— Le Chasseur noir. Formes de pensée et formes de société dans le monde grec, Paris 1981.

— L’Affaire Audin (1957-1978), Paris 1989.

— La Démocratie grecque vue d’ailleurs. Essais d’historiographie ancienne et moderne, Paris 1990.

— Mémoires 1. La brisure et l’attente, Paris 1995.

— Mémoires 2, Le trouble et la lumière, Paris 1998.

— Il mondo di Omero, a cura di Riccardo Di Donato, Roma 2001.

— Lo specchio infranto Tragedia ateniese e politica, a cura di Riccardo Di Donato, Roma 2002.

— Atlantide. Breve storia di un mito, a cura di Riccardo Di Donato, Torino 2006.

ABSTRACT

As an homage paid to Jean-Pierre Vernant and Pierre Vidal-Naquet we have been revisiting the whole of contributions proposed by the French studies on political space of the Greeks. The particular case examined is the Athenian one, from Theseus’ mythical synoecism to historical Cleistenes’ reform. Human interventions on physical grounds, documented by archaeology, are interpreted. After a re-reading historical sources, the anthropological validity of the interpretation of public space, as shaped in the Louis Gernet’s essay on political symbolism of the koiné hestia, finds a problematical confirmation.

Da
29
Teseo a Clistene

Ítaca. Quaderns Catalans de Cultura Clàssica

Societat Catalana d’Estudis Clàssics

Núm. 24, 25 i 26 (2008-2010), p. 31-39

DOI: 10.2436/20.2501.01.20

Vidal-Naquet sobre Vernant; Vernant i Vidal-Naquet

Carles Miralles

Cal que tinguin un principi, un començament, les històries. Que sigui doncs el 26 de novembre de 1957. Hi ha un rerefons, l’afer Audin. Però m’interessa sobretot la fotografia d’un moment d’aquell dia 26 de novembre. Ha estat constituït un Comitè Audin i la seva primera manifestació pública ha estat una conferència de premsa, aquell mateix dia. L’ha presidida Louis Gernet i hi ha dit «Il y a désormais une affaire Audin, comme il y avait jadis une affaire Dreyfus». Ens ho explica un jove historiador que hi havia assistit i que s’ha compromès, a propòsit de l’afer Audin, en la cerca de la veritat entesa com a condició ineludible de la democràcia i de la llibertat. «À la sortie de la conférence de presse», ens explicava més de quaranta anys després (p. 67)*, «je m’entretins longuement avec Gernet et avec Jean-Pierre Vernant de l’article que j’avais rédigé sur le temps chez les Grecs. Mes deux préoccupatins ainsi se réjoignaient». Qui ha encès el llum en la fosca del passat perquè poguem fer la foto és Pierre Vidal-Naquet, que l’any següent publicarà un llibre sobre L’affaire Audin que serà ressenyat per Gernet, «helléniste et sociologue, ancien élève de Durkheim, et doyen honoraire de la faculté des lettres d’Alger», segons el presentava Vidal en evocar aquell moment. En la foto imaginària, Gernet és el més gran: és de 1882 i deu tenir setanta-cinc anys; al seu costat hi ha un home de quaranta-tres assistent habitual als seminaris de Gernet a l’École pratique des Hautes Études; és Jean-Pierre Vernant, un antic professor de filosofia d’Institut, ara secretari del Journal de Psychologie, membre des dels divuit anys del PCF, comandant de la regió de l’Alta Garona durant la resistència («Colonel Berthier des Forces Françaises de l’Intérieur») i doncs oficial de la Légion d’honneur i compagnon de la libération des de 1946. L’any següent, el 1958, Vernant entrarà a la VI Section de l’EPHE, on acabarà fundant-hi el Centre de recherches comparées sur les sociétés anciennes, que

* Totes les indicacions en el text de pàgines entre parèntesis corresponen al II volum de les Mémoires de PIERRE VIDAL-NAQUET Le troble et la lumière, 1955-1998, Paris 1998.

amb el temps es dirà Louis Gernet i dirigirà el més jove dels tres, el que ens ha encès el llum per a la foto, Pierre Vidal-Naquet, llavors «assistant d’histoire ancienne» a la Universitat de Caen.

Aquests tres universitaris, tots tres hel·lenistes (hel·lenista i sociòleg, Gernet; hel·lenista i filòsof, Vernant; hel·lenista i historiador, Vidal-Naquet), es troben en una conferència de premsa sobre un jove universitari, comunista, desaparegut en mans de la policia a Alger; a la sortida, comenten l’article del més jove sobre el temps a Grècia. Hem vist aquest membre més jove, Vidal-Naquet, com interpretava el moment: la trobada de les seves dues preocupacions; i el capítol de les seves Mémoires en què en parla té com a títol «Entre la Grèce et l’Algérie».

L’article sobre el temps, el lector el trobarà a Le chasseur noir (1981, 1983), amb el títol «Temps des dieux et temps des hommes», i Vidal explica (p. 50) que li havia estat «suggéré, imposé presque», pel seu mestre Henri-Irénée Marrou. Aquest Marrou, reconegut mestre entranyable per Vidal, era un dels dos vicepresidents del Comitè Maurice Audin. A cap dels tres, Gernet, Vernant i Vidal-Naquet, li sabria greu que també sortís a la foto, Marrou. El qual, tornant a l’article de Vidal sobre el temps, el volia per a una revista Les Quatre Fleuves però anys després, el 1960, seria publicat a la Revue d’Histoire des Religions, i el seu autor veia un «hasard prémonitoire» en el fet que el número d’aquesta revista en què sortí contingués també l’assaig «d’anàlisi estructural» de Vernant sobre «le mythe hésiodique des races»; un article que el lector podrà trobar a Mythe et pensée chez les Grecs (1965, 1985), un llibre de Vernant publicat a la col·lecció de Maspero «Textes à l’appui» que dirigia Vidal-Naquet.

El triumvirat de la foto imaginària sembla premonitori d’un llibre que Vernant i Vidal-Naquet signarien plegats el 1972, a la mateixa col·lecció de Maspero, Mythe et tragédie en Grèce ancienne. Perquè al bell començ del prefaci d’aquest llibre ambdós autors reconeixien: «Si nous rassemblons dans ce premier volume —qui sera aussi rapidement que possible suivi d’un second— sept études publiées en France et à l’étranger, c’est que ces travaux s’inscrivent dans le plan d’une recherche menée en commun depuis plusieurs années et qui trouve son origine dans l’enseignement de Louis Gernet». Gernet feia dotze anys que era mort i en feia quatre que, també a la mateixa collecció dirigida per Vidal-Naquet, Vernant havia reunit, en un volum que marcava sense dubte una fita històrica en els estudis sobre el món clàssic (Anthropologie de la Grèce antique, Paris 1968), disset treballs de Gernet. En el seu prefaci, Vernant afirmava la plena actualitat, «dans cette France de mai 1968 où tant de choses brusquement ont changé, tant de nouveautés surgi que nul n’aurait pu prévoir», d’aquell llibre. En polèmica amb Foucault, reivindicava el «valor exemplar» de la recerca de Gernet bo i posant-lo en el fet que «ce qui interesse ce sociologue qui est aussi un historien, ce sont moins les systèmes constitués que la façon dont ils se sont successivement construits, modifiés, décomposés: les périodes de crise, les mutations, les ruptures, les innovations dans tous les domaines et sur tous les plans de la vie sociale. Ces faits de

32

Vidal-Naquet sobre Vernant; Vernant i Vidal-Naquet 33

changement, brusques et profonds, qu’ils soient d’ordre technique, économique, politique, religieux, scientifique ou esthétique, comportent toujours une dimension proprement humaine. On ne saurait comprendre leur dynamique que si on s’interroge, non certes sur l’Homme, mais sur la mentalité particulière des hommes, des groupes humains qui les ont mis en oeuvre, si on cherche à pénétrer ce que furent leurs modes de penser, leur cadres et outils intellectuels, leurs formes de sensibilité et d’action». Des de la foto de 1957, Vernant, que aleshores encara no havia publicat cap llibre, no farà sinó créixer i donar-se a conèixer, sobretot arran de l’èxit d’un seu petit llibre, Les origines de la pensée grecque, publicat el 1962 a la col·lecció «Mythes et religions» dirigida a les PUF per Georges Dumézil. Vidal-Naquet, cada vegada més a prop d’ell, en al·ludir-lo de passada, en diferents llocs, a les seves Mémoires, constituirà un testimoni d’aquest creixement de Vernant a partir dels anys seixanta. Va assistir al seminari de Vernant a la VI secció de l’EPHE des de la tardor de 1960, justament quan Vernant preparava els Origines, i, la decisió d’assistir-hi, la té per la més important que ha pres a la vida llevat de la de casar-se amb la seva muller Geneviève (p. 111). Explica, a propòsit d’aquest llibre, que, d’ençà del desxiframent del lineal B per Ventris, «certains avaient cru simplement que le ‘miracle grec’ remontait désormais non au VIIIe siècle avant J.-C. mais au XIVe, voire au XVe siècle. A Cnossos, a Mycènes, c’était dejà la Grèce eternelle» i que Vernant, en canvi, «tirait des conclusions diamétralement opposées. La raison grecque était fille de la cité, et la cité naisait sur les ruines de la civilisation palatiale, dont les tablettes en linéaire B faisaient la comptabilité... La pensée grecque exprimait donc une nouvelle structure du monde qui était celle de la jeune polis». Quant a les classes, els dilluns a primera hora de la tarda, Vidal-Naquet tria per donar-ne una idea repetir el que Vernant havia escrit sobre els seminaris de Gernet, que eren «une fête pour l’esprit», i s’esplaia sobre l’erudició justa i l’ordre extrem del que explicava (fins al punt d’anomenar-lo «un semeur d’ordre»); la seva eloqüència, d’altra banda, feia evident el que raonava. Corona el seu record d’aquell Vernant amb una pregunta retòrica de gust típicament francès: «Oserai-je dire aussi qu’il avait une vague allure d’empereur romain?» (p. 112). Si fa la pregunta és perquè gosa, i, si gosa, és perquè creu que sí.

Vidal-Naquet no aconsegueix el 1961 entrar com a «chef de travaux» a l’École pratique tot i l’ajut de Vernant (p. 147). Quan, el juny de 1962, acaba de fet la guerra d’Algèria, Vidal-Naquet escriu: «c’est bien vers la Grèce que se tournait désormais mon activité principale». Prepara llavors amb Pierre Lévêque el llibre Clisthène l’Athénien i el mes de març presenta «longuement, pendant plusieurs semaines, l’essentiel de ce travail, au séminaire de M. J. P. Vernant», amb «grand profit», afegeix donant-li les gràcies, a ell i a alguns altres assistents al seminari (p. 12). La introducció del llibre (Besançon 1964) és datada l’octubre de 1963. L’ordre sembrat per Vernant hi és prou visible. I, això no obstant, Vernant va escriure’n als Annales una ressenya que «n’avait rien de complaisant», senyala Vidal-Naquet, sobretot pel que fa a la part dedicada

a Plató. Vidal escriu, anys després: «Mais peu importait: ce qui était né entre lui et moi n’était pas une école mais une amitié» (p. 168). Ja quan havia començat a assistir al seminari de Vernant considera que n’ havia esdevingut «l’ami, ... presque le frère», i a aquest caràcter fraternal de la relació entre tots dos es referirà sovint. En el fons, però, hi ha també la posició i l’activitat política de Vernant, per la qual Vidal sent i manifesta respecte. Quan explica que ell va aconseguir que Vernant recollís el conjunt de treballs que van constituir Mythe et pensée, i que el va presentar a François Maspero i aquest l’edità, diu que ell estava «assurément soucieux de science et d’hellénisme», però que «JeanPierre Vernant n’était pas un helléniste lambda. Il avait été et est toujours une figure du monde politique» (p. 181). En el fonament de l’amistat fraternal entre tots dos aquest fet té una gran importància. Mentrestant, Vidal-Naquet treballava sobre l’Atlàntida i Vernant anava seguint els seus progressos. Vernant, amb Les origines, havia obert el món grec a un públic de no hellenistes. Vidal-Naquet ho assenyala: «Les hellénistes le lurent assez peu et souvent tardivement, il fut lu par des sociologues, des anthropologues, des historiens, des psychologues et des médecins» (p. 131). Vidal clarament es vol situar en aquest espai de comunicació amb el món grec d’un públic transversal entre les ciències socials (l’École va passar a dir-se des Hautes Études en Sciences Sociaux) i el món grec, i pensa que aquesta situació difícilment podrà atènyer-la si no és treballant «auprès de Vernant» (132). Primer com a sotsdirector d’estudis (1966) i tres anys després com a director, VidalNaquet entra a l’EPHE. No abandona la seva inquisició del present, la seva vigilància de les clivelles de la democràcia; escriu brillantment sobre la tortura, un tema que li ve de l’afer Audin. Però està, diguem-ne, establert com a hel·lenista al costat de Vernant.

Des del començament tots dos tenen un lloc d’excepció però distant, d’alguna manera, de la filologia clàssica i la història antiga acadèmiques, a França. Moses I. Finley —sobre el qual reposa una bona part del plantejament per Vernant de la civilització micènica, un dels factors de la novetat dels Origines segons Vidal; i un historiador que, amb Momigliano, Vidal té sempre present i admira— els introdueix a Anglaterra; a Cambridge a la tardor de 1966, participen tots dos en un col·loqui sobre la responsabilitat. En general, és possible pensar en Vernant amb Vidal-Naquet al seu costat consolidant, en aquells anys, un nucli d’excepció, a França, que va aconseguint, gràcies a la difusió fora dels seus treballs i a la participació personal de l’un i de l’altre en fòrums internacionals, una projecció exterior mentre es configuren com una mena d’illa en l’interior: constitueixen la «secte anthropologique», la qual, descriu Vidal, planta cara, amb la marxista de Lévêque i la filològica de Bollack, a «la domination d’une Église, la Sorbonne», que, a finals dels anys seixanta, representa la tradició i el poder acadèmics (p. 209).

Vernant participa en els seminaris de Vidal-Naquet i hi col·labora: fins i tot s’hi fa un tip de riure desxifrant «les instructions transmises par les fonctionnaires royales aux cultivateurs égyptiens quant à ce qu’il convenait de sémer» (p. 220). En aquell marc de col·laboració, Vidal llegeix Lévi-Strauss —de fet,

34

Vidal-Naquet sobre Vernant; Vernant i Vidal-Naquet 35 ja havia llegit Tristes tropiques deu anys abans—, l’estiu de 1965, a Fayence; seguia així la petja de Vernant, que havia fet uns seminaris, el 1961-1962, sobre la parella Hèstia-Hermes i els havia publicat el 1963 a L’Homme, la revista de Lévi-Strauss. El 1965 és l’any que Vidal fa sortir el Mythe et pensée de Vernant, i ja el 1960 Vernant havia anomenat, com he assenyalat, «anàlisi estructural» el seu intent de lectura del relat hesiòdic dels gene que passarà a formar part d’aquest llibre. En aquesta orientació veu Vidal-Naquet mateix el naixement del «chasseur noir», el seu camí cap a l’estudi de l’efebia, i destaca en aquest context (p. 224) la importància de la seva aportació al volum dirigit per Vernant Problèmes de la guerre en Grèce ancienne (La Haye-Paris-Mouton 1968). Anys més tard, però, en demanar-se a distància si va ser estructuralista, respon que no (p. 229). Cosa que no li impedeix reconèixer l’anàlisi estructural «comme un instrument heuristique tout à fait exceptionnel» i no troba cap raó, diu, per renunciar-hi. Creu, separant-se de l’interès principal de Marcel Detienne, que ell pròpiament no s’ha ocupat del mite: «Les mythes que j’ai étudiés sont ceux que les auteurs tragiques ont réinterprétés à la lumière des questions que leur posait leur époque...»; el seu objecte de recerca «se situe au croisement de la pensée et de la société telles que peut les comprendre et les analyser un historien» (p. 229). És aquí on es troba amb Vernant, Vidal-Naquet, que ja l’any 1958 esclatava en còlera davant un estudiant que «n’avait pas compris que la tragédie grecque exprimait les contradictions de la société athénienne». Perquè, recuperant la foto d’aquell 26 de novembre de 1957, l’interès per la tragèdia que Vernant devia als seminaris de Gernet va trobar-se molt feliçment amb aquest interès d’historiador de Vidal-Naquet pels mites a la ciutat en l’espai de Dionís. «Avec Vernant, le frère aîné et aimé dont j’ai dejà parlé», diu Vidal-Naquet (p. 231), «un condominium s’est établi sur la tragédie grecque».

«Non que notre approche soit identique», s’afanya a remarcar Vidal. Vernant ve de la filosofia i la psicologia «et ce sont des catégories psychologiques, comme la volonté, qu’il a d’abord etudiées dans la tragédie»; Vernant d’altra banda, est «beaucoup plus doué que moi quand il s’agit de généraliser et de comparer». Ell, en canvi, no hi perd el fil de la història, però la manera de ferho, Vidal-Naquet reconeix que la deu a Vernant: «Je suis parti de ce qu’il m’a appris: que le poète tragique du Ve siècle convoque sur la scène un héros des anciens temps, du monde homérique par exemple, et le brise en l’affrontant aux valeurs de la cité du Ve siècle». I també reconeix que li deu «d’avoir appris à confronter un texte tragique et une institution, par exemple le Philoctète de Sophocle et l’ephébie, ou encore l’Oedipe à Colone du même poète et le statut des métèques».

Si aleshores parlava de la tragèdia com el lloc on es trenca la imatge dels herois èpics, el darrer llibre de Vidal-Naquet, ja en el títol (Le miroir brisé, París 2001), en parla com del lloc on es trenca la imatge de la ciutat. El tràgic, ordre o desordre, «met en question ce que dit et croit la cité. Il conteste, déforme, renouvelle, interroge, un peu comme le rêve, selon Freud, procède avec la réalité. La tragédie, dans son essence même, est passage à la limite».

I a continuació precisa: «Il ne faut pas chercher a voir dans la tragédie un miroir de la cité; ou, plus exactement, si l’on veut garder l’image d’un miroir, ce miroir est brisé et chaque éclat renvoie tout à la fois à telle ou telle réalité sociale et à toutes les autres, en mêlant étroitement les differents codes: spatiaux, temporels, sexuels, sociaux et économiques, sans parler de cet autre code qui constitue le système, largement imaginaire, des classes d’âge».

Però aquest llibre de Vidal-Naquet sol és trenta anys posterior al Mythe et tragédie de 1972, el llibre que materialitza el condomini de Vernant i seu sobre la tragèdia grega. Realment, d’entrada el llibre pot no semblar unitari, i fins i tot és obvi que les parts degudes a cadascun d’ells són diferents, però, segons el lector fa via, va imposant-se una mena de coincidència que certament no és sense relació amb l’anàlisi estructural ni tampoc amb un pensament d’esquerra, rigorós i certament respectuós amb la tradició però no mediatitzat per ella; un pensament que es decanta més cap a la teoria en el cas de Vernant i cap a la lectura històrica de les imatges i les metàfores de la part de Vidal-Naquet. Aquesta unitat, no uniformitat, que flota per damunt de les diferències, es conserva en el Mythe et tragédie deux de 1986, i hi és visible fins i tot perquè aquest segon volum conté l’índex de tots dos, i per unes continuitats, per una sèrie de nexos, que ja vaig senyalar en la meva recensió a Gnomon 60 (1988), pp. 577-584.

Una unitat que no és coherència a ultrança, ni observança sempre del pensament de Gernet sobre la tragèdia tal com l’havia conservat Vernant en el seu treball de 1966 «La tragédie grecque selon Louis Gernet». En aquest sentit, el capítol inicial de Mythe et tragédie, «Le moment historique de la tragédie» és particularment important, perquè en ell Vernant integra en el seu discurs programàtic —un text sense notes, essencial i contundent, publicat a Praga el 1968— l’ensenyament de Gernet però obre les portes al que vindrà a continuació, els dos articles «Tensions et ambigüités dans la tragédie grecque» i «Ebauches de la volonté dans la tragédie grecque», en els quals s’observa una actitud típicament vernantiana, que pot sentir derivada de Gernet però que en ell esdevé molt sistemàtica i característica. En el camp en particular de la tragèdia, Vernant no solament integra plantejaments que podrien d’antuvi semblar contradictoris —tal com li retreia Di Benedetto— però que li serveixen per a trobar el camí del seu discurs sinó que presenta el tràgic —la consciència tràgica— històricament però comprès en una forma literària canviant, on el lèxic jurídic, per exemple, és utilitzat «presque toujours pour jouer de ses incertitudes, de ses flottements, de son inachèvement» (p. 31)—, en una relació amb la tragèdia particularment oberta: «La consciènce tragique naît et se développe elle aussi avec la tragédie. C’est en s’exprimant dans la forme d’un genre littéraire original que se construisent la pensée, le monde, l’homme tragiques» (p. 23).

Aquesta realitat de les incerteses, les fluctuacions i l’imperfet o inacabat, constitueixen un contetx o un subtext de les tragèdies, i llegir-les es pot fer fent-lo emergir del text, aquest subtext. Pero deixem que ho expliqui Vernant: «le contexte... n’est pas tant juxtaposé au texte que sous-jacent à lui.

36

Vidal-Naquet sobre Vernant; Vernant i Vidal-Naquet 37

Plus encore qu’un contexte, il constitue un sous-texte qu’une lecture savante doit déchiffrer dans l’épaisseur même de l’oeuvre par un double mouvement, une démarche alterné de détour et de rétour. Il faut mettre d’abord l’oeuvre en situation, en élargisssant le champ de l’enquête à l’ensemble des conditions sociales et spirituelles qui ont suscité l’apparition de la conscience tragique.Mais il faut ensuite le concentrer exclusivement sur la tragédie dans ce qui fait sa vocation propre: ses formes, son objet, ses problèmes spécifiques».

La reflexió de Vernant sobre la tragèdia se situa així entre el seu moment, la polis i les seves institucions, i les tragèdies, la feina dels poetes («Les mots, les notions, les schèmes de pensée sont utilisés par les poètes tout autrement qu’au tribunal ou chez les orateurs», p. 24). Val a dir, entre la polis i el ‘tout autrement’ de la poesia. Ara, la ‘démarche’ no és l’habitual: no es llegeix una tragèdia i es confronten algunes nocions, alguns mots, amb el que sabem sobre aquestes nocions o aquests mots en la realitat atenesa, sinó que, detectat en una obra un sistema sèmic de la mena que sigui, es mira de resseguirlo i de trobar-li un sentit confrontant-lo amb un ritual o institució —el pharmakós, l’efebia, la caça, el sacrifici—, en una operació en el curs de la qual són convocats altres textos grecs —de Plató als lexicògrafs— i una bibliografia més decantada pel costat de la història, la religió i el mite, que pel de la interpretació filològica; d’altra banda, en la tria del sistema sèmic, dels mots o les nocions, no preval la voluntat de construcció literària del ‘recurrent work’ anglosaxó sinó la d’aclarir, amb l’ús que se’n faci en una tragèdia, per contrast, un sistema nodal en l’estructura mental dels atenesos contemporanis d’aquella tragèdia.

De la colaboració de Vernant i Vidal-Naquet en aquesta tasca van resultar dos volums estimulants, que certament no han canviat de soca-rel la manera de treballar dels filòlegs, però que hi han tingut influència i que, a més, poden ser confrontats amb la recepció en els últims decennis de la tragèdia, amb les representacions i el debat sobre el tràgic o la consciència tràgica —en termes més antropològics o filosòfics. Les teories i les anàlisis d’aquests dos volums semblen marcar un abans i un després, una actitud crítica davant dels textos, històrica i hermenèutica, que podrà ser més o menys deixada de banda pels qui s’acostin als textos tràgics, però que, en termes d’interpretació, tant de la consciència tràgica com de les tragèdies, s’advera a hores d’ara imprescindible en la història de la recepció i la més simptomàtica del darrer quart del segle XX.

Amb aquest material encara van fer un altre llibre, curiós perquè és el resultat d’aplegar els treballs de Mythe et tragédie i Mythe et tragédie deux sobre Èdip. Es va dir Oedipe et ses mythes (Brussel·les 1988) amb un títol simptomàtic, com explica Vernant en el prefaci. En efecte, l’extracció dels treballs dedicats a l’Èdip rei (de Vernant) i a l’Èdip a Colonos (de Vidal-Naquet) no ens dóna un text sobre el mite d’Èdip sinó sobre Èdip i els seus mites: «Oedipe, tel qu’en lui-même...? Plutôt les métamorphoses d’Oedipe. Non plus le mythe d’Oedipe mais Oedipe et ses mythes». Canvia la perspectiva del lector: de

l’estudi en el tràgic, dins de la tragèdia, d’aspectes de la figura d’Èdip passem a la consideració dels mites d’Èdip que trobem en les tragèdies. Aquell mateix any 1988 havia sortit la segona edició de Mythe et pensée, amb reescriptures i repensaments; aquesta vegada Vernant deixa com era a Mythe et tragédie l’assaig «‘Oedipe’ sans complexe», però val la pena llegir com el justifica: no es pot caure en «la tentation, pour expliquer une oeuvre ancienne, de lui appliquer une formule psychologique moderne, dejà toute prête, étrangère au texte et de doter le héros tragique d’un inconscient et d’un complexe oedipien comme s’il s’agissait d’un client couché en chair et os dans le divan». Ara, ha de reconèixer que alguns estudis recents —cita Froma Zeitlin i Nicole Loraux— «ont montré qu’une approche freudienne, dès lors qu’elle se concentre sur le texte, qu’elle le vise dans sa littéralité, est susceptible de mettre en lumière certains aspects de la tragédie qui risqueraient, dans une perspective différente, de demeurer plus ou moins masqués». El mateix 1988 Vidal-Naquet posava un prefaci a un altre llibre de tots dos fabricat de la mateixa manera, amb materials de Vernant procedents de Mythe et pensée i de Mythe et société en Grèce ancienne (1974) i altres de Le chasseur noir de Vidal-Naquet (que havia tingut una segona edició el 1983). Era Travail et esclavage en Grèce ancienne també publicat a Brussel·les). Si l’addueixo ara és per com explicava aquesta operació Vidal-Naquet, d’una manera que il·lumina igualment Oedipe et ses mythes. Cridava l’atenció que, en la mena de llibres que solien construir, amb articles ja publicats, eren possibles «plusieurs sortes de régroupement», per concloure que es tracta ara de donar-los una nova presentació, «comme dans un kaléidoscope, qui brasse et rebrasse les mêmes détails pour leur donner une autre forme».

L’octubre de 1991 va haver-hi a Tolosa de Llenguadoc un col·loqui internacional «Dramaturgie et actualité du théâtre antique». M’hi van invitar i hi vaig participar. Vernant hi era. Va ser l’única vegada que el vaig trobar a França en un lloc que no fos París. I a Tolosa: ell n’havia organitzat l’alliberament l’agost de 1944. Els diaris n’anaven plens, del vell heroi, i ell hi havia anat per un congrès sobre tragèdia grega. Va tornar-hi a parlar del tràgic, que ell preferia anomenar, com hem vist, «consciència tràgica», i va deturar-se un moment en la idea que hi ha períodes de la història en què l’eco de la vella tragèdia atenesa se sent més fort; la va glossar, pel que fa al nostre temps, així: «Tel est bien le cas aujourd-hui. Ce qu’on a appelé la fins des idéologies, le surgissement des formes extrêmes de la barbarie dans les pays de vieille civilisation, l’inquiétude devant les dangers qu’entraînent les progrès du développement technique ouvrent la voie à un retour du sentiment tragique de l’existence. Quand ils quittent le théâtre après avoir vu une tragédie antique c’est sur eux-mêmes, sur la solidité de leur système de valeurs, sur le sens de leur vie que s’interrogent les spectateurs». De fet, la consciència europea s’havia fet consciència tràgica després de la Segona Guerra. En l’honestedat de l’esquerra i el compromís polític, amb el seu temps i amb els homes del seu temps, que va caracteritzar la reflexió d’Europa sobre si mateixa en la segona meitat del segle XX, es van trobar Ver-

38

Vidal-Naquet sobre Vernant; Vernant i Vidal-Naquet 39

nant i Vidal-Naquet davant de les tragèdies gregues. L’última vegada que Vidal va venir a Catalunya, l’autor de Les assassins de la mémoire (1987) va parlar de «La mémoire d’Auschwitz». No caldrà que subratlli com l’experiència personal, la presa de consciència d’un nen jueu salvat de la mort salvatge que va correspondre als seus pares al forn d’Auschwitz, s’enllaça, també com a subtext —si puc dir-ho així—, amb l’interès per la tragèdia grega de l’historiador i hel·lenista en què es va convertir aquell nen quan es va fer gran.

L’any 2000 Vidal-Naquet va inaugurar el mil·lenni amb un llibre, Le monde d’Homère, dedicat als seus néts. I va publicar un postfaci a una traducció d’Eurípides dirigida per Monique Trédé; aquest text, «L’honneur perdu et retrouvé d’Euripide», duia una dedicatòria, «Pour les amis de Barcelone». Posats a fer llibres transversals, recordo haver-li suggerit que en podia fer un, només d’ell, amb els prefacis a Èsquil (1982) i a Sòfocles (1973) que feien part de Mythe et tragédie deux i aquest postfaci d’ara sobre Eurípides. Però d’alguna manera, va reescriure’l, aquest llibre hipotètic, a Le miroir brisé. Va tenir temps de tancar aquella seva indignació de jove professor davant d’un estudiant que no havia entès que la tragèdia expressava les contradiccions de la societat atenesa; de limitar ell en termes històrics l’espai del condomini que havia establert amb Vernant quasi una quarentena d’anys enrere. Vernant i ell sobre la tragèdia construïren un discurs que dóna raó de l’actualitat en el món d’avui d’aquest espectacle atenès en la festa de Dionís —sempre entre els grecs i nosaltres—; un discurs que irradia, amb la força darrere d’ells del vell Gernet —com a la fotografia imaginària del 26 de novembre de 1957—, camins, direccions, orientacions als estudiosos del món antic i als intel·lectuals —si encara queda aquell públic general dins de les ciències humanes, que Vidal-Naquet feia anar dels sociòlegs fins als metges, potser avui reduït però potser també acrescut amb noves disciplines— capaços de comprendre aquesta actualitat de la tragèdia atenesa.

ABSTRACT

A survey of Vidal-Naquet’s Mémoires highlights the intellectual and personal bond between him and Vernant. For both of them, political engagement and Classical studies were inseparably linked, accounting for a particular view of ancient Greece that stands at the base of their anthropological approach to Greek culture. Their common interest on tragedy (as shown by the two volumes of Mythe et tragédie en Grèce ancienne) provides a focus to examine the shared perspectives and the subtle differences in their respective approaches.

Ítaca. Quaderns Catalans de Cultura Clàssica

Societat Catalana d’Estudis Clàssics

Núm. 24, 25 i 26 (2008-2010), p. 41-51

DOI: 10.2436/20.2501.01.21

Homer a l’escola de París

Jaume Pòrtulas

Universitat de Barcelona

I

Potser hauria de començar justificant el títol d’aquesta comunicació, que pot semblar, almenys d’entrada, una mica idiosincràtic1. Quan vaig rebre la invitació, tan amable com insistent, a prendre part en aquest acte, jo estava empantenegat amb un treball extens sobre Homer (Pòrtulas 2008). Per aquest motiu, havia hagut de reflexionar sobre una part relativament significativa de la desmesurada bibliografia homèrica; i vaig proposar als organitzadors, com a possible tema per a la meva intervenció, quelcom com ara «Jean Pierre Vernant, lector i exegeta dels poemes homèrics». De fet, la idea inicial —que no renuncio pas a portar a terme, però en alguna altra ocasió— resultava més ambiciosa: m’hauria agradat, després de precisar uns quants trets bàsics de les lectures i interpretacions homèriques de Jean Pierre Vernant, de confrontar-les amb altres aportacions d’allò que hom anomena de vegades (amb una etiqueta còmoda, per bé que poc precisa) “l’Escola de París”. De manera que vaig començar a dreçar una bibliografia molt extensa, que va quedar interrompuda ben aviat, tan bon punt em vaig adonar que el tema donava, sens dubte, per a una dilatada monografia, molt més que no pas per a una xerrada de mitja hora.

Per l’altre costat, quan un hom pensa en les aportacions de Jean Pierre Vernant a la comprensió contemporània de l’antiga Grècia, l’exegesi d’Homer

1. Encara que he revisat, en el moment de la publicació, el text de la intervenció en l’acte de novembre de 2008 a la Societat Catalana d’Estudis Clàssics, m’he esforçat per a no eliminar-ne completament el to inicialment col·loquial. M’interessa subratllar, per altra banda, que aquestes pàgines volen ésser una reflexió sobre un argument que m’estimo, davant d’un auditori compost majoritàriament per amics, sincers admiradors de l’obra i la persona de Jean Pierre Vernant. No es tracta, de cap manera, de l’estudi aprofundit que el tema reclamaria, sens dubte.

Jaume Pòrtulas

no és pas la primera cosa que ens ve a l’esment, almenys d’una manera espontània. Hom tendeix a pensar primer en Les origines de la pensée grecque, que féu tant per demolir l’equívoca dicotomia entre mythos i logos; en l’anàlisi dels mites hesiòdics i, d’una manera més general, en tantes interpretacions — i tan brillants — de la mitologia grega; en les contribucions de psicologia històrica, a propòsit d’una sèrie de nocions centrals, com ara persona, imatge, doble, mimesi; també en la reinterpretació, en col·laboració fecunda amb Pierre Vidal-Naquet, del fenomen tràgic, connectant-lo amb la cultura i la ideologia de la polis; o, encara, en els treballs tardans sobre iconologia i iconografia. Enmig d’aquesta riquesa foisonnante d’arguments i de problemes (riquesa que no desnaturalitza, al contrari, la coherència de les premisses, els mètodes i les impostacions intel·lectuals de partença), semblaria com si el Vernant lector i intèrpret d’Homer hagués restat una mica en segon terme. Ara bé, si un hom té en compte la posició central dels poemes homèrics en el si de la cultura grega, tampoc no resultava gaire concebible que un investigador de la coherència i la seriositat de Vernant no hagués hagut d’acarars’hi en profunditat, en algun moment o altre de la seva dilatada i brillant carrera. En començar a reflexionar sobre aquestes qüestions, jo mig suposava que l’actitud de Vernant no devia diferir pas tant com això de la que exemplifica un ‘Conseil’ famós de Georges Dumézil, un consell que també a Nicole Loraux li agradava de repetir sovint: «En trois jours ou en vingt-quatre, chaque année, relire l’Iliade pour le plaisir, sans lui poser de questions»2. Ara bé, en la reflexió de Vernant sobre Homer, hom pot trobar-hi molt més que no pas això. És el que voldria exposar a continuació, encara que sigui d’una manera forçosament sintètica.

II

El punt de partença per a la nostra discussió l’han de constituir, evidentment, els estudis sobre la belle mort, oJ kalo;ı qavnatoı, que Vernant va començar a publicar a partir de 19793. Són uns treballs que comporten una valoració òptima de la figura d’Aquil·les, i també (almenys de manera implícita) una interpretació de conjunt de la Ilíada sencera; i constitueixen, com és ben sabut, un aspecte central (i un aspecte particularment influent) del vast corpus vernantià.

Aquestes recerques van assumir una dimensió més ambiciosa a partir del Col·loqui d’Ischia, recollit en el volum col·lectiu La mort, les morts, etc., de 1982; i finalment confluïren en L’individu, la mort, l’amour (1989). D’alguns dels textos aplegats allí, se’n desprèn, tal com apuntàvem suara, una lectura orgànica i coherent de la Ilíada; una lectura que Vernant recollirà, sintetitza-

2. DUMÉZIL 1982, p. 73.

3. El primer fou «Panta kala. D’Homère a Simonide», que Vernant publicà als Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa vol. IX, pp. 1365-1374.

42

Homer a l’escola de París

rà i parafrasejarà en tota una sèrie d’assaigs posteriors, que podríem considerar de caràcter més general i divulgatiu («Proche et lontaine Iliade», 1984; «La ‘belle mort’ d’Achille», 1991; La mort héroïque chez les grecs, 2001, etc.). Com que aquest és un moment prou ben conegut, divulgat i acceptat de la démarche vernantiana, no cal deturar-s’hi pas gaire, ara i aquí. Els seus guanys resulten perdurables; i, en qualsevol cas, han estat objecte de poca (o de no cap) contestació. En canvi, sí que cal entretenir-se, almenys a parer meu, a assenyalar alguns punts conflictius, qüestions no ben resoltes, possibles clivelles, que em sembla que els estudis aplegats en l’admirable volum de 1989 encara deixaven, d’una manera o altra, oberts. M’agradaria que això ens pogués ajudar a capir algunes de les vies que va seguir la reflexió posterior de Vernant, algunes de les pistes que més endavant cercà d’explorar. Els més importants, entre aquests punts conflictius o clivelles, es poden resumir —sempre a parer meu, s’entén— en els tres següents: i. La doble cara de la Mort grega. Aquest és un tema que ja apunta de manera programàtica, i en termes incisius, en el volum de 1989 — vegeu sobretot «Mort grecque, mort à deux faces», un text que, a parer meu almenys, marca un punt d’inflexió significatiu en la recerca vernantiana4. Però sobre aquesta qüestió, allí no es deia pas, ni de bon tros, la darrera paraula. ii. La complexa relació entre la mort heroica en els poemes homèrics i la Raça hesiòdica dels herois — un argument, no cal insistir-hi, que es pot considerar vernantià per excel·lència. iii. Ilíada vs Odissea o, a fi de formular la qüestió d’una manera sens dubte més apropiada, Ulisses vs Aquil·les.

A continuació, convindria parlar una bona estona de cada un d’aquests tres punts. Ara i aquí, però, només parlaré del tercer, a causa de les òbvies limitacions d’espai i de temps; i també perquè resulta el més apte per a una exposició com la present. Probablement, també es aquell al qual el darrer Vernant va consagrar més atenció i més interès. Per altra banda, els problemes d’articulació entre la tria heroica d’Aquil·les i la sistematització de la Raça dels herois hesiòdica plantegen qüestions metodològiques d’una certa complexitat, i d’un gran abast. Aquestes qüestions, Vernant les va afrontar parcialment en la seva darrera contribució a l’estudi del mite de les Cinc Races, en el volum

In Memoriam de Victor Goldschmidt (1985); i, més de biaix, en les reflexions sobre Pandora de la coneguda obra col·lectiva de la Universitat de Lille5. Però resistiré la temptació, tal com acabo de dir, d’endinsar-me en aquests àmbits, i em limitaré a uns comentaris breus sobre les interrelacions entre

4. Abans del recull de 1989, aquest text sobre el ‘doble rostre’ de la Mort grega havia estat publicat a Le Débat XII (1981), pp. 51-59. Encara prèviament, havia estat objecte d’una comunicació en un col·loqui al University College de Londres (juny de 1980), i publicat, en anglès, a les Actes corresponents (cf. HUMPHREYS & KING 1981, pp. 285-291).

5. Cf. VERNANT 1996, pp. 381-392, en partic. 390-392. (Primera publicació d’aquest text, a VERNANT 1995, pp. 385- 399).

43
* * * * *

44 Jaume Pòrtulas

l’heroisme iliàdic i l’heroisme odisseic: quelcom que també constitueix (no cal pas insistir-hi gaire) una vexata quaestio... D’aquesta manera, miraré de mantenir-me més fidel a una certa propensió del darrer Vernant a defugir les polèmiques metodològiques envitricollades, i a retrobar el plaer de les vastes, pausades narratives — a gaudir-ne, i a fer-ne gaudir els seus lectors.

III

Resulta natural, i gairebé inevitable, que, a l’hora d’evocar ‘el doble rostre’ de la Mort grega i, a l’ensems, a l’hora de confrontar l’ideal heroic d’Aquil·les al d’Ulisses, Vernant fes referència a la trobada dels dos herois a l’Hades, sens dubte un dels episodis més famosos de la Nekuia odisseica. Convenia, sobretot, de repensar les paraules amb les quals Aquil·les respon a la temptativa de consol, en aparença poc adequada i maldestre, de l’itaquès. Per aquí començarem nosaltres, també. El passatge és familiar de sobres per a tothom; no caldrà pas discutir-lo gaire in extenso6:

... No em vulguis consolar de la mort, Ulisses esplèndid! Preferiria servir de llogat a la gleva d’un altre, d’un senyor sense herència, que a penes tingués per a viure, que no pas ésse’ el rei de tots els morts que finaren.

L’exegesi de Vernant resulta brillant i convincent, sens dubte — sobretot si se circumscriu al passatge en qüestió7. El klevoı a[fqiton, la glòria imperible que Aquil·les va conquerir definitivament amb la seva ‘bella mort’, perviurà, perpètuament intacte; però perviurà només entre els vivents, on Ulisses la percep en tota la seva vigència, en tota la seva força. Per això se’n congratula, i en congratula Aquil·les. L’eco del klevoı no pot arribar a l’Hades, ni atènyer allí baix l’ei[dolon d’Aquil·les. Aquest ei[dolon, com l’ombra inconsistent i insensible que de fet és, només recupera la consciència per un lapse de temps molt breu, gràcies a la sang de les bèsties sacrificades, que Ulisses li fa tastar. Això no desvirtua gens ni mica la pervivència del klevoı de l’heroi; car no és pas gràcies a aquest doble pàl·lid i insubstancial, estòlid resident entre les nekuvwn ajmenhna; kavrena («els morts i llurs testes inanes», tal com va traduir, egrègiament, Carles Riba), que sobreviu Aquil·les; Aquil·les sobreviu entre els vivents, mercès a la fama i mercès a la poesia, que difon i vehicula la fama. Si, per un costat, aquesta exegesi del nostre passatge resulta persuasiva, també ofereix una sèrie de pautes vàlides per assajar una lectura global de l’Odissea, especialment si ens esforcem a llegir-la en confrontació (oberta o latent) amb la Ilíada. Es tracta, però, d’unes pautes de lectura més aviat implícites,

6. Odissea XI 488-491. Traducció de Carles Riba.

7. Cf. sobretot VERNANT 1981, pp. 51-59 = 1989b, pp. 81-89; 2001a = 2004, pp. 69-86, espec. 80-84.

Homer a l’escola de París 45

que convé desenvolupar. Hom potser podria reformular la qüestió d’acord amb la terminologia popularitzada per Gregory Nagy: ¿és Aquil·les, o és més aviat Ulisses, l’heroi que té veritablement dret al títol d’‘el millor dels aqueus’8?

Sembla versemblant que Vernant sentís, d’una manera o altra, que els treballs sobre la ‘mort bella’ no constituïen — ni tampoc no s’ho proposaven, és clar — un punt de partença especialment idoni per a capir l’Odissea. A més a més, el klevoı, la fama pòstuma, ateny tots els personatges de l’epos, sense cap mena d’excepció: també Tersites, posem per cas, o Titonos, l’espòs de l’Aurora, resulten, en un cert sentit, immortalitzats gràcies al vehicle de la poesia heroica. (Aquest argument, aparentment paradoxal, va ésser presentat amb molta energia per Bernard Mezzadri al llarg d’una entrevista amb el mateix Vernant)9. I, en canvi, hom bé ha de reconèixer que l’única recompensa adequada per a la mort heroica, i l’única forma d’immortalitat que de debò li escau, és la immortalitat vehiculada pel cant i per la fama. Les interpretacions vernantianes més complexes i matisades de l’Odissea, sobretot en relació amb el klevoı d’Ulisses, cal anar-les a cercar, penso jo, en les dues peces en forma de díptic («Ulysse en personne» i «Au miroir de Pénélope») que enquadren el volum intitulat Dans l’oeil du miroir, publicat per Jean Pierre Vernant el 1997, en col·laboració amb Françoise Frontisi-Ducroux. En aquests dos textos, l’escriptura vernantiana, bo i mantenint la seva excepcional qualitat de sempre, adopta un to més ‘narratiu’ i més distès. Això, paradoxalment (unit sens dubte a la constatació objectiva que el conjunt del volum s’adreça a una problemàtica força distinta), més aviat deu haver contribuït al fet que un hom no en valorés prou la força exegètica, la pregonesa i el rigor de les seves anàlisis. Bona part d’aquesta potència exegètica s’aplica a analitzar l’especificitat de l’heroisme d’Ulisses, tal com es manifesta en una sèrie de determinis que l’heroi ha de prendre, en moments clau de la seva complexa peripècia mítica. Miraré doncs d’esmerçar la darrera part d’aquest treball a comentar algunes de les propostes de lectura i d’interpretació d’Ulisses avançades per Vernant en els textos suara esmentats. El meu únic parti pris serà el d’intentar veure-hi la contrapartida, el complement (no pas la contraposició) de les interpretacions iliàdiques del mateix Vernant, focalitzades, com ja hem dit abans, en la ‘mort bella’, el refús a ultratjar el cadàver de l’enemic caigut, i el klevoı pòstum. Em concentraré en tres moments molt famosos del poema d’Ulisses: a. L’episodi de Calipso; b. Ulisses i el Ciclop; c. El complex procés de reconeixement d’Ulisses per la seva gent, un cop tornat a casa.

8. Cf. NAGY 1979, passim. Remarquem que en aquesta fase de la producció de J. P. Vernant, hom hi percep sovint l’empremta dels estudiosos nord-americans que visitaren el Centre Louis Gernet, i que van col·laborar-hi. El cas més notable és el de James Redfield: Vernant va anteposar un bell (i significatiu) pròleg a la traducció francesa del seu llibre sobre Hèctor i la Ilíada. Cal recordar també Charles Segal i Gregory Nagy. Però el nom més significatiu per a la discussió present deu ésser el de Pietro Pucci: el seu treball canònic sobre les relacions intertextuals entre Ilíada i Odissea fou fins i tot publicat en versió francesa (a les Presses de l’Université de Lille, l’any 1995).

9. Cf. MEZZADRI 2001, pp. 284-320, espec. 296 ss.

a. chez Calypso

Convé ésser precisos, insisteix Vernant, a propòsit de l’oferta que Calipso fa a Ulisses10. Allò que la Nimfa promet a l’heroi (la temptació que li presenta, podríem dir, fent servir un llenguatge una mica anacrònic) és la immortalitat — la immortalitat ben de veres. Calipso proposa a Ulisses de posar-lo del tot a recer de mort i de vellura11. La Nimfa no imposa res a Ulisses, no l’amenaça per a res, no li para pas cap mena de trampa. Calipso només proposa un tracte; ofereix al sobirà d’Ítaca una immortalitat purament privada, una immortalitat que, en contrapartida, comporta l’esborrament radical de la identitat social de l’heroi. Ulisses serà immortal, però ningú no ho sabrà; tothom ignorarà que es troba allí, ocult a l’illa d’Ogígia. Tothom l’anirà oblidant, mentre ell resta afonat en aquesta peculiar anonimat. La idea de novstoı, tal com emfasitza Vernant, combina les nocions «de mémoire et de retour»; uneix els aspectes de desplaçament físic i de retorn espiritual12. Tant el retorn físic com, sobretot, el retorn espiritual són negats, refutats per aquesta proposta. L’exigència que Calipso formula a Ulises («qu’il oublie et qu’il soit oublié») deixaria l’heroi completament fora de joc: ni pròpiament viu, ni tampoc difunt. Ara bé, la temptació és considerable. Vernant no deixa d’emfasitzar que Ulisses — el qual resta a la illa de Circe unes poques mesades, i a l’Esquèria dels feacis només un parell de dies — s’atarda ben bé set anys a Ogígia. També subratlla que Ulisses no surt pas d’allí per iniciativa pròpia, ni pels seus propis mitjans; cal que els déus, en la seves assemblees, prenguin una decisió taxativa, i que trametin el missatger Hermes a l’illa remota de Calipso, amb unes ordres ben precises. I també cal tenir en compte que quan Ulisses refusa d’una manera obstinada la immortalitat al costat de la Nimfa, ja havia baixat a l’Hades. Fins i tot en aquest particular, l’episodi de Calipso difereix del de Circe. Quan rebutja l’oferta de Calipso, Ulisses ja ha vist els morts amb els seus propis ulls; ja ha sentit el desolat desavoeu de l’ombra d’Aquil·les... I, tanmateix, ni tan sols això no el pot fer decidir a acceptar la immortalitat que Calipso li proposa; perquè, si l’acceptés, el sobirà d’Ítaca sacrificaria aquella dimensió social que, com tots els grecs, reconeix com el tret més fonamental de tots per a la pervivència post mortem. Ulisses resta fidel als ideals i valors de l’època homèrica i del primer Arcaisme: sense un renom que el fixi per a sempre en la memòria dels homes que vindran, ni tant sols la immortalitat que li ofereix Calipso (una immortalitat que

10. Vernant ja havia avançat tots els trets fonamentals de la seva lectura de l’episodi de Calipso a VERNANT 1989b, pp. 131-152 (espec. 146 ss.). A VERNANT 1997, pp. 11-50 en reprèn l’anàlisi, bo i contextualitzant-la en una dimensió més vasta.

11. Cf. Odissea v 136; VII 257; XXIII 336: qhvsein ajqavnaton kai; ajghvraon h[mata pavnta.

12. A l’hora de desenvolupar els diversos aspectes de la idea de novstoı, Vernant recolza (a més d’en el Diccionari de CHANTRAINE [1968], s. v. novoı) sobretot en Nagy 1990, pp. 202-222 (= 1983, pp. 35-55).

46
IV

Homer a l’escola de París 47

equival a una veritable divinització) no resulta, als seus ulls, veritablement cobejable.

b. Ulisses i el cíclop Polifem

També van en la mateixa direcció l’anàlisi de l’episodi del Ciclop, i, sobretot, les reflexions sobre la brillant estratagema verbal d’amagar-se rere la pantalla de l’Ou[tiı, del ‘No Ningú’. No es tracta pas, evidentment, que els comentaris de J. P. Vernant manquin aquí de precedents. Això seria veritablement estrany, fins i tot poc raonable, tractant-se, com de fet es tracta, d’una contalla famosa entre totes les de l’Odissea. Però constitueix un encert, i alhora quelcom molt característic del nostre autor, l’haver emfasitzat fins a quin punt la preocupació pel klevoı condicionava el comportament d’Ulisses — més enllà, i de vegades fins i tot en contra (almenys en aparença) de la seva cèlebre mhvtiı. ¿Per què ha de tornar a desafiar el monstre orb, Ulisses, una volta sa i estalvi, i de bell nou a bord del seu navili? Amb aquesta actitud (que seria molt fàcil, però certament erroni, de titllar de fatxenderia) l’heroi torna a posar-ho tot en perill, com no deixen de recordar-li-ho, plens d’esverament, els seus mateixos companys, més prudents en aquest cas que no pas ell13. Cosa encara molt més greu: d’acord amb determinades concepcions arcaiques, Ulisses, en comunicar nom, pàtria i llinatge al monstre enfollit pel dolor, posibilita la imprecació que immediatament Polifem adreçarà a Posidó, el seu pare. Comunicar el nom a un enemic pot significar oferir-li una misteriosa presa sobre un mateix14; i el Ciclop no deixarà pas d’aprofitar aquesta atot que el seu enemic li regala in extremis. De la imprecació de Polifem se’n seguiran, per a Ulisses, tota mena de desastres. Però l’heroi no podia consentir de cap manera que restés «enfoui à jamais, dans l’obscurité et l’oubli, le nom de l’inventeur de cette brillante ruse». Aquest moment que algú podria titllar d’exhibicionisme constitueix la contrapartida del moment de l’ocultació, del déguisement mitjançant l’estratagema de l’Ou[tiı. Sense aquest segon moviment, el complex joc que Ulisses desplega quedaria incomplet i deixaria de tenir sentit. Tot plegat, vol dir que la identitat d’Ulisses no és pas menys tenaç, sota les aparences enganyadores, que la d’un Aquil·les. Ambdós herois són tossudament fidels a ells mateixos. Aquil·les ho és per la via de mostrarse, de donar-se sempre esglaiadorament nu i sencer; Ulisses, al contrari, no deixa mai de refusar-se al despullament i d’ocultar-se (i, en cert sentit, paradoxalment, també d’exhibir-se) rere els seus múltiples enganys. Però allò que els diferencia no és pas un grau distint de l’heroica fidelitat a un mateix.

13. Cf. Odissea IX 491-500.

14. Jean Pierre Vernant apunta aquest motiu, que assumeix una importància extraordinària en tradicions mitològiques diverses; però, aquí, preocupat tan sols per l’anàlisi del passatge homèric, no es preocupa de documentar-ne amb detall els vestigis en terra grega. Tal com em fa observar Xavier Riu, el tema sens dubte reclamaria, per ell mateix, un estudi en profunditat i minuciós.

Jaume Pòrtulas

c. les anagnòrisis d’Ulisses

Només al·ludiré breument a les discussions de Vernant a propòsit de les successives escenes de reconeixement d’Ulisses per part de cada un dels seus: Telèmac, Euriclea, Eumeu i els altres servents, Penèlope i, al final, Laertes. Vernant parteix de l’afirmació que, quan Atenea aconsella (i pràcticament imposa) a Ulisses, tot just retornat a Ítaca, un canvi radical en la seva aparença, i el transforma en un rodamón i un captaire miserable, aquest canvi dràstic no altera tant sols l’aspecte extern d’Ulisses. L’heroi, sense deixar d’ésser ell mateix, es transforma veritablement en un No Ningú. En el si d’una societat com la grega arcaica, la mirada social, la mirada d’altri, conforma de debò la personalitat de cada individu, veritablement el basteix. De manera parallela, Ulisses recupera la seva veritable persona quan és reconegut, successivament, com a pare de Telèmac, com a senyor del seu casal, espòs de Penèlope, fill de Laertes, i sobirà legítim d’Ítaca. La problemàtica de l’ésser i de l’aparença no es planteja pas, en una societat tradicional i arcaica, en uns termes gens comparables als del nostre món modern.

Però aquesta mena de remarques no pretenen pas donar entenent que la prioritat (una prioritat que gairebé podríem titllar d’‘ontològica’) de la mirada dels altres a l’hora de bastir la identitat de cadascú no comporti també una sèrie de matisos importants. Vernant anota, per exemple, que, mentre Telèmac, Eumeu i Laertes només freturen, respectivament, d’un pare, d’un amo, o d’un fill, Penèlope no en tindria pas prou amb un espòs qualsevol. Si la cosa no fos així, qualsevol dels pretendents faria més o menys el fet. Però Penèlope no en té pas prou amb un espòs que simplement acompleixi una funció social determinada. Allò que la reina exigeix és que el marit que li arribi coincideixi amb el seu kouridivoı a[locoı (= el seu ‘espòs de donzella’, sol traduir Riba). D’una manera força distinta d’allò que passa en les altres anagnòrisis de l’Odissea, la identitat que el reconeixement de Penèlope restitueix a Ulisses va molt més enllà de la reintegració pura i simple en la seva identitat social. Això és el que provoca que el reconeixement entre els dos esposos esdevingui tan complicat, que (al contrari del que s’esdevenia en els altres casos) s’envesqui de reticències i de desconfiances mútues. V

Hom podria objectar, probablement, que aquesta confrontació entre les anàlisis vernantianes dels dos magnes poemes resulta una mica esbiaixada. Efectivament, en el cas de la Ilíada, allò que preocupava sobretot Vernant era la ‘la belle mort’; mentre que, en el cas de l’Odissea, va centrar-se bàsicament en l’estudi d’una problemàtica força distinta, entorn de la identitat, l’aparença i la persona. Però no em sembla pas que es tracti d’una objecció gaire vàlida. La tria dels arguments a discutir, en connexió amb un poema o amb l’altre, ja

48

Homer a l’escola de París 49

resulta, per ella mateixa, molt significativa. I tampoc no és gens difícil subratllar els trets que aveïnen ambdues anàlisis. La coherència tant d’Aquil·les com d’Ulisses amb ells mateixos, la fidelitat de cadascú al seu ideal heroic — aquests són trets que, en definitiva, els atansen profundament l’un i l’altre. En el cas d’Aquil·les, aquesta fidelitat resulta òbvia, no cal pas insistir-hi. És per fidelitat al seu klevoı, que Aquil·les planta cara a Agamèmnon, i rebutja, tot seguit, les seves excuses i els seus presents. Per aquesta mateixa fidelitat, adusta i intransigent, Aquil·les renuncia a tornar a Ftia, on l’espera una vida tan llarga com obscura. Però si, a continuació, ens girem vers Ulisses, hem de constatar també que, si no es queda a la illa de Calipso, si aspira per damunt de tot a tornar a casa, no és pas perquè prefereixi Penèlope a la Nimfa rullada, o Ítaca a Ogígia, com potser podria semblar-nos — en termes anacrònics, tanmateix. Allò que Ulisses cobeja, exactament igual que Aquil·les, és el klevoı a[fqiton que el seu coratge i la seva mhvtiı es mereixen, a condició que torni al món dels homes. Més que no pas els valors personals, idiosincràtics, d’un heroi qualsevulla, els aedes homèrics celebren els valors socials de la polis arcaica emergent. O, per a ésser més precisos, aquesta dicotomia resulta falsa, perquè els valors heroics, per definició, no ho són mai, de personals i idiosincràtics. Essent fidels a uns valors que s’encarnen en ells, Aquil·les i Ulisses resten fidels, alhora, a llur idiosincràsia pròpia.

* * * * *

I observem que, al capdavall, la fidelitat a allò que un mateix és no constitueix tan sols un valor cabdal en l’ètica heroica; els savis i els poetes de l’Arcaisme també l’assumiren profundament. En un d’ells, en Píndar, aquest imperatiu trobà una formulació clàssica, definitiva, gràcies a un vers famós: gevnoi’ oi|o" ejssi; maqwvn (Pítica ii 72). Però ara voldria destacar, ja per concloure, que la fidelitat a un mateix esdevé també una mena de leitmotif en la producció tardana de Jean Pierre Vernant. La fidelitat a un mateix constitueix, és cosa òbvia, un tema recurrent en les seves anàlisis científiques; però també resulta recurrent (i potser hauríem de dir que ho resulta d’una manera especial) en la seva darrera producció, la més ‘personal’, de caire memorialístic i pròpiament polític. Sens dubte, el fet que la lleialtat a un mateix hagi constituït un valor personal, assumit per l’home Vernant amb profunditat i rigor, no ha deixat pas de contribuir a la cura i la precisió amb les quals Vernant, l’estudiós, ha sabut rastrejar-la en els textos homèrics, objecte privilegiat del seus estudis.

REFERÈNCIES BIBLIOGRÀFIQUES

Jean Pierre Vernant sobre els poemes homèrics 1979. «Panta kala. D’Homère à Simonide», Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa IX, pp. 1365-1374. Reprès a 1989b, pp. 91-101.

50 Jaume Pòrtulas

1981. «Mort grecque, mort à deux faces», Le Débat XII, pp. 51-59. Reprès a 1989b, pp. 81-89.

1982a. «Préface» a GNOLI & VERNANT 1982. Reprès a 1995, pp. 204-214.

1982b. «La belle mort et le cadavre outragé», a GNOLI & VERNANT 1982, pp. 4576. Reprès a 1989b, pp. 41-79.

1984. «Proche et lontaine Iliade». Prefaci à REDFIELD 1975. Reprès, amb el títol de «La Tragédie d’Hector», a 1995, pp. 220-227 i 1996, pp. 469-479.

1985. «Methode structurale et mythe des races», a J. BRUNSCHWIG (ed.) Histoire et Structure À la mémoire de Victor Goldschmidt. Paris, Vrin, pp. 4360. Reprès a 1995, pp. 242-265.

1989a. «Figures féminines de la mort en Grèce», a 1989b, pp. 131-152. 1ª versió, amb el títol «La douceur amère de la condition humaine», Lettre internationale VI (1985), pp. 45-48.

1989b. L’individu, la mort, l’amour. Soi-même et l’autre en Grèce ancienne. Paris: Gallimard.

1991a. «La ‘belle mort’ d’Achille», Autrement iii. L’Honneur. Image de soi ou don de soi: un idéal équivoque. Reprès a 1996, pp. 501-510.

1991b. «Psuché: simulacre du corps ou image du divin?», Nouvelle Revue de psychanalyse XLIV, pp. 223-230. Reprès, amb el títol «Psyché: double du corps ou reflet du divin?», a 1996, pp. 525-535.

1995. Passé et présent Contributions à une psychologie historique réunies par Riccardo Di Donato. Roma: Edizioni di Storia e Letteratura.

1996. Entre mythe et politique. Paris: Seuil.

1997. «Ulysse en personne»; «Au miroir de Pénélope», a F. FRONTISI-DUCROUX & J.-P. VERNANT, Dans l’oeil du miroir, Paris: Odile Jacob, pp. 11-50; 251-285.

2001a. La mort héroïque chez les Grecs. Nantes: Éditions Pleins Feux. Reprès a 2004, pp. 69-86.

2001b. «Mythes et épopées en Grèce ancienne», a MEZZADRI 2001, pp. 284-320. Reprès, amb el títol «Entre exotisme et familiarité», a 2004, pp. 87-126.

2004. La Traversée des frontières (Entre mythe et politique II). Paris: Seuil.

ALTRES REFERÈNCIES BIBLIOGRÀFIQUES

BLAISE, F.; JUDET DE LA COMBE, P. & ROUSSEAU, P. (eds.), 1996. Le métier du mythe. Lectures d’Hésiode. Lille: Presses Universitaires du Septentrion.

CHANTRAINE, P. 1968. Dictionnaire étymologique de la langue grecque. París: Klincksieck.

DI DONATO, R. 2006. Aristeuein: Premesse antropologiche ad Omero. Pisa: Edizioni ETS.

DUMÉZIL, G. 1982. Apollon sonore et autres essais. Esquisses de mythologie. París: Gallimard.

GNOLI, G. & VERNANT, J. P. (eds.), 1982. La mort, les morts dans les sociétés anciennes. Cambridge University Press / Editions de la Maison des Sciences de l’Homme.

Homer a l’escola de París 51

HUMPHREYS, S. C. & KING, H. (eds.) 1981. Mortality and Immortality. The Anthropology and Archaeology of Death. Londres: Academic Press.

LORAUX, N. 1994. «Achille, le poète et les mots». Prefaci a la versió francesa de NAGY 1979.

MEZZADRI, B. (ed.), 2001. «Homère». Europe. Revue littéraire mensuelle. nº 865 (Mai 2001).

NAGY, G. 1979. The Best of the Achaeans. Concepts of the Hero in Archaic Greek Poetry. Baltimore & Londres: The Johns Hopkins University Press (Trad. francesa per J. Carlier & N. Loraux, Paris: Seuil, 1994).

NAGY, G. 1990. «Sêma and Nóêsis: The Hero’s Tomb and the ‘Reading’ of Symbols in Homer and Hesiod», a Greek Mythology and Poetics. Ithaca & Londres: Cornell University Press, pp. 202-222 (1ª versió, Arethusa XVI, 1983, pp. 35-55).

PÒRTULAS, J. 2008. Introducció a la Ilíada. Homer entre la història i la llegenda. Barcelona: Fundació Bernat Metge.

PUCCI, P. 1995. Odysseus Polutropos. Intertextual Readings in the Odyssey and the Iliad. With A New Afterword. Ithaca & Londres: Cornell University Press (1ª ed. 1987. Trad. francesa, Lille: Presses Universitaires du Septentrion, 1995).

REDFIELD, J. 1994. Nature and Culture in the Iliad. The Tragedy of Hector (New Edition). Durham & Londres: Duke University Press (1ª ed. University of Chicago Press, 1975. Trad. francesa, París: Flammarion, 1984).

RIBA, C. (trad.) 1993. HOMER. L’Odissea. Barcelona: La Magrana (Amb correccions manuscrites de l’autor. Primera edició, amb gravats d’E. C. Ricart: Barcelona: Alpha, 1948; 2ª ed. 1953).

SEGAL, C. 1994. Singers, Heroes and Gods in the Odyssey. Ithaca & Londres: Cornell University Press.

ABSTRACT

This paper examines the work of Jean-Pierre Vernant as a reader and interpreter of Homer. This is not one of the aspects of the great scholar to have received most attention, with the exception of his admirable and well-known studies on «la Belle Mort» (ὁ καλὸς θάνατος), which are not discussed here. Instead, the paper focuses on two of Vernant’s later studies, «Ulysse en personne» and «Au miroir de Pénélope», which appeared in the volume Dans l’oeil du miroir, published in 1997 in collaboration with Françoise FrontisiDucroux. Vernant’s interpretations are assessed and in one or two minor cases an attempt is made to take them one step further.

Tragèdia

Ítaca. Quaderns Catalans de Cultura Clàssica

Societat Catalana d’Estudis Clàssics

Núm. 24, 25 i 26 (2008-2010), p. 55-63

DOI: 10.2436/20.2501.01.22

Aesch. PV 6: varie lezioni e interventi congetturali

Matteo Taufer Trento

{Hfaiste, soi; de; crh; mevlein ejpistola;~ a{~ soi path;r ejfei`to, tovnde pro;~ pevtrai~ uJyhlokrhvmnoi~ to;n lewrgo;n ojcmavsai ajdamantivnwn desmw`n ejn ajrrhvktoi~ pevdai~.

Così leggiamo PV 3-6 in pressoché tutte le edizioni moderne. Varianti manoscritte e interventi congetturali si concentrano nel solo v. 61, che nella forma riportata corrisponde alla lezione dello scholium vetus ad Ar. Ra. 814. La testimonianza dello scoliaste alle Rane, che citava integralmente PV 1-6, non passò inosservata: già Willem Canter, nel 1570, accolse direttamente nel testo2 ajdamantivnwn desmw`n ejn ajrrhvktoi~ pevdai~, soluzione destinata a fortuna esclusiva presso i futuri editori (rarissime le perplessità, come vedremo più avanti). Ben diversa, e perturbata al suo interno, è la tradizione diretta del Prometeo3 Il codice più vetusto, M (Laur. 32.9, X sec.), legge ajdamantivnai~ pevdhisin ejn ajrrhvktoi~ pevtrai~, testo stampato dalla princeps (Venetiis 1518) a VettoriStephanus (Genevae 1557)4 e che riaffiora, dopo Canter, solo in casi isolatissimi e di peso più o meno nullo5. Tuttavia, in luogo di ajdamantivnai~ molti

1. Trascurabili un paio di congetture moderne, arbitrarie, rispettivamente ai vv. 3 e 4: si rinvia al repertorio di WECKLEIN 1885, p. 1.

2. Cf. CANTER 1580, p. 21. Si ricordi che l’edizione canteriana, benché apparsa postuma nel 1580, era già stata ultimata dieci anni prima: cf. MUND-DOPCHIE 1984, p. 242.

3. I codici citati nelle note seguenti sono in ordine puramente alfabetico, non d’importanza. Ci è parso giusto, per completezza d’informazione, segnalare anche i varî apografi di testimoni pervenutici, giacché talora i primi attestano lezioni diverse dai secondi.

4. Ma pevdai~ pro pevdhisin in ROBORTELLO 1552, p. 19 (ex O [Lugd. Bat. Voss. gr. Q 4 A, XIII sec.]: cf. TURYN 1943, pp. 27 e 117, confermato dalle collazioni di Mund-Dopchie 1984, p. 30).

5. Cf. e.g. GRBI´c 1609 Bv e SCHRÖDER 1733, p. 286.

testimoni offrono ajdamantivnoi~6 e qualcuno ajdamantivnh/~7, mentre pevdh/sin (scritto con o senza iota mutum) cede sovente il posto a pevdaisin8 o, più di rado, a pevdai~9 Alcuni hanno invece pevdoisin10. La preposizione ejn non è omessa solo da quattro codici, come si ricava dagli apparati di Page e West11, ma, ben diversamente, dalla maggior parte di essi: cinquanta mss.12 su ottan-

6. Così B (Laur. 31.3, XIII sec.), Ba (Vat. Ottob. gr. 210, XV sec.), Bc (Vat. gr. 1459, XV/XVI sec.), Bd (Paris. gr. 2790, XVI sec.), D (Ambros. gr. G 56 sup. [399], XIV sec.), Fcs.l. (Ambros. gr. I 47 sup. [459], XIV sec.), Ha (Matrit. gr. 4617 [olim N 75], XIV sec.), Le (Neapol. II F 28 [185], XV sec.), Lg (Vat. gr. 59, XV sec.), Lh (Cantabr. Bibl. Univ. Nn III 17 B, XIV sec.), Li (Vat. Ottob. gr. 185, XV sec.), L (Vat. gr. 1892, XV sec.), P (Par. gr. 2787, XIV sec.), Pa (Lugd. Bat. Voss. gr. F 23, XVI sec.), Pds.l. (Par. gr. 2789, XV sec.), Ra (Oxon. Bibl. Bodl. Selden Supra 18 [olim Selden 17], XV sec.), Ua (Vat. Regin. gr. 155, XV sec.), Va.c.? (Marc. gr. 468 [653], XIII sec.), Ya (Vindob. phil. gr. 197, XV sec.), Yd (Par. gr. 2782 A, XVI sec.), Zes.l. (Vindob. hist. gr. 122, XVI sec.), Zf (Mosqu. gr. 505, XV sec.), Zg (Lugd. Bat. Bibl. Publ. Graec. 61 D, XV sec.), Zh (Guelf. Gud. gr. 4° 88, XV sec.), Zis.l. (Vindob. phil. gr. 235, XV sec.) e il cod. 143 della ÆEqnikh Biblioqhvkh d’Atene (XVI sec.).

7. Così Gas.l. (Vat. Palat. gr. 287, XIV sec.), L (Laur. 32.2, XIV sec.), Lf (Laur. 31.1, XV sec.), Vp.c. (Marc. gr. 468 [653], XIII sec.) e Va (Marc. gr. 470 [824], XV sec.).

8. Così Bas.l. (Vat. Ottob. gr. 210, XV sec.), Bcs.l. (Vat. gr. 1459, XV/XVI sec.), Bd (Paris. gr. 2790, XVI sec.), D (Ambros. gr. G 56 sup. [399], XIV sec.), Da (Neapol. II F 29, XV/XVI sec.), D (Mosqu. gr. 508, XV sec.), I (Athous Iviron 209 [olim 161], XIII/XIV sec.), La (Par. gr. 2786, XIV sec.), Lc (Cantabr. Bibl. Univ. Nn III 17 A, XIV sec.), Ld (Vat. gr. 920, XV sec.), Le? (Neapol. II F 28 [185], XV sec.), L (Vat. gr. 1892, XV sec.), Nc (Laur. 28.25, XIII sec.), Neap. II F 32 (XV sec.), Sd? (Par. gr. 2788, XV sec.), Sn (Vat. gr. 912, XVI sec.), T (Neapol. II F 31, XIV sec.), Ua (Vat. Regin. gr. 155, XV sec.), Ub (Monac. gr. 486, XVI sec.), Uc (Monac. gr. 565, XVI sec.), X? (Laur. 31.2, XIII sec.), Ya (Vindob. phil. gr. 197, XV sec.) e Yd (Par. gr. 2782 A, XVI sec.).

9. Così G (Marc. gr. 616 [663], XIV sec.), Ga (Vat. Palat. gr. 287, XIV sec.), O (Lugd. Bat. Voss. gr. Q 4 A, XIII sec.), Oa (Oxon. Bodl. Bibl. Auct. T.6.5, XVI sec.) e R (Vat. gr. 57, XIV sec.).

10. Così Lg (Vat. gr. 59, XV sec.) e Va.c.? (Marc. gr. 468 [653], XIII sec.).

11. Peraltro solo a metà sovrapponibili: cf. PAGE 1972, p. 289 (B K Ya F) e WEST 1998 (1990), p. 403 (B Na K L).

12. Vale a dire: B (Laur. 31.3, XIII sec.), Burneianus 106 (Bibl. Britann., XVI sec.), E (Salmantic. Bibl. Univ. 233, XV sec.), F (Laur. 31.8, XIV sec.), Fc (Ambros. gr. I 47 sup. [459], XIV sec.), Fd (Laur. 91 sup. 5, XIV sec.), Ferrar. 116 (Bibl. Com. Ariost., XVI sec.), K (Laur. conv. suppr. 11, XIV sec.), L (Laur. 32.2, XIV sec.), Lc (Cantabr. Bibl. Univ. Nn III 17 A, XIV sec.), Ld (Vat. gr. 920, XV sec.), Lf (Laur. 31.1, XV sec.), Lg (Vat. gr. 59, XV sec.), Lh (Cantabr. Bibl. Univ. Nn III 17 B, XIV sec.), Li (Vat. Ottob. gr. 185, XV sec.), L (Vat. gr. 1892, XV sec.), N (Matrit. gr. 4677, XIII sec.), Na (Vat. Ottob. gr. 346, XVI sec.), Neap. II F 31 bis (XV sec.), P (Par. gr. 2787, XIV sec.), Pa (Lugd. Bat. Voss. gr. F 23, XVI sec.), Pd (Par. gr. 2789, XV sec.), Ra (Oxon. Bibl. Bodl. Selden Supra 18 [olim Selden 17], XV sec.), Rc (Laur. conv. suppr. 7, XIV sec.), Rd (Ambros. gr. +18 sup., XV sec.), S (Marc. gr. XI 7 [1340], XV sec.), Sa (Perus. Bibl. Aug. H 56 [571 Mazzatinti], XV sec.), Sc (Par. Coislin. 353, XV sec.), Sd (Par. gr. 2788, XV sec.), Se (Vat. Barb. gr. 135, XVI sec.), Sf (Vat. gr. 1826, XVI sec.), Sg (Vat. gr. 1360, XV/XVI sec.), Sh (Lugd. Bat. Bibl. Publ. Graec. 51, XV sec.), Si (Par. gr. 2886, XVI sec.), Sj (Vat. gr. 58, XV sec.), Sk (Vat. Palat. gr. 139, XVI sec.), T (Neapol. II F 31, XIV sec.), Wa (Vat. Regin. gr. 92, XV sec.), Xc (Laur. conv. suppr. 98, XIV sec.), Ya (Vindob. phil. gr. 197, XV sec.), Yb (Vindob. phil. gr. 279, XV sec.), Za (Athous Vatopediou 33, XV sec.), Zd (Ambros. gr. C 11 sup. [169], XVI sec.), Ze (Vindob. hist. gr. 122, XVI sec.), Zf (Mosqu. gr. 505, XV sec.), Zg (Lugd. Bat. Bibl. Publ. Graec. 61 D, XV sec.), Zh (Guelf. Gud. gr. 4° 88, XV sec.), Zi (Vindob. phil. gr. 235, XV sec.), Zj (Mosqu. Khludov A 173, XVI sec.) e il cod. 143 della ÆEqnikh; Biblioqhvkh d’Atene (XVI sec.). In sei casi (Fd Ferrar. 116 N P Pd e Rc), tuttavia, ejn compare supra lineam. Assai probabile

56

Aesch. PV 6: varie lezioni e interventi congetturali 57

tasei consultati13 non hanno ejn nel testo. Proseguendo, anziché pevtrai~ in taluni mss. troviamo legw14, in altri invece una lacuna15. Trascurabili, infine, isolate sviste grafiche rispettivamente in ajdamantivnai~ e ajrrhvktoi~16

Proviamo, ora, a incolonnare le varie possibilità combinatorie (eventuali varianti prosodicamente equivalenti si troveranno sotto le rispettive sillabe) per saggiarne in primo luogo la tenuta metrica:

a) ajdamantivnwn desmw`n ejn ajrrhvktoi~ pevdai~ (SAr. Ra. 814)

b) ajdamantivnai~ pevdhisin ejn ajrrhvktoi~ pevdai~ (M) -oi~ -aisin -h/~ -oisin

c) ajdamantivnai~ pevdai~ ejn ajrrhvktoi~ pevtrai~ (G Ga O Oa R)

d) ajdamantivnai~ pevdh/sin ajrrhvktoi~ pevtrai~ (plerique) -oi~ -aisin levgw

-h/~ -oisin

e) ajdamantivnai~ pevdh/sin ajrrhvktoi~ + < (E Fc Za Zd Ze Zh Le Li) -oi~ -aisin

I casi a, c, d sono prosodicamente equivalenti (salvo lo spondeo in III sede di a) e non creano difficoltà: l’anapesto in apertura del trimetro, per quanto raro, è ben documentato e sostenibile in Eschilo, specie nel Prometeo17. Altamente anomalo, invece, il caso b, ossia il testo del Mediceo e di varî altri co-

che l’assenza di ejn si registri anche in Zc (cf. n. seguente) e nei non visti So, Yc e Z (cf. n. seguente): per i rapporti di stretta ‘parentela’ di questi ultimi tre mss. con altri da me invece consultati, rinvio a TURYN 1943, pp. 83 + 43 + 93. 13. Il totale dei consultabili, per PV 6, è di novantadue; i sei ‘mancanti all’appello’, cioè non ancora o lacunosamente pervenutici, sono: Fb (Vat. gr. 1824, XIV sec.); So (cod. 2700 della Bibl. Univ. di Bologna, XVI sec.); Z (cod. 1056 della ÆEqnikh; Biblioqhvkh d’Atene, XV sec.); il cod. 108, XV sec., della collezione ÆA. Koluba ora al Mouseion Dionusivou Lobevrdou ateniese; il cod. 42, XV-XVI sec., già del Metovcion tou` Panagivou Tavfou di Istanbul (così ancora TURYN 1943, p. 121) e ora alla ÆEqnikh; Biblioqhvkh d’Atene; Yc (cod. XX Aa/1ª, della Biblioteka Akademii Nauck di San Pietroburgo, XV sec.). Va altresì precisato che PV 6, nella porzione centrale, risulta poco intelligibile in Zc (Taurin. Bibl. Nat. B VI 33 [253], XVI sec.). Riguardo al contesto di ricerca che ha facilitato la consultazione in microfilm digitalizzati di questi materiali, rinvio alla n. 9 di TAUFER 2010.

14. Così T (Neapol. II F 31, XIV sec.), Zc? (Taurin. Bibl. Nat. B VI 33 [253], XVI sec.), Zes.l. (Vindob. hist. gr. 122, XVI sec.), Zis.l. (Vindob. phil. gr. 235, XV sec.), Zj (Mosqu. Khludov A 173, XVI sec.) e, se integriamo con l’app. di WEST 1998 (1990), la seconda mano di Fb (Vat. gr. 1824, XIV sec., non veduto: cf. n. prec.).

15. Così E (Salmantic. Bibl. Univ. 233, XV sec.), Fc (Ambros. gr. I 47 sup. [459], XIV sec.), Le (Neapol. II F 28 [185], XV sec.), Li (Vat. Ottob. gr. 185, XV sec.), Za (Athous Vatopediou 33, XV sec.), Zd (Ambros. gr. C 11 sup. [169], XVI sec.), Ze (Vindob. hist. gr. 122, XVI sec.) e Zh (Guelf. Gud. gr. 4° 88, XV sec.). Tuttavia, supra lineam troviamo pevtrai~ in E Fc Za Zd, levgw in Ze

16. In Mb (Bonon. Bibl. Univ. 2271, XV sec.) leggiamo oujdamantivnoi~. In Lg (Vat. gr. 59, XV sec.) e forse in Xb (Mosqu. Khludov A 172, XV sec.) ajrhvktoi~; Wa (Vat. Regin. gr. 92, XV sec.) ha un ovvio errore d’itacismo, ajrrivktoi~

17. Si vedano PATTONI 1987, pp. 100 ss., nonché, in linea generale, MARTINELLI 1997 (1995), p. 90 e GENTILI-LOMIENTO 2003, p. 254 e n. 32.

dici, che presenta, oltre all’anapesto iniziale, un ulteriore anapesto, peraltro ‘strappato’, in IV sede: se quest’ultimo, infatti, potrebbe giovarsi di un isolato parallelo con PV 840, safw`~ ejpivstasÆ, ÆIovnio~ keklhsetai18 —laddove PV 354 Tufw`na qou`ron, pa`sin o}~ ajntevsth qeoi`~ (sic M et alii: o}~ pa`sin cett.), non interessando un nome proprio ed essendo ‘strappato’, è generalmente ritenuto guasto19—, pare assai improbabile la legittimità di due anapesti nel medesimo verso (il corpus eschileo, diversamente da Sofocle ed Euripide20, non dà esempi a supporto). Il caso e, infine, è visibilmente impossibile: manca in clausola l’atteso piede giambico. Sul piano morfosintattico, sospette paiono varianti come ajdamantinoi~ (non risultano attestati casi di ajdamavntino~ a due uscite21) o l’epicismo ajdamantivnh/~22, e certo inadeguate suonano le lezioni pevdoisin (qui pevdon non darebbe alcun senso) e levgw (che oscura la sintassi del v. 6 e dà una maldestra reggenza al precedente ojcmavsai, cui vien tolta funzione epesegetica rispetto alle ejpistolaiv del v. 3). Veniamo, piuttosto, alle due sole soluzioni possibili, sia per metro sia per morfologia e sintassi, entro la tradizione diretta: ajdamanti nai~ pevdai~ ejn ajrrhvktoi~ pevtrai~ e ajdamanti nai~ pevdh/sin (vel -aisin) ajrrhvktoi~ pevtrai~. La prima potrebbe essere resa ‘con ceppi d’acciaio su rocce infrangibili’ (così peraltro interpretava l’antico scoliaste23); la seconda, invece, o in modo analogo (anche se suona meno facile il dativo di luogo senza preposizione24) oppure —non senza dubbî— ‘con ceppi d’acciaio infrangibili dalle rocce’, cioè che non si possano strappare alle rocce. Duplice soluzione, quest’ultima, tentata da Gottlieb Carl Wilhelm Schneider25, che difendeva la tradizione diretta ricordando altresì come l’iterazione di pevtrai~ a distanza di due versi potesse far leva su numerosi casi di termini ripetuti in Eschilo26. A favore della paradosi, sulle orme di Schneider, si pronunciò pure Friedrich Wieseler, che optava per il vecchio testo di Robortello27 ajdamantivnai~ (forse da ritoccare nel pur tràdito ma inusitato ajdamantivnoi~28) pevdai~ ejn ajrrhvktoi~ pevtrai~29 Del medesimo avviso fu Mario

18. Eliminabile, tuttavia, nell’ipotesi di consonatizzazione dello iota: cf. KAPSOMENOS 1990, p. 323.

19. Contestabili, in ogni caso, sembrano i rarissimi paralleli di anapesti in sede pari, anche in Sofocle (cf. GENTILI-LOMIENTO 2003, p. 254 n. 36).

20. Cf. tra gli altri il manuale di KOSTER 1962, pp. 106-8.

21. Cf. LSJ9 s.v.

22. Che appare solo in Omero, Esiodo e nei lirici: cf. almeno SCHWYZER 1953, p. 559.

23. Cf. HERINGTON 1972, p. 69: ™n ¢rr»ktoij pštraij· Toàto dhlo‹ tÕ ™k deutšrou e„rhmšnon «pštraij»· oÙ mÒnon ta‹j pštraij oÜsaij Øyhlokr»mnoij, ¢ll¦ kaˆ pštraij ™mpšdoij kaˆ sterea‹j e„sˆ g¦r ™n Ôresi pštrai eÜqraustoi kaˆ somfèdeij

24. Ma se ne vedano varî esempi in KG I, pp. 441 ss. e SCHWYZER-DEBRUNNER 1950, pp. 134 ss.

25. Cf. SCHNEIDER 1834, p. 4: «Ich habe die gewöhnliche Lesart mit Weglassung der Präposition beibehalten: mit stählernen (festen) an den Felsen (beim Einschlagen in dieselben) nicht zerspringenden Fesseln, oder mit solchen, die den Felsen nicht zu entreissen sind».

26. Cf. ibid. pp. 4-5.

27. Cf. supra n. 4.

28. Attribuito a Wieseler come congettura dal repertorio di WECKLEIN 1885, p. 1.

29. Cf. WIESELER 1843, pp. 3-4.

58

Aesch. PV 6: varie lezioni e interventi congetturali 59

Untersteiner, che stampava, come Schneider, ajdamanti nai~ pevdh/sin ajrrhvktoi~ pevtrai~30 .

Ora, fatte salve liceità e frequenza delle figure di ripetizione in Eschilo, resta il dato che il testo manoscritto preferito da Schneider e Untersteiner appare, prima che difficilior, alquanto ostico. A prescindere dal dativo di luogo senza preposizione, certo ammissibile, lascia perplessi soprattutto l’immagine delle rocce infrangibili, che lo scoliaste, in modo non troppo convincente, così giustificava: il poeta qui parla di rocce salde e dure perché sui monti, di solito, si trovano rocce fragili e porose31. Ben più suggestiva, invece, la testimonianza dello scoliaste alle Rane, che disponeva di un antico manoscritto del Prometeo ormai perduto. Leggere ajdamantivnwn desmw`n ejn ajrrhvktoi~ pevdai~ snellisce la sintassi rispetto alla tradizione diretta e offre un senso più plausibile: ‘in ceppi infrangibili32 di catene / legami d’acciaio’ (da intendersi nel senso che i ceppi consistono negli stessi legami d’acciaio, pena l’oscurità dell’immagine33). La genesi della corruttela fu spiegata così da Schütz: a) il copista avrebbe scritto pevtrai~ pro pevdai~ tratto in inganno dal v. 434; b) altri, per riassestare la sintassi, avrebbero corretto ajdamantivnwn desmw`n in ajdamantivnoi~ desmoi`~; c) altri ancora avrebbero sostituito pevdh/sin (vel -ai~) a desmoi`~ sulla base di glosse o dopo aver collazionato altri mss.35 L’argomentazione, salvo l’ovvio punto a, non convince appieno, ma non sapremo probabilmente mai come si sia svolto, nei dettagli, tale progressivo processo di corruzione. Segnaliamo infine, per completezza d’indagine, tre interventi congetturali, poco significativi e rimasti isolati. Il primo, che non dispiacque a Schütz36, si deve a Stanley37, seguìto da Brunck38: ajdamantivnwn desmoi`sin ajrrhvktoi~ pedw`n (l’intento probabile è di ‘razionalizzare’ l’immagine: non ‘ceppi infrangibili di catene / legami d’acciaio’, bensì ‘legami / catene infrangibili di ceppi d’acciaio’39); il secondo, arbitrario e piuttosto invasivo, è ascritto a Łowin´ski40:

30. Cf. UNTERSTEINER 1946-47 I, p. 252 (che in apparato attribuiva a tutti [«omnes»] gli editori dopo Canter l’accettazione del testo di SAr. Ra. 814: ma come s’è visto e si vedrà ancora, vi sono alcuni casi di dissenso).

31. Cf. supra n. 23.

32. Il modello è quasi senz’altro Il. XIII 36-37 pevda~ ajrrhvktou~.

33. Condivido pertanto la versione di LAURA MEDDA (1994, p. 69) «con ceppi d’acciaio, che sia impossibile spezzare».

34. Opinione variamente ripresa: cf. e.g. GRIFFITH 1834, p. 6 e DINDORF 1841, p. 34.

35. Cf. SCHÜTZ 1782-97 I app. e Id. 1808-11 I app

36. Cf. SCHÜTZ 1782-97 I, pp. 17-18 e Id. 1808-11 I, p. 18.

37. Cf. STANLEY 1663, p. 716 e Id. 1832 (1809-16), p. 10.

38. Cf. BRUNCK 1779, p. 5. SCHÜTZ (1782-97 I app. e Id. 1808-11 I app.) credeva però la congettura formulata ope ingenii da Brunck.

39. Non senza finezza, a favore di Stanley-Brunck, osservava SCHÜTZ 1782-97 I, p. 18 (= Id. 1808-11 I, p. 18): «Tum enim desmo;~ verbum generis esset, pevdh autem formae vocabulum; et quia genus quidem specie, non vice versa species genere suo definiri ac circumscribi potest, aptius diceretur desma; pedw`n, quam pevdai desmw`n; sicut Germanice bene quidem diceretur unzerbrechliche Bande eiserner Fesseln; at unzerbrechliche Fesseln eiserner Bande ineptum esset».

40. Traggo l’informazione dal repertorio di WECKLEIN 1885, p. 1. Purtroppo le mie ricerche mirate sulla bibliografia eschilea di Antoni Łowin´ski non hanno dato alcun frutto.

ajdamantivnwn sfhnw`n ejn ajrrhvktoi~ pevdai~ (‘in ceppi infrangibili di cunei d’acciaio’); il terzo (Paley, Rogers) è una proposta di espunzione del verso con argomenti poco probanti41. Ponderate la varie alternative, meglio attenersi alla nitida e suasiva lettura dello scoliaste aristofaneo.

BIBLIOGRAFIA

BRUNCK 1779 = Aeschyli tragoediae Prometheus, Persae et Septem ad Thebas, Sophoclis Antigone, Euripidis Medea. Ex optimis exemplaribus emendatae [a R.F.Ph. Brunck], Argentorati 1779.

CANTER 1580 = Aijscuvlou tragw/divai Z, Aeschyli tragoediae VII, in quibus praeter infinita menda sublata, carminum omnium ratio hactenus ignorata, nunc primum proditur; opera G. Canteri Ultraiectini, Antverpiae 1580.

DINDORF 1841 = Aijscuvlo~. Aeschyli tragoediae superstites et deperditarum fragmenta ex recensione G. Dindorfii, II: Annotationes, Oxonii 1841.

GENTILI-LOMIENTO 2003 = B. Gentili-Liana Lomiento, Metrica e ritmica. Storia delle forme poetiche nella Grecia antica, Milano 2003.

GRBI ´ c 1609 = Tragoedia Aeschyli Quae inscribitur Prometheus Captivus. Cum interpretatione evidenti ac dilucida, M.ae Garbitii [Grbi´c]. Nunc vero ad usum Theatri Argentinensis accommodata, inque eodem exhibita mense Iulio, Anni a nato Christo Salvatore MDCIX, Argentorati (excudebat A. Bertramus, Academiae Typographus) s.d. [1609], in Deutsche Argumenta, oder Inhalt der Tragoedien deß [sic] Griechischen Poeten Aeschyli: genant Prometheus. Sampt Einem Prologo oder Vor-Rede / darauß der Inhalt: unnd [sic] einem Epilogo oder Beschluß Red / darinnen die Lehren dieser Action kürzlichen begriffen. Gehalten auff [sic] dem Theatro zu Straßburg / Anno 1609. im Monat Julio. Gedruckt zu Straßburg bey Anthoni Bertram / Anno 1609, ff. A1-H2. [Si tratta di una sorta di terza edizione del PV di M. Grbi´ c (Aeschyli Prometheus, cum interpretatione M. Garbitii, Basileae 1559), anche se il testo greco riproduce sostanzialmente quello di Vettori-Estienne 1557: cf. MUNDDOPCHIE 1984, 187 e 190. Di tale edizione esiste, a quanto pare, una sola copia, conservata alla Niedersächsische Staats- und Universitätsbibliothek Göttingen, segnatura 8 AUCT. GR. II, 5588 (2)].

GRIFFITHS 1834 = Aijscuvlou Promhqeu;~ desmwvth~. The text of Dindorf; with notes compiled and abridged by J. Griffiths, Oxford 1834.

HERINGTON 1972 = The Older Scholia on the Prometheus Bound, edited by C.J. Herington, Lugduni Batavorum 1972.

41. PALEY 1879, p. 98 si limitò a sospettare, senza addurre argomenti, che il verso potrebbe essere spurio; più deciso —ma assai poco convincente— fu ROGERS 1894, p. 38: «V. 6 I reject as plainly spurious, because absurd in itself and contrary to the poet’s idea. Chains would allow the prisoner motion, whereas Prom. was to be irremovably fixed».

60

Aesch. PV 6: varie lezioni e interventi congetturali 61

KAPSOMENOS 1990 = A. Kapsomenos, «Synecphonesis and Consonantalization of Iota in Greek Tragedy», in Owls to Athens. Essays on Classical Subjects presented to Sir Kenneth Dover, edited by Elizabeth M. Kraik, Oxford 1990, pp. 321-30.

KG = R. Kühner, Ausführliche Grammatik der griechischen Sprache, zweiter Teil: Satzlehre. In neuer Bearbeitung besorgt von B. Gerth, Hannover 1898-1904³.

KOSTER 1962 = Traité de métrique grecque suivi d’un preécis de métrique latine, par W.J.W. Koster, triosiéme impression corrigée [et] addenda, Leyde 1962.

LSJ9 = A Greek-English Lexicon, compiled by H.G. Liddell and R. Scott, revised and augmented throughout by H. Stuart Jones with the assistance of R. McKenzie and with the cooperation of many scholars, Oxford 19409 (1843¹); with a revised supplement, ibid. 1996.

MARTINELLI 1997 (1995) = Maria Chiara Martinelli, Gli strumenti del poeta. Elementi di Metrica greca, Bologna 1995, rist. riveduta e corretta ibid. 1997.

MEDDA 1994 = Eschilo, Supplici - Prometeo Incatenato. A c. di Laura Medda, Milano 1994.

MUND-DOPCHIE 1984 = Monique Mund-Dopchie, La survie d’Eschyle à la Renaissance. Éditions, traductions, commentaires et imitations, Lovanii 1984.

PAGE 1972 = Aeschyli septem quae supersunt tragoedias edidit D. Page, Oxonii 1972.

PALEY 1879 = The Tragedies of Aeschylus. Re-edited, with an English Commentary, by F.A. Paley. Fourth edition, London 1879.

PATTONI 1987 = Maria Pia Pattoni, L’autenticità del Prometeo Incatenato di Eschilo, Pisa 1987.

ROBORTELLO 1552 = Aijscuvlou tragw/divai eJptav, Aeschyli tragoediae septem, a F. Robortello Utinensi nunc primum ex manuscriptis libris ab infinitis erratis expurgatae, ac suis metris restitutae, Venetiis 1552.

ROGERS 1894 = Emendations in Aeschylus, with a few others in Sophocles and Euripides..., by A.M. Rogers, Baltimore 1894.

SCHNEIDER 1834 = Aischylos, Prometheus, Griechisch, mit Anmerkungen von G.C.W. Schneider, Weimar 1834.

SCHRÖDER 1733 = Veterum Poetarum Graecorum Poemata aut Poematum Apospasmatia Selecta, eo consilio hunc denuo congesta, ut juventus non unum, sed plerosque omnes Poetas Graecos, quorum quidem scripta supersunt, mature cognoscere possit, cura Jo. Joach. Schröderi, Marburgi 1733.

SCHÜTZ 1782-97 = Aeschyli tragoediae quae supersunt ac deperditarum fragmenta, recensuit Ch.G. Schütz, I-III, Halae 1782-97. [Quando è citato, oltre al volume, il numero di pagina, il riferimento è sempre al Commentarius, avente una numerazione a sé rispetto alla parte con testo e apparato].

SCHÜTZ 1808-11 = Aeschyli tragoediae quae supersunt ac deperditarum fragmenta, recensuit et commentario illustravit Ch.G. Schütz, editio nova auctior et emendatior, I-III, Halae 1808-11. [Quando è citato, oltre al volume, il numero di pagina, il riferimento è sempre al Commentarius, avente una numerazione a sé rispetto alla parte con testo e apparato].

SCHWYZER 1953 = Griechische Grammatik auf der Grundlage von Karl Brugmanns griechischer Grammatik von E. Schwyzer. Erster Band: Allgemeiner Teil. Lautlehre. Wortbildung. Flexion, München 1953.

SCHWYZER-DEBRUNNER 1950 = Griechische Grammatik auf der Grundlage von Karl Brugmanns griechischer Grammatik von E. Schwyzer. Zweiter Band: Syntax und syntaktische Stilistik, vervollständigt und herausgegeben von A. Debrunner, München 1950, 5., unveränd. Aufl. 1988 (= Handbuch der Altertumswissenschaft II.1.2).

STANLEY 1663 = Aijscuvlou tragw/divai eJptav, Aeschyli tragoediae septem cum scholiis Graecis omnibus, deperditorum dramatum fragmentis, versione et commentario Th. Stanleii, Londini 1663.

STANLEY 1832 (1809-16) = Th. Stanleii Commentarius in Aeschyli tragoedias ex schedis MSS. multo auctior ab S. Butlero editus, Halis Saxonum 1832. [Questo più ampio commento stanleiano, rimasto a lungo manoscritto, era già stato pubblicato da Butler nella sua ed. eschilea in 4 voll. Cantabrigiae 1809-16].

TAUFER 2010 = «Aesch. PV 113 pepassaleumevno~?», in Atti delle Giornate di studi su Eschilo (Gela, 21-23 maggio 2009), Lexis 28, 2010, pp. 93-101.

TURYN 1943 = The Manuscript Tradition of the Tragedies of Aeschylus, by A. Turyn, New York 1943, reprographischer Nachdruck Hildesheim 1967.

UNTERSTEINER 1946-47 = Aeschyli fabulae quae exstant. Recognovit, annotatione critica instruxit, Italice reddidit M. Untersteiner, I-III, Milano 194647.

VETTORI-ESTIENNE 1557 = Aijscuvlou tragw/divai Z..., Aeschyli tragoediae VII..., quae cum omnes multo quam antea castigatiores eduntur, tum vero una, quae mutila et decurtata prius erat, integra nunc profertur... P. Victorii cura et diligentia, s. l. [Genevae] (ex officina H. Stephani) 1557.

WECKLEIN 1885 = Aeschyli fabulae cum lectionibus et scholiis codicis Medicei et in Agamemnonem codicis Florentini ab H.o Vitelli denuo collatis edidit N. Wecklein. Pars I: Textus. Scholia. Apparatus criticus; pars II: Appendix coniecturas virorum doctorum minus certas continens, Berolini 1885.

WEST 1998 (1990) = Aeschyli tragoediae cum incerti poetae Prometheo, edidit M.L. West. Editio correctior editonis primae (MCMXC), Stutgardiae et Lipsiae 1998.

WIESELER 1843 = Adversaria in Aeschyli Prometheum Vinctum et Aristophanis Aves philologica atque archaeologica. Scripsit F. Wieseler, Gottingae 1843.

62

Aesch. PV 6: varie lezioni e interventi congetturali

ABSTRACT

At Aesch. PV 6, the reading ajdamantivnwn desmw`n ejn ajrrhvktoi~ pevdai~ presented by an ancient scholium at Aristophanes’ Frogs 814 is both formally and semantically convincing. This paper reviews and discusses the entire manuscript tradition, the printed editions and the surveys of the scholars on this Aeschylean passage.

63

Ítaca. Quaderns Catalans de Cultura Clàssica

Societat Catalana d’Estudis Clàssics

Núm. 24, 25 i 26 (2008-2010), p. 65-99

DOI: 10.2436/20.2501.01.23

Il senso del colore in Euripide tra tradizione e innovazione

La ricchezza cromatica del dramma euripideo è ben nota e già osservata nel corso dell’Ottocento1. Allora ne furono date spiegazioni per lo meno riduttive, improntate alla tradizione secondo cui Euripide, abbandonata l’arte drammaturgica, si sarebbe dedicato alla pittura. Poco o nessuno spazio era lasciato ai contesti d’uso2, indispensabili, con la tradizione poetica precedente, e in particolare la lirica, alla comprensione di questa sensibilità per gli effetti di luce e di colore.

Nell’ultima produzione euripidea, infatti, è presente un’attenzione nuova per le sfumature e i cambiamenti di luce; qui gli aggettivi sono combinati con attenzione creando effetti impiegati da nessuno prima con tanta frequenza. I colori preferiti sono oro, rosso e verde cui si aggiunge il bianco della neve, evocata dalla sua nota caratteristica (cf. Eur. Hel. 1323, Ph. 206), dell’acqua (cf. Or. 992) e delle carni femminili (cf. Ba. 665, Or. 961)3. Sono immagini e tonalità in linea con la sensibilità cromatica del popolo greco, molto diversa dalla nostra. Infatti, mentre oggi si percepiscono i colori in termini di contiguità e complementarietà, nel mondo greco si partì dall’opposizione polare tra bianco e nero per inserirvi progressivamente il rosso, il giallo, l’arancio, il verde e il blu4; si arrivò, dunque, solo per gradi ai quadri dell’ultima poesia euripidea. Qui pochi aggettivi sono semplicemente esornativi e pochi i dettagli scenici non funzionali al dramma; difatti concorrono tutti a creare un luogo che non fa semplicemente da sfondo, ma che ha una specifica funzione drammatica5

1. Cf. H.R. FAIRCLOUGH, The Attitude of the Greek Tragedians toward Nature, Toronto 1897, pp. 40-41, che nota come rispetto a Eschilo e Sofocle siano più numerosi in Euripide i termini e le gamme di colore. Cf. W. KRANZ, Stasimon, Berlin 1933, pp. 242 ss. per la ricchezza cromatica degli  delle tarde odi corali euripidee.

2. BARLOW 1971, pp. 14-15.

3. DI BENEDETTO 1971, pp. 259-60.

4. CHRISTOL 2002, pp. 29-44.

5. BARLOW 1971, p. 73. DI BENEDETTO 1971, p. 259 considera la ricerca dell’immagine bella, di cui «i colori diventano parte essenziale», un elemento caratteristico dell’ultimo Euripide,

Uno dei casi più macroscopici e meglio studiati è nello Ione, dramma tardo6 di innegabile ricchezza cromatica. Si apre così la monodia del protagonista (Ion 82 ss.).

Il sole che sorge, personificato alla guida di una lucente quadriga, è immagine presente nelle Fenicie dove, però, è una semplice indicazione temporale: nel momento in cui Cadmo entrava per la prima volta a Tebe era mattino7. La stessa immagine è, invece, fortemente contestualizzata nello Ione, in un passo marcato dalle note dell’oro. Si insiste, infatti, sui termini di luce accomunati da una medesima radice (

)8 e rinfor-

assente nelle tragedie anteriori al 415 a.C.: anche in queste «si possono individuare delle immagini ‘belle’, dai contorni ben definiti; ma esse sono cariche di una funzione espressiva, che di regola è assente nelle tragedie più recenti».

6. Per la datazione dell’opera cf. OWEN 1957, pp. 36-41 che accoglie le considerazioni storiche di Grégoire (PARMENTIER – GRÉGOIRE 1923, pp. 162 n. 5, 167-68) ma le corregge sulla base di valutazioni metriche, quali le soluzioni del trimetro, e sceniche, l’embrionale presenza del terzo attore, proponendo, dunque, il 418-17. Entrambi rifiutano, per ragioni metriche e per l’atteggiamento euripideo verso l’oracolo delfico, il 411 di Zielinski (cf. M.TH. ZIELINSKI, Tragodumenon. Libri Tres, II, De Trimetri Euripidei Evolutione, Kracow 1925). Gli studi più recenti propendono per il 413-10 (PELLEGRINO 2004, pp. 28-29). Per un’accurata bibliografia sull’argomento si veda LESKY 1996, p. 637 n. 279.

7. Cf. Ph. 1-3

Helios (31.716), il dio è un maestoso auriga che, in un luminoso splendore, guida un carro dal giogo dorato (cf. Aristoph. Nub. 571

8. La stessa insistenza luministica era già in Eschilo (Sept. 393 ss.) e nella lirica (cf. la n. 40) e compare altrove in Euripide cf. IA 156-59

/

‘l’aurora splendente biancheggia’. , infatti, ha valore luministico, rafforzato da ’(). Questo tipo di immagini istruisce sulla sensibilità greca per il colore, inizialmente colpita da luminosità e oscurità; solo con il fissarsi di un referente concreto, l’attenzione si sarebbe spostata alla tonalità. Ciascun termine di colore, quindi, racchiuderebbe in sé, in diacronia e in sincronia, sfumature eterogenee legate alla sfera emotiva, alla luce, alla velocità e al movimento (D’AVINO 1958, pp. 99-134; RAINA 2003, pp. 25-27). Così per ‘bianco’ il greco ha tre parole: , ,  delle quali solo la terza può indicare propriamente il ‘bianco’ e, in quanto tale, colore opposto al nero, oltre che significare ‘splendente’ (cf. IA 156 ss.) ed essere riferito a oggetti gialli (cf. Plato Resp. 474e detto di capelli biondi). In , invece, è difficile separare i significati di ‘bianco’ e ‘svelto’ (in Omero  è l’epiteto dei cani ed è più probabile che significasse ‘dai piedi veloci’ piuttosto che ‘dai piedi bianchì’), mentre in  si con-

66
...     ϑ        ϕ  ’ ϑ  ϑ’   ’  ϕ      
... 

...
[       /    ] / ,     ... Già nell’inno omerico a
ss.  ’ ,  - /    /  ,    /    ).
... 
   ’ 
    
/

Il senso del colore in Euripide tra tradizione e innovazione 67

zati dall’immagine delle stelle messe in fuga verso la Notte. Più avanti i gorghi della fonte Castalia sono  (Ion 95 cf. IA 752), i vasi da cui Ione versa l’acqua  (Ion 146, 434), i tetti e i cornicioni del tempio  (Ion 157)9

Ma una nota nuova compare a conclusione della monodia: alcuni uccelli cercano di insediarsi nei cornicioni del tempio ( Ion 156 ss.) e un cigno dalle zampe ϕ 

( Ion 162) avanza verso gli altari10. Alla loro vista il giovane è combattuto tra un sentimento di simpatia e una sensazione di paura, le stesse emozioni che lo animeranno all’arrivo di Creusa e Xuto11 La tinta rossastra turba, dunque, l’atmosfera di dorato splendore. Inoltre, al v. 1207 la colomba che muore salvando la vita a Ione, dopo aver bevuto la libagione avvelenata che gli era destinata, è  L’epiteto attira l’attenzione sull’uccello morente concentrandola su un ultimo visivo dettaglio12. I due uccelli sono, dunque, accomunati dalla tonalità ma, mentre il cigno è scacciato da Ione dall’altare, la colomba è artefice della sua salvezza13

‘Spots’ rossi a parte, il mondo del giovane ha una marca cromatica precisa nell’oro, emblema di un mondo sicuro senza preoccupazioni, il cui sfarzo rimanda alla sfera di Apollo; il prezioso metallo, infatti, sarà il Leitmotiv del banchetto in onore del giovane14. Significativamente questo discorso interessa anche altre parti del dramma.

Più avanti, infatti, la monodia di Creusa, complementare a quella di Ione, rievoca lo stupro subito da fanciulla ed è ancora dominata dai toni dell’oro (Ion 887-92).

fondono sfumature di colore e di suono (cf. Hom.  152 detto del canto della cicala e Ν 850 dove è attributo della pelle). Per  = , riferito all’acqua, cf. Hom.  44-5, Eur. Andr. 1228, HF 573. PLATNAUER 1921, pp. 153-62.

9. THORBURN 2000, pp. 45-46 sostiene che ad apertura del dramma Euripide associ le tinte dell’oro a Ione per sollevarne la figura dal livello comico della scena, dove è intento a spazzare e pulire il tempio.

10. Masqueray scrive: «les deux pattes ... forment une tache lumineuse sur le duvet blanc du ventre» (OWEN 1957, p. 80). Per ARNOTT 1996, pp. 115-16 ϕ ϕ sarebbe un epiteto esornativo senza precisione scientifica, visto che i cigni hanno notoriamente zampe nere.

11. BARLOW 1971, p. 48.

12. Lo stesso accorgimento ritorna per altre ‘conclusive’ note di colore cf. Med. 1164   (cf. p. 2), Or. 1457

, 1468

(cf. pp. 2 ss.).

13. DEJONG 1991, pp. 86-87. GIRAUD 1987, p. 84 sostiene che in realtà Ione sia salvato da un uccello figurato: alle parole di un convitato, infatti, il giovane comprenderebbe l’’auspicio’

e farebbe vuotare le coppe (Ion 1189-91). Ci sarebbe, quindi, un gioco tra

che significa pure 'uccello', e la colomba che compare poco dopo.

14. OWEN 1957, p. 146; PELLEGRINO 2004, p. 206. Cf. Ion 157

, 909

(dove la ‘dorata’ coda dell’Orsa Maggiore risalta sullo sfondo blu degli arazzi cf. Silva 1986, p. 35), 1165-66

ϕ 
 
  


 
 
 ...  
 ’   / , 1175-76  ’ / 
     /   
, 1154
(
), 1181-82

Nel passo le note sono ulteriormente contestualizzate. Infatti, al livello generale, in cui sono connesse alla divinità che presiede il mondo che fa da sfondo al dramma, si aggiunge, il legame tra lo splendore dei fiori di croco e i rituali di passaggio e iniziazione femminili, in contrasto con il violento abuso15 Euripide si muove, dunque, all’interno della tradizione ma legandola al contesto.  (Ion 887),  (Ion 888),  (Ion 889),  (Ion 890) si seguono difatti troppo marcatamente per non suggerire che l’uomo che usò violenza a Creusa fosse realmente Apollo e non un giovane malfattore dai capelli biondi16.

Nello Ione il legame tra note di colore e vicenda drammatica pare, dunque, evidente. Esso contribuisce a porre gli avvenimenti nella sfera apollinea; sfera che, tuttavia, può contestualizzarsi ulteriormente, come la monodia di Creusa dimostra17

Usi simili sono individuabili anche in altre opere euripidee.

Nelle Baccanti18 il verde, ovvia nota cromatica del rigoglio della natura, acquista maggiore evidenza visiva accanto al dio che la protegge. Già il prologo ne è istruttivo: sono verdi i tralci della vite che ammantano il sepolcro di

15. BARLOW 1971, p. 49; GIUMAN 2002, pp. 96-97. IRWIN 1984, pp. 147-68 considera i fiori di croco un simbolo di fertilità, sulla base dell’aspetto che ricorda l’utero. Sembra significativo, dunque, che il rapimento di Creusa, preludio allo stupro con cui abbandonerà lo stato verginale, avvenga mentre è intenta a coglierli. Inoltre, fanciulle e fiori sono spesso associati nella poesia greca. Un legame di facile comprensione: le fanciulle, infatti, sono giovani e attraenti come fiori (Irwin 1984, 151-52). Di un certo interesse le scene in cui giovani donne sono rapite mentre intente a coglierli, come se compissero «an unconsciously provocative act». Accanto a Creusa si schierano, tra le altre, Persefone (H. Hymn. 2.426-28), Europa (Moschus, Eur. 63-71) ed Elena (Eur. Hel. 242-48 cf. p. 2).

16. BARLOW 1971, p. 49. THORBURN 2000, p. 40 commenta: «Euripides, by having Creusa call attention to the radiance of the god, the flowers, and her dress, seems to ameliorate Apollo’s actions and thus confuses the audience ability to determine with certainty whether Apollo is ‘noble’ or ‘base’. Furthermore, this golden imagery undercuts Creusa’s stature as a tragic figure».

17. BARLOW 1971, p. 47 confronta le due monodie, individuando nelle note dorate di quella di Ione un segno della presenza del dio nel suo mondo, del suo idealismo e della sua vulnerabile innocenza.

18. Per la composizione macedone e la rappresentazione postuma cf. DODDS 19602, pp. 39 ss.; GRÉGOIRE 1961, pp. 11-14.

68
ϑ     ’     ϕ  †ϑ†   ’ ϕ         ’  ϑ  

Il senso del colore in Euripide tra tradizione e innovazione 69

Semele (Ba. 12 

) e gli abeti sotto cui vivono le figlie di Cadmo (Ba. 38

). Il tratto non sorprende, essendo la natura luogo privilegiato dei riti del dio.

I toni del verde compaiono accanto al bianco nella parodo (Ba.

). L’associazione è interessante perché anche il bianco è nota direttamente o indirettamente riferita a Dioniso. Le baccanti hanno, infatti, 

() (Ba. 863-64) e

(Ba. 665)19 e celebrano i riti del dio in un Citerone imbiancato da

(Ba. 662); anche il cerbiatto, con 

(Ba. 112), è animale spesso associato agli adepti bacchici. Lo stesso incarnato di Dioniso, poi, è bianco in Ba. 457 . La nota ha, però, qui significato in parte differente. Il bianco, infatti, era tradizionalmente riferito alle carni femminili (cf. Hom.  414 =  240,  573 =  316,  101, 186, 251, Aristoph. Eccl. 64, 387, Plato Phaedr 239c, Men. Sic. 399, Luc. Anach. 25), in accordo con gli usi e i costumi del popolo greco; una donna perbene, infatti, doveva stare in casa, non esposta agli sguardi altrui e, quindi, ai raggi del sole20. Riferito agli uomini, questo candore divenne ovvio simbolo di effeminatezza (cf. Aristoph. Eq. 1279, Ps. Aristot. Physiognomica 804a.34, 808b.4-5) e in questa accezione è connesso a Dioniso in Ba. 457: Penteo vede nella candida pelle del dio la prova della sua dissolutezza. Apparentemente, però, la tragedia presenta un’incongruenza: al v. 438, infatti, il soldato aveva affermato che, al momento della cattura, il prigioniero non impallidì, continuando ad avere 

21. La nota, rife-

19. Il candore della pelle, però, è generalmente e tipicamente caratteristica femminile (cf. infra). 20. Hanno invece pelle scura le supplici eschilee, in arrivo dall’Egitto, un paese dalle abitudini diverse dalla Grecia (cf. Hdt. 2.35 dove, a prova di questo, si legge che ‘presso di loro le donne vanno al mercato e commerciano, mentre gli uomini restano a casa e tessono’). In Aesch. Suppl. 154-55 «by a ‘characteristically Aeschylean’ idiom (THOMSON on Ag. 597, q. v.) two epithets [scil  ] are employed to convey a single idea, the darkness of the Danaids’ complexion»; si crea così un legame ideale con l’avo Epafo (cf. Aesch. PV 851) e le oscure divinità infere (JOHANSEN – WHITTLE 1980, II, pp. 127-28); «as they are ‘black’ themselves, they will appeal to the black Zeus, - just as a maiden prays to Artemis,

- trusting in their dark complexion as a bond of sympathy» (HEADLAM 1902, p. 52). Scenicamente è possibile che il Coro delle Supplici fosse abbigliato con abiti scuri e che la pelle visibile fosse tinta di scuro (JOHANSEN – WHITTLE 1980, II, p. 128). Lo scuro incarnato egizio era del resto proverbiale (cf. Hdt. 2.57.2, 2.104.2); anche l’equipaggio della nave con cui le supplici giungono in Grecia ha la pelle scura (Suppl. 719-20 con contrasto, attivo altrove in Eschilo, cf. Pers. 301, Ag. 115, con le bianche vesti indossate). La documentazione ceramica è, però, molto varia; così sull’idria Busiris alcuni egizi, incluso Busiride, non hanno pelle scura a differenza di Eracle (JOHANSEN – WHITTLE 1980, II, p. 128; per l’incarnato scuro in quanto simbolo di virilità cf. n. 75).

21. Questo è quanto sembra indicare la lezione, 

del Bothe accolta dal Diggle [scil

, dei manoscritti. «La correzione

] non tiene conto del fatto che la frase non è A + B + C, ma A + (B + C)» DI BENEDETTO 2004, p. 346.

 ’ 

107-13    /   /  ϑ  /    /  ’  / ϕ   /  ...) e nella prima strofe del terzo stasimo (Ba. 862-67 ’    / ϑ   / ’   / ’   ’, /    -
  

 
 


/
 
 
,
’ 

 
’   

,

rita al dio in Soph. OT 211 (

)22, normalmente descrive un incarnato giovanile (cf. Eur. Ph. 32, 1160, Cr. fr. 472e.13-15 Kn e si veda la n. 75); essa, dunque, è in linea con la generale evoluzione della divinità23 e, attribuita al dio dell’ebbrezza, acquista una caratura particolare. Del resto, la medesima tonalità era stata riferita a Dioniso da Penteo in un altro luogo del dramma; in Ba. 235-36 si legge

Al di là del biondo dei capelli, nota che ben si addice allo splendore divino, ciò che qui caratterizza Dioniso è il color vinaccia. Il termine ha suscitato un vivace dibattito tra filologi, non concordi sulla lezione da accettare a fronte dell’ ’ di L e dell’ ’ di P. Scaliger propone , Barnes, invece,  stampato da Diggle e attributo di   (Ba. 234). Il termine indicherebbe così un rosso scuro, vermiglio notato da uno dei soldati artefici della cattura in quanto proprio dell’incarnato del dio (cf. Ba. 438). Correggendo, invece, in , attributo di , il fascino del dio è nei suoi occhi non rossi, ma brillanti, cioè «où brille un éclat comparable à celui du vin»24 (cf. Ba. 261  ... ).

L’inconciliabilità tra i passi mi sembra in realtà solo apparente; la differenza risiederebbe nel fatto che parlino due personaggi diversi: Penteo (Ba. 457) e uno dei soldati incaricati di catturare lo straniero (Ba. 438). Non sembra, del resto, creare difficoltà il fatto che lo stesso Penteo possa averne qualificato le

22. In Sofocle Dioniso risplende d’oro e di luce, conferendogli la dignità di rappresentare «l’ordre divin invoqué autour de la figure de Zeus» (BOLLACK 1990, II, pp. 132 ss.). Porta, infatti, una fascia dorata (OT 209 ), esattamente come risplende la figlia di Zeus (OT 187    ) e sono dorate le corde dell’arco di Apollo (OT 203204  ). Infine, a conclusione dello stasimo, avanza 'ardendo con la splendida face' (OT 213-15 ’ /  - breve - / ). LONGO 1989, p. 113; BOLLACK 1990, II, pp. 130-32.

23. In epoca arcaica e nella prima età classica, Dioniso era un dio barbuto che incuteva rispetto, ma verso la fine del V sec. diviene un affascinante giovane sbarbato, con i primi segni della caratteristica effeminatezza (JEANMAIRE 1951; PADUANO – GRILLI 1996, p. 57). Già in H. Hymn. 7.3 ss. appariva come un giovane efebo ma dalle ‘spalle robuste’ e i capelli neri esattamente come Zeus, Poseidone e Ade (cf. Hom.  528-30,  563, H. Hymn. 2.347). I capo è biondo già in Hes. Th. 947, come qualsiasi divinità agile e giovane (cf. Zefiro Alc. fr. 327.3; Eros Anacr. fr. 358.2, Eur. IA 548 ; Imeneo PA 16.177.3; Leto H. Hymn. 3.205; Artemide Eur. Ph. 191

). Altro illustre precedente è in Eschilo (fr. 61 Sn. parodiato da Aristofane in Th. 134 ss.) che lo chiama, appunto,  E il Dioniso eschileo e il Dioniso euripideo dovevano essere imberbi come nell’iconografia di fine V sec. (cf. J.R. GISLER et al., Lexicon Iconographicum Mythologiae Classicae, III. I, Zürich 1986, figs. 189, 334, 372 e PICKARD – CAMBRIDGE 19883, f. 49). Nulla suggerisce che lo fosse anche il Dioniso di Aristofane, che pure ha evidenti caratteristiche femminili (DOVER 1993, pp. 39-40; AUSTIN – OLSON 2004, p. 100).

24. LACROIX 1976, p. 159.

70
  
...      


Il senso del colore in Euripide tra tradizione e innovazione 71

guance come purpuree (Ba. 236). Al momento, infatti, il sovrano si limitava a riportare quanto gli era stato riferito; appare, anzi, significativo che la nota coincida con la più ‘oggettiva’ descrizione del soldato. Penteo, infatti, ha una curiosità morbosa per i riti delle menadi e vede nello straniero un torbido pericolo per la città; così, nel momento in cui finalmente lo incontra vis à vis, vede ciò che vuol vedere e di cui è maniacalmente convinto, un incarnato chiaro, simbolo di effeminatezza e dissolutezza negli uomini.

I passi, dunque, sembrano offrire ancora un esempio di come Euripide si serva di immagini tradizionali contestualmente al messaggio drammatico. Infatti, e il candore dell’incarnato dionisiaco e un suo colorito purpureo appartengono, si è visto, all’iconografia del dio. Le due note, però, a distanza di pochi vv. (Ba. 438

e 457

) creano un’apparente incongruenza, apparentemente funzionale all’espressione della 'mania' di Penteo. Sulla stessa linea, il candore della bellezza femminile si trasforma in splendore riferito ai magnifici corpi di Era, Afrodite e Atena al bagno (cf. Andr. 285-86

).

Cronologicamente vicina allo Ione è l’Ifigenia taurica25. La prima sezione, anteriore al riconoscimento (IT 669 ss.), accoglie non poche immagini sanguinarie, in buona parte di ambito sacrificale26. Sembra suggestivo, dunque, che anche esse concorrano a persuadere il pubblico dell’inevitabilità del sacrificio di Oreste e Pilade27

Un pastore racconta a Ifigenia di aver visto uno degli stranieri appena sbarcati (si tratta di Oreste ma l’identità non è ancora svelata alla sacerdotessa e ai Tauri) in preda a un attacco di follia provocato dalle Furie; egli credeva ‘con queste azioni di allontanare le Erinni, così che la distesa del mare si tingeva di rosso’ (IT 299-300).

La metafora, a inizio del dramma, crea l’impressione visiva di una grande macchia di sangue che si diffonde da sotto le onde, come se un fiore rosso

25. PLATNAUER 1938, p. XVI: «Professor Murray would date the play 414-412 B.C., placing it before the Helen and perhaps before the Electra. If we commit ourselves to a definite year perhaps 413 B.C. is the most likely». Pensa agli stessi anni GRÉGOIRE 1925, p. 106; diversamente PERROTTA 1928, pp. 5-53 sostiene che nulla ne dimostri l’anteriorità rispetto all’Elena

26. Cf.

27. L’introduzione di falsi indizi rientra tra le strategie compositive euripidee, affinché il pubblico si crei delle aspettative poi deluse (WINNINGTON – INGRAM 1969, pp. 127-42; ARNOTT 1973, pp. 54 ss.).

 

 
... ’    
IT 225 ss. †  /  ’  †, 258-59 [...     /   ], 300 ’    , 370-71 ...    /     , 405-6 ...   /   , 442 ss. ... ’  - /    /  ... 644-45     /   .

sbocciasse improvvisamente; un simbolo dell’ignoto pericolo che incombe e che accresce l’atmosfera di incertezza e di precario equilibrio28. La nota ha chiaro valore metaforico: si tratta, infatti, del rosso del sangue e la scelta dell’aggettivo, , non lascia spazio a dubbi. I termini in - e (-), infatti, esprimono la qualità dell’essere di colore rosso e forniscono un contributo visivo (cf. Or. 1285

, Tr. 440-41

), quasi pleonastico, a espressioni del tipo

(cf. HF 1184

)29. La nota rievoca il mare purpureo di omerica memoria (cf.  391

), parte dell’immaginario poetico greco (cf. Alc. 45.2 V

In realtà, all’origine

sembra non avesse valore cromatico, descrivendo l’iridescenza e l’apparente mescolanza di luce e ombra di una superficie in cambiamento, quale quella del mare30. Con questa accezione si trova anche in Euripide (cf. Hipp. 737-38

, 743-44

, Tr. 124

) che in IT 299-300 sembrerebbe averne rielaborato forma e significato, con uno spostamento verso le tonalità del sangue.

L’ipotesi acquista interesse per il ruolo del mare nella vicenda: confine fisico che separa la terra dei Tauri dal resto del mondo e anche forza che controlla la vita dei suoi abitanti31. La primissime parole del Coro gli si riferiscono (IT 123-24 ’,  / 

/   ) ed è esso l’origine della nostalgia e della disperazione dei Greci che sbarcano in questa terra e vi abitano. È nero in IT 107 ( ... ), in accordo con un’altra immagine epica; in Omero, infatti,  è il mare che si infrange sulla riva ( 693) o che è agitato dal vento in tempesta ( 6364 cf. Aristot. Pr. 23.23). Allo stesso modo, in Eur. IT 107 è ‘nero’ il mare che ‘bagna con il suo flusso’ la grotta. L’uso euripideo coincide, quindi, con quello omerico ma, come il ‘mare di sangue’ di IT 300, potrebbe acquisire una nota negativa, particolarmente congeniale alla tonalità. Questo discorso va contestualizzato all’interno di un dramma dove per Pilade e Oreste il mare rappresenta il mezzo attraverso cui giungere in questa terra inospitale (IT 392 ss.)

28. KYRIAKOU 2006, pp. 125-26.

29. DELG s.v. , ; WILLINK 1989, p. 242.

30. IRWIN 1974, p. 18. Si è tentato di ricondurre i due significati di , cromatico e non, a due diverse etimologie. 'Rosso' rimanderebbe a  e 'splendente/luminoso' a  (DELG s.v.  e ). Il valore coloristico, divenuto predominante solo molto tardi, sarebbe stato determinato nel VI sec. dalla confusione tra l’aggettivo e  (RAINA 2003, p. 27 n. 5; cf. P.A. PEROTTI, «A proposito dell’aggettivo », Prometheus 10, 1984, pp. 205-209). Questa spiegazione è rifiutata da DÜRBECK (Zur Charakteristik der griechischen Farbbenzeichnungen, Bonn 1977, pp. 129-30) che considera quantomeno difficile da dimostrare che  sia più antico di . Egli propone di intendere  come voce onomatopeica con il significato di «bubbling, surging broth», riferita come nome al murex da cui si estraeva la porpora; da questa sarebbe derivato  «to surge, to heave» (SCHRIER 1979, p. 318 n. 35). Per la percezione greca della nota e dei suoi simbolismi, con riguardo alle  legatele, cf. SOVERINI 2003, pp. 71-78.

31. BARLOW 1971, p. 26; KYRIAKOU 2006, p. 84.

72
 
    /   
 
  
 

 

’ 
).
ϕ ... 
 ϕ




 
 

Il senso del colore in Euripide tra tradizione e innovazione 73

per adempiere l’ordine divino (di Apollo) di portar via dal tempio la statua di Artemide Taurica, quindi di compiere un sacrilegio. Allo stesso tempo esso, con le pericolose correnti, è ciò che ostacola e ostacolerà la fuga; in concreto, dunque, un nemico32

Il rosso del sangue ha un ruolo di primo piano nell’Eracle33. Il dorato splendore che dovrebbe caratterizzare la vita dell’eroe, terminate le leggendarie fatiche, si carica invece di tinte mortali, uniche e preminenti nel finale della tragedia.

Tra le parti corali, il primo stasimo presenta una concentrazione di colori assente altrove nel dramma; esso è un grande quadro dai dettagli minuziosi, in cui la violenza delle fatiche lascia spazio alle vivaci tinte della pittura34; questo sin dai primi vv. con Apollo che suona

(HF 350) con 

(HF 351), un quadro di dorata lucentezza adatto a un dio35. Anche la cintura donata da Ares a Ippolita risplende, (HF 413-14 

†) e dorati sono i pomi del giardino delle Esperidi: ...

... (HF 395-96). Per poterli cogliere Eracle dovette uccidere il 

(HF 397) che, in pittorico contrasto con i frutti dorati, circondava l’albero (HF 398-99). La stessa associazione di colori,  ...

, apriva poco sopra i rispettivi cola (HF 361-63)36; similmente, i due

32. Maxwell – Stuart riferiscono considerazioni simili alle donne del Coro, per le quali il mare è un ostacolo ma anche una via di fuga, per poi notare come nel dramma esso non sia qualificato da  associato, invece, all’ulivo, simbolo di Atene (IT 1101 

). «, therefore, although here applied to the olive represents the sea to the inward eye of the would-be fugitive women and – at a further emotional remove – blueeyed Athene herself, the former being the means of escape and the latter the goal» (MAXWELL – STUART 1981, I, pp. 131-32).

33. Cf. HF 233-34

. La percentuale di soluzioni nel trimetro, insieme all’uso del tetrametro trocaico in HF 855-74 e all’associazione di docmi, giambi e metra prosodiaci nella seconda parte del dramma, fanno propendere per una datazione prossima alle Troiane (415): 416 e 414 sono entrambi possibili (BOND 1981, p. XXXI).

34. SILVA 1986, pp. 80-81.

35. Per l’oro, nota caratteristica del mondo apollineo cf. p. 2 ss. In HF 351, tuttavia, esso non sembra avere le stesse connotazioni, denotando un generico splendore divino (cf. HF 41314). Oltre che nello splendore e nella bellezza il suo fascino risiedeva nella consapevolezza che si trattasse di uno dei possedimenti di maggior valore; dunque, gli epiteti dorati che da Pindaro in poi caratterizzano il mondo degli dei (composti in - tornano spesso in Pindaro dove l’aggettivo

compare circa cinquanta volte), non troverebbero necessariamente origine nelle decorazioni delle statue dell’epoca. Semplicemente poeti e scultori ornavano le divinità nella maniera migliore possibile e l’oro sembrava la più appropriata. LORIMER 1936, pp. 14-33; VAN DER WEIDEN 1991, p. 101.

36.

e

costituiscono una scomoda, ma possibile, combinazione aggettivale, scissa dal verbo principale. Wilamowitz ritiene il primo dativo di

‘fiaccola’; il termine sarebbe, dunque, un

con soluzione in

. A questa interpretazione Diggle preferisce

come congettura per

. BOND 1981, p. 155.

, con

riferito a

  

 † /  
   - /    


       / ’  ... , 573     ϑ, 933  ’    , 94445 ...    /   ..., 1184 ...   

 ’  /  ’  /    



  



  

aggettivi isometrici che qualificano la cerva ‘dalle corna d’oro’ (HF 375  che compare solo qui cf. Pind. Ol. 3.52  dove è evocato questo mito)37 e ‘dal dorso screziato’ (HF 376 ), chiudono i propri. All’intreccio di tonalità che attraversa l’intero stasimo, si aggiungono le note del sangue:  sono le frecce con cui Eracle uccise i Centauri (HF 364-67) e  le mangiatoie dei cavalli di Diomede (HF 382-83) che si cibano di   (HF 384), con aggettivo che compare solo qui e in Eur. IT 1374.

L’oro della ricchezza e il rosso del sangue tingono un altro dramma, di poco successivo, l’Elettra38, comparendo in coppia in alcuni passi39 ma caratterizzando generalmente ora l’una ora l’altra sezione, senza differenze tra parti dialogate e cantate. Sembra, anzi, si possa dedurre uno studiato ordine di comparsa: all’iniziale splendore passato seguono le screziature del sangue della vendetta.

Nel primo stasimo, nella dorata ed epica descrizione delle armi di Achille (El 444

), cui è dedicata un’intera coppia strofica40, si inseri-

37. Le corna d’oro di un animale mitico sono motivo frequente nella poesia greca, che rimanda alla doratura delle corna delle vittime sacrificali, corrente dall’epoca micenea sino al IV sec. (cf. Aeschin. 3.164). La pratica, testimoniata in Hom.  294 =  384 (

) e

425-26 (

), consisteva nel picchiettare con dell’oro foglie di piccole dimensioni poi applicate intorno alle corna (cf. ). Il poeta dell’Odissea sembra, tuttavia, non avere una conoscenza reale del processo; rappresenta, infatti, l’artigiano (probabilmente uno schiavo, visto il modo con cui è mandato a chiamare cf.  425-26), mentre applica le foglie con un martello pesante ( 432-38), strumento per la lavorazione ad altissime temperature del ferro (l’oro, invece, si lavorava a freddo e con un martello leggero); la scena, dunque, dovette colpire a tal punto la sua immaginazione da inserirla in un contesto a essa estraneo. LEAF 1900, I, p. 446; GRAY 1954, pp. 1 ss. esp. 4, 12 ss.; WEST 1981, pp. 312-13; KIRK 1993, III, p. 184.

38. Il 413, a lungo accettato come datazione (PARMENTIER – GRÉGOIRE 1925, p. 189; DENNISTON 1939, pp. XXXIII-XXXIV), è ora rifiutato sulla base delle statistiche metriche che inducono a collocare il dramma prima della trilogia troiana (DI BENEDETTO 1971, p. 209 n. 57), tra il 422 e il 417, più probabile il 420/19 (CROPP 1988, pp. L-LI; cf. BASTA DONZELLI 1978, pp. 27-71 che propende per una retrodatazione rispetto al 413, «a patto che non si sforzi eccessivamente» l’utilizzazione delle indicazioni metriche). DIGGLE 1981, p. 58 propone gli anni tra il 422 e il 416.

39. Cf. El. 315 ss. ...

Nelle decorazioni degli scudi le costellazioni appaiono insieme alla luna in Hom.  484-89 e in Aesch. Sept 387-90.

74
 
      
 ’      / ,     
 ’   /  ’,  ’  , /     /   ’     /   ..., 464 ss.       /   /    /  ’  , / , , † / †  /     /     /  ... //  ’     , /  ’  ’   40. Cf. El. 464-72 ...       /   /    /  ’  , / , , † / †  /     /     / 
 ’  ’ ’  , ’ ’   

Il senso del colore in Euripide tra tradizione e innovazione 75

sce improvvisamente la lancia (o spada)  (El 476), visivamente macchiata di sangue41; si abbandonano, quindi, gli splendidi toni dei vv. precedenti per passare a una nuova e isolata nota42. Altrettanto estraneo al contesto è il colore della decorazione: cavalli nella furia della corsa sollevano ‘nera

La luna sullo scudo di Tideo è piena (Sept. 390) e non crescente, come usuale in decorazioni di questo tipo, per marcarne la preminenza sugli altri astri come Tideo svetta sugli altri guerrieri (HUTCHINSON 1985, p. 109). Il nucleo centrale è, dunque, nella lucentezza, cf.

ad apertura e chiusura di verso, già riferiti alla luna in Hes. Th. 19 (=371) e Sapph. fr. 96 V (NOVELLI 2005, p. 216). La panoplia eschilea richiama la sala d’armi di Alceo (fr. 140 V).

Anche se l’unico aggettivo precipuamente cromatico è , il passo ha spiccata impronta visiva.  compare due volte nel giro di pochi vv., rinforzato dall’abbagliante bronzo delle armi. , ad apertura di v. e in forte enjambement con , ha valore cromatico, anche se di difficile definizione; il termine si rifà infatti a un referente concreto, il , difficilmente descrivibile (cf. , . D’AVINO 1958, pp. 99-134, osserva come la maggior parte dei termini di colore sia costruita su radici a valore luministico; il significato cromatico sarebbe giunto in un secondo momento con l’associazione a un referente concreto, di cui, però, non siamo sempre in grado di definire la tonalità). Nella panoplia eschilea (Sept. 397 ss.) la lucentezza della sala è amplificata dalla luna che eccelle sugli altri astri nella notte

(cf. Hom.  22, 801,  664 dove qualifica la casa, i guerrieri e le armi sfavillanti di bronzo), con immagine saffica, di originario contesto erotico. Rispetto ad Alceo, in Eschilo lo splendore delle armi perde la funzione propagandistica, connotandosi come terroristica dimostrazione di forza (BONANNO 1976, pp. 1-11; DEGANI – BURZACCHINI 1977, pp. 214 ss.; CAVALLINI 1986, pp. 146-50; NOVELLI 2005, p. 216). Si veda anche lo scudo di Partenopeo in Aesch. Sept. 541 ss. e per un motivo analogo la decorazione della tenda dove si svolgono i festeggiamenti di Xutho in Eur. Ion 1146-48 (CROPP, 1988, pp. 132).

41. Di un certo interesse, ammesso che il testo non sia corrotto (L e P hanno), la decorazione di una lancia, di difficile esecuzione. Bothe interpreta  'nella battaglia' come se proseguisse la descrizione della corazza sul lato opposto. L’uso di  (cf. El. 464, 476) ed  (cf. El. 470) nel passo lascia immaginare sia descritta la decorazione di un’arma. Musgrave propone  ’ , Hartung  ’  (cf. BASTA DONZELLI, 1995, 20022), più facili da accettare per la documentazione micenea di spade con impugnatura in avorio e corno decorata (cf. BUCHHOLZ 1980, pp. 238 ss.). Inoltre, l’espressione sarebbe di facile corruzione, da un’alterazione dell’ordine in   ; a questo punto il passaggio da  al  non fa difficoltà (DENNISTON 1939, p. 108).

42. Il procedimento è analogo a quello di Ion 156 ss. (cf. p. 2 ss.) dove un cigno dalle zampe

ϕϕ (Ion 162) turba, con la nota rossastra, l’atmosfera di dorato splendore del passo.

     ,  ,  , 
’(),  e 
    ,  ’     ,       ,          , ...


polvere’ (El. 477)43. Il tono si è ormai invertito, preparando il terreno al sanguinario finale, dove la riflessione sulla morte di Agamennone si macchia di sangue nel preannuncio della bramata fine di Clitemestra (El. 485-86 ... ’

). Il canto corale, un 'dithyrambic stasimon', si presenta, dunque, come un gioco di contrasti tra la trionfale partenza della spedizione troiana, con le monumentali descrizioni ricche di dettagli pittorici, e il destino di morte del suo capo al rientro44. Il brusco cambiamento nei colori svelerebbe, allora, il drammatico conflitto tra realtà presente e passata, tra speranze di ieri e di oggi45 Nel costruire questi contrasti Euripide ha conferito nuova profondità a immagini di tradizione epica e iconografica, attraverso un dettato epico ricco di composti nuovi per formazione e collocazione, grazie a iperbati ed elaborate iuncturae aggettivo-sostantivo46. Così, oro e gioielli appartengono al passato di Elettra (El. 175 ss., 315 ss.), non solo in quanto tradizionale simbolo di sontuosità ma anche perché immagini della vita matrimoniale e sessuale che le è stata negata47

Le tonalità, si è visto, sono le stesse dell’Eracle e il messaggio (la precarietà di una vita dorata che può essere facilmente distrutta dalla vendetta, divina o umana che sia) molto simile; tuttavia, nel dramma precedente l’accostamento sembra più meditato intrecciandosi in maniera continua e compresente, con un’ambiguità assente nell’Elettra. Qui solo in un secondo momento l’oro, simbolo del mondo da cui la protagonista è stata cacciata e che spera di riconquistare ‘legittimamente’ con l’assassinio della madre, sarà definitivamente contaminato e il dramma assumerà le tinte della vendetta, del sangue e della distruzione.

Come nell’Eracle e nell’Elettra, anche nelle Troiane (415) la ricchezza cromatica degli stasimi è intimamente legata all’uso delle stesse note nel resto della tragedia.

Immagini epiche e linguaggio estremamente descrittivo caratterizzano il pri-

43. Murray riferisce  a (): neri sarebbero, dunque, i cavalli (cf. Hom.  224, Plato Phaedr. 253e). Tuttavia  con - lungo, riferito a , evoca epici campi di battaglia (cf. Hom.  151-52) particolarmente congeniali a questo tipo di scene (DENNISTON 1939, pp. 108-109; CROPP 1988, p. 133).

44. CROPP 1988, pp. 128-29.

45. Qualcosa di simile sembra tornare nel finale. Elettra invita Clitemestra in casa, ma la avverte:

(El. 1140). Il riferimento immediato è alla povertà della dimora, ma risuona una certa ironia. L’annerimento delle vesti potrebbe preannunciare il destino di morte della madre, colpevole dell’assassinio dello sposo fra le cui ricchezze continua a vivere cf. El. 315 ss.

/

... L’immagine di Elettra, costretta a tessere da sola i propri abiti (El. 307-8), si oppone alle schiave bottino di guerra di Agamennone, ancora alle dipendenze di Clitemestra: persino esse vivono nella dorata luminosità di un mondo ormai preclusole (cf. El. 190-92). A ben vedere, però, è uno splendore solo apparente: ‘nel palazzo si è imputridito il nero sangue’ del sovrano.

46. CROPP 1988, p. 127.

47. DENNISTON 1939, pp. 70-71.

76
    /    
 ’    
...  ’   /  ’,  ’  , /     / .  ’    
 

Il senso del colore in Euripide tra tradizione e innovazione 77

mo stasimo, rievocazione dell’ultima notte di Troia48. La scena è ricca di colori e suoni; su tutto si erge maestoso il ‘cavallo bardato d’oro’ (Tr. 520  ) con cui ebbe inizio la  ...  (Tr. 530). Esso fu introdotto tra le mura ‘come lo   di una nave’ (Tr. 538-39); nella similitudine il dorato bagliore lascia il posto all’oscurità. Luce e tenebre si fondono e l’ambiguo splendore dell’oro è esplicitato: ...  /   

† (Tr. 547 ss.); l’ossimoro

'cupo bagliore' è quanto mai espressivo49. I colori finiscono col fondersi ai suoni50, esattamente come la ricchezza cromatica della parodo dell’Elena sarà spezzata dalle grida della protagonista, introducendo come campo semantico predominante quello uditivo (cf. p. 30); così, alla fusione di luce e tenebre, ‘si diffuse attraverso la città’   (Tr. 555-56). Su questa nota si apre l’epodo, con il condensato racconto della violenza greca (Tr. 558-67), in contrasto con l’immagine di apertura: gli Achei che, in una tipica immagine eroica, lasciavano alle porte di Troia il cavallo  (Tr. 520). Il termine, molto comune e di derivazione lirica51, trova in Euripide nuove implicazioni; lo splendore del cavallo, infatti, si oppone enfaticamente alla distruzione di cui è all’origine. Questo tratto accomuna altre note dorate del dramma, ambigue nell’inevitabile splendore estetico52. Così, Elena ha tra le mani  ...  (Tr. 1107), mentre le donne troiane sono mandate in Grecia come schiave (Tr. 11051108); lei che causò la distruzione di Troia perdendo la testa per Paride che brillava, appunto, d’oro53. In maniera analoga, il secondo stasimo descrive lo splendore in cui vivono tra gli dei due figli di Laomedonte, Ganimede54 e

48. Cf. DI BENEDETTO 1971, pp. 243-46 che nota l’incontestabile precisione calligrafica e «il succedersi di una serie di ‘quadri’ ognuno dei quali è in se stesso completo e autonomo» (p. 244). Il cavallo  (Tr. 520) alle porte della città, il suo ingresso come il ‘nero scafo di una nave’ (Tr. 538-39) e i festeggiamenti notturni costituirebbero, infatti, una sequenza lenta e articolata a scapito dell’effetto patetico; così, la ricerca del chiaroscuro rilevabile nel complesso gioco formale non suscita il pathos che questo tipo di antitesi provoca in opere precedenti (cf. Hec. 905 ss.). «Che si tratti di una vicenda luttuosa per Troia è detto ... ma – lo stile lo dimostra – non è né sentito né rappresentato. La narrazione lirica diventa fine a se stessa. La lingua è sforzata in nessi rarissimi che vanno al di là della comprensione e l’aggettivazione è straordinariamente ricca... Significativo è in particolare il fenomeno di una specie di autogerminazione dell’immagine, che dimostra come il poeta accarezzi con l’immaginazione ciò che racconta e indugi nella descrizione senza curarsi troppo di spingere il discorso in avanti...».

49. SILVA 1986, p. 48: «A linguagem poética assume, através do oxímoron, a ambiguidade desta felicidade derradeira, em que o brilho da festa, presente am

,

, se mistura de uma mancha negra,

, denunciadora da falsidade subjacente à superfície radiosa».

50. Cf. Tr. 544 ss.

51. BARLOW 1986, p. 203.

52. Ibidem, pp. 198-201.

53. Tr. 991-92

54. Tr. 820


  
† 
 
/
/
 
 

    /   ,  ’ /     /  ’  ’() ...
    /     
ss.   

Tithono55. Le sfumate descrizioni contrastano con la feroce distruzione della loro patria, divenendo espressione di un’articolata ricerca chiaroscurale in cui termini positivi e negativi si alternano56. Il risultato è un complesso gioco di contrapposizioni tra Greci e Troiani (cf. Tr. 814 ss. con l’evocazione delle splendenti Salamina e Atene) ma anche tra i Troiani stessi: la serenità di Ganimede e Tithono, infatti, non è scalfita dagli atroci eventi.

L’oro è simbolo di regalità per Andromaca ed Ermione, le acerrime nemiche che si fronteggiano nell’Andromaca57. I loro ingressi si richiamano l’un l’altro; così esordisce, infatti, la prigioniera di guerra (Andr. 1-3).

E con queste parole fa ingresso la legittima sposa e sovrana (Andr. 147-49).

, ...

Per Andromaca, come per Elettra (cf. p. 14), lo splendore della ricchezza appartiene al passato (cf. Andr. 6 

), ma quanto a statura regale non sembra essere stata defraudata. All’insegna dello splendore e del fasto, invece, è l’entrata di Ermione: il  ...

che le orna il capo (Andr. 147) richiama nell’immagine e nella forma la 

della schiava troiana (Andr. 2). L’opposizione è evidente: per Andromaca è simbolo della felicità passata, per Ermione della ricchezza presente, impossibile sostenere che anche per lei potere e felicità coincidano. Ancora, il 

di Ermione insieme al

(cf. Eur. Alc.

) viene dalla sua terra natale: sono regali di nozze del padre Menelao (Andr. 148-53). La sposa ci tiene a precisarlo e la ricchezza attuale diviene ‘ambivalente’. È, in-

55. Tr. 848



56. BARLOW 1986, p. 203. Cf. n. 48.

57. Sulla base di considerazioni metriche, stilistiche (cf. A. Garzya, «Intorno all’Andromaca di Euripide», Giorn. it. di fil. 5, 1952, pp. 346-66) e tematiche, Stevens conclude: «On the whole, then, a date about 425 is highly probable, but in the absence of any conclusive evidence, there remains a margin of doubt» (STEVENS 1971, p. 15). Propone una data tra il 427 e il 425 MÉRIDIER 19603, pp. 100-106.

78
  ,  ,  ’         ...
  ϕ                  ’ ’ ϕ



 
   
  

216
     
ss.

Il senso del colore in Euripide tra tradizione e innovazione 79

fatti, presente in quanto indossata ed esibita hic et nunc, ma è anche la sontuosità del passato che continua nel presente, lo splendore che Andromaca vagheggia con nostalgia. Nella ‘gara’ che la regina instaura con la schiava, essa pensa di superarla soprattutto grazie a questa continuità. La sua ricchezza proviene dal padre che accorre a sostenerla, mentre nessuno dei parenti di Andromaca è in vita, ma la solidarietà familiare, una presenza/assenza nella solitudine della troiana, è in realtà assente in Ermione. La sposa ne coglie, infatti, solo gli aspetti esteriori, per far pesare alla nemica la sua condizione di schiava e prigioniera in terra straniera; solo abbandonando i pensieri felici del passato e gettandosi alle sue ginocchia (Andr. 164-65), potrà tenere tra le mani coppe d’oro, 

, ma per aspergere i pavimenti della sua dimora (Andr. 166-67): ‘qui infatti non c’è Ettore, né Priamo e il suo oro, ma una città greca’ (Andr. 168-69). Andromaca non si piega ed Ermione esce di scena lanciando minacce (Andr. 261-68). Lo stesso accadrà di fronte al sovrano di Sparta, anzi tutta la loro ricchezza e grandezza saranno annullate dalla prefigurazione di un’Ermione vittoriosa ma sconfitta. Come riuscirà allora Menelao a preservarla dalla vendetta di Neottolemo? La riaccoglierà in casa? Ma chi vorrà prenderla in moglie? ... 

... (Andr. 347-48). Del dorato splendore di cui la sposa si fa vanto, non rimarrà niente: la sua nemica ne evoca una scolorita e triste immagine futura. Lo stesso disperato destino sarà per lei immaginato, se pur con toni ben diversi, dalla madre Elena nell’omonimo dramma (cf. Hel. 283

); qui, però, pur in una nota patetica, la grigia chioma sarà piuttosto un tradizionale simbolo di vecchiaia (cf. Andr. 613

)58. Nell’Andromaca, invece, il grigiore dell’età matura sembra caricarsi di un’opacità ancora più forte, che contrasta con lo splendore di cui la stessa Ermione si era circondata. Scene cromaticamente ricche, come gli stasimi di Elettra, Eracle e Troiane, si avvicinano per varietà e cura ai coloristici quadri di drammi più tardi, di cui si parlerà più avanti. Esse hanno, però, con il resto della tragedia rapporti stretti e precise corrispondenze, come già nella Medea (431). In linea con lo status lirico, infatti, note di colore compaiono anche nei canti corali delle tragedie più antiche. Nel quarto stasimo, a strage ormai in atto, il Coro rievoca, nelle linee essenziali, la storia della protagonista (Med. 1251-60):

58. Nel mondo greco e romano il colore della vecchiaia è il grigio. «Il vecchio, infatti, è grigio non tanto per il fatto fisiologico dell’imbiancarsi dei suoi capelli, ma perché non ha più lo splendore della giovinezza.  è 'colui che appare anziano' e il mitico Pelope è il vecchio per eccellenza, e simbolo della vecchiaia è la canizie. - infatti è una radice che ricompare e nel nome del mitico vegliardo e nelle parole  bianco grigiastro, e , vecchio, 'canus' in latino». (CAGIANO DE AZEVEDO 1954, p. 158). Sebbene  si trovi più frequentemente, la vecchiaia è pure 'bianca' (cf. Eur. Hec. 500, Ph. 321-22, Suppl. 289, Soph. Ai. 625); una distinzione, possibile, sarebbe tutta accademica, apparentemente non avvertita dai poeti greci (BERGSON 1956, p. 134).


   /   
  
 ’    
’

Medea è uscita di scena solo ora che gli eventi stanno precipitando e le donne del Coro invocano la Terra e il ‘fulgido raggio del Sole’ (Med. 1251-52) perché desista dall’empio crimine. La ‘mano cruenta’  () si sta ormai abbattendo (Med. 1253-54); la ‘sanguinaria Erinni’  ...

(Med. 1260)59 non starà lontana dall’’aurea stirpe’

 (Med. 1255). Le tinte del passo sono solo due, ma il numero, ridotto se confrontato con la ricchezza di altre sezioni liriche euripidee (cf. IT 1244-48 e Hel. 17983, 1501-1502 per le quali si veda più avanti), non ne sminuisce la forza visiva. Il rosso del sangue si alterna allo splendore della luce (Med. 1251 , 1253 , 1255 , 1260

), senza trascurare la visività dell’appello alla 'luce divina' di Med. 1258   . Ancora,  è la mano di Medea che sta per abbattersi sui figli (Med. 1253) e  è l’Erinni insediatasi dentro la casa (Med. 1260). A suggello del passo la nota del sangue, immagine di un crimine che nemmeno gli dei possono scongiurare.

I discorsi degli angheloi riservano un’attenzione miniaturistica ai dettagli,

59. Le Erinni rappresentano una parziale eccezione tra le divinità infernali tradizionalmente associate a tonalità oscure (cf. CAGIANO DE AZEVEDO 1954, pp. 156-57: «in genere si può affermare che presso gli antichi, i Greci in specie, era privo di colore, o bianco, o pallido, ciò che era fuori della vita o ai margini di essa, egocentricamente sentita. Così la morte e l’oltretomba erano oscure o prive di colore»). A esse, infatti, è riferita anche una nota rossastra, per nulla sorprendente in quanto del colore del sangue (cf. Eur. Med. 1260 

, Andr. 978

), loro particolarmente congeniale. Tra i passi in cui sono nere (cf. Aesch. Sept. 699-700, 977, 988, Eum. 52, Eur. Or. 321 e 408, El. 1345), un’attenzione particolare va a Aesch. Sept. 699-700 dove è loro riferito il composto . Pausania (2.35.1) parla di un tempio a Ermione dedicato a un 

 di cui resta forse traccia in alcune monete. L’epiclesi divina era nota anche ad Atene dove sembra che il ‘Dioniso dalla pelle nera’ avesse un ruolo centrale nelle locali Apatouria (MUSTI – TORELLI 1986, p. 330). Una tale caratterizzazione, tuttavia, è insolita persino per questo dio e l’attribuzione dell’epiteto alle Erinni non può essere casuale. D’altra parte, non sembra ci sia nel mondo greco alcun legame evidente tra queste divinità; la rappresentazione di un’Erinni che porta su un braccio una pelle di leopardo in alcune raffigurazioni etrusche, infatti, deriva probabilmente della demonologia di questo popolo (BEAZLEY 1947, p. 152).

80
      , ’    ,     ’       ,  ’     ’ .  ,   ,   ’    ’  †’ †.




...
 

Il senso del colore in Euripide tra tradizione e innovazione 81

note di colore incluse60. I tragici, infatti, ne arricchivano le parole perché, in quanto testimoni oculari, dovevano riportare gli avvenimenti con precisione, riferendo pure dettagli secondari, così da apparire degni di fede agli occhi di chi a quegli avvenimenti non avesse assistito61. Una tale precisione calligrafica non è, però, in Euripide semplicemente esornativa; contestualizzata, infatti, contribuisce significativamente all’espressione del messaggio drammatico, senza sfociare mai nel lirismo62

Un caso particolare come la monodia del frigio nell’Oreste (408) non si comporta diversamente e questo nonostante le diverse peculiarità; per prima, quella di pezzo lirico affidato a uno schiavo e non, come solitamente accade, a personaggi importanti e preferibilmente femminili63. La natura lirica è di importanza significativa in questo discorso; nonostante essa, infatti, si vedrà come i colori non sfocino nel ‘lirismo’.

Le prime note cromatiche appartengono alla descrizione di Elena, intenta a tessere, con una 

(Or. 1431)64, 

 (Or. 1436), secondo l’usanza di offrire doni ai morti (cf. Thuc. 3.58.4). Il rosso delle vesti (cf. Or. 840 

detto proprio delle vesti di Clitemestra) arricchisce lo splendore della scena e si carica ulteriormente accanto a Elena, simbolo di bellezza e lussuria65. Rosse sono pure le vesti di Oreste e Pilade ormai intenti a tendere la propria trappola;   (Or. 1457), infatti, indicherebbe dei pepli ornati di porpora (cf. Hec. 543 

per una spada con ornamento d’oro), ma resta possibile che l’aggettivo sia stato coniato su forme omeriche quali  ( 677 cf. Ion 212

)66. La nota contri-

60. Cf. LEAL SOARES 2007 che al riguardo tra i «recursos estilísticos ... que reiteradamente el poeta pone al servicio de la vivacidad del discurso y de la implicación de los autores de la enunciación en lo narrado» (p. 124) colloca le «isotopías sensitivas, referidas a la visión y a la audición», principale veicolo per la creazione di forti stati emotivi nei destinatari del discorso (pp. 128 ss.). Così nella descrizione di scenari bellici, colori dominanti sono quelli delle armi (cf. Suppl. 698, Ph. 110 ss., 121, 129 ss., 168 ss., 1242, 1246, IA 219), affiancati ricorrentemente alle più forti tinte del sangue (Suppl. 690, Ph. 174, 1149, 1152, 1161, 1184, 1415, 1471).

61. BERGSON 1956, p. 155 n. 1.

62. Ibidem, pp. 155 ss.

63. WEST 1987, p. 277.

64. L’integrazione è di West sulla linea di Hom.  131 (

) e sarebbe confortata dal

di Or. 1440, presente anche nel modello. Inoltre, privo di aggettivazione

sarebbe troppo essenziale e la metrica, un coriambo, insoddisfacente (WEST 1987, p. 277). Con l’integrazione di West si viene a costituire un dimetro anapestico che pone, tuttavia, altri problemi metrici, introducendo un’anomalia prosodica con  - con  lungo (DIGGLE 1994b, pp. 386-87; WILLINK 1989, p. 318 per il quale la sola congettura che valga la pena citare è ’ per  di H. WEIL, Sept Tragédies d’Euripide, Paris 1868, 18792, 19053).

65. WEST 1987, p. 280.

66. Cf. n. 116. DI BENEDETTO 1965, p. 271. I manoscritti hanno   conservato da PALEY (Euripides, III, Londoni 1860 18802), WEIL (Sept Tragédies...) e Chapoutier (CHAPOUTIER – MÉRIDIER 1959), ma  è di difficile interpretazione: riferirlo a  «è impossibile, anche tenuto conto dell’artificiosa collocazione delle parole che spesso contraddistingue questa monodia» (DI BENEDETTO 1965, p. 270). Triclinio corregge in - e RADERMACHER

, 


 

’   ’   



buisce a conferire concretezza visiva alla scena, nel momento in cui i due aspiranti assassini, spade alla mano, avanzano contro Elena che solleva il ‘bianco avambraccio’ (Or. 1466) al petto e poi alla testa67. La donna si volta per fuggire e l’attenzione cade, come altrove in Euripide, su un ultimo visivo dettaglio, 

(Or. 1468 cf. IA 1042), il calzare dorato portato dal piede in fuga68. Il servo frigio concentra in pochissimi vv. diversi e significativi particolari cromatici, rendendo Elena visivamente presente al pubblico, in tutta la sua fisicità. È contro questa, contro la sua gola che Oreste avvicina la ‘nera spada’

(Or. 1472)69; l’immagine di morte conclude una sequenza, ed enfaticamente un verso, in cui le note cromatiche hanno contribuito a dare concretezza a Elena che ambiguamente ‘si dissolve’. Attraverso le parole del frigio, Euripide ha creato una situazione confusa: si dice che Elena è scomparsa, il pubblico crede sia morta e forse la ricchezza dei dettagli è funzionale anche alla creazione di questa ambiguità, perché è una donna concreta con 

(Or. 1468) a trovarsi con un 

(Or. 1466) e

(Or. 1472) alla gola e scomparire70.

Pur non negando l’esistenza di passi in cui le note di colore hanno carattere meramente tradizionale e nulla aggiungono al significato del testo71, si sono voluti offrire degli esempi dello stretto legame tra esse e contesti d’uso.

(«Uber eine Scene des euripideischen Orestes», Rh. Mus. 57, 1902, pp. 278-84 esp. 279) in -  è variazione poetica del più usuale  (cf. Crates com. fr. 35 K – A). WEST 1987, p. 281.

67. Cf. Eur. Ph. 135    

con 'ridondante' e lirica perifrasi per   ; per l’enallage si veda BERS 1974, pp. 68-69. , attestato altrove solo in Eur. Ba. 1206-1207, è ricercata variazione per . Il primo elemento rimanda alla sfera della femminilità (cf. p. 2), mentre il secondo ripete il significato del referente (cf. Eur. Ba. 112  ). DODDS 19602, pp. 81 e 226; MASTRONARDE 1994, p. 527.

68. Per questo procedimento si veda a p. 2.

69. KLOTZ (Euripidis Orestes, Gothae et Erfordiae 1859) spiega l’aggettivo: «ad nudum ferrum ensis, quod propter nigri aeris colorem  dicitur, quum vagina esset auro ornatum». Esso, però, potrebbe essere influenzato da espressioni quali   e   (cf. Eur. Ph. 950); la spada sarebbe nera perché letale come l’iperbato enfatizzerebbe (DI BENEDETTO 1965, p. 225).

70. Cf. ARNOTT 1973, pp. 58-59: «The audience had been cheated into believing that Euripides, in his apparent intention of killing Helen off, was rejecting the more familiar versions of the myth, which apotheosized Helen instead of giving her a merely human end. Here the red herrings not only make the story more exciting, they also enable the poet to delay his climax and to make the solution more surprising of a very unconventional plot».

71. Un esempio per tutti è nei passi in cui il capo di uomini e donne è indifferentemente ‘biondo’ (cf. Med. 980, 1141, Hipp. 133, 220, 1343, El. 515, 1071, HF 233, 362, 993, IT 174 sebbene il capo di Oreste sia biondo come i capelli che in sogno Ifigenia vede cadere da una colonna della dimora paterna, cf. IT 50-52, la notazione è troppo generica per essere un potenziale segnale di riconoscimento; Hel. 382, Ph. 1159, IA 175, 681). In Omero e nei tragici, principi e fanciulle sono biondi, nota che in Euripide si estende a tutti i giovani. PICKARD – CAMBRIDGE 19883, p. 192: «a hero or heroine who was regarded as beautiful or admirable wore fair hair; such were Phaedra, Iphigenia, and Helena; Hippolytus and in some plays Orestes, in contrast with the wicked Polineikes, but that the  was not necessarily everyone’s ideal may be inferred from Pasiphae imaginary handsome man» (cf.

82
 


  


 

Il senso del colore in Euripide tra tradizione e innovazione 83

Al riguardo si può forse riconoscere nella lirica un illustre precedente. Nell’ultima strofe del Teseo di Bacchilide (18.46 ss.), Egeo descrive agli ateniesi il giovane che, a detta di un araldo, avanza verso Atene sterminando i mostri che infestano la strada da Corinto all’Istmo. Teseo avanza sicuro di sé in una ‘nube’ rossa. Il capo è  (v. 51), cioè di un rosso dorato (cf. Theocr. Id. 8.3)72, indossa un 

(v. 52) e gli occhi brillano di 'rossa fiamma'  , con la forza dirompente di un vulcano di Lemno (v. 54 ss.);  (v. 52) e  (v. 56), rispettivamente a chiusura e ad apertura di verso, si richiamano l’un l’altro. Tutto nella descrizione esprime forza e impetuosità così che le tonalità del fuoco si concentrano in pochi vv., secondo un procedimento che ritornerà in Euripide, sino all’eclatante caso dello Ione

L’impressione generale, valida per l’intera produzione, è che Euripide si sia servito delle tradizionali note di colore dotandole spesso di un valore nuovo, oltre la colorazione. Non è raro, infatti, che più colori siano accostati a creare quadri di grande efficacia visiva, cui può non essere estraneo un legame con la scena.

Le bianche vesti del passato si oppongono, così, alle nere del lutto in un’immagine concreta del contrasto tra felicità e sofferenza73, mentre ritorna con frequenza la coppia bianco-rosso, spesso parte di scene di morte prematura e violenta. È il caso di Creusa per la quale l’ultimo dettaglio su cui è attirata l’attenzione, prima che i veleni facciano effetto, è il ‘candido piede’ (Med. 1164  )74; poi la scena si macchia del sangue che le fugge dal corpo (Med. 1175  ’   ).

Le note sono efficacemente accostate nella descrizione del sacrificio della giovane figlia di Agamennone in IA 875 



. L’accostamento, anche se visivamente forte, è apparentemente ovvio e scontato; il bianco, infatti, è tonalità notoriamente associata

Eur. Cr. fr. 472e.13-15 Kn). Il solo uomo euripideo con chioma scura è Polinice (Ph. 308  ...

cf. Thebaïs 2.1

). Per una rassegna delle occorrenze di  cf. A.E. KOBER, The Use of Color Terms in Greek Poets, Geneva – New York 1932, pp. 55-58 e per la sua frequenza nell’epica e nella lirica arcaica, con riguardo a novità e punti di contatto, EGOSCOZÁBAL 2005, pp. 39-44.

72. / per i capelli è novità della lirica rispetto a Omero che privilegia , tuttavia ancora preferito (cf. n. precedente). In poesia  è usato dopo Solone (22a.1  ) da Senofane nella descrizione dei Traci e in composto da Bacchilide (FERRINI 1979, p. 175).

73. Cf. Alc. 923

, Hel.

, Ph. 322-26

) in cui le scure vesti appaiono forse ancora più tetre perché doppiamente accostate al bianco, degli abiti di cui hanno preso il posto, immagine di un passato felice, e dei capelli di Giocasta, la madre avanti negli anni che porta il lutto dei figli. Si discosta, invece, dall’opposizione bianco/nero, Ph. 1485-91

delle vivaci tinte della giovinezza.

74. Per questo procedimento si veda supra pp. 2, 2.


  



    
    , 1186-87   
     
     / ’     - /  ’,  , /    - / ,    ’ - / ,     dove il
è espresso
no
1088
(
lutto
dall’abbando-

alle carni femminili (cf. p. 5). Euripide, però, non rinuncia a servirsene per la morte di Mirtilo, cui ovviamente non poteva essere riferito75. La nota allora è inserita nel paesaggio che fa da sfondo alla morte (Or. 991 ss.)76, mentre il rosso è in  (Or. 992), in pittorico contrasto con il bianco delle onde (Or. 993 )77.

È verosimile che la coppia fosse ritenuta particolarmente adatta a connotare giovani morti violente. La troviamo, infatti, nell’Antigone sofoclea per il suicidio di Emone: la ‘candida guancia’ (Ant. 1239  ) di Antigone è macchiata dall’’improvviso fiotto di sangue’ (Ant. 1238-39

) del giovane lanciatosi sulla spada. Le due note occupano da sole il v. 1239, in un efficace contrasto che marca l’assurdo destino di morte della coppia78

Al riguardo, potrebbe avere una certa importanza il fatto che la coppia oro/ giallo-rosso, attribuita a scene di morte violenta, non sembri avere rapporti con l’età delle vittime. Si va, infatti, dalla giovane Polissena, il cui collo ornato d’oro si macchia di sangue al momento del sacrificio79, ai biondi capelli del meno giovane Lyco che il vecchio Anfitrione vorrebbe insanguinare80, da Edipo che, pur non uccidendosi, macchia di sangue gli occhi accecandosi con dorati spilloni81, al giovane Partenopeo il cui biondo capo si macchia di

75. L’incarnato maschile si qualifica di norma in maniera diametralmente opposta al femminile. La spiegazione, al di là della ‘naturale’ antinomia tra i sessi, risiede nei costumi greci: mentre la vita di una donna si svolgeva prevalentemente tra le mura domestiche, un uomo aveva la libertà di vivere all’aperto. Il nero riferito alla pelle (cf. Aristoph. Th. 31, Plato Resp. 474e), come ó (cf. Eur. Rh. 122, Soph. Ai. 222), non va, dunque, interpretato alla lettera ma in quanto simbolo di virilità (TAILLARDAT 1962, pp. 155 ss.; IRWIN 1974, p. 129; PADUANO 1974, p. 85; EDGEWORTH 1983, pp. 31-40 esp. 35-36; BONANNO 1989, pp. 51-53; HENDERSON 19912, p. 211. Si veda anche la n. 20). La separazione dei sessi era, del resto, successiva alla prima adolescenza (DOVER 1985, p. 80), tant’è che i giovani hanno colori molto simili. Partenopeo ha

perché ancora imberbe (Ph. 1160), come l’amante ideale descritto da Pasifae (Cr. fr. 472e.15 Kn); la nota ricorda il verginale rossore di Antigone (Ph. 1486-88

) e Ifigenia (IA

Dioniso delle Baccanti

77. Entrambe le note sono parte di uno scenario naturale in HF 573

Anche

) dove il rosso del sangue macchia la ‘bianca [nel senso di ‘splendente’] corrente di Dirce’

78. GRIFFITH 1999, p. 339.

79. Hec. 149-52

80. HF 233-34

Il biondo della capigliatura enfatizza la non avanzata età di Lyco in contrasto con la sua codardia; dal lato opposto, risalta il valore di Anfitrione ormai avanti negli anni (BOND 1981, p. 124).

81. Ph. 61-62

. Già Sofocle aveva indicato

(OT 1268-69) l’arma dello scempio, lasciando però spazio alle tinte del sangue solo in un secondo momento (OT 1276 ss.). In Euripide, invece, esse circondano e macchiano il dorato splendore degli spilloni che, a dispetto della lucentezza, sono innanzitutto arma dello scempio. Una costruzi-

84
    
 
’     - /  ’,  
187-88  ’  /  ).
ha   (v. 438), in linea con l’evoluzione della
76. ...   /    , /    /   /  
il
divinità (cf. p. 2).
    ϑ
(
...   ’  /   ϕ /    ϕ /   
       / ’ 
...
 ’     /    
 
nelle

Il senso del colore in Euripide tra tradizione e innovazione 85 sangue82. Le due note si presentano perlopiù nel medesimo ordine: prima il tradizionale splendore dei capelli o dell’oro, poi la nota del sangue a macchiarlo. Visivamente l’accostamento ha la stessa forza della coppia biancorosso, sviluppandosi anch’esso su un piano contrastivo; la violenza della morte permane, senza apparentemente soggetti preferiti in base al sesso o all’età83

Che la coppia bianco - rosso fosse avvertita come particolarmente efficace a connotare il pathos di alcune scene, lo testimonia l’associazione con certe manifestazioni ‘violente’ di lutto. All’ovvia notazione delle vesti in quanto nere (cf. Alc. 216, 427, 819, Ph. 372, Or. 456), talvolta opposte, come visto, alle bianche del passato, si affianca un altro tipo di lutto tipicamente femminile: il gesto di lacerarsi con le unghie le carni; qui la coppia bianco (delle carni)rosso (del sangue) crea ancora una volta una scena dai forti contorni visivi84 Alcuni passi esaminati appartengono agli stasimi, luoghi privilegiati dello sperimentalismo euripideo. In linea col loro status, infatti, non è raro imbattersi in pezzi ricchi di colori, la cui natura e funzione sembra conoscere dei cambiamenti.

Partiamo da un dramma tardo, l’Ifigenia in Aulide85, di cui è stato notata la

one analoga nella struttura si individua per il secondo stasimo dell’Oreste (Or. 807-43).

Qui è dorato l’agnello origine della drammatica concatenazione di eventi di cui il matricidio e la follia di Oreste sono solo l’ultimo atto (Or. 812   ) e dorate sono le vesti di Clitemestra (Or. 839  ) equiparata a una 'vittima' sgozzata (Or. 842); la parte centrale dell’ode, invece, è marcata dalle cupe tinte della spada (Or. 821   cf. Hom.  713

, Hes. Sc. 221  , Aesch. Sept. 43

...

, Eur. Ph. 1091

, fr. 373.2 Kn

Ph. 1159-61

), reale referente cromatico del passo.

... Il pathos della scena è accresciuto dall’allusione alla bellezza virginale del giovane, che ne sottolinea la durezza e la crudeltà della morte (DEJONG 1991, pp. 78, 82 n. 57).

83. Le due tonalità sono accostate anche in Aesch. Ch. 612 ss.

due colori sono associati a referenti diversi: Scilla, la

(cf. Ch

in cui si oscilla tra il valore cromatico e quello di 'colpevole'), e le collane

, strumento in Eschilo (cf. Paus. 1.19.5, Ps. Apollod. 3. 15.8, Nonn. D. 25.161, Prop. 4.19.21) della corruzione della fanciulla artefice della morte paterna.

84. ZUNTZ 1965, p. 66: «In this imagery the visual impact of white skin and nails strained with blood forms one of the recurrent motifs which the poet variegates». Cf. Suppl. 76-77 

anche da Ecuba che piange i

. Qui l’immagine varia leggermente, come già per il lutto di Giocasta (cf. n. 73): al sangue della guancia lacerata si affianca il canuto capo della donna, madre anche lei, a sottolinearne l’età avanzata. Infine, entrambe le manifestazioni del lutto con le loro tonalità sono presenti in Hel. 1088-89

85. Sulla rappresentazione postuma nel 405 e la composizione macedone cf. JOUAN 1983, pp. 8-9.


 

 
82.
      /  ,  ’  



/
 ’  ’   , /  , / ’   ’  ,  /  - /  ,  
 
  

. I
   /   
374-75    , Or. 961-62    . Il gesto è compiuto
figli
652-56  ’      /       , /    
     /  ’    ††.
, Hel.
cf. Hec.

forte concentrazione di colori nelle parti liriche, accentuata dalla caratteristica ricchezza stilistica86: cf. IA 217-26.

Le note sono espresse da composti:

è neologismo in enallage con

87;

è hapax, come  mentre  è congettura del Monk (cf. Bacch. 18.51  e Sol. fr. 22a W.1 ) rispetto al tradizionale -88. I cavalli guidati da Eumelo appaiono al lettore in tutta la loro visiva concretezza89, con i morsi dorati, il ‘pelo maculato di bianco’ e il ‘manto rosso’, infine racchiusi e rafforzati da , in cui

- indica la maestria con cui sono combinati colori diversi90.

Altro passo lirico ricco di colori è nel secondo stasimo ai vv. 751-61.

Oggetto del canto è il mito troiano, anche se l’azione tragica è precedente alla partenza greca per Troia; per questo l’uso del futuro è frequente. Il Coro

86. STOCKERT 1992, II, pp. 254.

87. Tyrwhitt propone, invece, -, accolto da Diggle.

88. STOCKERT 1992, II, pp. 254 ss.

89. SILVA 1986, pp. 52 legge il colorismo del passo alla luce della ricerca cromatica della pittura dell’epoca.

90. FERRINI 1979, pp. 189-90 dove la considerazione è riferita al

di Anacr. 358.3 P.

86
...  ,        ,       ,  ’     , ,  ’   




...                     ,   ’       


Il senso del colore in Euripide tra tradizione e innovazione 87 racconta avvenimenti di cui ha sentito parlare (cf. IA 757 ) e questo dà loro validità91. Ed ecco l’esercito greco avvicinarsi al Simoenta e ai suoi ‘vortici d’argento’92; l’aggettivo, sottolineato dall’endiadi, raddoppia il contrasto tra l’ameno ambiente naturale, illuminato dai ‘vortici d’argento’, e l’esercito minaccioso93. Sul ‘suolo di Troia sacro a Febo’ vive Cassandra, colta nella manifestazione dell’estasi profetica mentre scuote i ‘riccioli biondi’ (cf. Eur. Ba. 150  

)94. Tra i biondi capel-

li una verde corona d’alloro (e l’immagine è di una precisione calligrafica), attributo dei sacerdoti d’Apollo (cf. Eur. Tr. 329 ss.). , inoltre, è hapax; i composti di -, infatti, sono molto rari (cf. Eur. Ph. 826  ...  in cui l’aggettivo è il solo composto di -)95. La stessa nota si trova nell’antistrofe del primo stasimo,  ’  

 (IA 1058), dove è incoronata la schiera di Centauri che si reca al banchetto divino per le nozze di Peleo. La stessa forma aggettivale ritorna, in enjambement, nella monodia di Ifigenia ai vv. 1296-97 

dove sembrerebbe priva di valore cromatico. Essa appare, infatti, poco adatta a denotare fiori e il raffronto con Hel. 244-45 (

) e Ba. 866-67 (

) permette di attribuirle il significato di 'fresco/umido'96. Inoltre, solo pochi vv. prima (IA 1294), nell’espressione omerica 

(cf.  282,  70), l’aggettivo non ha precisamente valore cromatico, significando non semplicemente 'chiaro', ma 'splendente'97. La nota delinea così un’immagine di splendore all’interno del locus amoenus in cui Paride è stato allevato; cosa che Ifigenia vorrebbe mai successa.

Altra opera tarda è l’Ifigenia taurica98; essa offre un esempio significativo dello sperimentalismo cromatico dell’ultimo Euripide (vv. 1245-49).

91. DI BENEDETTO 1971, p. 256. 92.

ricorda l’epico

(Hom.  130, Hes. Th. 340) e si trova pure in Eur. Ion 95 ss.

 (Stockert 1992, II, 420-21).

93. Ibidem, II, 420-21. Cf. H.W. NORDHEIDER, Chorlieder des Euripides in ihrer dramatischen Funktion, Frankfurt a. M., 1980.

94. STOCKERT 1992, II, p. 421. Sul carattere tradizionale del biondo capo si veda la n. 71.

95. DELG s.v. ; IRWIN 1974, pp. 31 ss.; STOCKERT 1992, II, p. 422; MASTRONARDE 1994, p. 389.

96. IRWIN 1974, p. 48.

97. STOCKERT 1992, II, p. 564.

98. Per la datazione dell’opera si veda la n. 25.

99. Si è preferito il testo stampato da Platnauer, a fronte di quello di Diggle per cui si veda la n. 102.

   

’   / 
   
    

...        ,   , †  †99.

 ... 
   

Il passo è tratto dal terzo stasimo in lode di Apollo. Il giovane dio giunge con la madre nei pressi di un oracolo ctonio, descritto attraverso un intricato gioco di luci e ombre. A colpire, più che l’insistenza sul dato cromatico, è proprio tale gioco, reso attraverso l’alternanza dei termini di colore100. Questi aprono la scena ancor prima che ne sia esplicitato il referente, probabilmente caratterizzato da due angolature differenti. Il dorso, infatti, sarebbe ‘costituzionalmente’  (riferito alla schiena di un animale sacro in Pind. Pyth. 4.249 e in Eur. HF 376 cf. n. 108) ma reso  dai giochi di luce e ombra101. I due aggettivi sono poi rafforzati dallo  

  di IT 1246102, mentre il loro referente è specificato dal    di IT 1247. Il gioco continua con  tra

ed

 , espressione cui non si può negare un certo valore cromatico, in quanto immagine del rigoglioso e frondoso alloro che si stacca dall’ombra dove il serpente si nasconde e dove filtrano i raggi del sole103. Il passo è di evidente derivazione pindarica104; la stessa terminologia era, infatti, in Pind. Pyth. 4.249.

100. BARLOW 1971, pp. 8-9. 101. KYRIAKOU 2006, pp. 397-98. È possibile che  si riferisca agli occhi dell’animale e, dunque, al bagliore letale dello sguardo (cf. Eur. Ion 1261-63 

/

). D’altra parte i composti in -, tipici del manierismo euripideo, si trovano spesso in luogo dei semplici aggettivi, in quanto composita abundantia (ne esistono casi anche in - e -) con secondo elemento desemantizzato nella sola funzione di suffisso (KYRIAKOU 2006, pp. 397-98).

102.  è lezione controversa (PLATNAUER 1938, pp. 163-64). Letteralmente l’aggettivo significa ‘coperto/lavorato in bronzo o rame’; le squame sarebbero, dunque, una sorta di corazza, quella di un guerriero che sta per essere sconfitto da un dio ancora bambino. Tale significato, tuttavia, mal si accorda con il dativo , un locativo (cf. N. WECKLEIN, Euripides: Iphigenie im Taurierlande, Munich 19043; H. STROHM, Euripides: Iphigenie im Taurerlande, Munich 1949, rpr. Darmstadt 1968; O. PANAGL, Die ‘dithyrambischen Stasima’ des Euripides, Vienna 1971) e dunque ‘sotto l’alloro’, o uno strumentale (cf. E.B. ENGLAND, The Iphigenia among the Tauri of Euripides, London 1886; E. BRUHN, Iphigenie auf Tauris, Berlin 18944; PARMENTIER – GRÉGOIRE 1925), a indicare il materiale da cui il  è coperto. Tuttavia, sembra discutibile il fatto che l’alloro faccia da corazza al , o che questi, il 'mostruoso prodigio', strisci e si nasconda sotto una pianta che, certo, non è l’albero maestoso che potrebbe proteggerlo. Un’altra strada è comunque possibile, legando  non a  'bronzo' ma a  il 'murex' da cui si estraeva la porpora. In questo caso l’aggettivo potrebbe significare ‘arrotolato/attorcigliato/ricurvo’, come appunto la forma del ‘murex’ (come suggerisce Verrall che propone  =  «i.e. coiled like the volutes of a shell»), o piuttosto 'dai riflessi ramati', quale è la porpora (Murray suppone che la nota rimandi non tanto alla superficie della conchiglia quanto alla tintura che ne è estratta. L’epiteto significherebbe, dunque, «purpled over, i.e. darkly shaded by the laurel»).  non è, però, attestato altrove, mentre  compare nella forma  in Nic. fr. 74.60; , allora, potrebbe essere correzione di scriba per , forma più ricercata rispetto al  di Nicandro. Accettando il legame tra

e

(e non

), si salvaguarderebbe il carattere prettamente visivo della scena, che, anzi, ne risulterebbe arricchita. Per una rassegna delle congetture per  si veda KYRIAKOU 2006, p. 398 che stampa il testo di Burges

103. KYRIAKOU 2006, p. 397. 104. BARLOW 1971, pp. 8-9.

, emendazione stampata anche da Diggle.

88

   , /   ’   
’   



 ’   

Il senso del colore in Euripide tra tradizione e innovazione 89

Gli ‘occhi azzurri’105 e la ‘pelle variegata’ sono «qualità stabili dei serpenti»106. Essi ritornano rispettivamente in Pind. Ol. 6.45 (

) e Pyth. 8.46 (  cf. Pyth. 10.46-47

  dove la testa della Gorgone è  perché ornata di serpi). Totalmente euripidea è, però, la disposizione degli epiteti che, si è detto, acquistano visività dall’opposizione reciproca107. Termini e motivi pindarici, infatti, sono impiegati secondo una nuova sensibilità per gli effetti di luce e di colore; laddove nel modello l’epiteto caratterizzava un singolo elemento isolandolo, in Euripide il quadro acquista coesione proprio dalla sintesi di ogni singola sfumatura108 Il gioco, in effetti, è troppo scoperto per non essere tacciato di virtuosismo e apparire puramente esornativo109. Ciò che è interessante, tuttavia, è che

105. , detto di un serpente, si riferirebbe alla membrana che ne ricopre talvolta l’occhio, apparentemente simile a quella della civetta, , da cui l’uso di  per agli occhi (cf. Corn. Theologiae Graecae Compendium 20). Pindaro se ne serve in quanto termine di colore o, meglio, “Glänzwort”, che esprime un’idea di contrasto piuttosto che una tonalità. La resa più soddisfacente per la nostra sensibilità è ‘grigio bluastro’, che, però, esprime più una sfumatura di colore che un contrasto (BRASWELL 1988, pp. 342-43; GENTILI 1995, p. 496). Per le associazioni con il pericolo che la nota, riferita agli occhi dei serpenti, può avere in Pindaro cf. MAXWELL – STUART 1981, I, pp. 127-30.

106. GENTILI 1995, pp. 496 e 639.

107. Questo tratto tipicamente euripideo permette un paragone con quanto noto della pittura di V sec., con i tentativi di resa prospettica () e luministica attraverso la giustapposizione di tonalità diverse. Nel concreto i pittori dell’epoca dovettero avvalersi di una più ampia scala cromatica, sotto forma di puntini e macchie, così da suggerire le sfumature dei colori al variare della luce (cf. Plin. NH 34.29). Di fatto, si dovette assistere a un cambiamento del gusto artistico, riccamente documentato nel ‘gusto fiorito’ della pittura vascolare: cura dei particolari e ricerca di effetti decorativi ne sono i tratti peculiari. Il parallelo tra lo stile euripideo e quello dei ceramografi contemporanei, dunque, pare evidente e proficuo: calligrafismo e preziosità dell’espressione sono tratti essenziali che accomunano queste nuove tendenze artistiche (per l’argomento si veda DI BENEDETTO 1971, pp. 264-67). XANTHAKIS – KARAMANOS 1980, pp. 78 ss.; SILVA 1986, p. 29.

108. BARLOW 1971, pp. 8-9. In più passi note di colore sono accostate a dare coesione alla scena: cf. Hec. 149-52 ...

dove lo splendore dei gioielli di Polissena (Hec. 151), emblema del passato regale, è annullato dalle mortali e fosche tinte del sangue; Hel.

per la ricchezza cromatica dello stasimo cf. p. 2 ss.; IA 217-26

     
...
  

  ’  /   ϕ /    ϕ /   
179 ss.  ’  /   ’   /   / †   / ’† /    e 1501-1502  ’ ’  /    /    per cui si veda il commento più avanti; HF 375-76    /  
 , /    /   /   , /     /   , /  ’   /   , / ,  ’   /  ... cf. p. 2; Ion 887-92  ϑ    /  ’   /   ϕ  / ϑ  cf. p. 2.

contrasto
540.7-9
109. Come il
di IT 1244-48, anche la Sfinge è descritta attraverso un
di luci, ombre e colori in Eur. Oed. fr.
Kn.

nell’Ifigenia taurica sembrano coesistere due anime coloristiche: una che anche con le note di colore guida il giudizio del pubblico sulle vicende (si è visto sopra come la prima sezione sia interamente dominata dalle note del sangue che scompaiono successivamente al riconoscimento) e un’altra che gioca con i colori, che è stata letta alla luce di una progressiva evoluzione verso la ‘poesia bella’ di epoca ellenistica110

Un passo esemplificativo di questo gusto tutto euripideo per i dettagli cromatici è nella parodo ameboica dell’Elena (412). La strofe è un grido di dolore e d’aiuto indirizzato alle

(Hel. 167-69) e a Persefone affinché mandi

, /

. Alla tetra atmosfera di questi vv. fa da contrappunto l’esordio dell’antistrofe (Hel. 179-83).

Dalla cupa visione dell’oltretomba si passa a un locus amoenus in cui le ‘azzurre acque’ e le ‘rosse vesti’ sulla ‘verde erba’ sono immerse nella luce dorata dei raggi del sole. Euripide si compiace di dettagli che amplificano la scena111:  denota solitamente l’acqua del mare (cf. Bacch. 13.124-25, Eur. IT 7, 1502, Xenarch. fr. 1.7 K in Aristot. De gen. Anim. 5.1.779b.33, Probl. 23.6) ma, talvolta, anche di sorgente o di fiume;   e  , infatti, non potrebbero riferirsi a uno  ; inoltre, le vesti non si lavano in mare: Nausicaa lava i propri panni al fiume per asciugarli

. Equivoco è lo stesso  riferibile a un prato (cf. Eur. IA 422, Ba. 735)

Il corpo, dal viso di donna (v. 5), alato (vv. 3, 6) e dalle gambe leonine (v. 2), è, almeno in parte, scintillante. Apparentemente a riposo, rimanda al sole, come si muove, i colori dell’arcobaleno: «its back dotted with dark-blue marks, its scales lit by a golden gleam, like a rainbow striking the clouds with a thousand different colors opposite the sun» (COLLARD 2004, II, pp. 124-25). L’interesse euripideo per questi contrasti, è stato, peraltro, oggetto della parodia aristofanea (Ran. 1331

e Tr. 549

110. DI BENEDETTO 1971, p. 241.

111. LOURENÇO 2002, p. 42.

cf. Eur. Hel. 518

90
 , /   

 
...  ’    ’     †   ’†   
 ’
             ,      .

  

 ).

Il senso del colore in Euripide tra tradizione e innovazione 91

quanto a pampini (cf. Eur. Ba. 12), cespugli e alberi (cf. Eur. Hipp. 1139)112 L’autore non ha, dunque, voluto fornire una precisa indicazione di luogo, ma piuttosto delineare un tipico scenario naturale113. In questo risuona ancora più forte il grido di Elena (Hel. 184-87), «che racchiude ... un rimando alla persecuzione sessuale da parte di Teoclimeno e quindi al nodo centrale del plot»114

Un interessante parallelo può essere istituito con l’esordio della parodo dell’Ippolito (428)115, dove una scena di serena vita comunitaria femminile è spezzata dalle notizie sull’improvvisa e imprevista follia di Fedra (Hipp. 125 ss.).

Il motivo è analogo alla parodo dell’Elena116; in ambedue i passi il sereno quadro idilliaco è spezzato da un evento doloroso: le notizie circa la salute di Fedra nell’Ippolito e il grido di Elena nell’omonimo dramma (Hel. 184-87).

Qui, però, è presente una violenza di toni inedita al primo: le grida si inseriscono, infatti, direttamente nel locus amoenus, mentre l’immagine di Fedra, con il corpo consunto e lievi veli a ombreggiarle il biondo capo, arriva dall’esterno non intaccando, se non marginalmente, la delicata quotidianità femminile a cui, peraltro, la passione nella sua violenza è estranea. Inoltre, il passo dell’Elena conosce una dovizia di dettagli sconosciuta al dramma più antico: Euripide indugia sui giochi di luce creando un quadretto dai tratti spiccatamente visivi, lontano dalla ‘povertà’ cromatica dell’antecedente dove,

112. KANNICHT 1969, II, pp. 71-72.

113. Ibidem, II, pp. 71-72.

114. FUSILLO 1997, pp. 62-63.

115. DALE 1967, p. 79.

116. In entrambi i casi non potrebbe escludersi che le vesti stese ad asciugare siano rosse perché appartenenti ai nobili padroni delle serve, ma in realtà non sembrano veicolare alcuna immagine regale (cf. Or. 1436, 1457 con probabile rimando all’origine spartana di Clitemestra, Oreste e Pilade; infatti, mantelli rossi erano tradizionalmente associati a Sparta per la quale costituivano l’uniforme militare standard cf. Arist. fr. 542 Rose, Xen. Ages. 2.7, Lac. 9.3). A colpire è, infatti, il rosso in quanto forte nota inserita all’interno dei due passi.

ϑ    ϕ ϕ ϕ    ϑ ’     ’ ϑ   ϕ ϑ ,          ϕ ϑ ϕ  ...

con brevi linee, era fissato un paesaggio colorato solo dai

ϕ117. Per di più, nell’Ippolito le note si allargano oltre la serena scena di vita alla fonte: ‘biondo’ è il capo di Fedra che ‘giace in casa sul letto’ (Hipp. 131-32). La nota, pienamente tradizionale118, non arricchisce visivamente il passo che, anzi, contrasta più nettamente con l’Elena. Qui le grida della fanciulla spezzano la visività della scena, con un nuovo campo semantico predominante, quello uditivo119.

Inoltre il prato fiorito, in quanto locus amoenus, è un topos nella letteratura greca, dove è spesso luogo di perpetrazione di una violenza ai danni di una fanciulla120: se n’è già visto un esempio in Creusa (cf. p. 4 ss.). Della ricchezza visiva di questa scena si è detto; qui si può notare come entrambe si rafforzino nel contrasto tra la loro cospicua bellezza e la brutalità del gesto di cui sono scenario. Mentre però nello Ione il topos si carica ulteriormente in rapporto alla nuance dell’opera, nell’Elena l’accostamento sembra volto essenzialmente alla creazione di un quadro dalle tinte forti in cui forse gioca un ruolo non secondario la collocazione nella parodo.

L’Elena offre altri esempi di questa sensibilità per il colore, le sue sfumature e cambiamenti. Si vedano i giochi di luce sull’acqua marina del terzo stasimo, descritti da nessun altro autore antico con altrettanta ricercatezza (Hel. 15011502) 121

Con profusione di colori, rafforzata dall’enallage, è rappresentato il moto del mare. Ciascun aggettivo rimanda a un suo aspetto:  è la brillante superficie dell’acqua in movimento122;

117. Cf. SILVA 1986, p. 67: «o homeoteleuto

richiama, invece, le oscure

 proporciona a força poética que suporta uma vigorosa pincelada cromática neste quadro».

118. Cf. n. 71. Biondo è anche il capo di Ippolito al v. 1343

, attributo di

, e

, attributo di

/

, formano un chiasmo che sottolinea il vigore e la bellezza di Ippolito straziato dall’incidente (MARTINA 1975, pp. 205-206).

119. Per un procedimento analogo nelle Troiane si veda a p. 2.

120. Per il legame tra loci amoeni e scene di violenza nella letteratura greca si veda CALAME 1992, pp. 122 ss.; TOTARO 1999, pp. 155-56. Cf. G. LANATA, «Sul linguaggio amoroso di Saffo», QUCC 2, 1966, pp. 63-79 esp. 68-69; J.M. BREMER, «The Meadow of Love and two passages in Euripides’ Hippolytus», Mnemosyne 28, 1975, pp. 268-80; S.R. SLINGS, «Menander, Samia 53», ZPE 30, 1978, p. 228; P. Totaro, «Due note aristofanee (V. 1022, Av. 1094)», Sileno 19, 1993, pp. 555-63 esp. 561-62.

121. BARLOW 1971, p. 15.

122. Maxwell – Stuart, riferendosi all’accezione negativa che accompagnerebbe talvolta  dall’epica omerica, oppongono Hel. 1501 al   del v. 400 dove l’aggettivo qualifica il mare ostile che scaglia Menalao sulle rive d’Egitto. Diversamente il

92
ϕ
...  ’ ’       ,

ϕ 
ϕ
  

 





Il senso del colore in Euripide tra tradizione e innovazione 93

profondità che si intravedono tra un’onda e l’altra e, infine,  è la schiuma che si crea123.

Vicini ai colorati quadri di IT 1244-48 ed Hel. 179-83, 1501-1502 i vv. che nel primo stasimo delle Fenicie124 evocano la nascita di Dioniso nelle † / 

...† (Ph. 646-47), dove fu immediatamente cinto da 

/

(Ph. 653-54). L’immagine di Dioniso appena nato, tra gli ‘ombrosi virgulti verdeggianti di foglie’, richiama il piccolo Iamo che nella sesta Olimpica è nascosto tra giunchi e rovi; la loro oscurità era spezzata dai raggi dorati e rossastri che si insinuavano tra le viole (Pind. Ol. 6.54-57).

Le due scene sono diverse ma fra loro accostabili; un’altra esemplificazione del modo in cui i due autori curavano i dettagli125: Pindaro li caratterizza iso-



() di Hel. 1501 gli è propizio consentendogli il rientro a casa insieme alla sposa; «the implication being that  by itself is not a well-omened-colour» (MAXWELL – STUART 1981, I, p. 132). BERGSON 1956, p. 85 considera il  di Hel. 1501 un epiteto ornamentale proprio del mare e simili, divenuto tradizionale dopo Omero dove avrebbe avuto una precisa ma non meglio identificabile sfumatura; l’aggettivo, infatti, vi qualifica una sola volta il mare ( 34), una scelta apparentemente accurata per un termine che sembra suscitare «unpleasant, somewhat disturbing, overtones» (MAXWELL –STUART 1981, I, p. 124). In Omero il mare è  ( 298,  56), , ( 359,  580) mai riferito a ,  ( 771,  132) e , attributo solamente di  ( 481-82) e di  ( 391); non è, invece, , denotazione caratteristicamente marina nella lingua classica (cf. p. 2). L’aggettivo non è del tutto assente dalla lingua omerica, dove non ha ancora assunto valore propriamente cromatico, indicando una tonalità scura; come , riferito al mare, veicola più un’idea di bagliore e iridescenza (IRWIN 1974, p. 18; EDGEWORTH 1979, p. 283; SCHRIER 1979, pp. 316-22; EDGEWORTH 1987, p. 135; e si veda la n. 30).  viene, appunto, da  «qui désigne une matière bleu sombre ou noire à reflets bleus, nielle, émail ou pâte de verre; le mot est attesté dans les documents mycéniens» (CHRISTOL 2002, pp. 30-33 cf. R. HALLEUX, «Lapis-lazuli, azurite ou pâte de verre? A propos de KUWANO et KUWANOKO dans les tablettes mycéniennes», Studi miceneo ed egeo-anatolici 9, 1969, pp. 47-66). Nelle tavolette micenee «il nome del materiale indica nel tempo stesso il colore... Quindi ...  e l’aggettivo kuwanijo (hom. ) è il colore turchino dell’acciaio ossidato. Ma non sapremmo dire a quale metallo esattamente corrisponda kuwano» (GALLAVOTTI 1957, pp. 17-18). A partire dal V sec. il significato gravita intorno al valore cromatico (cf. Pind. Pae. 6.83-84

, Sim. fr. 567.4 P

prima attestazione dell’aggettivo riferito al mare). FERRINI 1979, p. 171; HORDERN 2000, pp. 149-50.

123. KANNICHT 1969, II, p. 396.

124. Considerazioni metriche (cf. M. CROPP – G. FICK, Resolutions and Chronology in Euripides: the fragmentary tragedies, BICS Suppl. 43, London 1985), unite allo scolio ad Aristoph. Ran. 53, inducono a datare l’opera tra il 411 e il 409. Più probabile, visti tipo e quantità di soluzioni, una data più vicina all’Elena, 412, che all’Oreste, 408 (MASTRONARDE 1994, pp.11-14).

125. Cf. p. 2 ss. per il confronto tra Eur. IT 1244-48 e Pind. Pyth. 4.249.




    ’    ϑ  ϕ     ...

  
 ’ 

latamente, avvicinando i colori l’uno all’altro «perché stacchino e si compongano in una vivace policromia»126, mentre Euripide mira a produrre un effetto d’insieme; qui, infatti,la tonalità è una sola e si carica di un valore aggiunto perché riferita a Dioniso127 , composto «of light and colour appearing for the first time in Euripides»128, è aggettivo ricercato che ritorna due volte in sei vv. (Eur. Ph. 647, 654), ed epiteto in - di conio eschileo che Euripide usa in diversa misura, - (Rh. 303), - (Ion 422), - (Or 1504)129, foggiandone apparentemente di nuovi130.

Si è più volte notato come la cura dei dettagli, e con essi delle note di colore, sia un tratto che torna nell’intera produzione euripidea. A fare la differenza sembrano, tuttavia, i diversi rapporti che tale ricerca intrattiene con il resto del dramma.

Già nella Medea (cf. p. 18 ss.) l’attenzione per il dato cromatico è innegabile e marcato il gioco chiaroscurale. Nel quarto stasimo (Med. 1251 ss.), si è visto, più referenti, ciascuno con i propri colori, sono accostati tra loro; non si ha ancora l’attribuzione di più tonalità a un unico soggetto, come il  di IT 1244-48 e il mare di Hel. 1501-1502. Il risultato è comunque molto simile, con un’efficace e ben riuscita alternanza di luci e ombre; ciò che fa la differenza rispetto ai drammi più tardi è lo scopo. IT 1244-48 ed Hel. 1501-1502 colpiscono per la vividezza di immagini che, in sostanza, potrebbero ‘funzionare’ in un altro contesto. Il gioco di chiaroscuri di Med. 1251 ss., invece, è fortemente contestualizzato, legato all’ineluttabilità della strage che nonostante tentennamenti e rimorsi Medea è ormai decisa a compiere. ‘Funziona’, cioè, perché strettamente legato alla realtà drammatica ma non sorprende, visto che le parti corali tendono ancora moderatamente all’intermezzo lirico. Questo discorso può estendersi a drammi successivi, quali l’Eracle (supra, p. 10) e l’Elettra (cf. p. 11), per i quali si è notata una coincidenza tra le tonalità degli episodi e degli stasimi, sino al primato cromatico di Ione (cf. p. 2) e Baccanti (supra, p. 5).

Diverse immagini trovano in Euripide nuova elaborazione: il mare di sangue di IT 300; lo splendore del fiore di croco, legato ai rituali di passaggio femminili, spia dell’identità divina del violentatore dello Ione; la sontuosità dell’oro e delle ricchezze, per Elettra immagine di magnificenza e soprattutto della vita matrimoniale e sessuale che le è stata negata131, e nelle Troiane caratte-

126. PERROTTA 1935, p. 202.

127. SILVA 1986, p. 20: «Este pano de fundo verdejante serve de cenário aos quadros mitológicos relacionados com a existência da cidade ... esta paisagem ... é, ao mesmo tempo, um panorama real e o reduto ideal para episódios de cunho mitólogico».

128. BARLOW 1971, p. 134 n. 30. Mastronarde nota che  non compare nuovamente sino alla prosa post-classica, ma registra pure la presenza del botanico  in Teophr. HP. 8.6.5.

129. Cf. Aesch. fr. 465.1 Sn (-), Suppl. 706 (-), Ch. 584 (-).

130. Cf. Ph. 647, 653 -, Ba. 3 - (cf. fr. 312

) e 531 -. MASTRONARDE 1994, pp. 337-38.

131. DENNISTON 1939, pp. 70-71.

94


Il senso del colore in Euripide tra tradizione e innovazione 95

risticamente ambigue nell’inevitabile splendore estetico in contrasto con la situazione drammatica132; lo splendore altrettanto ingannevole dell’Andromaca.

L’impressione finale è che Euripide attinga essenzialmente alla tradizione, in una ripresa, però, mai pedissequa, come dimostra il confronto con gli antecedenti lirici (cf. IT 1244 ss., Pind. Pyth. 4.249 e Ph. 646-47, Pind. Ol. 6.54-57).

Ecco, quindi, che la vecchiaia è grigia o bianca, i capelli perlopiù biondi, le carni femminili bianche, le vesti a lutto nere e variopinte quelle a festa (cf. IT 1149

).

Sono preferite le tinte forti e alcune coppie compaiono con più frequenza e apparentemente associate a contesti simili; una certa predilezione è ravvisabile per gli accostamenti che creano contrasto, come pure policromia. Così la molteplicità cromatica che caratterizza la produzione euripidea rispetto agli altri tragici colpisce di per se stessa, ma anche per la sua contestualizzazione, nel significato che acquista in una certa scena e in un certo dramma, in un gioco di contrasti e chiaroscuri pressoché sempre presente.

Con almeno una precisazione per le parti corali, naturale luogo di sperimentalismo in cui Euripide, soprattutto in fase tarda, indulge nella cura dei dettagli. Se infatti, come visto, sono numerosi, al loro interno, i passi di vero virtuosismo coloristico, che divengono veri pezzi di bravura nei drammi più tardi, capita anche qui che il colorismo sia ancora legato al dramma. Così lo Ione e le Baccanti sono rispettivamente dominati, senza differenza tra episodi e canti corali, dalle tonalità dell’oro e della natura, a porre l’intera tragedia sotto una specifica nuance.

Ciò detto, resta impossibile negare il carattere esornativo di canti corali dai tratti riccamente coloristici, come nell’Ifigenia taurica, nell’Elena e nell’Ifigenia in Aulide, ma per la poesia euripidea un’interpretazione univoca sembrerebbe ancora una volta riduttiva.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

W.G. ARNOTT, «Euripides and the Unexpected», G&R 20, 1973, pp. 49-64.

W.G. ARNOTT, «Realism in the Ion: Response to Lee», in M.S. Silk, ed., Tragedy and the Tragic. Greek Theatre and Beyond, Oxford 1996, pp. 110-118.

C. AUSTIN – S.D. OLSON, Aristophanes: Thesmophoriazusae, Oxford 2004.

S.A. BARLOW, The Imagery of Euripides. A study in the Dramatic Use of Pictorial Language, London 1971.

S.A. BARLOW, Euripides: Trojan Women, Warminster 1986.

G. BASTA DONZELLI, Studio sull’Elettra di Euripide, Catania 1978.

G. BASTA DONZELLI, Euripides. Electra, Stutgardiae et Lipsiae 1995, 20022

J.D. BEAZLEY, Etruscan Vase-Painting, Oxford 1947.

L. BELLONI, Eschilo. I Persiani, Milano 1988.

132. BARLOW 1986, pp. 198-201.



L. BERGSON, L’épithète ornementale dans Eschyle, Sophocle et Euripide, Uppsala 1956.

V. BERS, Enallage and Greek Style, Lugduni Batavorum, 1974.

J. BOLLACK, L’Oedipe roi de Sophocle. Le texte et ses interprétations, I-II-III-IV, Villeneuve d’Ascq 1990.

M.G. BONANNO, «Alcaeus fr. 140 V», Philologus 120, 1976, pp. 1-11.

M.G. BONANNO, «Candido Ila (Theocr. XIII 49)», Studi in onore di A. Ghiselli, Bologna 1989, pp. 51-53.

G.W. BOND, Euripides: Heracles, Oxford 1981.

B.K. BRASWELL, A Commentary on the Fourth Pythian Ode of Pindar, Berlin 1988.

D. BROADHEAD, The Persae of Aeschylus, Cambridge 1960.

H.G. BUCHHOLZ – S. FOLTINY – O. HÖCKMANN, Archaeologia Homerica: Kriegswesen, Göttingen, I 1977, II 1980.

M. CAGIANO DE AZEVEDO, «Il colore nell’antichità», Aevum, 28, 1954, pp. 151167.

C. CALAME, Poétique d’Eros en Grèce antique, s.l., s.d., tr. it I Greci e l’Eros. Simboli, pratiche e luoghi, Roma – Bari 1992.

E. CAVALLINI, Presenza di Saffo ed Alceo nella poesia greca fino ad Aristofane, Ferrara 1986.

P. CHANTRAINE, Dictionnaire étymologique de la langue grecque, Paris 1968.

F. CHAPOUTIER – L. MÉRIDIER, Euripide. Oreste, Paris 1959.

A. CHRISTOL, «Les couleurs de la mer», in AA. VV., Couleurs et vision dans l’antiquité classique, Rouen 2002, pp. 29-44.

C. COLLARD, The Plays of Euripides. Selected Fragmentary Plays, Warminster, I 1997, Oxford, II 2004.

M.J. CROPP, Euripides: Electra, Warminster 1988.

A.M. DALE, Euripides: Helen, Oxford 1967.

R. D’AVINO, «La visione del colore nella terminologia greca», RL 4, 1958, pp. 99-134.

E. DEGANI – G. BURZACCHINI, Lirici greci, Firenze 1977 (2005).

I.J.F. DEJONG, Narrative in Drama. The Art of the Euripidean Messenger-Speech, Mnemosyne Suppl. 116, Leiden 1991.

D. DEL CORNO, Aristofane. Le Rane, Milano 1985.

J.B. DENNISTON, Euripides: Electra, Oxford 1939.

M.J.H. VAN DER WEIDEN, The Dithyrambs of Pindar. Introduction, Text and Comentary, Amsterdam 1991.

E. DES PLACES, Pindare et Platon, Paris 1949.

V. DI BENEDETTO, Euripide. Oreste, Firenze 1965.

V. DI BENEDETTO, Euripide: teatro e società, Torino 1971.

V. DI BENEDETTO, Euripide. Baccanti, Milano 2004.

J. DIGGLE, Euripidis Fabulae, Oxonii, I 1984, II 1981, III 1994.

J. DIGGLE, Studies on the Text of Euripides: Supplices, Electra, Heracles, Troades, Iphigenia in Tauris, Ion, Oxford 1981b.

J. DIGGLE, Euripidea Collected Essays, Oxford 1994b.

96

Il senso del colore in Euripide tra tradizione e innovazione 97

E.R. DODDS, Euripides: Bacchae, Oxford 19602

K.J. DOVER, Greek Homosexuality, New York 1978, tr. it., L’omosessualità nella Grecia antica, Torino 1985.

K.J. DOVER, Aristophanes: Frogs, Oxford 1993.

J. DUCHEMIN, «Essai sur le symbolisme pindarique: or, lumière et couleurs», in Pindaros und Bakchylides, hrsg. v. W.M. Calder III – J. Stern, Darmstadt 1970, pp. 278-289 = REG 65, 1952, pp. 46-58.

R.J. EDGEWORTH, «Does Purpureus’ mean ‘Bright’?», Glotta 57, 1979, pp. 281291.

R.J. EDGEWORTH, «Terms for ‘Brown’ in Ancient Greek», Glotta 61, 1983, pp. 3140.

R.J. EDGEWORTH, «‘Off-Colours’ Allusions in Roman Poetry», Glotta 65, 1987, pp. 134-137.

C. ESCOZÁBAL, « como epíteto de personajes en la poesía arcaica», Faventia 25/1, 2005, pp. 39-44.

V. FAGGI, Euripide. Ifigenia in Aulide. Ifigenia in Tauride, Torino 1992.

F. FERRINI, «I termini di colore nella lirica greca arcaica», AFLM 12, 1979, pp. 165-192.

M. FUSILLO, Euripide. Elena, Milano 1997.

C. GALLAVOTTI, «Nomi di colori in miceneo», PP 12, 1957, pp. 5-22.

B. GENTILI, Pindaro. Le Pitiche, Milano 1995.

M.H. GIRAUD, «Les Oiseaux dans l’ ‘Ion’ d’Euripide», RPh 61, 1987, pp. 83-94.

M. GIUMAN, «‘Risplenda come un croco perduto in mezzo a un polveroso prato’. Croco e simbologia liminare nel rituale dell’arkteia di Brauron», in B. Gentili – F. Perusino, edd., Le orse di Brauron. Un rituale di iniziazione femminile nel santuario di Artemide, Pisa 2002, pp. 79-101.

D.H.F. GRAY, «Metal Working in Homer», JHS 74, 1954, pp. 1-15.

H. GRÉGOIRE, Euripide. Les Bacchantes, Paris 1961.

M. GRIFFITH, Sophocles: Antigone, Cambridge 1999.

E. HALL, Aeschylus. Persians, Warminster 19972

W. HEADLAM, «Ghost-Raising, Magic, and the Underworld», CR 16, 1902, pp. 52-61.

J. HENDERSON, The Maculate Muse. Obscene Language in Attic Comedy, New York– Oxford 19912.

J.H. HORDERN, The Fragments of Timotheus of Miletus, Oxford 2000.

G.O. HUTCHINSON, Aeschylus. Septem contra Thebas, Oxford 1985.

E. IRWIN, Color Terms in Greek Poetry, Toronto 1974.

E. IRWIN, «The Crocus and the Rose: a Study of the Interrelationship between the Natural and the Divine World in Early Greek Poetry», in D.E. Gerber, ed., Greek Poetry and Philosophy. Studies in Honour of Leonard Woodbury, Chico 1984, pp. 147-168.

H. JEANMAIRE, Dyonisos, Paris 1951.

H.F. JOHANSEN – E.W. WHITTLE, Aeschylus. The Suppliants, I-II-III, København 1980.

F. JOUAN, Euripide. Iphigénie à Aulis, Paris 1983.

Morena Deriu

R. KANNICHT, Euripides: Helena, I-II, Heidelberg 1969.

G.S. KIRK, The Iliad: a Commentary, Cambridge, I 1985, II 1990, III 1993, IV 1992, V 1991, VI 1993.

P. KYRIAKOU, A Commentary on Euripides’ Iphigenia in Tauris, Berlin 2006.

C.I. LEAL SOARES, «Eurípides, reportero de guerra», in F.J. Campos Daroca, F.J. García González, J.L. López Cruces, L.P. Romero Mariscal, edd., Las personas de Eurípides, Amsterdam 2007, pp. 105-131.

W. LEAF, The Iliad, Amsterdam, I 1900, II 1902.

A. LESKY, Die tragische Dichtung der Hellenen, Göttingen 1972, tr. it. La poesia tragica dei Greci, Bologna 1996.

O. LONGO, Sofocle. Edipo Re, Padova 1989.

F. LOURENÇO, «Contrast, a Rhetorical Device in Euripidean Lyric», Euphrosine 30, 2002, pp. 39-48.

H.L. LORIMER, «Gold and Ivory in Greek Mythology», in AA.VV, Greek Poetry and Life: Essays presented to Gilbert Murray, Oxford 1936, pp. 14-33.

A. MARTINA, Euripide. L’Ippolito, Torino 1975.

D.J. MASTRONARDE, Euripides: Phoenissae, Cambridge 1994.

P. MAXWELL – G. STUART, Studies in Greek Colour Terminology, I-II, Leiden 1981.

L. MÉRIDIER, Euripide. Hippolyte, Andromache, Hécube, Paris 19603.

M.S. MIRTO, Euripide. Eracle, Milano 1997.

D. MUSTI – M. TORELLI, Pausania. Guida della Grecia. Libro II. La Corinzia e l’Argolide, Milano 1986.

S. NOVELLI, Studi sul testo dei Sette contro Tebe, Amsterdam 2005.

A.S. OWEN, Euripides: Ion, Oxford 1957.

G. PADUANO, Euripide, la situazione dell’eroe tragico, Firenze 1974.

G. PADUANO – A. GRILLI, Aristofane. Le Rane, Milano 1996.

D.L. PAGE, Euripides: Medea, Oxford 1952.

L. PARMENTIER – H. GRÉGOIRE, Euripide. Héraclès, Les Suppliantes, Ion, Paris 1923.

L. PARMENTIER – H. GRÉGOIRE, Euripide. Les Troyennes, Iphigénie en Tauride, Electre, Paris 1925.

M. PELLEGRINO, Euripide. Ione, Bari 2004.

G. PERROTTA, «Studi Euripidei», Stud. it. filol. class. 6, 1928, pp. 5-53.

G. PERROTTA, Saffo e Pindaro. Due saggi critici, Bari 1935.

A. PICKARD – CAMBRIDGE, The Dramatic Festivals of Athens, Oxford 19883

M. PLATNAUER, «Greek Colour – Perception», CQ 15, 1921, pp. 153-162.

M. PLATNAUER, Euripides: Iphigenia in Tauris, Oxford 1938.

G. RAINA, «Considerazioni sul vocabolario greco del colore», in S. Beta, M.M. Sassi, edd., I colori nel mondo antico: esperienze linguistiche e quadri simbolici. Atti della giornata di studio: Siena 28 marzo 2001, Fiesole 2003, pp. 25-39.

O. SCHRIER, «Love with Doris», Mnemosyne 32, 1979, pp. 307-326.

A. SIDGWICK, Aeschylus. Persae, Oxford 1953.

M.F.S. SILVA, «Elementos visuais e pictóricos na tragédia de Eurípides», Humanitas, 1986, 9-86.

98

Il senso del colore in Euripide tra tradizione e innovazione 99

L. SOVERINI, «Su alcuni simblismi della tintura nella Grecia antica», in S. Beta, M.M. Sassi, edd., I colori nel mondo antico..., Fiesole 2003, pp. 67-79.

P.T. STEVENS, Euripides : Andromache, Oxford 1971.

W. STOCKERT, Euripides. Iphigenie in Aulis, I-II, Wien 1992.

T. TAILLARDAT, Les images d’Aristophane. Etudes de langue et de style, Paris 1962.

J.E. JR. THORBURN, «Euripides’ ‘Ion’: The Gold and the Darkness», Classical Bulletin 76, 2000, pp. 39-49.

P. TOTARO, Le seconde parabasi di Aristofane, Stuttgart 1999.

M.L. WEST, Euripides: Orestes, Warminster 1987.

S. WEST, Omero. Odissea, I, Roma – Milano 1981.

C.W. WILLINK, Euripides: Orestes, Oxford 1989.

R.P. WINNINGTON – INGRAM, «Euripides: poiêtês sophos», Arethusa 2, 1969, pp. 127-142.

G. XANTHAKIS – KARAMANOS, Studies in Fourth Century Tragedy,  1980.

G. ZUNTZ, An Inquiry into The Transmission of The Plays of Euripides, Cambridge 1965.

ABSTRACT

The attention for lights and color is one of the peculiarities in the Euripidean drama, especially in the last production, where they are matched with particular attention. However, only few details are used as decorative ones, but they create a passage with a particular dramatic function; as it is confirmed by the later dramas, such as Ion and Bacchant. A new combination of traditional hues and images, which create polychromy, seems to appear more often and in similar contexts. For this reason, the decorative aspect of the lyrics is not denied, but the general impression is that Euripides creates, thanks to color, a strong visual impact, giving a specific meaning to a particular scene and a particular drama.

Ítaca. Quaderns Catalans de Cultura Clàssica

Societat Catalana d’Estudis Clàssics

Núm. 24, 25 i 26 (2008-2010), p. 101-156

DOI: 10.2436/20.2501.01.24

Somnia nvgaeqve merae. Sobre la cronologia de les tragèdies de Sèneca: mètodes i resultats

Fixar les dates de composició de les tragèdies de Sèneca o de la seva presentació al públic, ja sigui en l’escena o en lectures públiques, ja sigui en edició, no és una mera minúcia erudita. Això, si s’aconseguís, no afectaria el valor literari d’aquestes obres, però sí que precisaria les intencions de l’autor i el significat ple que hi podien trobar els receptors. Sèneca va compondre les seves tragèdies abans de l’exili a Còrsega, durant l’exili (anys 41-48), en l’època de preceptor i conseller de Neró (49-62), en la del retir fins a la mort (65) o en més d’un d’aquests períodes, no necessàriament consecutius. Els testimoniatges contemporanis o immediatament posteriors ofereixen notícies estimables però no gaire precises sobre l’activitat tragediogràfica de Sèneca; en tot cas, manquen dades positives directes (didascàlies o altres) que permetin d’establir una cronologia absoluta de totes o d’algunes tragèdies; per això s’han cercat en les tragèdies mateixes indicis que podrien constituir al·lusions a fets històrics. D’altra banda, l’anàlisi interna, és a dir, l’estudi de les relacions intertextuals, temàtiques o estilístiques, i de certes particularitats prosòdiques i mètriques, podria servir per a establir, si més no, una cronologia relativa, l’ordre el corpus. És un problema difícil i per això abordat sovint, en conjunt o en aspectes particulars, amb opinions ben divergents. Sense pretendre fer-ne una història exhaustiva, que exigiria revisar una bibliografia molt profusa, limitant-nos a les qüestions principals, ens proposem tractar aquí els mètodes que s’hi han emprat, avaluar-ne els resultats i exposar la nostra opinió.

1. Datació absoluta

a. Al·lusions a fets històrics

Fóra llarg i fatigós reportar aquí les innombrables i variades al·lusions a fets històrics que s’han volgut veure en les tragèdies. Per a il·lustrar el procediment, amb un parell d’exemples de les més conegudes n’hi haurà prou1

1. Medea 595-98: parcite, o diui, ueniam precamur, uiuat ut tutus mare qui subegit. sed furit uinci dominus profundi regna secunda.

Ja Lipsius va considerar aquests versos «omnino insitos decore et ingeniose in laudem Claudii, qui Britanniam tunc aperiebat»: una subtil identificació adulatòria de Iàson, el cap dels Argonautes (mare qui subegit), amb Claudi, que, superant l’Oceà, havia conquistat Britànnia (campanya de l’any 43 i triomf del 44)2. S’hi pot adduir, a més, la notícia transmesa per Suetoni, segons el qual Claudi va fer posar a casa seva una corona naval, traiecti et quasi domiti Oceani insigne3 .

Diversos crítics, fins als nostres dies, han defensat aquesta suposada al·lusió4. Els anys 43/44, doncs, serien el terminus post quem de la tragèdia. A més, si l’objectiu de l’adulació era obtenir la gràcia de Claudi, la fi de l’any 48 seria el terminus ante quem; si no, el marge temporal seria força ampli, fins a la mort

1. Alguns exemples més, infra, en 4.

2. LIPSIVS, I., Animaduersiones in tragoedias quae L. Annaeo Senecae tribuuntur, Leiden 1588, pp. 5-6. Repeteix la interpretació en el comentari dels vv. 668-69 (ad loc.): iam satis, diui, mare uindicastis | parcite iusso, on proposa, en lloc de iusso, la conjectura diuo [sc. Claudio] com una «tecta et ingeniosa adulatio». Sèneca, amb aquesta adulació, pretendria obtenir de Claudi el perdó i la tornada de l’exili (cf. LIPSIVS, I., Vita et scripta Senecae, París 1607, cap. V). Sens dubte, Lipsius pensaria en la conquista de Britànnia per Claudi recordant el passatge de l’Octauia que s’hi refereix (vv. 34-44), un vers del qual (41) havia esmenat anys abans: «Emendo, En qui orae Tamesis [ora Tanais mss.] primus imposuit iugum, Ignota et ante classibus. Nam cum manifesto sermo de Claudio Imp. sit, quis sanus haerebit, quin per Tamesim Britanniam intellexerit, cuius intactam ad id tempus libertatem ille primus delibauit?» (Antiquarum lectionum libri V, Anvers, 1575, l. I, cap. XIV). En Animaduersiones (ad loc.), però, hi accepta la correcció de de I. I. Scaliger: «Legebamus, Tamesis. Criticus diuinus, Britannis».

3. Svet. Cl. 17.5.

4. JONAS, F., De ordine librorum L. A. Senecae philosophi, Berlín 1870, p. 38; PEIPER, R., Praefationis in Senecae tragoedias nuper editas supplementum, Breslau 1870, p. 12; HERZOG, O., «Datierung der Tragödien Senecas», RhM 78, 1928, pp. 59-65. L’al·lusió es dóna com a probable en COFFEY, M., «Seneca, Tragedies, Report for the years 1922-1955», Lustrum 2, 1957, p. 150 (recensió a Herzog), en ZWIERLEIN, O., Prolegomena zu einer kritischen Ausgabe der Tragödien Senecas, Wiesbaden 1984, p. 245 (en relació amb la “profecia” del Cor de 364 ss.), etc.

102

Somnia nvgaeqve merae

103 de Claudi (54), ja que una al·lusió no ha de ser necessàriament immediata al fet històric. De debò hi ha aquí una adulació? Ja Delrius hi objectava amb raó: «ingeniosa illa κολακία, et acuta, fateor. sed an quia acuta, iccirco Senecae in mentem uenit?»5 Fóra massa aguda i tot. Les que Virgili adreçava a August eren més explícites, gairebé desvergonyides6. La que es vol imputar a Sèneca hauria resultat tan subtil i obscura que amb prou feines la capiria algun oïdor i poc se’n deuria sentir afalagat el destinatari. La seva extrema subtilesa contrasta fortament amb la descarada llagoteria de la Consolatio ad Polybium7. També dista molt de les hipèrboles àuliques d’alguns epigrames atribuïts a Sèneca que tenen per tema la conquista de Britànnia, acompanyats per altres de referents a Còrsega com a lloc d’exili8. Fins i tot si s’admet que aquests epigrames són realment de Sèneca, la diferència de to en el passatge de Medea és palesa: la petició de clemència per a Iàson és del tot oportuna i es cenyeix concisament al context sense forçar-lo — un context (el perill que plana sobre Iàson per la seva audàcia) que, aplicat a Claudi, anullaria l’adulació convertint-la en amenaça. Una semblança parcial en el tema no és indici suficient per a constituir una al·lusió.

2. Oedipus 1038-39

hunc, dextra, hunc pete uterum capacem, qui uirum et gnatos tulit.

En el suïcidi a espasa de Iocasta, s’ha pretès veure-hi una al·lusió a l’assassinat d’Agripina per ordre de Neró: totes dues reclamen ser ferides al ventre, que ha engendrat un fill abominable. Pel que fa a Agripina, Tàcit només ho insinua: iam ad mortem centurioni ferrum destringenti protendens uterum

5. DELRIVS, M. A., Syntagma tragoediae Latinae, Anvers 1593-94, ad Med. 669.

6. Així en Aen. 6.791-805; i també en un altre passatge paral·lel als que comentem: an deus immensi uenias maris ac tua nautae | numina sola colant, tibi seruiat ultima Thule, | teque sibi generum Tethys emat omnibus undis (Georg. 1.29-31), que té, a més, una certa semblança amb la famosa “profecia” de Med. 374-79: uenient annis | saecula seris, quibus Oceanus | uincula laxet et ingens | pateat tellus Tethysque nouos | detegat orbes nec sit terris | ultima Thule.

7. La Consolatio ad Polybium (composta c. 44), adreçada més que al destinatari nominal a l’emperador, sí que tenia per objectiu obtenir el perdó i el retorn a Roma i inclou una allusió clara a la campanya de Britànnia: hic [sc. Claudius] Germaniam pacet, Britanniam aperiat; et patrios triumphos ducat et nouos! (13.2).

8. Una actualització dels problemes d’autenticitat i de cronologia dels epigrames, feta amb sa sentit crític, en MARINÉ, J., Sèneca, Apocolocintosi del diví Claudi. Epigrames, FBM, Barcelona 2004, pp. 293-305. Els epigrames, inclosos en l’Anthologia Latina, en opinió de Mariné, reflecteixen un ambient senecà per la temàtica, per la ideologia i per l’estil; encara que alguns poden ser realment de Sèneca, no es pot determinar quins en concret; ni tan sols és segur que ho siguin els que alguns manuscrits li atribueixen expressament: 1, 16 i 17 Mariné (= Anthol. Lat. 232, 236, 237 Riese, 224, 228, 229 Shackleton Bailey). Els epigrames 16 i 17 tenen per tema Còrsega com a lloc d’exili; els 48-55 Mariné (= 419-26 Riese, 417-24 Shackleton Bailey) són adulacions a Claudi per la conquista de Britànnia.

Antoni Seva Llinares

‘uentrem feri’ exclamauit (Ann. 14.8.5); però el fet, no mencionat per Suetoni, és recollit explícitament en Cassi Dió i en l’Octauia9 . La presumpta al·lusió senecana, ja assenyalada per Peiper10, ha tingut algun partidari més recent11. Si ho fos, permetria datar la tragèdia a partir de la primavera del 59; i encara caldria anar més enllà: la inculpació palesa a Neró faria endarrerir la tragèdia fins a l’època de la retirada de l’autor. Fóra, d’altra banda, una inculpació cínica, ja que Sèneca mateix havia participat, almenys com a còmplice, en el crim12. On acaba la història i on comença la retòrica?

Pratt observa que la frase conté un topos, adduint un passatge similar de Sèneca pare: un tirà sotmet a tortura una dona i, per evitar un fill venjador, la fa ferir al ventre13. En una situació dramàtica anàloga, Èsquil recorre a motius semblants: Clitemnestra, per evitar la venjança d’Orestes, li recorda que el seu pit l’ha nodrit i acaba exclamant que ha parit una serp14. Com Èsquil, Sèneca, en aquesta escena, sap treure partit hàbilment dels elements dramàtics. Potser també, en una concepció primitiva de la justícia, s’hi apunta al càstig — una mena de talió — del membre que ha estat instrument de la culpa15

b. L’Apocolocyntosis, un terminus ante quem?

Molts crítics donen per segur que alguns loci paralleli de l’Apocolocyntosis demostren que Sèneca es parodiava a si mateix, sobretot l’Hercules furens. En aquesta comparació s’opera en termes relatius, d’anterioritat i posteritat, però amb referència a un terme absolut: la sàtira, si es va compondre immediatament després de la mort de Claudi (13 d’octubre del 54), constituiria un terminus ante quem—pròxim, segons alguns—de la tragèdia. Aquesta opinió va guanyar molts adeptes a partir de l’edició d’O. Weinreich16, tot i que la relació amb les tragèdies ja havia estat establerta per diversos erudits.

Realment Sèneca parodia en l’Apocolocyntosis l’Hercules furens i potser altres tragèdies? S’ha d’entendre per paròdia, en un sentit ampli, la imitació exagerada del tema i de l’estil d’un autor o d’un gènere i, en un sentit estricte, la reproducció d’un passatge d’una obra, amb substitució o no d’algun mot;

9. CASS. D. 62.13.5. Oct. 368-71: caedis moriens illa ministrum | rogat infelix, utero dirum | condat ut ensem: | ‘hic est, hic est fodiendus’, ait, | ‘ferro, monstrum qui tale tulit’. En Tàcit, s’hi sumaria, a més, un altre paral·lelisme: l’incest gairebé consumat, amb intervenció de Sèneca (Ann. 14.2).

10. o. c., p. 19.

11. Cf. PRATT, N. T., Seneca’s Drama, Chapel Hill 1983, p. 191, amb nota bibliogràfica.

12. Tac., Ann. 14.7.2-4, 11.2.

13. Aiebat tyrannus: ‘ure, caede uentem’ [...] ‘caede uentrem, ne tyrannicidas pariat’ (Contr. 2.5.7).

14. Choeph. 896-8 i 928.

15. Així, el consell evangèlic de la mutilació de l’ull o de la mà que escandalitzen (Mat. 5.2930 i 18.8-9), i també el càstig de la mutilació de les mans als lladres en certs països islàmics.

16. Senecas Apocolocyntosis, Berlín, 1923.

104

l’adaptació s’ha d’inserir en un context diferent de l’original, cercant, per contrast, un efecte còmic; pressuposa el coneixement del text original per part del receptor17.

Pel que fa al sentit ampli, no hi ha dubte que Sèneca parodia expressament en l’Apocolocyntosis l’estil tràgic, com també l’èpic i els pròlegs filosòfics dels historiadors. Posa la paròdia tràgica, d’estil solemne, ampul·lós i amenaçador, en boca d’Hèrcules per infondre por a Claudi: «quo terribilior esset tragicus fit» (7.1). Per què Hèrcules i no un altre? Claudi s’havia presentat amb el seu aspecte deforme i havia parlat amb veu farfallosa en una llengua no recognoscible; Júpiter, doncs, encarrega a Hèrcules, que havia recorregut el món i, per tant, coneixia molts pobles i llengües, que indagui qui és aquell individu estrany; l’heroi, no sense cert temor, creu tenir davant seu un nou monstre, el seu tretzè treball (5.2-3). A part d’això, només es diu d’Hèrcules que és poc astut (minime uafro, 6.1) i que porta la clava (haec claua, 7.2, v. 3). Ben poca cosa, al capdavall. Un personatge descrit molt succintament en comparació amb el personatge propens a la ira i a les al·lucinacions que apareix en l’Hercules furens: un heroi gegantí que fa sotsobrar la barca de Caró (775-77), cobert amb la pell del lleó de Nèmea, de gola ferotge, i armat amb la grossa clava (797-800) i amb un enorme arc (992-93), acompanyat del terrible Cèrber batzegant les gruixudes cadenes (815-17). Cèrber torna a aparèixer més avall en la sàtira: és, sí, un gos negre i pelut i temible en la fosca (13.3), però molt menys esgarrifós que aquella bèstia fastigosa de la tragèdia, que espanta amb els seus lladrucs els morts, amb el cap purulent, amb escurçons per pèls i un drac per cua, que planta cara a l’heroi, exhibeix la seva ferotgia i no es deixa domar (783-822). Sens dubte, Sèneca, posat a parodiarse a si mateix, hauria pogut aprofitar, i de manera escaient, l’abundós material que la tragèdia li fornia; en canvi, es va acontentar amb un to tràgic genèric i amb unes quantes notes descriptives poc marcades. Passem ara als llocs adduïts, més o menys estrictament, com a paròdies; no pertanyen només a l’Hercules furens, sinó també a altres tragèdies, especialment a les Troades18 .

En primer lloc, per molt que es vulgui esprémer els textos, no creiem que es pugui establir una relació estreta de dependència en certes similituds com aquesta:

Apoc. 4.1, v. 7: mirantur pensa sorores

HF 181: peragunt pensa sorores.

17. Cf. HOUSEHOLDER, F. W., «ΠΑΡΩΔΙΑ», CPh 39, 1944, pp. 1-9, i LELIÈVRE, F. J., «The Basis of Ancient Parody», G&R, 2ª sèr., 1, 1954, pp. 66-81.

18. Una relació molt detallada dels loci paralleli, en l’aparat crític de l’edició de R. RONCALI, L. A. S. Ἀποκολοκύντωσις, Leipzig, 1990. La majoria pertany a HF, però també n’hi ha de la resta de les tragèdies, incloses HO i Oct., a més d’altres obres de Sèneca i d’altres autors. Sobre el conjunt de les paròdies de la sàtira, cf. MARINÉ, J., o. c., pp. 159-75 i 196-232.

Somnia nvgaeqve merae 105

En aquest locus parallelus i en algun altre de semblant19 la relació és genèrica i vaga, poc significativa.

Més rellevants són un passatge relacionat exclusivament amb l’Hercules furens i dos passatges de la nènia que presenten algunes interferències amb altres tragèdies:

1. Apoc. 7.2, v. 2: hoc ne peremptus stipite ad terram accidas

HF 1296: hoc en peremptus spiculo cecidit puer

2. Apoc. 12.3, vv. 1-4: fundite fletus, | edite planctus, | resonet tristi | clamore forum

HF 1108, 1113-14: resonet maesto clamore chaos | [...] uno planctu | tria regna sonent

Tr. 78-9, 108, 130-1: sed noua fletus causa ministrat. | ite ad planctus |

[...] Rhoetea sonent litora planctu | [...] uertite planctus: | Priamo uestros fundite fletus

3. Apoc. 12.3, vv. 51-2: caedite maestis | pectora palmis

HF 1100-1: percusa sonent pectora palmis

Tr. 64: ferite palmis pectora et planctus date

Thy. 1045-46: pectora inlisa sonent | contusa planctu (cf. Oct. 745: pulsata palmis pectora)

En 2 i 3 s’acumulen i s’entrecreuen elements lèxics del camp del dol, de patrimoni comú, en combinacions obertes20. Al capdavall, el pes principal de la presumpta paròdia recau en dos versos: HF 1296 (1) i 1108 (2). En el primer, seria d’esperar que, per a l’amenaça burlesca a Claudi, Sèneca hagués triat una amenaça solemne i greu contra un monstre autèntic i que s’hagués atingut més estrictament a la lletra, d’on es produiria, per contrast, l’efecte còmic, amb un punt d’ironia respecte al vers parodiat; no sembla gaire escaient, en aquest sentit, un vers de la tragèdia en què Hèrcules contempla amb horror la fletxa amb què ha matat el seu fill. En el segon sí que es donen circumstàncies apropiades per a la paròdia, amb una notable coincidència en les frases—no s’entén, però, per què el poeta hauria de substituir maesto pel sinònim tristi; potser hi ha aquí, si no es tracta d’una coincidència, un record de Virgili, Aen. 4.668 resonat magnis plangoribus aether

19. També en non uacat deflere publicas clades (Apoc. 10.3) i non uacat istis lacrimare malis (Ag. 654); aquests passatges entren sense dificultat en la classificació que fem més avall, en el grup b. En Cretaea tenens oppida centum (Apoc. 12.3, v. 26), urbibus centum spatiosa Crete (Tro. 820) no hi ha ni tan sol un locus parallelus, sinó un locus communis; cf. Verg. Aen. 3.106, Hor. C. 3.27.33-4, Epod. 9.29, Ov. Met. 9.666, etc. L’expressió obliquo tramite (Apoc. 2.4, v. 5, Thy. 845) és massa banal; cf. Liv. 5.16.5 obliquis tramitibus. 20. Cf. Ov. Met. 11.672 fletus quoque fundere (menys freqüent, però, que fundere lacrimas); Verg. Aen. 1.481 tunsae pectora palmis, Ov. Am. 3 9.10 pectora tundat manu, Met. 2.341 caesae pectora palmis.

106

Val a dir que, en tots dos passatges, la semblança és molt forta: tindria molt pes probatori si es tractés de casos únics. Però, al contrari, les semblances textuals entre passatges de les tragèdies són molt abundants. Fetes de manera conscient o inconscient i fins i tot casual, revelen les bases i les preferències literàries de l’autor i també, per dir-ho així, el seu laboratori o la seva cuina. N’hi haurà prou amb uns quants exemples21, que es poden classificar en les següents categories:

a) unitats menors, genèriques (del tipus mittere habenas o uanus terror) o més originals, com ara silentem domum (HF 620 i Phaed. 221), referida a l’infern, o annis fessis (HF 1250 i Phaed. 267), referida a la vellesa.

b) frases semblants pel lèxic i per la construcció22:

1. HF 1323, 1326: quis Tanais [...] | abluere dextram poterit

Phaed. 715: quis eluet me Tanais

2. Phaed. 24: pars illa diu uacat immunis

Oed. 52: nec ulla pars immunis exitio uacat

c) frases iguals o molt semblants pel lèxic, per la construcció i per la mètrica (trímetres iàmbics, si no hi ha altra indicació):

α) principi de vers23:

1. HF 1012 i Phaed. 142: quo, misera, pergis?

2. Tr. 519 i Oed. 868: dehisce, tellus, tuque

Phaed. 1238: dehisce, tellus, recipe

β) final de vers24:

1. Med. 123: mente non sana feror

Phaed. 386: mente non sana abnuit

2. Tr. 750: et scelerum artifex

Med. 734 i Phaed. 559: haec scelerum artifex

γ) final i principi de vers25:

Phoen. 542-3: magna pars sceleris tamen | uestri peracta est Phaed. 594-5: magna pars sceleris mei | olim peracta est δ) versos sencers26:

1. (dím. anap.) Med. 373: Indus gelidum potat Araxen

Phaed. 58: fera quae gelidum potat Araxen

2. Med. 4: et tu, profundi saeue dominator maris

Phaed. 1159: me, me, profundi saeue dominator freti

21. Ens servim aquí —i és més que suficient— de l’ “Appendix I” (Mayer) de l’edició de Phaedra de M. COFFEY i R. MAYER, Cambridge, 1990, pp. 197-203.

22. Cf., a més, HF 203, Phaed. 18; HF 318, Phaed. 626; Phaed. 756, Oed. 413; HF 415, Med. 116, Phaed. 850.

23. Cf., a més, HF 300, Phaed. 500; HF 1053, Phaed. 387; Phoen. 244, Phaed. 258; Med. 43, Phaed. 168, Thy. 1048; Med. 568, Phaed. 432; Phaed. 1023, Ag. 566.

24. Cf., a més, Phoen. 36, Phaed. 592; Med. 157, Phaed. 263, Ag. 203; Phaed. 583, Oed. 99; Phaed. 1240, Oed. 559.

25. Cf., a més, Tr. 703-4, Med. 945-6.

26. Cf., a més, Phaed. 1227, Thy. 73. També Phaed. 200, 601, HO 540, 484.

Somnia nvgaeqve merae 107

Quina diferència hi ha entre les concordances reportades aquí i les que s’assenyalen a l’Apocolocyntosis? Al nostre parer, cap: les de la sàtira no constitueixen un cas excepcional. Les unes i les altres es poden explicar satisfactòriament per la similitud del tema i per la subjecció a les regles mètriques: no és d’estranyar que tots dos factors, i més en l’estil peculiar d’un mateix autor, generin ací i allà cèl·lules de sentit i de ritme coincidents. Revelen la manera de fer de Sèneca, el seu “receptari”; se’n pot deduir una tendència de l’autor a repetir-se, però no s’hi detecta cap indici de relació cronològica.

En suma, opinem que la paròdia que molts assenyalen amb tanta convicció en la sàtira, més enllà de la imitació genèrica de l’estil tràgic, manca de base: en sentit ampli, l’Hèrcules de la tragèdia i el de la sàtira són personatges ben diferents; en sentit estricte, els passatges comparats es redueixen a simples loci paralleli. Quan Sèneca va escriure l’Apocolocyntosis, o no hi va voler parodiar l’Hercules furens o encara no l’havia compost; la sàtira no aporta res per a la datació de les tragèdies.

2. Datació relativa

a. Relacions intertextuals

En la datació relativa, potser el procediment més habitual és el de la comparació interna: quan un tema o un motiu de determinat passatge d’una tragèdia apareix en una altra, amb un tractament tal que permetria inferir una allusió o una reelaboració i, per tant, una relació d’anterioritat o de posterioritat. Un dels crítics que més ha destacat en la detecció d’aquesta mena de comparacions és Herrmann, que va teixir una espessa xarxa de casos imaginats a partir d’una petitio principii: «On voit que la tendance générale de l’auteur, quand il reprend ses propres vers, est celle de rechercher plus de concision et aussi plus de raffinement dans l’expression»27. I arribava a la conclusió que l’ordre cronològic relatiu de les tragèdies es correspon «rigoureusement» amb l’ordre de la branca A de la tradició manuscrita28. Zwierlein, per la seva part, s’ha servit d’aquest mètode en molt menor mesura, amb molta més cautela, i també amb criteri contrari. Així, entre les més “segures”, Zwierlein afirma la prioritat —a part de la d’Oed. sobre Phoen., d’acord amb Leo—, la de HF sobre Thy. i la de Thy. sobre Med.; amb menys insistència, la proximitat d’Ag., HF i Thy.; i fins i tot, amb dubtes, l’anterioritat de Phoen. sobre Apoc.; etc29

Limitem-nos aquí al cas més significatiu: la comparació entre un passatge d’Oedipus i un altre de Phoenissae. És gairebé l’únic («plura sciri nequeunt»)

27. HERRMANN, L., Le théâtre de Sénèque, París 1924, p. 104. L’enumeració dels casos ocupa les pp. 99-128, plenes de «peut-être», «rappelle», «ressemble», «sans doute», «évoque», «probablement».

28. Ibid., 128. És a dir: HF, Thy., Thebais (Phoen.), Hippolytus (Phaed.), Oed., Tr., Med., Ag. 29. O. c., 238-43.

108

en què Leo troba una prova segura de relació cronològica, tan evident per a ell que ni es pren la pena de demostrar-la: «quam [sc. fabulam Oedipum] ante hanc scaenam [sc. Phoen. 1-362] scriptam esse u. 176 sq. docent»30.

Oed. 952, 958-64

“cunctaris, anime?” [...] ardent minaces igne truculento genae oculique uix se sedibus retinent suis; uiolentus audax uultus, iratus ferox iamiam eruentis; gemuit et dirum fremens manus in ora torsit. at contra truces oculi steterunt et suam intenti manum ultro insecuntur, uulneri occurrunt suo.

Phoen. 174-80

timida [sc. dextra] tunc paruo caput libauit haustu uixque cupientes sequi eduxit oculos. haeret etiamnunc mihi ille animus, haeret, cum recusantem manum pressere uultus. audies uerum, Oedipu: minus eruisti lumina audacter tua quam praestitisti.

No hi ha dubte que Sèneca es representa de la mateixa manera, en totes dues tragèdies, l’escena en què Èdip s’arrenca els ulls: són ells mateixos que volen ser arrencats i inciten a fer-ho les mans indecises.

Herrmann, comparant una dotzena de loci paralleli (amb els seus habituals «peut-être», «semble», «sans doute») i aplicant-hi la seva regla general (concisió i refinament indiquen posterioritat), creia demostrar que Phoenissae és anterior a Oedipus31 Segons Zwierlein, també la plasmació és més refinada i preciosista en Oedipus; però, al contrari, creu «mit Sicherheit» que en Phoen. el poeta es remet a Oed. com fent-ne un recordatori, i per tant aquesta tragèdia ha de ser posterior32

Aquestes interpretacions són possibles, però, de segures, no gens. Els passatges s’insereixen en contextos diferents i tenen funció diferent. El d’Oedipus forma part de la llarga narració del Missatger, plena de detalls esgarrifosos (un dels dos o tres trossos més macabres de Sèneca); en Phoenissae, Èdip

30. Obseruationes criticae (L. A.. S. Tragoediae, v. I), Berlín, 1878, pp. 77, 133-4.

31. O. c., pp. 99-100, 116-17. Phoen. és «moins dure» que Oed.; en Oed. «les couleurs sont plus chargées»; els vv. 175-6 de Phoen. «se retrouvent» en Oed. 959; Oed. 1001 és «plus concis et moins clair» que Phoen. 9-10; Oed. 938-9 és una «forme résumée» de Phoen. 91-3; en Oed. 101 «la forme est plus raffinée et plus obscure» que en Phoen. 132; etc.

32. O. c., pp. 238-9.

Somnia nvgaeqve merae 109

110

Antoni Seva Llinares

mateix, que medita el suïcidi, només compara els dubtes d’ara amb els que va tenir quan es va cegar. Si Sèneca concep l’acció de la mateixa manera, no pot també esbossar-la primer amb uns pocs trets i desenvolupar-la més tard, en un altre lloc, amb luxe de detalls?

Ni la riquesa descriptiva, ni els accents emotius, ni la concisió no són indicis cronològics. Ovidi, un mestre de la uariatio, evita amb cura imitar de prop un altre autor33 o imitar-se a si mateix quan tracta el mateix tema. Tot i això, en situacions iguals, per força ha d’haver-hi alguna similitud. Així succeeix en la trobada de Iàson i Medea, en què l’heroi suplica l’ajut de la princesa i li promet el matrimoni, en Heroides 12.67-92 i en Metamorphoses 7.74-97 — dues obres redactades a diversos anys de distància i en què l’anterioritat de la primera no ofereix cap dubte. El poeta imagina l’escena de la mateixa manera i la situa en el mateix moment, abans de la prova dels toros. Es troben en un nemus atrum, prop d’uns delubra Dianae (Her. 67, 69), o en un nemus umbrosum, vora unes Hecates aras (Met. 75, 74). En Her., Iàson prega (7880)

per genus et numen cuncta uidentis aui, per triplicis uultus arcanaque sacra Dianae et si forte aliquos gens habet ista deos

i promet el matrimoni (81, 86-7):

effice me meritis tempus in omne tuum [...] thalamo nisi tu nupta sit ulla meo. conscia sit Iuno sacris praefecta maritis.

En Met., promisit torum (91) i iurat (94-6)

per sacra triformis ille deae, lucoque foret quod numen in illo, perque patrem soceri cernentem cuncta futuri.

En Her. és Medea qui evoca l’escena; amb gran eficàcia, Ovidi fa que recordi la súplica i la promesa àmpliament, literalment, en estil directe i en els seus termes solemnes; en Met., en la ploma del narrador, això mateix és una dada necessària, obligada, una referència breu. D’altra banda, perque patrem soceri cernentem cuncta futuri és, sens dubte, una expressió més “refinada” i “preciosista” que per genus et numen cuncta uidentis aui. En la comparació dels dos passatges, hi trobem coincidència en el plantejament i en els motius,

33. Per exemple, la catàbasi d’Orfeu en Met. 10.1-63 sembla escrita tenint al davant la de Virgili (Georg. 4.453-506) per no coincidir-hi en l’exposició ni per casualitat, més enllà de l’argument.

Somnia nvgaeqve merae 111

però diferència en l’economia literària. Amb quines raons s’hi podria assenyalar, entre l’un i l’altre, un lapse d’almenys deu anys en la composició?

Pel que fa a Sèneca, el mateix procediment dóna resultats contraposats. S’hi empren criteris contraris, tots dos lícits en principi, però propensos a la subjectivitat: ja hem vist com el “refinament” és senyal de posterioritat per a Herrmann i d’anterioritat per a Zwierlein.

b. Les pauses internes

Per a establir alguna cronologia relativa, s’han intentat procediments d’un altre gènere: l’estudi de petits detalls que permetin traçar una evolució estilística. Així, Zwierlein ha estudiat la sinalefa, la dissolució, l’elisió de síl·laba llarga en l’arsi i en la tesi i de síl·laba breu, la inversió de partícules i la tècnica mètrica34. Els resultats, en la seva pròpia opinió, són inconclusius, només conjecturals: les tragèdies mostren escasses diferències, tenen un estil força homogeni, com si s’haguessin escrit en un període breu.

Un altre mètode, en canvi, sembla haver donat resultats més sòlids. Fitch ha fixat una cronologia relativa prou definida emprant com a criteri principal les pauses de sentit enmig de vers en les seccions parlades, és a dir, en el trímetre iàmbic35

Al seu parer, en una primera etapa, Sèneca hauria pres el vers com a unitat de sentit; més endavant, a mesura que anava adquirint una flexibilitat major en el maneig del trímetre iàmbic, s’hauria permès superar cada vegada més aquest límit per crear un atractiu desacord entre la unitat mètrica i la de sentit; un nombre elevat de pauses internes indicaria, doncs, un domini superior de la versificació i, per tant, una data comparativament posterior36. Així, classifica les tragèdies en tres grups, segons el percentatge de pauses enmig de vers respecte al total de pauses:

gr. 1. Agam. (32’4), Phaed. (34’4), Oed. (36’8)

gr. 2. Med. (47’2), Tro. (47’6), HF (49)

gr. 3. Thy. (54’5), Phoen. (57’2)37

Fitch reforça la seva tesi amb dues proves complementàries, també significatives cronològicament: el tractament com a llarga o breu de la o final de paraula i l’ús d’esquemes mètrics en els càntics corals, de més complexos i ex-

34. O. c., pp. 233-38.

35. FITCH, J. G., «Sense-pauses and Relative Dating in Seneca, Sophocles and Shakespeare», AJPh 102, 1981, pp. 289-307. Un breu resum de l’autor, en la seva edició de HF (IthacaLondres, 1987), p. 53.

36. Ibid., p. 292.

37. Ibid., pp. 290-2. El nombre de pauses internes respecte al total, segons Fitch, és el següent: Agam. 157 de 484, Phaed. 219 de 637, Oed. 193 de 525, Med. 250 de 530, Tro. 304 de 639, HF 352 de 719, Thy. 310 de 569, Phoen. 274 de 479.

perimentals a més simples i efectius. En tractem més avall. Aquesta cronologia relativa tindria repercussions en l’absoluta si s’accepta per a HF com a terminus ante quem l’any 54, per les paròdies de l’Apocolocyntosis38

La tesi de Fitch conté observacions interessants, però resulta molt agosarat afirmar que, amb la combinació dels tres arguments principals, el seu grau de probabiblitat es pot elevar «to the level of near certainty»39. Més aviat al contrari, s’hi poden oposar moltes objeccions que es refereixen als criteris i al mètode i que en qüestionen seriosament els resultats.

Fitch entén per pauses internes les marcades amb puntuació forta enmig del vers; ell mateix adverteix la precarietat d’aquesta definició, que, malgrat tot, es pot acceptar en un còmput global40. De tota manera, cal observar que la determinació i la valoració d’aquestes pauses no és un afer tan simple41. No tot consisteix en el sol fet que una frase acabi enmig del vers: no és igual si la fracció de vers implica un trencament en l’estructura sintàctica (encavalcament en sentit propi) que si hi ha una mera prolongació coordinant o subordinant; una proposició breu (un parell de mots) originarà dues interrupcions forçades i, per tant, poc significatives. En l’escansió, una pausa (punt, interrogació) no impedeix l’elisió o la sinalefa42: no sabem del cert com ho pronunciaven els llatins, però aquest efecte prosòdic fóra impossible si la cadena parlada sofria una interrupció marcada. D’altra banda, la pausa, tant com a la sintaxi, pertany a l’actio: membres del discurs o interrogacions o antítesis en sèrie no exigeixen forçosament un repòs intermedi recalcat, sinó que poden tenir un efecte cumulatiu.

La premissa principal de Fitch és que superar els límits del vers implica domini de la mètrica: mentre el poeta inexpert escriu vers a vers, l’expert es mou amb tanta agilitat en el vers que prescindeix dels límits; i ho fa inconscientment — aquesta circumstància és rellevant, segons ell, perquè implica una evolució espontània, derivada de la pràctica. Les pauses internes són, doncs, indici d’ordre cronològic relatiu: com més n’hi hagi, més tardana serà una obra. Aquesta premissa és simplista. Es pot admetre que el poeta s’atingui primer a l’esquema estricte del vers, però només en un període d’aprenentatge, fins

38. Ibid., p. 307, cf. 289.

39. Ibid., p. 302.

40. Ibid., p. 291, n. 4. Té en compte el punt, els signes d’interrogació i d’exclamació, els dos punts, el punt i coma, el parèntesi, el guió i les cometes. Segueix l’edició de Giardina.

41. Fitch hauria estat menys ingenu i més caut si hagués tingut en compte la revisió de la tesi de M. Parry sobre la relació entre encavalcament i oralitat en Homer, en comparació amb l’èpica culta, en D.L. CLAYMAN-T. VAN NORTWICK, «Enjambement in Greek Hexameter Poetry», TAPhA 107, 1977, pp. 85-92, amb la rèplica de H. R. BARNES, «Enjambement and Oral Composition», TAPhA 109, 1979, pp. 1-10 (la polèmica va continuar en E. J. BAKKER, «Homeric Discourse and Enjambement: A Cognitive Approach», TAPhA 120, 1990, pp. 1-21). Particularment interessants en Barnes són el tractament especial dels idil·lis de Teòcrit que contenen esticomíties i tornades (p. 4) i l’observació que “enjambement is affected by syntactic differences that cannot be mesured by tests of a purely quantitative mesure” (p. 10).

42. Cf., per exemple, Phoen. 231 (fugissem. inhaeret), 365 (quaerite. haec), 220 (premo? has), 224 (attrecto? ego). Això succeeix també amb canvi d’interlocutor (potser és l’únic cas) en Agam. 794: Ag.- Credis uidere te Ilium? Cass.- Et Priamum simul.

112

que haurà adquirit habilitat en el vers, no indefinidament; si no, s’arribaria a l’absurda conclusió que un poeta experimentat no tindria mai en compte el límit del vers. Que això es pugui fer de manera inconscient és també admissible, però només en les prolongacions de sentit més articulades; no —o no tant—, en canvi, quan la prolongació implica una discordança refinada de sentit i mètrica, un autèntic encavalcament. En sentit contrari, es pot afirmar que també ajustar el pensament a l’estructura i als límits mètrics, almenys en unitats àmplies, pot significar habilitat artística: només cal recordar la correspondència preceptiva de sintaxi i mètrica en el dístic elegíac i, encara més a propòsit, en els versos anapèstics43. La mètrica és una disciplina exigent; per això alguns prenen els versos incomplets, si més no, com una anomalia44. Però, a més, és erroni considerar només el vers com a unitat mètrica, sense tenir en compte l’important paper que té la cesura. És un fet ben conegut que la cesura, si bé en principi és independent del sentit, s’aprofita habitualment per a marcar referències de sentit, sobretot concordances amb el final de vers, i també pauses. No cal estendre-s’hi en demostracions: examinant com a mostra les cent primeres pauses internes de dues tragèdies, hem observat que en Agamemnon, 80 recauen en la cesura (67 en la pentemímeres i 13 en l’heftemímeres), i en Thyestes, 81 (70 en la pentemímeres i 11 en l’heftemímeres)45.

Des del punt de vista metodològic, les dades de Fitch surten alterades, al nostre parer, per la inclusió de les Phoenissae i per l’exclusió de l’Hercules Oetaeus. Les Phoenissae no s’haurien de tenir en compte, perquè el càlcul de les seves pauses internes conté un vici de base. En efecte, aquesta obra — tant si es tracta d’una sola tragèdia inacabada com si es tracta de dues parts de sengles tragèdies— consisteix sobretot en llargs parlaments, sense esticomíties ni rèpliques breus; només al final, en els últims vint versos, el diàleg s’anima una mica. Ara bé, és en les esticomíties i en els parlaments breus (fins a uns tres versos) que les pauses internes són més rares, com es pot comprovar en un examen ràpid; l’escassetat de diàleg en Phoen., doncs, hi augmenta de manera anòmala, en comparació amb les altres tragèdies, el percentatge global d’aquestes pauses. Al contrari, convé molt tenir present HO, una tragèdia que, si no és de Sèneca, sí que és senecana46; justament pel fet de considerar-se espúria, pot servir de pedra de toc. Doncs bé, HO té 555 pauses internes d’un total de 1.070, o sigui, un 51’86%. Per tant, aquesta tra-

43. La correspondència entre unitat de sentit i unitat mètrica és un dels criteris principals de la colometria dels anapests, com defensa, entre altres, el mateix Fitch (cf. infra, notes 105 i 106).

44. Els de l’Eneida solen atribuir-se a la falta d’una revisió final. Pel que fa als de les tragèdies de Sèneca (Tro. 1103, Phoen. 319, Phaed. 605, Thy. 100), alguns editors els esborren o tracten de completar-los per conjectura.

45. Hem triat dues tragèdies extremes, la que té menys pauses internes i (excloses les Phoen.) la que en té més. Hi hem seguit els mateixos criteris i la mateixa edició que Fitch. La resta de les pauses recauen en la triemímeres o fora de cesura.

46. No és el mateix cas que el de l’Octauia, força allunyada estilísticament del corpus. En aquesta, la proporció de pauses internes és molt baix: 91 de 304 (29’93%).

Somnia nvgaeqve merae 113

114

Antoni Seva Llinares

gèdia s’hauria de situar com a última del grup 2 o primera del grup 3. És a dir que un imitador maldestre, de qui no hi ha notícia de cap altra contribució al gènere, hauria assolit en la seva única aportació una habilitat en el maneig de trímetre iàmbic comparable a la d’un Sèneca ja molt expert47. Les dades d’HO són més rellevants que les dels altres autors que Fitch addueix i constitueixen una prova de molt de pes contra la seva hipòtesi.

La comparació de les dades de Sèneca amb les d’altres autors de cronologia millor fixada (els tràgics grecs i Shakespeare), més que confirmar la tesi de Fitch, sembla posar-la en dubte. En Sòfocles les diferències en pauses internes no són tan àmplies com en Sèneca: gairebé la meitat48. Se’n dedueix una ordenació de les tragèdies que es correspon més o menys amb una cronologia discutida en diversos punts49. Tanmateix, el criteri de les pauses, que avançaria dos llocs l’última tragèdia, l’Oed. Col., no sembla suficient per a situar en tercer lloc la tragèdia de datació més discutida, les Trachiniae. En canvi, Fitch descarta la utilitat d’aquest criteri en els altres dos tràgics. Efectivament, en Èsquil o el nombre de trímetres és massa escàs o les diferències percentuals són poc rellevants50; en Eurípides els percentatges són tan regulars (entre 25’7% i 33’2%, amb continus alts i baixos) que se’n dedueix que el seu estil «remains essentially static» en aquest aspecte51. Després d’aquests resultats tan poc convincents52, les dades de Shakespeare són sobreres: encara que —malgrat certes dificultats, com els versos blancs i la diferència de gèneres— s’hi constati un augment progressiu de les pauses internes, d’això no es pot inferir que en Sèneca hagi de passar el mateix.

Fitch opina que, al contrari que les pauses internes, la freqüència de l’antílabe és un criteri poc útil com a indici cronològic per tres motius: perquè l’antílabe és un fenomen de poc abast, poc significatiu estadísticament, perquè és un recurs conscient i perquè el seu ús està influenciat per situacions dramàtiques particulars53. I es remet, induint a confusió, a un assaig de Kitto sobre la qüestió en Sòfocles54. En realitat, l’estudi de Kitto porta per un altre camí, més enllà de còmputs mecànics, i amb arguments més subtils i matisats. El seu punt de vista principal és que un fenomen particular com l’antíla-

47. O potser hauríem de dir amb Fitch (a propòsit de la quantitat de -o): «the unknown author of that play cannot be denied a talent for mimicry» (o. c., p. 303, n. 21)?

48. En tants per cent, Aiax 21, Ant. 21’8, Trach. 26’6, Oed. t. 27’9, Oed. Col. 29’7, El.33’2, Phil. 33’4.

49. Ibid., pp. 292-94.

50. Ibid., pp. 294-95.

51. Ibid., pp. 295-97.

52. Acompanyats d’algunes conclusions sorprenents, com ara aquestes: «There is clearly a general tendency for the incidence of internal sense-pauses in tragic trimeters to increase through the last two-thirds of the fifth century. This general movement stengthens my supposition that an increasing incidence of internal sense-pauses is a natural result of increasing familiarity and experience with the iambic trimeter» (ibid., p. 298). La primera afirmació no es demostra; la segona és incoherent: cada poeta adquireix experiència ell sol des de zero.

53. Ibid., pp. 291-93.

54. KITTO, H. D. F., «Sophocles, Statistics and the Trachiniae», AJPh 60, 1939, pp. 178-93.

be no es pot estudiar aïlladament, sense tenir en compte altres fets estilístics i literaris en un autor i en una obra determinats. En Sòfocles les antílabes — un recurs «used perhaps consciously, perhaps unconsciously, but at all events consistently»—55 solen donar-se en sèries, al final d’una escena i en situacions d’una tensió especial56. «To some extent the rise [del nombre d’antílabes] may have been chronological; Sophocles may have liked the effect more and more. But he kept his hands on all the controls always»57. L’ús de l’antílabe pot tenir a veure amb la cronologia, però no amb independència del to i del sentiment58; la seva incidència en una obra s’explica sempre per la natura de l’acció dramàtica particular59

Pel que fa a Sèneca, segurament l’antílabe no és un bon criteri cronològic, com suposa Fitch sense argumentar-ho. Potser aquest punt requeriria un petit estudi: ens limitem aquí a una simple aproximació. En efecte, l’ús de l’antílabe en Sèneca és desconcertant per la seva freqüència60 i la seva funció. Com és natural, les antílabes no solament apareixen en les discussions vives, en el clímax dialèctic, sinó que les accentuen; ara, no sempre és així: també n’apareixen en diàlegs ràpids, però no vehements61. Sovint formen sèries, en un ritme accelerat, envoltades d’esticomíties o d’altres intervencions breus, en qualsevol moment de l’escena. Que aquí té poc a veure l’adquisició d’experiència, amb l’indici cronològic que se’n deriva, ho mostra a bastament el fet que l’Octauia contingui el màxim nombre de casos, i sempre en sèries. Algunes demostren gran habilitat i refinament, com les brillants i famoses rèpliques de Med. 168-73: aquest artifici —conscient o inconscient: no sabríem dir-ho— demostra domini de l’estil; podria indicar experiència dramàtica i mètrica (amb diverses pauses internes) i, per tant, ser significatiu cronològicament, però també pot ser un recurs dialèctic procedent de l’escola de retòrica, no del teatre.

Sigui com sigui, el punt principal és que els càlculs estadístics, per ells sols, són insuficients i poc significatius si es prescindeix d’altres elements estilístics que conflueixen en una obra i fins i tot en un passatge concrets. Això, Fitch no ho té prou en compte. Sembla estranyar-se que els Sermones d’Horaci continguin un nombre més elevat de pauses internes (64%) que les Epistulae, força posteriors (36%); i accepta l’enraonada explicació d’un col·lega: el diàleg i

55. Ibid., p. 192.

56. Ibid., pp. 179-80.

57. Ibid., p. 192.

58. Ibid., p. 183.

59. Ibid., p. 193.

60. Vet aquí les xifres, amb percentatges respecte al nombre de trímetres iàmbics (hi comptem com a dobles els casos en què els dos interlocutors tenen dos parlaments sencers). Resten a part les Phoen., on, d’acord amb el que hem apuntat abans, no n’hi ha cap cas. En les altres tragèdies: Tr., 2 en 919 (0’21%); Oed., 2 en 741 (0’26%); HF, 5 en 1031 (0’48%); Phae., 7 en 963 (0’72%); Thy., 7 en 767 (0’91%); Med., 12 en 689 (1’74%); Agam., 13 en 689 (1’88%). HO es pot inserir sense dificultat en el conjunt: 9 en 1413 (0’63%); en canvi, Oct. supera de molt la mitjana: 20 en 599 (3’33%).

61. Cf. Oed. 797, 847, Thy. 257-9, 443-4.

Somnia
merae 115
nvgaeqve

Antoni Seva Llinares

l’estil directe, més abundants en Sermones, tendeix a sobrepassar els límits del vers62. I encara s’hi pot afegir una consideració més: malgrat la característica comuna de les dues obres, el to planer i col·loquial, la primera, més faceciosa i incisiva, presenta més encavalcaments violents (conjuncions, preposicions, relatius sols a fi de vers) que la segona, més seriosa i reflexiva63; més que una mostra de ductilitat en el vers, el que hi ha aquí és una llicència que s’atorga el poeta en un gènere menor i que fóra impròpia en un tema heroic.

També les Bucòliques de Virgili poden aportar alguna llum a la qüestió. El recull és de datació insegura en la majoria dels poemes en particular, però prou segura en conjunt (42/41-39 aC)64. Pel que fa a la cronologia absoluta, Buc. 1 i 9 tenen com a terminus post quem el 42/41; 4 és del 40, i 8, del 39. Pel que fa a la cronologia relativa, la 4 pressuposa la composició anterior almenys d’una bucòlica, i probablement més d’una65; la 5 és posterior a la 2 i a la 366. Doncs bé, això no lliga amb el còmput de les pauses internes67. D’antuvi, semblaria que en la 1 i la 10 l’ordre d’edició confirmaria el de composició. Però la resta no encaixa. Si, com és palès, la 4 ha d’anar precedida per una o probablement més d’una, trobem que tota la resta té un percentatge superior de pauses; entre les més pròximes, no podria ser precedida per la 8, que és de les últimes cronològicament, ni per la 5, que és posterior a la 2 i a la 3 (aquesta, amb un percentatge notablement més elevat). Ben mirat, si hem d’explicar el nombre de pauses internes de les Bucòliques, resulta més satisfactori acudir a un altre criteri diferent —que aquí no fem sinó apuntar— del de la cronologia absoluta o relativa. Enfront del diàleg estàtic i reflexiu de Buc. 1, la 9, de la mateixa temàtica, presenta un diàleg més variat; són mogudes la 3 i la 7, que contenen cants amebeus de distribució regular (més breus en la primera que en la segona), mentre que en la 8 el certamen poètic consisteix en sengles monòlegs llargs dels dos competidors; en canvi, en la 4 és el poeta mateix qui canta en un to solemne i profètic. El plantejament de cada bucòlica comporta un tempo particular i una distribució més àmplia o més concisa de les frases. Això, més que no pas una automàtica ordenació quantitativa —o fins i tot cronològica, si es pogués establir—, sembla justificar millor el percentatge de pauses internes.

62. O. c., pp. 301-2, n. 18.

63. En un còmput aproximat, hem observat que aquests encavalcaments representen al voltant d’un 6 % respecte al nombre total de versos en Sermones; en Epistulae 1 arriben a poc més del 4’5%, i en 2, a poc més del 3’5%.

64. Deixem de banda aquí si Buc. 10 va ser afegida més tard, el 37, com sostenen alguns.

65. L’expressió paulo maiora canamus (v. 1) difícilment pot referir-se a una sola peça anterior; més aviat al·ludeix al to habitual de diversos poemes de temàtica semblant.

66. En 5.86-87 es citen 2.1 i 3.1. Cal admetre, però, una certa possibilitat que aquestes citacions no corresponguin al moment de la composició, sinó a un últim retoc previ a la publicació del recull.

67. El nombre de pauses internes respecte al total és el següent (arrodonim les xifres en els percentatges): 1: 11 de 50 (22%); 2: 18 de 58 (31%); 3: 43 de 112 (38%); 4: 10 de 40 (25%); 5: 19 de 65 (29%); 6: 19 de 52 (37%); 7: 13 de 44 (30%); 8: 23 de 82 (28%); 9: 26 de 58 (45%); 10: 26 de 61 (43%). De menys a més: 1, 4, 8, 5, 7, 2, 6, 3, 10, 9.

116

Somnia nvgaeqve merae 117

Si bé podem admetre la pertinència del punt de partida de Fitch, és a dir, que les pauses internes indiquen una certa habilitat adquirida, no ens sembla demostrat que aquestes pauses puguin servir com a criteri principal per a la datació, perquè s’entrecreuen amb altres fenòmens que en dilueixen el pes. L’ordenació de Fich indueix a creure que hi ha una evolució cronològica; però si les tragèdies es disposessin de qualsevol altra manera, també podríem concloure que l’ús de les pauses internes hi és oscil·lant, amb el cim en el Thyestes. S’hauria d’investigar quines raons estilístiques (no una de sola) poden explicar això en cada cas.

c. El tractament de -o68

L’abreviació de –o és originàriament un cas particular de l’abreviació iàmbica que venia de lluny. Fins a finals de la República, s’abreujaven només uns pocs mots iàmbics (duo, ego, modo); Lucreci hi afegeix homo, i Catul, a més de uolo i dabo, per primera vegada un crètic, nescio. Virgili (abreuja scio), Tibul (desino) i Properci són molt estrictes; Horaci abreuja uns quants iambes més (cito, ueto, etc.) i uns quants crètics (mentio, dixero). Ovidi amplia la llista de iambes i crètics i, per primera vegada, abreuja espondeus (Naso, nemo, tollo, ergo, etc., i fins i tot l’imper. esto).

Al costat d’aquests poetes exclusivament o majoritàriament dactílics, segons Hartenberger, Sèneca «omnium poetarum neglegentissimus esse uidetur in o finalis quantitate obseruanda, necessitate fortasse coactus metri artificiosi»; «totam eorum [poetarum] rationem prostrauit Seneca in tragoediis, qui correptionem in omnes fere mensuris extendit: breuiauit anapaestos, molossos, bacchios atque etiam exempla quattuor syllabarum. Hanc autem libertatem dactylici poetae secuti non sunt»69. Els poetes posteriors a Sèneca, fins a Juvenal, també majoritàriament dactílics, tot i permetre’s noves “llibertats”, no arriben a l’extrem de Sèneca.

Les formes abreujades són: nom. de la 3ª, numerals, adverbis, conjuncions,

68. Els aspectes prosòdics i els mètrics estan íntimament lligats en aquesta qüestió. L’estudi de referència sobre la –o és encara HARTENBERGER, R., De o finali apud poetas Latinos ab Ennio usque ad Iuuenalem, Bonn 1911. Entre l’abundant bibliografia, destaquem: SCHMIDT, B., De emendandarum Senecae tragoediarum rationibus prosodiacis et metricis, Berlín 1860; HOCHE, M., Die Metra des Tragikers Seneca, Halle 1862; SKUTSCH, O., Prosodische und metrische Gesetze der Jambenkürzung, Göttingen 1934; STRZELECKI, L., De Senecae trimetri iambico quaestiones selectae, Cracòvia 1938; DREXLER, H., Einführung in die römische Metrik, Darmstadt 1967, i Die Jambenkürzung, Hildesheim 1969. Tenen interès parcial HAHLBROCK, P., «Beobachtungen zum jambischen Trimeter in den Tragödien des L. Annaeus Seneca», WS n. F. 2, 1968, pp. 171-192, i FLAMMINI, G., «La –o finale di parola nelle ‘sedi pari’ dei trimetri senechiani», GIF 40, 1988, pp. 39-60. Però el llibre que ens ha estat més útil, pel rigor i per l’abundància de detalls, és SOUBIRAN, J., Essai sur la versification dramatique des Romains. Sénaire iambique et septénaire trochaïque, París 1988. Hem cregut que no havíem d’entrar aquí en dues qüestions espinoses: la de les motivacions fonètiques i prosòdiques de l’abreviació iàmbica i la de la relació entre ictus i accent. 69. O. c., pp. 65 i 97.

1ª pers. de pres. i de fut., imper., abl. del gerundi. En queden al marge els dat. i abl., sempre llargs.

Entenent l’abreviació com una “llicència”, Fitch formula la seva “raonable” hipòtesi: «a large increase in its use within the work of a single author in a single genre is chronologically significant”. I així, segons els seus còmputs, hi ha una marcada diferència en l’abreviació de –o en els grups de tragèdies que havia establert segons les pauses de sentit: d’una banda els grups 1 i 2, amb diferències irrellevants, i de l’altra el grup 3, és a dir Thyestes i Phoenissae70 D’on extreu aquesta conclusió: «The change is so striking as to suggest that Seneca decided, before writing Thy. and Phoen., that he could use the licence much more widely than before»71. A més, segons Fitch, l’abreviació, en aquestes tragèdies, no augmenta solament en nombre, sinó també en qualitat: hi ha un nombre més elevat de formes de 1ª pers. sing. i de més mots de tipus k , k k i k i tetrasíl·labs72. Per tant, conclou Fitch, el criteri de l’abreviació de –o confirma el de les pauses de sentit: se’n dedueix que Thy. i Phoen. són les últimes tragèdies; i, més precisament, «clearly we shall regard Phoen. as the later of the Group 3 plays and thus the last of Seneca’s dramatic compositions»73.

Doncs bé, aquesta hipòtesi, aparentment tan satisfactòria i rodona, al nostre entendre no és més que un miratge, una acumulació de dades mal seleccionades i mal interpretades que menen a una conclusió especiosa. Els principals errors que s’hi ha d’assenyalar són els següents: a) la consideració com a “llicència” de l’abreviació; b) la classificació mecànica dels mots que mantenen la quantitat llarga i dels abreujats; c) la manca d’inserció dels mots en l’estructura del vers; d) la suposició no provada que una abundància més gran de mots abreujats en un mateix autor implica redacció posterior.

Si s’entén per llicència la infracció d’una norma, el terme no es pot aplicar sempre pròpiament a l’abreviació. L’abreviació, abans que res, és un fet de llengua. Per a detectar-lo disposem sobretot d’un instrument indispensable, de primer ordre, que és la mètrica. Però la mètrica és una arma de doble tall, ja que, alhora que fa patent el fenomen, també, en estar subjecta a estructures precises i a convencions tradicionals, l’emmascara. En l’avançada paulatina de l’abreviació de –o, des del s. II aC al s. II dC, s’hi adverteix una resistència cada vagada més feble: la llengua corrent, no solament la popular, va per davant de la llengua formal, literària, i encara més de les estructures rígides de la poesia dactílica, el pes de les quals encara perdurarà en segles posteriors, quan ja s’haurà perdut la distinció de quantitat.

Si entre els mots iàmbics abreujats ja figura des d’Horaci un abl. usat adverbi-

70. O. c., p. 303. Cf. infra.

71. Ibid., p. 304.

72. Ibid., pp. 304-5.

73. Ibid., p. 304.

118

alment (cito), si des de Catul ja comencen a abreujar-se els crètics i des d’Ovidi els espondeus, cal sospitar que el procés d’abreviació de –o era irreversible. Enfront de l’estricte Virgili, Horaci es pren algunes llibertats; al costat dels puristes Tibul i Properci, Ovidi és un innovador. Els contemporanis de Sèneca, llevat de l’escrupolós Fedre, no fan marxa enrere: Persi abreuja molossos, Lucà un epítrit 3, Petroni baquius. Després l’abreviació s’estén i s’amplia, moderadament en Valeri Flac i en Sili Itàlic, més decididament en Estaci i amb poques reserves en Marcial i sobretot en Juvenal. Sèneca va fer un resolut pas endavant. En les tragèdies es detecta amb més claredat el capgirament de quantitat: allà on abans predominava la quantitat llarga, ara hi predomina la breu. No és que Sèneca fos «neglegentissimus», ni tan sols agosarat, sinó que treballava en un gènere que es prestava més que cap altre a reflectir un estat de llengua real; i en aquest gènere l’instrument principal (tres quartes parts del total de versos de les tragèdies) és el trímetre iàmbic, el vers del recitat dramàtic. No és Sèneca qui es troba «necessitate coactus metri artificiosi», sinó els altres poetes, els dactílics, que, davant la incompatibilitat amb l’hexàmetre d’una part molt considerable del lèxic llatí, havien d’encabir molts mots —entre els quals, molts d’acabats en –o— en elisió o a final de vers o bé hi havien de renunciar substituint-los per sinònims.

El trímetre iàmbic dramàtic de Sèneca és un tipus de versificació nova que, d’una banda, es diferencia fortament de la versificació dactílica i, d’altra banda, remuntant-se al model grec, es distingeix clarament dels trímetres lírics purs, virtuosístics, de Catul i d’Horaci i s’aparta del senari iàmbic del drama arcaic, amb el qual, però, comparteix la versatilitat. Això, ho ha vist molt bé J. Soubiran: «L’hexamètre est un cadre strict à garnir coûte que coûte: versification quantitative pure, mais aussi, par certains aspects, artificielle et intellectuelle. [...] Le sénaire / trimètre est, au contraire, beaucoup plus souple, et il peut—mieux: il doit—se permettre de respecter les rythmes naturels de la langue. »74 I, més avall, subratlla la fluïdesa d’aquest ritme, molt pròxim a la prosa, segons el testimoni de Ciceró75. En el conjunt de versos que apareixen en les tragèdies de Sèneca, cal distingir-hi, a més, tres tipus ben diferents. D’una banda, la versificació sil·làbica o eòlia (on predominen els sàfics menors), en què la successió rigorosa de llargues i breus no deixa marge a substitucions. D’una altra, la versificació quantitativa, amb dues variants, el γένος ἴσον (sobretot anapests), on les unitats rítmiques, els peus, es componen de parts iguals (2 + 2 mores), i el γένος

74. O. c., p. 213.

75. Ibid., pp. 310-11. Comicorum senarii propter similitudinem sermonis sic saepe sunt abiecti ut non numquam uix in eis numerus et uersus intellegi possit (Orat. 184); magnam enim partem ex iambis nostra constat oratio (ibid. 189). Hi podem afegir: iambus frequentissimus est in iis quae dimisso atque humili sermone dicuntur (ibid. 196). Ja Aristòtil havia oposat el trímetre iàmbic a l’hexàmetre: «pronunciem moltíssims iambes en la conversa d’uns amb altres, però rarament hexàmetres, i encara sortint-nos del to col·loquial» (Poet 1449a).

Somnia nvgaeqve merae 119

120

διπλάσιον (el trímetre iàmbic majoritari i alguns troqueus), on la unitat és doble (1 + 2 mores); l’un i l’altre tenen regles particulars.

Si no es tenen presents aquests pressupòsits, tot càlcul estadístic anirà desencaminat. Convé aclarir, a més, alguns punts que incideixen en el recompte de casos i en l’avaluació del fenomen.

Al nostre entendre, s’han de deixar a part diversos adverbis (la majoria, abl. d’adj. usats adverbialment) que, sens dubte, conservaven la quantitat llarga original: a més de retro i ultro, sempre llargs, tanto, quanto, multo, primo, tuto, precario, raro, perpetuo, illo, alio, profecto; no hi ha, fins a Sèneca, indicis d’abreviació ocasional d’aquests adverbis. És cert que Horaci (Epist. 2.3.335) havia abreujat cito, i el segueixen els poetes posteriors; es tracta, però, d’un mot iàmbic. Al contrari, s’han de tenir molt en compte diverses formes, algunes de les quals Sèneca és el primer a abreujar: els adverbis i conjuncions sero, subito, uero, quando, aliquando, immo, ergo (ja abreujat per Ovidi, Her. 5.59); encara amb més motiu els abl. del gerundi ferendo, imperando, uincendo, petendo, fando, pereundo; també l’imper. memento (esto, abreujat en Ovidi, Trist. 4.3.72).

Pel que fa a l’estructura prosòdica dels mots, entre els precedents cal referirse sobretot a Ovidi76, el poeta anterior més lliure en l’abreviació. Els punts a considerar són els següents:

1. En Ovidi els iambes esdevinguts pirriquis són prou freqüents; a part dels “canònics” (duo, ego, modo i compostos i cito), hi apareixen una o diverses vegades homo (ja en Lucreci i en Catul), scio (ja en Virgili), leo, uolo, puto, peto, amo, ero, rogo, nego, cano; en aquests i en altres mots semblants es dóna l’alternança amb quantitat llarga. Això implica un avanç decidit i significatiu de l’abreviació iàmbica; mig segle després, en el diàleg dramàtic de Sèneca, aquesta ja s’ha d’entendre com una solució normal, no com una llicència.

2. Els crètics esdevinguts dàctils són més escassos en Ovidi: Scipio i algun altre nom propi i odero, confero, desino (ja Horaci Pollio, mentio, dixero); l’abreviació permet encabir aquests mots en l’hexàmetre77. Això també implica un avanç de l’abreviació, i no gaire violenta, perquè les dues últimes síl·labes constitueixen un iambe. Però Sèneca no es serveix d’aquest avantatge, no per atzar ni menys per purisme, sinó perquè, com veurem, un mot dactílic no es pot admetre en el trímetre iàmbic, amb rares excepcions.

3. Els espondeus esdevenen troqueus només a partir d’Ovidi; encara que siguin pocs els mots abreujats (ergo, nemo, tollo, esto, credo, Naso, Sulmo, Semo), són molt significatius, perquè per primera vegada la fi-

76. Per a la localització dels casos citats i dels usos dels diferents autors, ens remetem a Hartenberger.

77. Però el polit Virgili preferia l’elisió o la variant artificiosa, com Scipiadas

nal abreujada no va precedida de breu i perquè no estan condicionats per la mètrica (amb –o llarga poden entrar sense dificultat en l’hexàmetre). En Sèneca són molt abundants; no tant en els poetes dactílics posteriors.

Hartenberger va formular per a Sèneca una regla simple —ja avançada, però, per Schmidt i Hoche—: «Haec sola regula constitui potest ictus ui ubique litteram extremam [sc. –o] produci duobus qui in anapaestis sunt locis exceptis ‘uirgo’ Med. 350. Thy. 857, contra syllabam ictu carentem in o breuem desinere»78; és a dir, -o és llarga en semipeu fort i breu en semipeu feble. Aquesta regla no és falsa, però sí insuficient, ja que no distingeix els tipus de versificació ni, en els trímetres iàmbics, explica les distribucions possibles. Convé aclarir també un parell de casos d’escansió considerada ambigua, que afecten el 3Tf79. En primer lloc, el fet que el 3Tf del trímetre iàmbic pugui ser llarg o breu no implica que la seva quantitat sigui indefinida. El tercer peu té les seves característiques singulars80: conté gairebé sempre la cesura (P); com a senar, no és obligatòriament pur, però es diferencia del primer, que és més lliure en resolucions, i del cinquè, on només s’admeten l’espondeu i l’anapest. Si, com hem afirmat abans, els mots en qüestió en general tenien ja regularment breu la –o, també la tindran en el 3Tf. Per tant, Tr. 475 tam magna timeo uota o Med. 461 nihil recuso. dira són del tot equiparables amb Med. 132 diuisus ense funus o Ag. 923 pauetque maesta? regium; mots com uideo, ratio, etc. apareixen igualment en els peus segon, quart i tercer (cf. p. ex. propero, HF 1279, Phoen. 305, Med. 297, Thy. 1057) i no es veu cap motiu pel qual, en aquest moment del procés d’abreviació, l’escansió hagi de ser diferent. La regla de Hartenberger confirmaria aquest punt. En segon lloc, tampoc la –o, com les altres vocals finals breus, no sofrirà allargament en Tf quan el mot següent comenci per muta cum liquida o smés oclusiva. Això és evident per als peus parells, però també ha de valdre per al 3Tf81. Per tant, Tr. 469 sero Phrygibus o HF 121 fauebo scelere són equiparables amb Med. 244 culpa praemium o Tr. 447 Achille spolia82 . En

78. O. c., p. 65; cf. SCHMIDT, o. c., pp. 29-30.

79. Per claredat (i per evitar la possible confusió d’arsi i tesi), seguim aquí la terminologia francesa habitual, tal com l’empra Soubiran: TF = temps (o semipeu) fort, accentuat rítmicament; Tf = temps feble; P = cesura pentemímeres; H = cesura heftemímeres; els diferents peus s’indiquen amb xifres romanes.

80. Tots els peus, de fet. Per això no ens sembla convincent l’explicació que dóna A. S. GRATWICK sobre l’estructura dels trímetres iàmbic i trocaic (recensió del llibre citat de Soubiran en ClR n. s. 40, 1990, pp. 337-40). Segons Gratwick, el nucli de cada metre és un crètic al qual s’afegeix una síl·laba llarga o breu davant (iàmbic) o darrere (trocaic): x w / w x. Com a model teòric, aquesta explicació està bé, però no té en compte la divisió del vers en hemistiquis per la cesura ni el comportament peculiar de cada peu. Per damunt dels elements, hi ha la consideració del vers com a unitat superior.

81. No és possible en primer peu perquè el mot en –o hauria de ser un monosíl·lab, i per tant llarg, ni en el cinquè pel principi I de Soubiran (cf. infra, n. 96).

82. El fet és molt conegut; només caldrà recordar alguns exemples: a) m. c. l.: Verg. Aen. 2.792 collo dare bracchia, Ov. Tr. 5.11.25 limina claudant; b) s- més ocl.: Hor. S. 1.10.72

Somnia nvgaeqve merae 121

122

Antoni Seva Llinares

aquests dos casos, el lleuger allargament que sofreix tota síl·laba breu final83 no afecta més el tercer peu que qualsevol altre. La presència immediata de la cesura P, quasi universal, no implica allargament en 3Tf (si fos així, tot tercer peu seria condensat)84; n’és la prova que, quan la cesura és H, recau després del primer temps del quart peu, sempre pur85.

Fitch fa el recompte de mots acabats en –o llarga i breu en aquestes condicions: n’exclou duo, ego, modo i nescio seguit de pron. interr., mots que renien regularment –o breu ja abans de Sèneca; també retro i ultro, sempre amb –o llarga; sens dubte considera ancipites les –o del 3Tf; no distingeix entre els trímetres iàmbics i els versos lírics. El resultat és el següent:

gr. 1 Ag. 1313gr. 2 Med. 12 8gr. 3 Thy. 1036

Phaed. 1211 Tr. 812 Phoen. 542

Oed. 7 8 HF 1416

Destacades de les altres, Thy. i Phoen. serien, doncs, les tragèdies més innovadores i per tant les més recents86. En el nostre recompte, per mantenir, en la mesura possible, termes semblants, excloem els mateixos mots que Fitch87. Però no comptem tampoc els adverbis que hem descartat abans (tanto, quanto, etc.); separem els versos del recitat i els del cant; donem valor de breu a la –o en 3Tf i davant muta cum liquida o s- i oclusiva. El resultat varia notablement: trím. iàmb.vv. lírics -ō -ŏ

HF 112811

Tr. 31622

Phoen. 453--

Med. 121332

saepe stilum uertas, Pr. 3.11.27 nunc ubi Scipiadae; s- més m. c. l.: Hor. S. 1.5.35 praemia scribae. La vocal final s’allarga, però, si es troba en TF: Sen. HF 950 frigida spatio, Phaed. 1025 undique scopuli (cf. Cat. 4.9 Propontida trucemue).

83. Cf. SOUBIRAN, o. c., p. 208, Qvint. IO 9.4.107-8.

84. No resulta del tot clara l’observació de SOUBIRAN (p. 192): «un colon tel que le premier hémistiche du trimètre / sénaire tend à s’achever, comme le vers lui-même—mais avec une moindre rigueur, temperée de quelques exceptions—avec une syllabe indifférente unique». En tot cas, aquest valor ambigu valdria per a tota final breu, vocàlica o consonàntica, i ens els mots en –o seria de caràcter secundari.

85. Cf. Tr. 626 detexit: iterabo, Med. 911 rapuisse fraternum, Phoen. 235 detineo? quid.

86. O. c., pp. 303-4.

87. No incloem, doncs, els 24 pirriquis, que sí que tindrem en compte, però, en l’anàlisi.

ŏ -ō -ŏ -ō -ŏ -ō -ŏ
-ō -ŏ

Phaed. 111703

Oed. 61711

Ag. 101820

Thy. 63208

Amb aquest càlcul (arrodonint les xifres), pel que fa als trímetres, en Med. les breus s’equiparen amb les llargues; en Phaed. i Ag. les breus gairebé multipliquen les llargues per 2; en Thy., per 5; en Tr., per 6; en Phoen., per 14. Els versos lírics, sumats als iambes, farien variar només Thy., multiplicant per 7, i Tr., per 4. Posats a imaginar, s’hi podria establir una evolució lenta o distingir tres o quatre salts. En tot cas, s’hi destacarien dos extrems, Med. i Phoen.; Tr. passaria a ser una de les últimes tragèdies, fins i tot posterior a Thy.

L’abreviació de –o, tal com la coneixem a través dels poetes, no és un afer purament prosòdic, sinó que està condicionada per la mètrica: tant com l’estructura prosòdica del mot, importa la seva inserció en el vers, la «métrique verbale».

Tractarem, en primer lloc, del trímetre iàmbic, que representa aproximadament el 75% del total dels prop de 8.700 versos de les tragèdies. Com ja hem indicat, és el tipus de vers que millor deixa veure el fenomen de l’abreviació, però, tanmateix, està subjecte a normes específiques, entre les quals, la presència gairebé general de la cesura P (almenys en el 95% dels versos), restriccions en determinades posicions (cinquè peu obligatòriament espondeu o anapest, sisè habitualment disíl·lab, etc.) i altres particularitats que anirem exposant. Sens dubte, els resultats de l’anàlisi que segueix són més sòlids on els casos són més abundants: 129 en els disíl·labs, inclosos els pirriquis, en quatre combinacions possibles, i també 132 en els trisíl·labs, en vuit combinacions; en canvi, els tetrasíl·labs són molt escassos, només 20, però ofereixen indicis suficients; no hi ha mots en –o de més síl·labes en les tragèdies.

I. Disíl·labs

1. Iambe (w ) i pirriqui (w w). Sèneca és més estricte que Ovidi, i fins i tot que Horaci, en el tractament dels mots iàmbics en general. Aquests mots, que ocupen un sol peu del trímetre88, no presenten mai vacillació en l’última síl·laba: la síl·laba llarga dels acabats en vocal és sempre segura (tipus manu); els acabats en –o són dat. o abl89. Es donen en els peus I, II i IV; no en III (sens dubte, per l’habitual cesura P), ni en V (on el iambe està exclòs), ni en VI (final anceps). No hi ha, en totes les tragèdies, cap cas de mots en –o ambigua, de què tractem

88. Els mots iàmbics no poden formar part de dos peus (w | ) perquè aquesta distribució suposaria un semipeu anterior contrari al principi I de Soubiran (cf. infra, n. 96).

89. Per a aquest punt particular, hem examinat com a mostra dues tragèdies: en HF hi ha 18 finals vocàlics, en Phoen., 23.

Somnia
123
nvgaeqve merae

Antoni Seva Llinares

aquí (tipus amo)90. Això indica que aquesta –o era sentida com a breu i no podia, doncs, constituir TF. En els mots ja abreujats pels seus antecessors —que, per això, no hem inclòs en el quadre precedent— (els pirriquis ego, duo, modo, cito, uolo, peto, dabo, etc.), també hi és acurat

Sèneca: sol situar-los en VI (47 vegades) o en elisió91. En una altra posició, hi apareixen només: a) ego en I (11 vegades), formant el primer semipeu d’un anapest (ex. HF 514 ego dum) o d’un proceleusmàtic (ex. Phoen. 44 ego uideo), o formant el segon semipeu d’un dàctil (només en Oed. 23 hoc ego); en II o IV (7 vegades), formant el TF d’un tríbrac (ex. Phaed. 685 uisus ego); només una vegada, en una escansió irregular, repartit entre I i II (Oed. 263 quidquid ego fugi)92; b) modo (3 vegades) formant el primer o el segon semipeu de I (ex. Tr. 958 modo turba); c) scio (2 vegades) en les mateixes condicions (ex. Phoen. 303 scio quo). Els pirriquis resultants de l’abreviació iàmbica constitueixen obligatòriament un semipeu93 2. Espondeu ( ) i troqueu ( w). Com ja hem dit, a propòsit del 3Tf i dels mots iàmbics, entenem que en Sèneca l’abreviació dels mots espondaics ja s’havia consumat. Així doncs, opinem que aquests mots conserven sovint la quantitat originària: formant espondeu en V (una de les dues opcions obligatòries en aquest peu), amb la –o en TF (17 vegades, ex. HF 1159 cerno), i només dues en I (Med. 430 nemo94 , Phaed. 135 sero); en III, impediria la P. Però l’escansió abreujada és molt més freqüent, sempre dividida entre dos peus, ocupant la –o un Tf: de II (21 vegades, ex. HF 1297 Iuno), de III (22 vegades, ex. Tr. 872 uirgo) i sobretot en IV (43 vegades, ex. Med. 518 cedo); podria donarse en VI, però això requeriria un rar monosíl·lab final95

II. Trisíl·labs

1. Crètic ( w ) i dàctil ( w w). El crètic només pot donar-se amb les dues últimes síl·labes formant un peu ( | w |), i així es dóna en

90. Sí que n’hi ha un cas, excepcional, en Hercules Oetaeus 728 queo, formant IV: una petita prova més de la inautenticitat d’aquesta tragèdia.

91. Fora d’aquestes posicions, duo i cito no apareixen mai en els trímetres iàmbics; homo, una sola vegada, en afèresi, en VI (Tr. 298 homo est).

92. SOUBIRAN (o. c., p. 208) explica aquesta anomalia per “l’élan vocal” del primer peu i per la relació estreta entre dos mots successius. El text admès pels editors és satisfactori quant al sentit, però aquesta anomalia i la discrepància dels manuscrits (ego A: ergo E) pot fer sospitar un error textual. S’hi podria proposar la conjectura quidquid refugi (sobre refugio amb el mateix significat, cf., entre altres, HF 1319, Thy. 533); però el context sembla demanar el pron. pers., per oposició a una tercera pers. precedent. O també quidque ego refugi, si no fos que l’ús de quisque com a relatiu és força rar. Potser val més admetre la llicència.

93. Cf. SOUBIRAN, ibid., p. 251.

94. En els trímetres iàmbics nemo apareix com a espondeu només dues vegades, aquí i en Med. 565, en V.

95. Aquesta solució és excepcional: en totes les tragèdies (a part de les afèresis) només hi ha dos casos, no acabats en -o: HF 1162 i Med. 692. Cf. SOUBIRAN, ibid., pp. 396-99.

124

Somnia nvgaeqve merae

125

mots en –o (ex. HF 1242 flagito): en II (1 vegada) i en IV (3 vegades); en III impediria P. Però el dàctil format per un sol mot és exclòs del trímetre iàmbic d’acord amb el principi I de Soubiran96. Això no obstant, en Sèneca, se’n troben alguns en el peu més versàtil, I (ex. HF 995 uulnere)97; cap d’acabat en –o. En resta al marge, com admet tothom, el cas de nescio més pron. interr. (ex. Phaed. 858 nescio quid), que funcionalment i prosòdicament constitueix un sol mot—alguns editors ho escriuen tot junt—, formant peó 1 o coriambe98.

2. Anapest (k k ) i tríbrac (k k k). Els mots anapèstics formen un sol peu senar (ex. Med. 233 taceo), I (11 vegades) o V (6 vegades); no III per P. Els tribràquics es reparteixen en dos peus (2 + 1 síl·labes), d’acord amb el principi II de Soubiran99 (ex. Phoen. 9 uideo), en I-II (12 vegades), II-III (13 vegades) i III-IV (28 vegades); un mot tribràquic no pot donar-se ocupant els peus quart i cinquè perquè en aquest donaria la primera síl·laba d’un anapest contra el principi I.

3. Molós ( ) i antibaquiu ( k). El molós només es pot repartir en 1 + 2 síl·labes i es dóna (16 vegades) només en l’únic lloc possible, en IV-V (ex. HF 624 agnosco); en II-III, ho impedeix P. L’antibaquiu no es pot dividir en 1 + 2 (hauria de ser en II-III i contra el principi I); dividit en 2 + 1 es dóna en I-II (10 vegades, ex. Oed. 1043 compello); també en III-IV, però amb cesura H (en Phoen. 49 praedico i 64 praecedo); també podria donar-se, amb raríssim monosíl·lab final de vers, en V-VI.

4. Baquiu (k ) i amfíbrac (k k ). En la distribució 1 + 2, el baquiu (v | |) només pot donar-se en circumstàncies especials: en II-III, sense P, i en IV-V, sempre després de monosíl·lab breu proclític100; l’amfíbrac (k | k ), mai, d’acord amb el principi I. En la distribució 2 + 1, el baquiu (|k | ) pot donar-se en II-III i també en IV-V, però amb final raríssim de vers101; l’amfíbrac (|k | k ) es pot donar en I-II, II-III i, sense P, en III-IV. Pel que fa als mots en –o, es troben amfíbracs

96. Tota síl·laba final breu d’un mot que ocupa més d’un semipeu (no monosíl·lab ni pirriqui) constitueix ella sola un semipeu; és a dir que no pot haver-hi fi de mot després de la primera breu d’un semipeu resolt; o encara, un semipeu resolt no pot contenir cap breu final, ni la primera ni la segona (ibid., 207-8). O sigui: no poden constituir peu mots en forma de dàctil, tríbrac o proceleusmàtic; a més, un peu tribràquic o anapèstic no pot contenir una primera síl·laba final de mot (te|la) o una segona (tem|pora)—l’anapest així format excepcionalment és el que s’anomena “strappato”, “déchiré”, “zerrissen”.

97. Segons SOUBIRAN (ibid., pp. 209-10), 21, més 2 en HO

98. Peó 1 en I-II o III-IV (HF 1148, Thy. 267 i Phaed. 1019, Oed. 334); coriambe en IV-V (HF 1147, Med. 917, Phaed. 858, Oed. 925).

99. Exclosa la final, les breus s’agrupen per parells des del principi del mot (ibid., 214). O sigui: és possible l’escansió k k | x, però no k | k x; sí | k k | k , no | k k k |; sí | k k | k , no k | k | k , etc.

100. Cf. SOUBIRAN, ibid., pp. 45-7 i 233.

101. SOUBIRAN (ibid., pp. 377-82, 392-401) no en cita cap exemple que no contingui elisió; n’hem trobat dos casos sense elisió: Phaed. 896 tumultu territus i Med. 547 perusti pectoris

Antoni Seva Llinares

en I-II (10 vegades, ex. HF 994 harundo); d’acord amb el que hem dit sobre la quantitat habitual en l’època, considerem amfíbracs (i no baquius) els que apareixen en II-III (20 vegades, ex. Ag. 135 cupido).

III. Tetrasíl·labs

L’escassesa de tetrasíl·labs en –o (només 20 casos) fa que convingui estudiar-los prenent com a referència els acabats en altres terminacions: ho hem fet amb tots—llevat dels que acaben en la síl·laba final, anceps, del sisè peu—els de Phaed. (285 casos) i Thy. (201 casos). En el quadre següent, hi hem inclòs totes les distribucions en els diferents peus, menys les que no poden entrar en l’estructura del trímetre iàmbic ( k | k |, | k k | , | | |, | k k | , etc.); hi afegim un exemple (si n’hi ha, en –o).

Phaed.Thy.-o obs.

1. k x

| | k |I-II (Thy. 1063 uiuentibus)110

III-IV(1)

k k |(2) |- -| k k (2)

2. k k x

| k k |II-III(1)

IV-V (HF 337 possideo)92544

| k k | k I-II (Phoen. 497 inuideo)42252

III-IV (Phoen. 235 detineo)431(1)

| k k k |(2)

3. k k x

| k | k |I-II (Phaed. 596 amauimus)220

II-III(1)

III-IV(1)

| k | k k (2)

k | k k |(2)

4. k k k x

| k k k | II-III (Phaed. 732 remaneant)410(3)

IV-V(3,5)

k k | k |I-II

II-III(1)

III-IV (Phaed. 161 sceleribus)610

| k k k | k II-III(3)

III-IV (Phoen. 105 retineo)001(1,3)

| k k k k |(2)

k k | k k (2)

126
-|-

5. x

| | k II-IV (Phaed. 402 emisitque)100(1) IV-VI(5)

6. k x | k | I-III (Thy. 204 occupanti)23310 III-V(4)

| k | k I-III (Med. 529 extimesco)665 II-IV (Phoen. 74 antecedo)201(1)

7. k x | k | |II-III(1)

IV-V (Thy. 202 quiescentem)240 k | | k (2)

k | k (2)

8. k k x k k | |II-III(1)

IV-V (Tr. 626 iterabo)30303

| k k | k I-II (Ag. 514 Agamemno)67403 III-IV (Thy. 759 placuere)330(1) V-VI(5)

Observacions

(1) Sense cesura P. Com ja hem dit, la P apareix almenys en el 95% dels trímetres. La seva presència regular és un obstacle per a determinades distribucions.

(2) Distribució impossible perquè infringeix el principi I. En els casos de k |- k k | [3] i k | | k [7] s’incompliria en el semipeu precedent.

(3) Distribució contrària al principi II. Aquesta excepció ha estat molt discutida. Tot i que la distribució normal és k k | k (sceleribus), d’acord amb el principi II, la posició de la segona i tercera breus en un TF (|k k k |x remaneant, retineo) és gairebé igual de freqüent en Sèneca102.

(4) Final de vers de tres semipeus. El 90% dels trímetres senecans acaben en disíl·lab103. Les distribucions IV-V (|k k k | ) [4] i III-V (

102. Cf. SOUBIRAN, ibid., pp. 216-18. Segons Soubiran, els mots en k k k x es distribueixen en 2 + 1 (k k | k x) o 1 + 2 (|k k k | x), gairebé exclusivament darrere i davant P (ex. Phaed.732 ut sunt remaneant, facinoris tanti notae). Els mots compostos, si estan formats per dos elements disil·làbics, es distribueixen en k k | k x, i si contenen un prefix monosil·làbic, es poden distribuir en | k k k | x. En efecte, trobem k k | k en III-IV (Phaed. 161, 937 sceleribus, Thy. 641 Pelopiae, etc.) i en el compost sonipedes (Phaed. 1082). Però en la distribució | k k k | x en II-III trobem, a més de Phaed. 1230 repositum, mots no compostos, com Phaed. 610 humilius, Thy. 897 miseriae, i també el compost de disíl·labs sonipedes (Phaed. 1002) i en III-IV, davant H, retineo (Phoen. 105). L’accent, sempre en la segona síl·laba (l’antepenúltima), recau en l’última del semipeu (k ´ k | k x) o en la penúltima (|k ´ k k | x).

103. Cf. SOUBIRAN, ibid., pp. 402-3.

Somnia
127
nvgaeqve merae
|

Antoni Seva Llinares

| k | ) [6] admetrien aquests finals de tres semipeus: a) un dàctil V excepcional, que es dóna només 5 vegades en totes les tragèdies, sempre amb un tetrasíl·lab (ex. HF 408 omnis memoria); b) un espondeu amb un trisíl·lab (ex. Phaed. 161 tellus barbara), del qual es donen 65 casos en totes les tragèdies; c) un espondeu format amb un monosíl·lab, generalment lligat pel sentit al mot precedent, seguit d’un disíl·lab (ex. Med. 520 infra me stetit)104 (5) Final monosil·làbic. És el que requereixen les distribucions IV-VI ( | | k ) [5] i V-VI (|k k | k ) [8]. Ara bé, el final monosillàbic es dóna molt rares vegades en afèresi i només 2 sense (HF 1162 ausus est i Med. 692 tempus est).

Els mots tetrasil·làbics acabats en –o, malgrat la seva escassesa, presenten un comportament prou similar als altres tetrasil·làbics. Hi ha, això sí, un cert desequilibri en els acabats en síl·laba llarga, especialment en les combinacions | k k | i | k | ; segurament això es deu al fet que, amb altres finals, més de la meitat de les síl·labes llargues ho són per posició, circumstància que no es pot donar amb les finals en –o.

Pel que fa a la –o en els versos lírics, el material hi és molt escàs.

En els metres eolis (gairebé tots, sàfics menors) apareix modo com a pirriqui (HF 845, Phaed. 301, 323, 750, Thy. 561, 594 i, en asclepiadeu menor, Tr. 394); sero com a espondeu (HF 865); nemo com a espondeu (Tr. 1023) o com a troqueu (Thy. 615, 616, 619, en anàfora, i en l’adoni Tr. 1017). La quantitat de la síl·laba final és determinada per la posició del mot en un vers d’estructura invariable, on la llicència, doncs, està més justificada.

En els metres quantitatius la –o només apareix en anapests. No presenten cap problema els mots pirriquis, ocupant el temps fort o feble d’un peu: Med. 342 cum duo, Oed. 747 modo productos, Thy. 855 leo flammiferis; ni tampoc els anapèstics: Med. 787 uideo, 828 i 829, en anàfora, habeo. En els versos anapèstics no és d’aplicació el principi I de Soubiran, perquè pertanyen al γένος ἴσον, és a dir que una síl·laba breu final no hi forma semipeu sola, sinó amb la breu inicial del mot següent (en les dues breus successives no hi ha, doncs, resolució d’un peu condensat, sinó la simple equivalència k k = ); així en les –o breus de Med. 350 uirgo Pelori, Thy. 857 Virgo relictas, 964 uel sero times. Hi ha, per fi, quatre mots en –o de quantitat discutible, a la fi de metre, ja que s’hi interfereix la debatuda qüestió de la colometria dels anapests105: Tr. 94 placet: agnosco, Oed. 992 mobilis ordo, Ag. 350 regia Iuno,

104. Cf. SOUBIRAN, ibid., pp. 377, 379, 395.

105. En fem un breu resum. Els manuscrits, discrepant entre si, presenten els anapests en trímetres, dímetres i monòmetres, a vegades amb violació de la sinafia (prohibició d’hiat i de síl·laba breu per llarga a la fi d’un metre interior, en la dièresi). Actualment gairebé tots els crítics, descartant els trímetres, disposen aquests versos en dímetres i atribueixen als monòmetres una funció completiva. Els criteris principals són els següents: observació de

128

668 dura uirago. En la nostra opinió, no cal desplaçar aquests metres a final de vers, amb –o anceps, sinó que poden mantenir-se, prosòdicament i mètrica, en interior de vers, davant la dièresi d’un dímetre: l’autor hi podia haver conservat facultativament la –o llarga originària106

Ficht creu que el suposat augment de l’abreviació, en nombre i en qualitat, implica un canvi conscient i audaç en sentit renovador. És una hipòtesi no demostrada. Al contrari, hi ha indicis prou segurs que aquesta relació és falsa. No pot ser més eloqüent el cas d’Horaci, que «in saturis uulgi sermonem imitari studebat, cum in epistulis ab eisdem licentiis abhorreret. Et iam in saturarum libro altero cautior uersatus est quam in priore neque illa omnia sibi sumpsit»; « [in carminibus lyricis et epodis] poeta correptiones rarissime adhibuit»107. I, en efecte, en el llibre I de les sàtires Horaci abreuja els compostos de modo (dummodo, tantummodo, quomodo), els iambes ueto, eo, uolo, els crètics Pollio, mentio, dixero; en el II, només postmodo; en les odes, postmodo i Pollio; en les epístoles, cito. Però les odes i les epístoles són molt posteriors a les sàtires; i, en aquestes, no es permet en el llibre II el que s’ha-

la sinafia; correspondència entre unitats de sentit i unitats mètriques, en dímetres sols o completats per monòmetres (regla de la congruència); predomini de determinats peus en el primer o en el segon metre. Tanmateix, l’aplicació pràctica presenta moltes dificultats i discrepàncies entre els editors.

106. Sobre l’estructura prosòdica d’aquests mots, cf. el que hem dit en parlar dels trímetres iàmbics. És cert que, en els iambes, Iuno apareix només com a troqueu (5 vegades, totes en HF: 109, 214, 479, 615, 1297), però els mots espondaics hi estan ben representats; agnosco s’hi dóna molt sovint com a molós (8 vegades). Especialment interessant és uirago en Ag. 668. E divideix en dímetres: deflere suos. nec tu, quamuis | dura uirago patiensque mali; A presenta com a trímetre nec tu, quamuis dura uirago patiensque mali. Tarrant divideix en dímetre i monòmetre: nec tu, quamuis dura uirago | patiensque mali, adduint com a raó (coment. de la seva edició, Cambridge, 1976, pp. 371-2) que uirago apareix sempre en la poesia llatina [dactílica] a final de vers, amb –o en síl·laba anceps; també en el dím. anap. Phaed. 54. No solament aquest mot, sinó tots els baquíacs en –o (imago, libido, harundo, etc.) ocupen aquesta posició en la poesia dactílica (cf. FLAMMINI, o. c., p. 45); Sèneca és el primer a abreujar-los. Sobre uirago en trím. iàmb. (Tr. 1151 audax uirago, a principi de vers, citat per Tarrant), cf. el que hem dit dels mots baquíacs i amfíbracs. En un mot com uirago, en un trím. iàmb., la –o ocupa un Tf d’un ritme ascendent del γένος διπλάσιον;en canvi, el dàctil i l’anapest pertanyen tots dos al γένος ἴσον, però el primer és de ritme descendent i la –o cauria en Tf, més propici a l’abreviació (sens dubte és per això que els poetes dactílics reserven els baquíacs per al final de vers), mentre que l’anapest és de ritme ascendent i la –o cauria en TF i, per tant, seria llarga. En Ag. 668, de fet, uirago és del tot equiparable a Iuno de 350, que Tarrant conserva davant la dièresi d’un dímetre. Per la seva banda, Zwierlein —que primer sostenia la genuïtat dels trímetres anapèstics (o. c., 182-202)— mantenia el trímetre de A, amb –o llarga en TF, d’acord amb Schmidt i Hartenberger (ibid. 187); però en l’edició —on, en la pràctica, renuncia als trímetres— dóna la raó a Tarrant (“Praefatio” VII). També ho fa FITCH en Seneca’s Anapaests: Metre, Colometry, Text and Artistry in the Anapaests of Seneca’s Tragedies, Atlanta 1987, p. 36, i en l’edició completa de les tragèdies (Londres-Cambridge (Mass.), I 2002, II 2004). No cal reservar per a final de vers mots d’aquesta estructura; una altra cosa molt diferent és que es faci, com amb qualssevol altres, no per respectar la sinafia, sinó per la “Kongruenzregel”.

107. HARTENBERGER, o. c., p. 39, 42.

Somnia
merae 129
nvgaeqve

130 Antoni Seva Llinares

via permès en el I. No és la pràctica de l’ofici el que du el poeta a la innovació, sinó el gènere literari, la Musa pedestris de les sàtires, que, amb tot, rebran una correcció immediata.

Ja ens hem referit a la liberalitat d’Ovidi en l’abreviació. Però aquesta no s’aplica ben bé de la mateixa manera en totes les obres, sinó que es palesa una clara diferència entre les elegies i les Metamorphoses108: els pirriquis són prou freqüents en les primeres i molt escassos en les Met. (5 vegades puto i 1 vegada peto), mentre que, al contrari, els iambes de les Met. dupliquen els de les elegies; els troqueus per espondeus i els dàctils per crètics apareixen en les elegies, però són absents de les Met. Hi ha lleugeres diferències en les Heroides, sobretot en les darreres, compostes en l’època de les Met.: presenten més mots iàmbics, sense abreujar109; en canvi, en els poemes de l’exili s’incrementen una mica les abreviacions. Per tant, deixant de banda les petites variacions, el que compta en Ovidi és una clara distinció entre les elegies, un gènere relativament menor, i l’heroicum carmen

En un innovador com Estaci, quan ja triomfa l’abreviació de –o, es produeix un cert canvi entre la Thebais d’una banda i les Siluae i l’Achilleis de l’altra. Aquí, però, el contrast no es troba en el gènere, entre els cants heroics i les improvisacions líriques, sinó que és purament temporal: «singula carmina paucas tantum differentias praebent, ita tamen ut in Thebaide, quam adulescens composuit, maiore libertate utatur»110. La Thebais, en contra del que diu Hartenberger, no pertany a l’adolescència del poeta, però, en tot cas, la seva publicació precedeix la del llibre I de les Siluae i la de la inacabada Achilleis.

Això és prou per a demostrar que l’evolució d’un poeta no ha d’anar per força de menys a més innovació, sinó que pot ser al revés.

Al contrari d’Horaci, d’Ovidi i d’Estaci, Juvenal es manté sempre dins del mateix gènere, la sàtira en hexàmetres laxos i indignats. «Correptionem o finalis prorsus fere perfecit Iuuenalis, etsi syllabae longae non desunt in saturis curiosa neglegentia factis»111. Respecte a l’estat de coses en època d’August, i mig segle després de Sèneca, la situació s’ha invertit: en Juvenal el total de mots en –o llarga és de 44, i el de breu, de 217112. Ara ja fóra absurd parlar de “llicència”: més aviat s’hi fa palesa una irrupció de la pronúncia real en l’esquema rígid de l’hexàmetre, alliberat d’una bona part de les limitacions lèxiques que patia des d’antic. En totes les sàtires només hi ha 1 iambe (ero 9.147), mentre que els pirriquis són 27 (ex. uolo 3.44); 9 espondeus (ex. quaeso 6.393) i 100 troqueus (ex. sero 1.169); 2 molossos (ex. agnosco 8.26) i 16

108. «Cuius [sc. Ouidii] opera cum nihil fere in hac re inter se differant metamorphosibus exceptis [...]» (HARTENBERGER, ibid., p. 50).

109. Ibid., 58. HARTENBERGER, amb altres, considerava espúries les Her. 15-21, entre altres motius pel tractament de –o (cf. p. 52, n. 2).

110. Ibid., 86.

111. Ibid., 92.

112. Les dades sobre Juvenal incloses aquí són el resultat d’un examen exhaustiu nostre, que no detallem per raons de brevetat; tanmateix, els fets ja es fan prou evidents amb un repàs ràpid.

Somnia nvgaeqve merae

131

antibaquius (ex. prurigo 6.327); 3 amfíbracs (ex. libido 2.14); els anapests, que no es poden abreujar en l’hexàmetre, són 30 (ex. adeo 8.183); al contrari, per força s’han d’abreujar els mots crètics o acabats en crètic, d’on resulten 48 dàctils (ex. imputo 2.17), 10 jònics a mai. (ex. obliuio 6.613), 1 peó 2 (homuncio 5.133) i 6 pentasíl·labs (ex. declamatio 10.167); 1 jònic a min. (capiendo 6.580) i 5 peons 3 (ex. uigilando 3.232); 1 dispondeu (conducendo 15.112) i 1 epítrit 4 (consuetudo 7.51). Sembla, doncs, més pertinent aquí determinar les posicions en què es manté la quantitat final llarga, gairebé sempre en TF —això és obvi quan va precedida de breu, és a dir, en els mots anapèstics i en l’únic iàmbic—: en conjunt, 23 vegades davant P (ex. uideo 6.395, esto 8.164), 7 en II (ex. ideo 8.251, iurando 13.202), 10 en IV (ex. moneo 6.629, caupo 9.108) i 1 en VI (adeo 5.129); només 3 vegades es troba en Tf (ergo 3.281, 6.371, en I, i capiendo 6.580 en IV). La quantitat final llarga originària, quan no és obligada per l’estructura del vers (com en els freqüentíssims adeo i ideo), sembla una mera conveniència; així, ergo, 32 vegades breu i 3 llarga, nemo, 23 i 2, esto, 1 i 1. En Juvenal, a més, es dóna la feliç circumstància que l’ordre de les sàtires és cronològic. La distribució de –o llarga i breu és la següent:

1.012 7.51913.414 2.07 8.41314.112 3.626 9.41215.36 4.0410.31316.02 5.11411.314 6.84212.2 7

Publicades al llarg d’una vintena d’anys (c. 110-c. 130), no hi sabem veure, si no és forçant les dades i no sense contradiccions, una evolució cronològica a partir del tractament de –o. Tot sembla indicar que, adoptat un sistema, en el qual es generalitza l’abreviació, el poeta ha recorregut a la conservació de la quantitat llarga quan es veia forçat per l’estructura del mot o quan li ha convingut.

Tornem a Sèneca, que, sens dubte, té Juvenal com a paral·lel més afí, pel cultiu d’un gènere sol i pròxim a la llengua col·loquial. De l’anàlisi de la relació entre l’estructura dels mots i la inserció d’aquests en el vers, se’n desprèn un sistema general que reflecteix un moment de transició, ja molt avançat, en l’evolució de la llengua. L’abreviació de –o ja no es pot considerar pròpiament una transgressió de la norma, ja no constitueix una veritable llicència. El manteniment de la quantitat llarga és, en part, un tribut a una tradició prestigiosa, encara no liquidada, però també sobretot una alternativa que, adaptant-se a les regles mètriques, facilita la versificació. Això explica a bastament els nombrosos doblets, que es donen fins i tot dins de la mateixa tragèdia: credo espondeu en Med. 117 i troqueu en 884, igual que uirgo en Ag.

-ō -ŏ -ō -ŏ -ō -ŏ

119 i 955; implebo molós en Thy. 890 i complebo antibaquiu en 22; teneo anapest en HF 1018 i tríbrac en 1310, igual que timeo en Phoen. 478 i 50; etc. El que compta sobretot és el sistema general, per damunt de les oscil·lacions en el nombre de casos, que poden ser degudes a factors diversos, el principal dels quals és la necessitat o la conveniència mètrica; els càlculs estadístics, si s’usen mecànicament, poden contribuir més a confondre els fets que a aclarir-los. Que hi hagi més varietat de casos de –o breu en Thy. i en Phoen. no pot sorprendre, ja que en aquestes tragèdies és més elevat el nombre de mots en -o. Això no implica que hi hagi un canvi qualitatiu, com pretén Fitch113: a) pel que fa als tetrasíl·labs, ja hem dit que el nombre total és escàs i per tant poc significatiu; b) el mateix es pot dir dels molossos alternant amb antibaquius114; c) no és cap novetat el canvi d’espondeu a troqueu, que ja es trobava en Ovidi, com tampoc els pirriquis scio i leo, que es remunten a Virgili i Ovidi; d) el nombre de formes de 1ª pers. sing. abreujades ja representa en Ovidi la majoria de les abreviacions.

En suma, al nostre parer, l’abreviació de –o en Sèneca és estable, no mostra cap canvi d’actitud del poeta, cap “decisió, abans d’escriure Thy. i Phoen., de servir-se de la llicència molt més àmpliament que abans.” No és cronològica, sinó sistemàtica: constitueix un sistema tancat i coherent, adaptat al tipus de vers, en particular al versàtil trímetre iàmbic.

d. Els cants

polimètrics

La polimetria dels cants corals d’Oed. 405-15, 472-502, 709-37 i d’Ag. 589-637, 808-66 ha suggerit arguments de cronologia absoluta i relativa. Els cants polimètrics estan compostos seguint la teoria de la derivació, una doctrina mètrica exposada en el breu tractat de Cesi Bassus De metris (conservat incomplet), però inventada per gramàtics grecs i, a Roma, ja difosa per Varró i sens dubte estudiada a les escoles. F. Leo afirma que les tragèdies que contenen aquesta mena de cants són les més antigues. Basa la seva argumentació en tota una lliçó de psicopedagogia. És ben conegut—diu—l’amor dels adolescents per les novetats. Aquest devia ser el cas de Sèneca quan va compondre Oed. i Ag.: «neque cuiquam nisi adulescentulo qui uix ludum superarit haec carmina ascribi posse peritissimum quemque sensurum esse confido. [...] ita autem sentio, Agamemnonem inter Senecae tragoedias eam esse quam primam scripsit, Oedipum secundam»115. D’altra banda, ja havia afirmat que Oed. és anterior a Phoen116 Münscher va capgirar el ronament de Leo. Cesi va dedicar a Neró el seu opuscle; per tant aquest s’ha de datar a partir de l’any 54 i les dues tragèdies

113. O. c., pp. 303-4.

114. HF 3 i 0, Tr. 1 i 1, Phoen. 1 i 5, Med. 1 i 0, Phaed. 5 i 0, Oed. 0 i 1 (2 si, com sembla, cal acceptar la conjectura soluendo 942), Ag. 1 i 0, Thy. 3 i 4.

115. O. c., p. 133.

116. Cf. supra 3. a.

132

no serien les primeres, sinó les últimes, com, a més, suggereix el considerable augment de complexitat dels cants corals enfront dels habituals en les altres tragèdies, més simples117.

Fitch torna a l’opinió de Leo pel camí de la psicoeconomia literària. A més, als cants polimètrics hi afegeix els “polisquemàtics”, és a dir, aquells en què es combinen grups de versos de tipus diferents (Phaed. 736-823, 1123-53, Med. 56-115, 740-842). Segons ell, «at an early stage in his writing of tragedy, Seneca experimented with complex and ambitious metrical schemes; [...] he later abandoned them, except in one play of group 2 [Med.], in favour of the simple but sometimes very effective patterns of anapaests or of lyric metres used κατὰ στίχον». A diferència dels trímetres iàmbics, aquest canvi de sistema mètric respon a una decisió conscient i artificial118

Un punt ens sembla evident, d’acord amb Leo i Fitch i contra Münscher: que la composició dels cants polimètrics és independent del De metris de Cesi. Pel fet d’estar dedicat a Neró, el tractadet sol datar-se entre els anys 54 i 69 (accés al principat i mort de Neró); però, al nostre parer, la seva intenció i el seu estil planer inviten a avançar les dates. En efecte, sembla una introducció a la mètrica, feta improvisadament per estimular l’aprenent de poeta i amb l’anunci d’una continuació: [hunc librum] quem et paucis composui diebus et memoria tantum modo adiuuante [...]. habet autem metrorum contemplatio, si exercitatio accessit, in cognoscendo uoluptatem [...]. [...] de quibus [metris] in his libris explicabimus quos de melicis poetis et de tragicis choris scripturi uidemur (De metris, GLK 6.271-2). Això no pot anar adreçat a un Neró adult i experimentat (qualis artifex!), sinó més aviat adolescent i inexpert, en un temps pròxim a l’adopció per Claudi (any 50), quan Neró es formava sota la tutoria de Sèneca. Per la seva part, el senex Sèneca, sens dubte, no necessitava el petit tractat de Cesi per a conèixer una doctrina que, inventada per Crates de Mal·los o per Tirannió d’Amisos, ja havia estat exposada en llatí per l’amic i deixeble de l’últim, Varró, en el perdut Disciplinae119 L’estructura predominant en les tragèdies consisteix en cinc parts de recitat enllaçades per quatre cants corals (en anapests, sàfics menors, asclepiadeus menors, etc.); en totes les tragèdies, excepte en HF, hi ha, a més, en moments emotius, alguna intervenció, més o menys llarga, de personatges en versos lírics. Les variacions i els canvis de ritme requereixen un estudi a part. Fem-hi, però, algunes observacions sobre dues tragèdies. Ag., malgrat la seva “originalitat” mètrica, presenta molt poca variació, a part de les dues seccions polimètriques: tota la resta dels cants corals (tres i mig) són exclusivament en anapests («simple but very effective pattern»). Té, però, un canvi de ritme que mereix la pena d’assenyalar: el parlament de Cassandra de 720 ss. consta de

117. MÜNSCHER, K., «Seneca’s Werke: Untersuchungen zur Abfassungszeit und Echtheit», Philologus, Suppl. 14. 1, 1922, pp. 86-95.

118. O. c., pp. 305-6.

119. Cf. LEO, F., «Die beiden metrischen Systeme des Alterthums», Hermes 24, 1889, pp. 286-9; USENER, H., «Ein altes Lehrgebäude der Philologie», SBAW 4, 1892, pp. 613-15; PIGHI, G. B., «Seneca metrico», RFIC 41, 1963, pp. 176-7.

Somnia
nvgaeqve merae 133

134

Antoni Seva Llinares

dues parts: una en trímetres iàmbics (720-58) i una altra en dímetres iàmbics (759-74); un ritme, d’acord amb el sentit, primer més pausat i després més ràpid. Med. té dues seccions “polisquemàtiques”. La primera, l’himeneu (56115), correspon al Cor i està escrita en asclepiadeus menors, en gliconis i en hexàmetres dactílics: els primers tenen gairebé el mateix ritme (els asclepiadeus, amb un coriambe més) i recorden l’himeneu en gliconis de Catul 61; els hexàmetres finals, l’himeneu de Catul 62. La segona és l’escena de bruixeria (740-842), amb inversió de ritme, del trocaic al iàmbic del recitat (752-70), seguit d’una alternança de trímetres i dímetres (771-86), amb un final vivaç en anapests. Ni en l’un ni en l’altre cas no sembla que la mètrica s’hagi emprat capritxosament, per pur joc experimental i sense perícia. L’oportunitat d’un o altre ritme en les parts cantades no és una qüestió simple; aïllar un fet pot induir a error. Perquè no hi intervé la mètrica sola: aquesta és un instrument de l’estil i de l’acció. Però, a més, sempre ens faltarà un altre element essencial i insubstituïble, és a dir, l’acompanyament musical. Podem saber prou bé com es recitaven les parts dialogades, però com es cantaven les parts líriques, només ho podem imaginar: ens falta la partitura. Que Sèneca apliqués la doctrina de la derivació per afany de novetat i “puerilis cacozelia” o per ambició experimental en unes suposades primeres tragèdies, abans de trobar un standard gairebé uniforme amb predomini dels anapests, això ja entra en el terreny de l’especulació. Per a un infant inexpert fins i tot les formes més comunes, no solament les extravagants, són una novetat; al seu torn, l’acomodament a un model repetitiu no és cap indici de maduresa. La polimetria podria deure’s a raons com les que al·leguen Leo i Fitch o, al contrari, a un progrés en habilitat com deia Münscher; podria respondre també a un desig d’introduir una mica de variació en la tendència a la monotonia dels cors de tragèdies anteriors, i no per força successivament. No es pot saber120.

Una prolongació del criteri dels cants polimètrics, l’ofereix W. Marx121. Segons ell, Leo té raó d’unir cronològicament Oed. i Ag., tot i que se n’ha d’invertir l’ordre, ja que la polimetria d’Ag. és més simple i, per tant, anterior; però la polimetria, en si, no és cap indici cronològic: Sèneca podria haver pres aquest “camí errat” en qualsevol moment. Marx troba un criteri nou en la composició dels gliconeus, en la qual Oed. es diferencia de les altres tragèdies. En efecte, mentre que els gliconeus de Catul (34 i 61) admeten base espondaica o trocaica i es disposen en estrofes de tres o quatre, tancades per un ferecraci, els d’Horaci tenen sempre base espondaica i entren, aïllats, en estrofes de versos variats. De les estrofes catul·lianes hauria tret Sèneca la

120. Cf. l’opinió d’AXELSON Korruptelenkult. Studien zur Textkritik der unechten Seneca-Tragödie Hercules Oetaeus, Lund 1967, p. 82 contra Leo: «Prämissen (z. T. latent): weniger strenge Metrik weise auf frühe Abfassung hin (man denke etwa an Ovids Epistulae ex Ponto!)».

121. MARX, W., Funktion und Form der Chorlieder in den Seneca-Tragödien, Colònia 1932, pp. 55-7.

Somnia nvgaeqve merae

135

idea de compondre gliconeus κατὰ στίχον (com els sàfics), i precisament en l’Oed., on la base és sempre trocaica; trobat el sistema, després, en les altres tragèdies, Sèneca s’hauria atingut a la norma horaciana de la base espondaica única. L’ordre relatiu, doncs, és: Ag., Oed. i la resta. Marx no té en compte —convé observar-ho— que Phoen. i Tr., l’una sense cors i l’altra sense gliconeus, podrien ser anteriors a Ag. Però, això a banda, extreu d’un argument molt prim una conseqüència massa desproporcionada; ja ell mateix observa —però ho troba inversemblant— que Sèneca podria haver passat de la norma horaciana a la catul·liana. Cal advertir, però, que Sèneca no segueix ben bé la norma catul·liana: Catul alterna la base trocaica i l’espondaica (amb gran predomini d’aquesta) més la iàmbica en 34, però tots els gliconeus d’Oed. són trocaics, cosa que suggereix no un tempteig insegur o lliure, sinó una intenció conscient. Al nostre parer, aquestes variacions mètriques no impliquen cap indici cronològic; en certa manera, són comparables a les varietats de iambes que apareixen en Catul i en Horaci (purs, no purs, catalèctics i escazonts).

3. Els testimonis externs

a. Praefatio i recitatio

Un passatge de Quintilià podria oferir una dada segura de la cronologia absoluta de les tragèdies: memini iuuenis admodum inter Pomponium et Senecam etiam praefationibus esse tractatum an ‘gradus eliminat’ in tragoedia dici oportuisset (IO 8.3.31). Segons aquestes paraules, l’activitat tragediogràfica de Sèneca seria contemporània de la de Pomponi Secund. Leo, seguit de Richter122. interpreta el passatge de la manera següent: Sèneca va publicar tragèdies soltes precedides de prefacis; malauradament, el compilador del corpus va eliminar els prefacis; sigui quin sigui l’any de naixement de Quintilià, Sèneca va escriure els prefacis després de l’exili. Per la seva banda, Brugnoli creu que Sèneca va editar el corpus precedit d’una praefatio123 Què se n’havia fet, però, de les praefationes o de la praefatio, quan Quintilià va escriure la frase, uns vint-i-cinc anys després de la mort de Sèneca? Ja s’havien perdut? Leo no en diu res; Brugnoli creu que Quintilià encara la tenia, o la podia tenir, a l’abast124. En tot cas, disposava d’una edició, completa o parcial, de les tragèdies, ja que cita un vers de Med. (IO 9.2.8).

Però, aleshores, què vol dir memini? Per què Quintilià apel·la a la memòria, si tenia el text a mà? En la nostra opinió, Leo i Brugnoli erren en la interpretació del sentit de praefatio. Un altre passatge de la IO (10.1.98) assenyala un

122. LEO, Obseruationes criticae, 88; RICHTER, en PEIPER, R.-RICHTER, G., L. A. Senecae Tragoediae, Leipzig 1902, «Praefatio», p. XXIV.

123. BRUGNOLI, G., «La tradizione manoscritta di Seneca tragico alla luce delle testimonianze medioevali», MAL, ser. 8, vol. 8, fasc. 3, 1957, pp. 201-89, 209. 124. Ibid., p. 210.

136

Antoni Seva Llinares

camí diferent; Quintilià, després de mencionar tragediògrafs antics, s’hi refereix als seus contemporanis: eorum quos uiderim, longe princeps Pomponius

Secundus. Això significa que Quintilià va conèixer personalment Pomponi i Sèneca125. El record de Quintilià (memini) reflecteix sens dubte l’ambient de les recitacions. No es tracta, doncs, d’un debat escrit o d’una al·lusió en un pròleg, sinó d’un debat explícit (inter Pomponium et Senecam) en la presentació de sengles recitationes126

Una praefatio com a introducció a la recitatio era habitual. La praefatio era el moment oportú perquè l’autor, abans de la lectura de passatges selectes o de peces senceres, expressés les seves opinions, i particularment les estilístiques, que podien suscitar aplaudiment o crítica127. La temàtica d’aquestes praefationes es podria entreveure en els pròlegs dels historiadors i en les dedicatòries en prosa d’alguns poetes; però les de les recitationes tenien una natura i una funció ben diferents: devien ser més aviat intervencions dictades per les circumstàncies, realment o aparentment improvisades, amb la intenció de captar l’interès dels oïdors, i no destinades a la publicació escrita — en tot cas, no ens n’ha arribat cap text128.

Pomponi i Sèneca, doncs, en praefationes prèvies a recitationes tràgiques successives, havien mantingut un debat sobre l’oportunitat de la derivació i de la composició de mots en la tragèdia. Quintilià havia assistit a aquestes sessions i, passats els anys, encara recorda el tema discutit en les praefationes no publicades per escrit.

b. El testimoni de Quintilià

La data del debat entre Pomponi i Sèneca es podria establir amb prou aproximació si en el testimoni citat de Quintilià (IO 8.3.31) poguéssim determinar

125. El significat de uideo és aquí “conèixer personalment”, “ser contemporani de”, sentit que es troba també en IO 12.10.11 in iis etiam quos ipsi uidimus copiam Senecae, [...] maturitatem Afri, [...] elegantiam Secundi reperiemus; i també 2.8.4, 10.1.96, 118; cf. Liv. 9.17.1, Plin. NH 5.14.

126. Defensa aquesta opinió CICHORIUS, C., «Untersuchungen zu Pomponius Secundus», en Römische Studien, Leipzig 1922 (reimpr., Stuttgart 1961), pp. 423-32, 426-28. Hi està d’acord OTTO, W., «Zur Lebenszeit des P. Pomponius Secundus», Philologus 90, 1935, pp. 483-94, 486 n. 6; i també ZWIERLEIN, o. c., p. 245. En canvi, J. COUSIN creu que les praefationes eren «lettres-préfaces qui accompagnent des tragédies» (Quintilien, Institution oratoire, vol. I, París 1975, “Introduction”, p. VIII).

127. Cf. FUNAIOLI, G., «Recitationes», en RE I A, 1, 1914, esp. col. 437-38, 444. Sobre la lectura de tragèdies en recitationes, cf. IVV. 1.3-6 i, amb referència a l’acceptació de crítiques per Pomponi, Plin. Ep. 7.17.3-4, 11.

128. Uns passatges de Plini el Jove descriuen amb força precisió el paper de la praefatio en el curs de la recitatio: els ronsers que no es decideixen a entrar a la sala sibi nuntiari iubent an iam recitator intrauerit, an dixerit praefationem, an ex magna parte euoluerit librum (Ep. 1.13.2); l’assistència a un judici, diu d’ell mateix, mihi causam praeloquendi dedit (ibid. 8.21.3); l’orador Iseu improvisava a requeriment del públic: praefationes tersae, graciles [...]. poscit controuersias plures, electionem auditoribus permittit, saepe etiam partis, surgit, amicitur, incipit (ibid. 2.3.1). Cf. també MART. 3.18.1.

Somnia nvgaeqve merae

137

el significat de l’expressió iuuenis admodum, és a dir si sabéssim la data del seu naixement. Schwabe, prenent com a argument principal les referències de Quintilià al seu mestre Gn. Domici Afre, mort molt ancià en 59, i avaluant implícitament en una vintena llarga d’anys els termes adulescentulus i iuuenis admodum, la situa en c. 35129. D’acord amb aquesta datació, Cichorius dóna a iuuenis admodum l’equivalència d’entre disset i vint anys i, en conseqüència, situa el debat a principis dels anys 50, poc després de la missió de Pomponi a Germània (50-51)130. Cousin, però, avança el naixement de Quintilià a l’any 30131

Els textos de Quintilià que poden servir per a basar la datació del seu naixement són aquests:

nobis pueris insignes pro Voluseno Catulo Domitii Afri, Crispi Passieni, D. Laelii orationes ferebantur (IO 10.1.24); quem [Domitium Afrum] adulescentulus senem colui (5.7.7); uerba quae ex Afro Domitio iuuenis excepi (10.1.86); egregie nobis adulescentibus dixisse accusator Cossutiani Capitonis uidebatur, Graece quidem, sed in hunc sensum: ‘Erubescis Caesarem timere’ (6.1.14).

De la primera citació, no se’n pot extreure cap conseqüència: només que els discursos, escrits, en defensa de Volusè circulaven quan Quintilià era infant; el fet que D. Leli Balb fos deportat en 37132 i que, per tant, el procés tingués lloc aquest any o abans no dóna cap notícia sobre Quintilià133. Els altres textos són pertinents: Quintilià era adulescentulus o iuuenis quan rebia lliçons de Domici Afre, abans de 59, i adulescens durant el procés de repetundis contra Cossucià Capitó, en 57134

El pes probatori d’aquestes citacions està tot en l’equivalència en anys de puer, adulescentulus, adulescens i iuuenis, uns termes força vagues, com adverteix Otto.135 Cousin, després d’assenyalar aquesta vaguetat i de posar nombrosos exemples d’interferències en Ciceró i en Quintilià (puer als divuit anys, adulescentulus als vint-i-set, adulescens entre vint i quaranta, iuuenis als vint-i-sis, etc.), en comptes de suspendre el judici, n’extreu una regla: la pueritia dura fins als setze anys, l’adulescentia és una part de la iuuentus i aquesta dura fins als quaranta-cinc; i arriba a la conclusió que Quintilià va

129. SCHWABE, L. VON, «M. Fabius Quintilianus», en RE VI, 2, 1909, col. 1847: «Da Cn. Domitius Afer [...] in sehr hohem Alter (Quint. XII 11, 3) im J. 59 n. Chr. (Tac. ann. XIV 19) starb, so wird Quintilian um das J. 35 n. Chr. geboren sein, und damit stimmt VI 1, 14 [...]».

130. O. c., pp. 428-29.

131. «Introduction» cit., pp. VII-XXXI, i abans en «Problèmes biographiques et littéraires relatifs à Quintilien», REL 9, 1931, pp. 62-67.

132. Tac. Ann. 6.54 [48].4.

133. Cousin és confús: sembla que parla de discursos escrits («Introduction», pp. XIV-XV), i després (XVII), del procés mateix.

134. Tac. Ann. 13.33.2.

135. O. c. pp. 493-94.

138 Antoni Seva Llinares

néixer en 30, era puer en 36 (procés de Volusè) i adulescentulus c. 56 i que el debat entre Pomponi i Sèneca devia ser a principis del regnat de Neró136. És veritat que, en una classificació més o menys formal, la pueritia acabava cap als setze anys, amb la presa de la toga viril, i que la iuuentus, sobretot a la milícia, arribava als quaranta-sis137; però això no és aplicable als usos més genèrics o col·loquials, com aquí138, i més considerant que Quintilià, quan va escriure la Institutio, ja era un ancià a qui tothom devia semblar jove i fins i tot infant, inclòs ell mateix en un remot passat. El magisteri de Domici Afre té un simple terminus ante quem: la seva mort en 59. Però podem, i potser cal, referir-lo a alguns anys abans. En efecte, quan Quintilià, adulescentulus o iuuenis, seguia les lliçons de Domici, aquest ja era senex; però això no vol dir que fos en els últims anys de la vida de Domici, quan, ualde senex, anava perdent dia a dia les seves facultats i el seu prestigi139. En canvi, el procés contra Cossucià Capitó té una data precisa, el 57, i Quintilià, adulescens, hi va assistir sens dubte, ja que no s’hi refereix amb una citació textual, sinó de memòria, pel sentit. Aquesta és l’única dada segura140. I, en conclusió, si era adulescens en 57, tant podia haver nascut (en xifres aproximades) en 35 com en 30 o en 25 i, fins i tot, sense forçar gaire, en 40; és a dir que aleshores podia haver tingut una edat que s’acostava a la vintena o que passava de la trentena. Per consegüent, pel que fa al debat entre Pomponi i Sèneca, l’edat de Quintilià, indeterminada, no pot servir per a establir-ne la data.

c. La mort de Pomponi

Punt principal per a la datació del debat és determinar l’any de la mort de Pomponi, que n’és el terminus ante quem. En els anys 50-51, Pomponi, com a legatus Augusti pro praetore a la Germània Superior, va comandar amb èxit la campanya contra els cats141. Com a colofó del relat de la campanya, Tàcit afegeix l’última notícia positiva que es té sobre ell: decretusque Pomponio triumphalis honos, modica pars famae eius apud posteros, in quis carminum gloria praecellit (Ann. 12.28.2).

Tanmateix Cichorius allarga la vida de Pomponi molt més enllà, fins als úl-

136. O. c., pp. XV-XVIII.

137. Cf. Gell. 10.28.1.

138. Sense voler acumular més exemples, recordem que Horaci parla de l’imberbus iuuenis (Ars 161), i Quintilià dels iuuenes nondum scholam egressi (IO 5.10.96).

139. Qvint. IO 12.11.3. El context ens remet al fòrum, no a l’escola.

140. Després, no es sap quan, Quintilià va tornar a Hispània. La notícia següent que se’n té és que va tornar a Roma en el seguici de Galba, proclamat emperador (Hieron. Chron., any 2084 (= 68 dC) M. Fabius Quintilianus Romam a Galba perducitur). Galba va ser governador de la Tarraconense de 60 a 68; es creu que va conèixer Quintilià durant el seu comandament. Suggeriríem —tot i que no és possible demostrar-ho— que ja abans Quintilià, a títol de comes, podria haver acompanyat Galba, en ser nomenat governador, a la seva província: les dates donen peu a pensar-ho.

141. Tac. Ann. 12.27-28.

tims anys del regnat de Neró; però la seva opinió, basada en càlculs i en interpretacions massa simplistes, ha estat rebatuda, amb una argumentació rigorosa, per Otto142. Segons Otto, a falta de qualsevol altra menció posterior a l’any 51, Pomponi probablement va morir poc després d’aquest any; en tot cas, la seva vida no s’hauria allargat més enllà de finals dels 50143. El que ens sembla absolutament inadmissible és la possibilitat, suggerida per alguns144, que Pomponi morís a Germània, encara durant el seu comandament. Si hagués estat així, com podria haver omès Tàcit, en el seu elogi abans citat, aquest fet tan rellevant i gloriós? s’haurien concedit a Pomponi els honors triomfals a títol pòstum?

I, en efecte, l’elogi de Tàcit ha estat interpretat per Syme com una necrologia no gaire posterior a la campanya de Germània145. Otto interpreta també com un homenatge necrològic la perduda biografia de Pomponi escrita pel seu amic i subordinat a Germània Plini el Vell, com s’infereix del catàleg cronològic de les seves obres redactat per Plini el Jove: ‘De uita Pomponi Secundi duo [libri]’; a quo singulariter amatus hoc memoriae amici quasi debitum munus exsoluit (Ep. 3.5.3)146. Comptat i debatut, doncs, l’opinió d’Otto ens sembla ben fundada i sòlida.

142. Cichorius (o. c., pp. 425-6) es basa en una notícia de Plini el Vell, que, parlant de manuscrits antics, diu: Tiberi Gaique Gracchorum manus apud Pomponium Secundum uatem ciuemque clarissimum uidi annos fere post ducentos (NH 13.83); comptant a partir de la mort de Tiberi (134 aC) i de Gai (121 aC), l’examen dels manuscrits, al cap de dos-cents anys, hauria tingut lloc els anys 67 o 79, però el segon queda exclòs per la data de publicació de la NH (77). Amb tota la raó, Otto (o. c , pp. 483-4) argumenta que l’antiguitat dels manuscrits és només aproximada (fere) i que aquests no havien de datar necessàriament de l’any de la mort de l’un o de l’altre Grac; l’examen dels manuscrits es pot endarrerir, doncs, fins a principis dels 50. D’altra banda, Cichorius (o. c , 423-4) addueix un passatge de Carisi (GLK 1.137): Monteis. licet Pomponius Secundus poeta, ut refert Plinius, propter homonymum nominatiui accusatiuo casu omnes non putet dici, sed omneis; la referència de Carisi procedeix del Dubius sermo, un tractat gramatical en vuit llibres, obra que Plini, segons el seu nebot (Ep. 3.5.5), va escriure en els últims anys de Neró; de l’ús del present (putet), Cichorius dedueix que l’opinió de Pomponi era verbal, no escrita, i, per tant, ell era viu quan es va compondre l’obra de Plini. Però Otto argüeix (o. c , 484-7) que l’opinió de Pomponi pot igualment procedir d’un escrit i, per tant, no contenir cap connotació de simultaneïtat amb l’obra de Plini. Al nostre parer, és arriscat especular sobre la notícia de Carisi, que és una citació de segona mà; en tot cas, putet, en el seu context, és un present pro perfecto (com el refert de Carisi mateix).

143. O. c. pp. 492-3.

144. HANSLIK, R., i SCHMIDT, P. L., «Pomponius Secundus», respectivament, en RE XXI, 2, 1952, i KP 4, 1979.

145. Tàcit «adds a disguised obituary notice in the form of tribute to his literary talent [...]. It may be taken that he died not long after» (SYME, R., «Domitius Corbulo», en Roman Papers 2, Oxford 1979, p. 812).

146. O. c., p. 492. Com que el catàleg dels llibres està ordenat cronològicament (Ep. 3.5.2 quo sint ordine scripti) i la biografia de Pomponi és la segona obra, sorgeix un aparent problema de precedència: la tercera obra ressenyada, els vint llibres dels Bella Germanica, Plini la va començar a Germània, durant la guerra, i la degué acabar a Roma a finals dels 50 o a principis dels 60. En opinió d’Otto (ibid., pp. 488-92), la biografia, una obra breu dictada per les circumstàncies, devia escriure’s amb urgència, interrompent la redacció dels voluminosos Bella Germanica, i ser publicada abans; per això figura abans en el catàleg.

Somnia
nvgaeqve merae 139

140

d. Pomponi i Tràsea

Antoni Seva Llinares

Un punt que convé adduir per a la datació de la mort de Pomponi Secund és la seva relació amb Tràsea Petus, l’exemplar polític que es va distingir com a opositor de Neró. Alguns gramàtics147 citen un escrit de Pomponi ad Thraseam: podria consistir en un breu tractat o, més probablement, en una carta en què potser s’abordaven qüestions històriques o lingüístiques. Carisi diu: Cetariis Pomponius Secundus ad Thraseam, ‘cum ratio cetaribus’ inquit Plinius ‘poscat, ut moenia moenibus, ilia ilibus, Parilia Parilibus. ea nomina quae i ante a habent, ut cetaria, in bus necesse est desinant.’ És a dir que Plini el Vell148 discrepava de Pomponi en aquesta qüestió morfològica. Aquest text s’ha de posar en relació149amb el passatge de Tàcit en què s’expliquen els motius que Neró va tenir, l’any 66, per a perseguir Tràsea (Ann. 16.21), entre els quals, quodque [Thrasea] Iuuenalium ludicro parum spectabilem operam praebuerat; eaque offensio altius penetrabat, quia idem Thrasea Pataui, unde ortus erat, ludis Cetastis a Troiano Antenore institutis habitu tragico cecinerat (ibid. 1). Dels Cetaria o ludi Cetasti (tots dos mots són hapax), se’n té ben poca informació: uns jocs que es feien remuntar a Antènor, fundador de Patavi, aparentment relacionats amb la pesca i que incloïen representacions teatrals; Cassi Dió hi afegeix que es celebraven cada trenta anys150. La participació forçada de Tràsea en els Jocs Juvenals era un dels motius del ressentiment de Neró, que n’anava acumulant des d’anys enrere151. Pomponi i Tràsea, doncs, van intercanviar opinions sobre els Cetaria. És molt versemblant que això fos a propòsit de la festivitat trentennal en què Tràsea va prendre part. Tàcit relaciona aquesta celebració amb la dels Iuuenalia, instituïts l’any 59152. En primer lloc, la successió de fets és evident: el que irrita Neró és que Tràsea hagués actuat de grat en els Cetaria i després participés poc i de mala gana en els Iuuenalia. En segon lloc, sembla molt probable que la celebració dels Iuuenalia a què es refereix Tàcit sigui justament la de la seva sonada i escandalosa institució, en la qual l’historiador subratlla la participació massiva de tothom, com a actors i espectadors, sense distinció d’estament ni d’edat, incloses les dones il·lustres, en un ambient de

147. Carisi (GLK 1.125 = Barwick 160.3-7), Diomedes (GLK 1.371), Priscià (GLK 2.538).

148. Probablement en el Dubius sermo (cf. n. 142).

149. No ho fan ni Cichorius, que només tracta del contingut de l’Ad Thraseam (o. c., pp. 4245), ni Otto, que considera irrellevant aquesta qüestió (o. c., p. 487 i n. 8).

150. 62.26.4.

151. A més (Tac. Ann. 16.21.1-2): l’abandonament de la sessió del senat en què es justificava l’assassinat d’Agripina (any 59, cf. 14.12.1); la mitigació de la condemna d’Antisti, acusat de lesa majestat (any 62, cf. 14.48); l’absència en la cerimònia fúnebre en què es concedien honors divins a Popea (any 65, cf. 16.6.2); per la seva part, Cossucià Capitó (16.21.3) no comportava que Neró oblidés aquests fets, perquè ell era qui havia acusat Antisti (cf. 14.48.1) i sobretot perquè Tràsea havia donat suport a l’acusació dels cilicis, a resultes de la qual ell havia estat condemnat de repetundis (any 57, cf. 13.33.2). Cassi Dió (62.26.3-4) resumeix les motivacions reportades per Tàcit.

152. Ann. 14.15.

disbauxa general153. Inclinen a pensar-ho l’economia al·lusiva de Tàcit i la manca de qualsevol altra indicació al respecte.

Tot i que no sabem quin any es van celebrar els Cetaria, en tot cas, sí que podem concloure amb molta probabilitat que Pomponi va escriure Ad Thraseam abans del 59. Aquest terminus —és una objecció raonable —podria endarrerir la mort de Pomponi fins a la segona meitat dels 50. Però no necessàriament. En efecte, l’intercanvi d’opinions podia haver-se esdevingut abans de la celebració; i, encara que no fos així, Tràsea era un personatge il·lustre i la seva actuació als Cetaria devia ser un fet notori, motiu de xafardeig en la societat romana154, i ben recordat per Neró, un diletant amb pretensions. Per tant, encara que no es pugui assegurar, almenys és admissible que la festa i la carta es remuntin a uns quants anys abans, a principis dels 50.

e. Datació del debat entre Pomponi i Sèneca

Comptat i debatut, opinem que són incorrectes metodològicament les conclusions de Cichorius, és a dir que Pomponi visqués fins a finals dels 60 i que el debat entre ell i Sèneca tingués lloc a principis dels 50 perquè aleshores Quintilià devia tenir entre disset i vint anys155. En canvi, ens sembla més plausible en conjunt l’opinió d’Otto, és a dir que el debat entre Pomponi i Sèneca i la mort del primer pogueren tenir lloc en qualsevol moment dels anys 50, fins i tot en la segona meitat156. Però hi podem fer algunes observacions. Primera, que no es pot descartar del tot la possibilitat que el debat hagués tingut lloc abans de l’exili de Sèneca, c. 41. Si s’avança la data de naixement de Quintilià fins a l’any 25, aleshores hauria tingut uns setze anys.

Segona, que es pot prendre com a terminus post quem la fi de l’exili de Sèneca (principis del 49). En efecte, no consta quan Pomponi va succeir a Curci Rufus, el seu antecessor en el càrrec a la Germània Superior157; si el relleu s’hagués produït tard, Pomponi i Sèneca coincidirien a Roma l’any 49 i el debat podria haver tingut lloc aleshores158.

153. Cf. també Svet. Nero 11.2.

154. L’actuació teatral d’un personatge il·lustre com Tràsea potser no tenia res d’escandalós a Patavi, en el marc d’una festa folklòrica. En canvi, a la capital resultava ofensiva per als costums tradicionals: Tàcit recull el rumor que, quan es tramava la conjuració de l’any 65, Subri Flavus, tribú de cohort pretoriama, es proposava substituir Neró per Pisó, com a home de palla, i definitivament per Sèneca; i que el tribú va comentar amb sarcasme non referre dedecori si citharoedus demoueretur et tragoedus succederet, quia ut Nero cithara, ita Piso tragico ornatu canebat (Ann. 15.65.2).

155. O. c., pp. 423-6, 428-9.

156. O. c., pp. 493-4.

157. En Tac. Ann. 11.20.1 es diu que a Curci, que era legatus en 47, se li van concedir els insignia triumphi—és de suposar que en un moment més o menys pròxim a la fi del seu càrrec. I en Ann. 12.27.1 es presenta Pomponi mediis rebus, actuant en la revolta dels cats de l’any 50.

158. Zwierlein suggereix també aquesta possibilitat, però segueix Cichorius en la datació posterior a 51 (o. c., p. 244).

Somnia nvgaeqve merae 141

Tercera, que, si bé la datació a partir del 51 resta més oberta, no creiem que les dates del debat i de la mort de Pomponi es puguin retardar tant com ho permeten les dades objectives; i això, per raons literàries. En efecte, tenint en compte el lloc on insereix l’elogi a Pomponi (Ann. 12.28.2), Tàcit no diu explícitament —és cert— que morís immediatament després del seu triomf, perquè l’ordre temàtic s’hi sobreposa al cronològic159; ho hauria fet igualment tant si fos així com si, havent mort algun temps més tard, no hi havia més fets notables seus a ressenyar. Ara bé, el mètode narratiu de Tàcit sembla excloure que la mort es produís molt més tard: tractant-se d’un personatge il·lustre, l’historiador ho hauria referit al seu lloc, ni que fos de passada, com ho fa prou sovint, i amb personatges de menor relleu, mencionats abans o no, especialment a la fi del report de cada any, on sol posar una mena d’apèndix amb fets diversos i, en particulars, morts160

Per tant, a part de les possibilitats dels anys c. 41 i 49, opinem que el debat i la mort de Pomponi no es poden posposar gaire més enllà del 51: aquest any mateix o potser un o dos més — la nostra concordança amb Cichorius en aquest punt és pura coincidència. Aleshores Quintilià, iuuenis admodum — si acceptem com a data del seu naixement qualsevol any entre el 25 i el 35 i n’excloem el 40 per massa pròxim—, devia tenir entre vint-i-sis i setze anys.

f. L’activitat tragediogràfica de Sèneca

De Pomponi sabem que era un ciutadà i tragediògraf eminent l’any 47, quan Claudi theatralem populi lasciuiam seueris edictis increpuit, quod in Publium Pomponium consularem (is carmina scaenae dabat) inque feminas inlustris probra iecerat (Tac. Ann. 11.13.1). Era més o menys de la mateixa edat que Sèneca161. La seva activitat com a tragediògraf no és necessàriament anterior a la de Sèneca162. Del debat entre tots dos, tal com l’esbossa Quintilià, se’n dedueix que, en aquell moment, els adversaris eren ja experts en l’ofici, probablement tragediògrafs en actiu163. Sèneca no podia ser aleshores

159. De fet, la campanya contra els cats s’inclou en l’any 50, quan va començar, no en 51, quan va acabar; Tàcit mateix adverteix (Ann. 12.40.5) que el report de les guerres a diversos llocs de l’imperi l’han forçat a alterar l’ordre temporal.

160. Cf. per exemple Ann. 13.30, 14.19, 14.28, 14.47, 15.22. També menciona la mort de Curci Rufus, després d’un esbós biogràfic (Ann. 11.21).

161. Es creu que va néixer c. 12 aC, però Syme (o. c., p. 813) suggereix que el seu naixement potser s’hauria d’endarrerir una dotzena d’anys. El naixement de Sèneca sol situar-se actualment en 1 a/dC (cf. ABEL, K., «Seneca. Leben und Leistung», en ANRW II. 32.2, p. 656.

162. El testimoni de Terent. Mavr. 2135-6 in tragicis iunxere choris hunc saepe diserti | Annaeus Seneca et Pomponius ante Secundus, referit al tetràmetre dactílic (hunc), interpretat estrictament, vol dir que Pomponi va usar aquest vers abans que Sèneca (abans de la composició de Phaed. i Oed., les úniques tragèdies senecanes que en contenen). Encara que s’interpretés d’una manera més laxa, és a dir que Pomponi precedís Sèneca en la composició de tragèdies, almenys una part de la producció de tots dos va ser contemporània.

163. Això seria igualment vàlid encara que l’estil tràgic no fos el tema principal del debat, sinó

142

un principiant. És possible que comencés a dedicar-se a la tragèdia després de la tornada de l’exili, l’any 49 mateix, però res no impedeix de suposar que, més que no pas d’un començament, es tractés d’una represa, és a dir que ja s’hi hagués dedicat abans.

Ara bé, el que, en la nostra opinió, gairebé s’ha d’excloure —o almenys s’ha de considerar indemostrat i inversemblant— és que Sèneca escrivís tragèdies durant l’exili mateix, a Còrsega, opinió que donen com a probable no pocs crítics164. Això només es pot inferir d’una mala interpretació d’un passatge de la Consolatio ad Heluiam, escrita en els primers anys de l’exili: animus, omnis occupationis expers, operibus suis uacat et modo se leuioribus studiis oblectat, modo ad considerandam suam uniuersique naturam, ueri auidus, insurgit (20.1). En aquesta frase o, més aviat, en uns mots aïllats i trets de context (animus [...] se leuioribus studiis oblectat), alguns hi han volgut veure una al·lusió a la producció tràgica i poètica. Que els leuiora studia es refereixin a tragèdies, és inadmissible: Sèneca oposa aquests studia a la reflexió seriosa, a la contemplació interior i de l’univers. I, això, ho desenvolupa amb tota claredat en el paràgraf següent: d’una banda, l’observació de la natura (terras, condicionem maris, quicquid inter caelum terrasque iacet) —aquests són els leuiora studia 165; d’altra banda, l’elevació a un pla superior (summa), al diuinorum spectaculum, en la contemplació de l’eternitat de l’anima i del món. És clar que no es pot negar absolutament la possibilitat que Sèneca escrivís tragèdies durant aquests anys; però sí, i sense reserves, que això es pugui deduir del text comentat. Si bé es mira, és molt forçat pensar que, a Còrsega, Sèneca s’esplaiés component tragèdies: com l’oratòria, la tragèdia —tant si es destina a la representació com si, segons alguns, es destina a la recitació— reclama un públic, un auditori de gent culta, molt difícil o impossible de trobar en una illa salvatge166. L’exili havia de comportar una interrupció de la seva carrera de tragediògraf, si ja havia començat, com també de la carrera d’orador. Des de la nostra perspectiva, l’exili és una mena de parèntesi en la vida de Sèneca, però per a ell devia representar un present penós, sense fi previsible, i un avenir incert: les vergonyoses llagoteries a Polibi i a Claudi no van donar fruit; no hi ha indicis que Sèneca les repetís ni que fes altres gestions per obtenir el perdó. Imaginar que aleshores escrivís alguna tragèdia preparant la rentrée ja fóra portar les coses massa lluny. Si això s’ha volgut aplicar en particular a la Medea, és per la presumpta al·lusió a la conquista de Britànnia de què hem parlat més amunt, amb la suposada adulació a Claudi que tindria un paral·lel en alguns epigrames167; que aquests una referència incidental, i que la recitatio següent no fos una mostra d’una tragèdia. També en aquest cas s’hauria de suposar un coneixement i una experiència en el gènere.

164. Entre els quals, ZWIERLEIN (o. c., p. 245) i TARRANT (ed. de Thyestes, Atlanta, 1985, «Introduction», p. 12).

165. Es pot pensar, a aquest propòsit, en algunes obres de tema naturalista perdudes, com De lapidum natura, De piscium natura, De forma mundi

166. Cf. Helu. 6.5 quid ad homines immansuetius [quam hoc saxum]? i Epigr. 16 i 17 Mariné.

167. f. 1. a.

Somnia nvgaeqve merae
143

144

epigrames —si realment són de Sèneca i pertanyen a aquesta època— hi tinguin en comú un punt temàtic no implica que la tragèdia s’escrivís al mateix temps. A més, les gestes ultramarines de Claudi només podrien donar un terminus post quem i la seva celebració es podria haver fet en qualsevol moment fins a la fi del seu regnat.

Els motius pels quals Agripina demana a Claudi el perdó de Sèneca i la missió que es confia a aquest signifiquen el reconeixement d’un prestigi anterior, d’unes qualitats que es malbarataven a Còrsega i que serien molt aprofitables a la cort. En la intenció d’Agripina, es reclamava el retorn de Sèneca ob claritudinem studiorum eius utque Domitii pueritia tali magistro adolesceret et consiliis eiusdem ad spem dominationis uterentur (TAC., Ann. 12.8.2); en la ploma de Tàcit, la bona influència del filòsof s’exercia praeceptis eloquentiae et comitate honesta (13.2.1); en boca de Sèneca, la seva aportació com a tutor va consistir en els studia, ut sic dixerim, in umbra educata, et quibus claritudo uenit quod iuuentae tuae rudimentis adfuisse uideor (14.53.4). Això no demostra, és clar, el tancament d’un parèntesi en la dedicació a cap gènere literari, i al drama en particular, però, en un ensenyament alhora teòric i pràctic, fa versemblant tant l’aprofitament de l’experiència del mestre com la represa de la producció.

L’única altra notícia sobre l’activitat tragediogràfica de Sèneca situable en un context temporal definit és ja molt tardana: es refereix a la retirada de la cort, l’any 62. Afirma Tàcit que els enemics retreien al filòsof les seves riqueses, el seu afany de popularitat, el luxe principesc de les seves possessions; i continua: obiciebant etiam eloquentiae laudem uni sibi adsciscere et carmina crebrius factitare postquam Neroni amor eorum uenisset. nam oblectamentis principis palam iniquum detrectare uim eius equos regentis, inludere uocem quoties caneret (Ann. 14.52.3).

Aquests carmina poden referir-se a qualsevol composició en vers, consevada o no; entre les quals, potser alguns dels epigrames d’incerta atribució i sens dubte les tragèdies. Són les composicions que Quintilià, en enumerar els gèneres cultivats per Sèneca, inclou en poemata168 Que els termes carmen i poema s’aplicaven, a més de la poesia, a les composicions escèniques, és cosa clara169.

En Ann. 14.52 Tàcit transmet el pretext dels enemics de Sèneca per a desferse de la seva influència sobre l’emperador i, de manera escaient per a la narració, el suma als fets que li serveixen per a situar en l’any 62 un tomb en el regnat de Neró; assenyala com a causa immediata d’aquest canvi brusc el relleu de consellers: la influència concorde de Burrus i Sèneca, els rectores imperatoriae iuuentae, havia evitat mals majors; la mort del primer motiva l’arraconament del segon (mors Burri infregit Senecae potentiam, ibid. 1) i

168. Nam et orationes eius et poemata et epistolae et dialogi feruntur (IO 10.1.129).

169. A més dels lloc citats aquí, cf. Cic. Sen. 22, Sen. Epist. 115.15 (carmen) i Hor. S. 1.4.45 (poema).

deixa pas als deteriores, encapçalats per Tigel·lí, que veien en el filòsof l’últim obstacle. Però Cassi Dió, amb un judici no gens favorable a tots dos tutors, no distingeix etapes ni trencament en el regnat. I Tàcit mateix mostra indicis que contradiuen el viratge del 62 i l’avancen almenys fins a l’assassinat d’Agripina, en 59170. Sembla prou clar que, a partir d’aquest fet, hi ha una degradació progressiva en la conducta de Neró i un retraïment gradual de Sèneca; la famosa entrevista, del 62171, marca —sempre seguint Tàcit— una ruptura formal i irreparable entre tots dos i la retirada definitiva del tutor172. Tàcit és molt benèvol envers Burrus i Sèneca en no blasmar obertament el vil paper que havien assumit en l’assassinat de la seva antiga protectora, i encara més envers el segon, que, com a redactor del missatge de Neró al senat que pretenia donar una aparença de justificació al crim173, havia compromès la seva honorabilitat; la digna reacció de Tràsea Petus va ser encara prematura174. Però el trencament que l’assassinat va comportar resultarà palès en la resposta del conjurat Subri Flavus175. Pel que fa a Neró, tot responia a un pla premeditat. Per això es mostra tan agraït envers el llibert Anicet, autor material del crim: Nero illo sibi die dari imperium auctoremque tanti muneris libertum profitetur (Ann. 14.7.5). A partir d’ara, viurà al seu aire: seque in omnis libidines effudit, quas male coercitas qualiscumque matris reuerentia tardauerat (Ann. 14.13.2). L’entrevista de Sèneca amb Neró, una magnífica peça retòrica, representa un reconeixement de fets, l’erupció d’un procés que venia d’abans: el canvi d’amics i consellers, que minaven el terreny a Sèneca176; un canvi disfressat de maduresa personal i d’experiència en el govern negades amb falsa modèstia per Neró177. Justament era aquest l’argument amb què els deteriores incitaven Neró: certe finitam Neronis pueritiam et robur iuuentae adesse: exueret magistrum (Ann. 14.52.4).

La nova dèria per la poesia, l’havia covada i fomentada Neró immediatament

170. Sobre aquestes qüestions, a part dels ja clàssics GRIFFIN, M., Seneca: A Philosopher in Politics, Oxford 1976, i Nero: The End of a Dynasty, Londres 1984, cf. les precisions de KLEIJWEGT, M., «Nero’s Helpers: The Role of the Neronian Courtier in Tacitus’ Annals», Classics Ireland (rev. electr.), 7, 2000.

171. Ann. 14.53-56.

172. Segons Tàcit, després del comiat falsament afectuós de Neró, Sèneca renuncia a la vida pública (Ann. 14.56.3); només es tornen a veure una vegada, l’any següent (15.23.4); quan, en 64, Sèneca, rebutjant els sacrilegis de Neró, vol retirar-se a una masia, Neró li’n denega el permís i intenta enverinar-lo (15.45.3); Sèneca, en 62, ja s’havia defensat de l’acusació de conspirar amb Pisó (14.65.2), però la delació de Natal, tres anys més tard, tindrà fatals conseqüències perquè Neró infensus Senecae omnis ad eum opprimendum artes conquirebat (15.56.2).

173. Ann. 14.11.3, Qvint. IO 8.5.18.

174. Ann. 14.12.1.

175. Ann. 14.67.2: odisse coepi postquam parricida matris et uxoris [...] exstitisti.

176. Ann. 14.53,1: at Seneca criminantium non ignarus [...] et familiaritatem eius magis aspernante Caesare.

177. (Sèneca a Neró) superest tibi robur et tot per annos uisum summi fastigii regimen (Ann. 14.54.3); (Neró a Sèneca) nos prima imperii spatia ingredimur [...]. quin, si qua in parte lubricum adulescentiae nostrae declinat, reuocas ornatumque robur subsidio impensius regis? (14.56.1).

Somnia nvgaeqve merae 145

146

Antoni Seva Llinares

després de l’assassinat d’Agripina, al cenacle de la cort: carminum quoque studium affectauit, contractis quibus aliqua pangendi facultas necdum insignis erat (Ann. 14.16.1); hi proposava als convidats lligar o completar versos que ell havia improvisat; hi aplegava també filòsofs, autèntics o fingits, pel gust de veure’ls contradir-se178. És a dir que Neró, si podíem dir-ho així, havia fundat una mena de cercle de poetae noui en el qual ell era el cappare. Aquell no era lloc per a Sèneca, ni com a poeta ni com a filòsof. L’únic tret senecà que s’hi detecta és l’art de la improvisació, que Neró havia après del seu mestre179. Això a part, és inversemblant que Sèneca participés en les vetllades d’aquest cercle de poetes novençans180, però també fóra estrany que se’n desentengués i que no estigués informat de les seves activitats, potser per mitjà del seu nebot Lucà181: el terreny de les lletres era el seu, era la competència per la qual havia estat nomenat tutor de Neró. De les uariae criminationes que s’esgrimien contra Sèneca, la que menys encaixa en el conjunt és la de la composició més assídua de poemes. Com hem d’entendre carmina crebrius factitare postquam Neroni amor eorum uenisset? En la interpretació corrent, s’entén com un afalac per a seguir la veta a Neró en la seva nova dèria poètica. Una contribució, doncs, als studia del cercle? Això és possible, però contradiu el sentit del context immediat: Sèneca hi col·laboraria alhora que s’atribuïa tots els mèrits de l’eloqüència i es burlava dels dots de Neró com a auriga i com a cantant. Al costat d’aquesta interpretació, Sullivan n’ha suggerit la contrària: «Seneca had written more verse —or plays— either as contributions to these literary symposia or to counteract them by his independent productions. In either event he would be trying to safeguard his standing with the artistically-minded emperor»182. Una rivalitat d’escoles, doncs, una vindicació de magisteri, una defensa zelosa de la pròpia fama literària. I fins i tot, anant més enllà, hom hi pot imaginar amb Tarrant183 l’inici d’un corrent d’oposició literària, combinat o almenys simultani amb el moviment polític que aviat desembocarà en la conjura de Pisó; imaginar que Sèneca compongués aleshores les tragèdies més punyents contra els tirans. Però la crítica subversiva i la burla, en aquestes circumstàncies, semblen demanar, més que no pas obres destinades a l’escena i a les sales de

178. Ibid. 2. I també, sens dubte, per contravenir una directriu imposada en la infància per Agripina: a philosophia eum mater auertit monens imperaturo contrariam esse (Svet. Nero 52.1).

179. Cf. Ann. 14.55.1.

180. Tàcit, que devia tenir a mà mostres de la producció del cercle, hi assenyala un defecte derivat de la improvisació: quod species ipsa carminum docet, non impetu et instinctu nec ore uno fluens (ibid.). Aquest defecte no s’adverteix en les composicions subsistents atribuïdes a Sèneca.

181. Lucà aleshores, si és que no formava part del cercle, almenys pertanyia a la cohors amicorum de Neró, presentat pel seu oncle o pels seus propis mèrits. Havia rebut notables favors de l’emperador i es va distingir com a poeta en els Neronia del 60 amb unes Laudes Neronis (Svet. Vita Luc.).

182. SULLIVAN, J. P., «Petronius, Seneca, and Lucan: A Neronian Literary Feud?», TAPhA 99, 1968,pp. 453-67 (p. 456).

183. Cf. infra.

lectura, el pamflet clandestí, la sàtira, en la qual Sèneca ja havia donat mostra d’habilitat contra Claudi.

El testimoni de Tàcit en Ann. 14.52 potser s’ha volgut esprémer massa. Al capdavall, l’historiador no hi expressa una opinió pròpia, contrastada, sinó que hi transmet el pretext, dubtós quant al fons i imprecís quant al temps184, dels enemics de Sèneca, els deteriores, ara afavorits per l’emperador, que de fet ja han guanyat la partida. En un context difús, carmina crebrius factitare (sigui el que sigui allò que carmina signifiqui) pot ser un rumor, una mitja veritat, una exageració o una mentida. Tanmateix, si els carmina de Sèneca es refereixen a les tragèdies, més que amb el cenacle poètic, cal relacionar-los amb les actuacions escèniques de Neró, en un cercle restringit o en un teatre públic. L’ambient favorable a les arts escèniques és palès durant tot el regnat. L’afecció de Neró al cant, ja manifestada en la infància i alimentada als primers temps del principat185, després augmenta més i més fins a esdevenir exhibicionisme en recitals de cant i en obres escèniques; s’institueixen els Jocs Juvenals (any 59) i els Quinquennals o Neronia (60); nobles empobrits i ancians són obligats a envilir-se pujant a l’escenari amb el pretext de l’eloqüència i de la poesia. L’emperador, que només s’havia exhibit en ambients privats, gosa fer-ho també en públic, al teatre de Nàpols; i també —poc després de la mort de Sèneca— a Roma, malgrat les maniobres del senat per impedir l’escàndol, va participar en un concurs de cant, amb gran èxit provocat per la coacció dels soldats186. El testimoni de Suetoni, no subjecte al mètode annalístic, no reflecteix tan bé el canvi d’actitud de Neró, però ofereix dades dignes de consideració. Parla de l’admiració de Neró per Sèneca, el seu mestre d’oratòria, de l’afecció a la poesia, dels recitals poètics en privat i al teatre, a Nàpols i a Roma187. Però, mentre que Tàcit es refereix només a recitals de cant acompanyat de cítara188, Suetoni va més enllà: tragoedias quoque cantauit personatus (21.4); i afegeix els títols o temes d’algunes d’aquestes “tragèdies”: cantauit Canacen parturientem, Oresten matricidam, Oedipodem excaecatum, Herculem insanum (21.5) i també Oedipodem exulem (46.6)—tres d’aquests temes, senecans. Ara bé, això eren autèntiques tragèdies? No ho sembla en absolut. Un altre passatge il·lustra ben clarament la natura i les circumstàncies de les exhibicions neronianes: in tragico quodam actu, cum elapsum baculum cito resumpsisset, pauidus et metuens ne ob delictum certamine submoueretur, non aliter confirmatus est quam adiurante hypocrita non animaduersum id inter exsultationes succlamationesque populi (24.1)189. És a dir que aquesta

184. Cf. ZWIERLEIN, o. c., p. 246: «muss man [...] die sachliche Richtigkeit dieser uariae criminationes als durchaus fragwürdig und die chronologische Fixierung als sehr unbestimmt einschätzen».

185. Svet. Nero 20,1.

186. Tac. Ann. 14.14-16, 20-21; 15.33-34; 16.4-5, 21; Svet. Nero 11.1-2; 12.7-8; 21.1-2.

187. Svet. Nero 52; 10.5; 21.1-3.

188. Ann. 14.14.1, 15.4; 16.4.1-2.

189. Cf. Tac. Ann. 16.4.1-2.

Somnia
nvgaeqve merae 147

148

Antoni Seva Llinares

“acció tràgica”, en un concurs, consistia en el cant d’un passatge o d’un poema de tema tràgic, un solo, mentre l’hypocrites acompanyava amb dansa i gestos les paraules: una mena de pantomima. En una altra ocasió, Neró havia promès assumir l’altre paper, rivalitzant amb el pantomim Paris, en un tema èpic: proditurum se histrionem saltaturumque Vergili Turnum (54.1). Tot això ens porta a un entorn molt diferent de la representació completa i seriosa d’autèntiques tragèdies. Que Sèneca hagués compost tragèdies durant el regnat, en un ambient propici, o ja abans no implica que intervingués en les exhibicions neronianes. En què i com hi va participar, si és que ho va fer? Tàcit no en diu res, mentre que assenyala la presència de Burrus, maerens ac laudans190 , en la sorollosa primera actuació de Neró al teatre. Es podria admetre que Sèneca proporcionés algun poema per a un recital o que Neró escollís algun passatge de les tragèdies —hi abunden els pezzi di bravura, aptíssims per al lluïment—; també és admissible que Neró, volent emular el seu mestre, tractés els mateixos temes en composicions pròpies. Però cal reconèixer, en contra del que podria semblar a primera vista, que les circumstàncies en què es produïen les actuacions neronianes distaven molt de ser adients per a la representació d’autèntiques tragèdies, i més encara perquè se’n componguessin de noves destinades a aquesta mena d’exhibicions191.

El període de la vida de Sèneca que menys partidaris té, pel que fa a la datació de les tragèdies, és el del retir. Ni tan sols les Phoenissae, pel fet d’estar inacabades —tant si són dos fragments de la mateixa tragèdia com si ho són de dues—, no s’han de situar forçosament en el darrer lloc, immediatament abans o després del retir: una obra esbossada es pot abandonar en qualsevol moment. Fins i tot la manca de notícies positives sobre composició de tragèdies té una rellevància menor en aquest període. El retir representa un trencament radical i definitiu i una nova orientació en els interessos de Sèneca, ara allunyats del ressò mundà de les produccions teatrals i centrats en la reflexió filosòfica estricta.

Això, que des del punt de vista psicològic és molt versemblant, es confirma per la temàtica i per l’elevat nombre d’obres datades en els darrers anys de vida —només tres—: el tractat De prouidentia, l’últim o els últims llibres del De beneficiis, les àmplies Naturales quaestiones, l’obra principal de les Epistulae, la perduda Moralis philosophia i potser també De constantia sapientis, De tranquillitate animi, De otio i alguna de les obres perdudes192. No hi ha aquí ni lloc ni temps per a tragèdies.

D’altra banda, s’han assenyalat en el Bellum ciuile de Lucà diverses imitacions i ecos de les tragèdies —en particular de Phoen., que tracten d’un con-

190. Ann. 14.15.4.

191. En canvi, sí que és versemblant que s’hi destinessin algunes de les obres perdudes de Lucà: els poemes èpics (Iliacon, Catachthonion, Orpheus) i sobretot les catorze fabulae salticae (libretti de pantomines).

192. Cf. ABEL, «Seneca. Leben und Leistung» cit., pp. 703-11.

Somnia nvgaeqve merae

149

frontament “civil”, però també de les altres—, a part de la tradició dels escoliastes segons la qual els primers versos (1.1-7) haurien estat compostos per Sèneca. Aquesta influència, en la mesura que la comparació de passatges és un mètode fiable, és admissible en general: aquí la relació és prou sòlida, ja que només pot anar en una direcció. Ara, l’edició dels tres primers llibres de l’epopeia sol datar-se c. 62; això voldria dir que quan Lucà la redactava, ja s’haurien compost totes les tragèdies193

D’acord amb els testimonis comentats, arribem, doncs, a les següents conclusions sobre l’activitat tragediogràfica de Sèneca: és possible i versemblant abans de l’exili; molt improbable, gairebé impossible, durant l’exili; molt probable a la tornada, durant la tutoria i els primers temps del regnat de Neró; cada vegada més improbable segons s’avança després de la mort d’Agripina; molt improbable, gairebé impossible, després del retir. Això donaria dues etapes probables, que anirien l’una fins a l’any 41 i l’altra des del 49 fins al 59 o poc més enllà.

4. Plvra sciri neqvevnt

«Somnia sunt nugaeque merae», deia Leo sobre les datacions fetes a partir de suposades al·lusions a fets històrics194. El mateix gosaríem dir, animo bono i cum grano salis, dels mètodes i resultats examinats aquí. A falta d’elements objectius suficients, els estudiosos han esmerçat molta erudició i molt enginy en l’exegesi i en la connexió de dades. En tals circumstàncies, la conjectura i la inferència són recursos, en principi, no solament lícits, sinó necessaris, però arriscats; i, a més, il·lusoris i imprudents si es pretén presentar com a resultats segurs o molt probables certes hipòtesis i relacions que en realitat no passen de ser més o menys versemblants o purament imaginàries—com més comprensives i globals, més improbables. Les al·lusions històriques, que havien esdevingut gairebé un joc d’enginy195, darrerament s’han abandonat en general196, tot i que de tant en tant tornen a aflorar-ne algunes, renovades o noves197. Moltes potser són suggestives; fins

193. Cf. ZWIERLEIN, o. c., pp. 246-48.

194. Obseruationes criticae, p. 134, n. 28, a propòsit de Peiper.

195. Bastin com a mostra les recollides en HERRMANN, L., o. c., pp. 85-99.

196. Un rar cas extrem és el de J. D. BISHOP (Seneca’s Daggered Stylus: Political Code in the Tragedies, Meisenheim, 1985), que veu en les tragèdies, escrites com a literatura d’oposició en els tres últims anys de Sèneca, tota una xarxa de referències secretes en un codi que desxifra amb procediments poc rigorosos. Ha estat criticat severament.

197. E. FANTHAM, en la seva edició de Troades (Princeton 1982, pp. 13-14), opina, com ja ho havia fet Peiper, que la referència al Troicus lusus dels vv. 777-79 conté una al·lusió al lusus Troiae menat l’any 47 per Britànnic i Neró (cf. Tac. Ann. 11.11.2, Svet. Nero 7.11), cosa que marcaria un terminus post quem; quan es va celebrar aquesta tradicional parada, Sèneca encara era a Còrsega. W. M. CALDER «Seneca’s Agamemnon», CPh 71, 1976, pp. 27-36 (p. 28) veu en Med. 35-6 una referència al projecte de Neró d’obrir un canal a l’ist-

150 Antoni Seva Llinares

i tot se’n podria admetre alguna com a possible. Però, si s’examinen estrictament, no s’hi detecten connexions necessàries entre la literalitat de les tragèdies i els esdeveniments històrics. Sovint es força el sentit de frases plenament justificades pel context per extreure’n suposicions especioses. En la nostra opinió, resta dempeus el judici de Leo.

L’Apocolocyntosis, donada la seva data de composició, prou segura, ha esdevingut una mena d’àncora de salvació: per la “paròdia” i pels “ecos” que s’hi han assenyalat, permetria establir un terminus ante quem (finals de l’any 54) per a l’Hercules furens i també per a les Troades. Això es considera un punt fix, fins i tot l’únic segur: «the only fixed point», «is widely accepted», «seems nearly certain», «mit Sicherheit»198. Res de fix, de cert, de segur no ens sembla que pugui desprendre’s de l’anàlisi que n’hem fet: ni paròdia en sentit estricte ni relació més necessària entre loci paralleli que la que es troba en tants altres de les tragèdies. Al nostre parer, l’Apocolocyntosis com a paròdia d’aquestes dues tragèdies és un dogma inconsistent, sostingut per comoditat o per conveniència.

Pel que fa a les relacions intertextuals, la disparitat de criteris i de resultats que hem vist, entre altres, en Herrmann i Zwierlein —el segon, però, un crític molt més rigorós— ja és un bon indici de la propensió d’aquest procediment a la subjectivitat199. Zwierlein mateix ha advertit, de passada, del risc que comporta: «Methode, die freilich äusserst umsichtig anzuwenden ist»200

A vegades el crític, habitualment professor, imagina l’escriptor com un alumne avantatjat que, com faria ell mateix, no escriuria una frase sense tenir oberta davant seu tota la literatura precedent per anar espigolant ací i allà. El “caçador” de loci paralleli ha de distingir amb cura, si pot, la imitació, l’al·lusió, la paròdia, el record inconscient, la coincidència per associació lingüística o pel tema o per pur atzar i ha de tenir molt en compte el context gene-

me de Corint (cf. Svet. Nero 19.3); però aquest projecte ja l’havien concebut abans Demetri Poliorcetes, Juli Cèsar i Calígula (cf. Svet. Cal. 21.4, Pln. NH 4.10). R. J. TARRANT troba en la menció als alans, entre altres pobles, de Thyestes 630 (ed. cit., «Introd.», p. 12 i com. ad loc.), una possible al·lusió a la primera topada dels romans amb aquest poble (c. any 57); val a dir que, més tard («Greek and Roman in Seneca’s Tragedies», HSPh 97, 1995, pp. 215-330) omet aquesta forçada referència.

198. Cf., entre altres, FITCH, o. c., p. 289; COFFEY, en COFFEY-MAYER, ed. de Phaedra cit., «Introd.», p. 4; TARRANT, «Greek and Roman», p. 219; ZWIERLEIN, o. c., p. 244.

199. Dos exemples il·lustratius més. CALDER (o. c., pp. 29-30), després d’observar que hi ha una notable similitud entre els pròlegs d’Ag, i de Thy., es pregunta i respon: «Which prologue is the earlier? Surely the one that fits better the subsequent action»; és a dir, segons ell, el de Thy. I conclou: «Clearly the Agamemnon prologue was a Senecan innovation, [...] modeled on the Thyestes prologue [...]. Agamemnon was at best Seneca’s second tragedy. Leo should be corrected» (això últim, per l’afirmació de Leo que Ag. és la primera tagèdia composta per Sèneca: cf. 2. d). Per la seva part, R. G. TANNER («Stoic Philosophy and Roman Tradition», en ANRW 32, 2, 1100-33, pp. 1130-31) afirma que cinc tragèdies (Thy., Med., Ag., Oed. i Phaed.), concebudes, segons ell, per a ser representades sense màscares, es deuen a Sèneca, en l’època de l’exili; quatre (Oct., Tr., HF i HO), a representar amb màscares, haurien estat escrites per un Pseudo-Sèneca (Curiaci Matern?) entre els anys 70 i 80; en queda al marge la fragmentària Phoen.

200. O. c., p. 239.

ral. Molt sovint, en lloc d’inclinar-se per la “Sicherheit”, convindrà que empri generosament el signe d’interrogació.

El criteri de la polimetria és un Ianus bifrons: tan versemblant és que un poeta temptegi en els seus inicis en cerca d’estructures mètriques originals com que ho faci ja avançada la seva carrera per obrir nous camins. I això, independentment dels resultats, feliços o fallits.

Fitch va saber trobar una atractiva novetat amb dos dels seus tres criteris principals: el de les pauses internes i el de l’abreviació de –o. Hi lligava dos fets heterogenis que feia confluir en el mateix resultat. A més, refermava la seva argumentació amb càlculs estadístics. A primera vista, hipòtesis i mètodes hi semblen raonables i sòlids. La seva aparent objectivitat i també—val a dir-ho—la feina fatigosa de comprovar els seus càlculs en les tragèdies i comparar-los amb els d’obres d’altres autors inclinaven a donar-hi crèdit. No és d’estranyar, doncs, que les hipòtesis de Fitch sobre la datació relativa, amb la seva repercussió en l’absoluta201, hagin tingut considerable acceptació, amb algunes reserves, especialment entre els anglosaxons. Segons Hine, marcaven un «new momentum»202. Coffey, sense corregir el seu conegut punt de vista anterior, és a dir que «in general the tragedies may have belonged to any stage of Seneca’s literary career»203, no considera vàlid el criteri de les pauses de sentit, però troba més convincent el de l’abreviació de –o, i admet com a probable la posterioritat de Thy. i Phoen 204 Més destacable és la “conversió” d’un crític, d’altra banda tan caute, com R. J. Tarrant. Temps abans havia arribat a la següent conclusió: «What should be clear, however, is that the fashionable interpretation of these works as ‘Neronian’ has no secure basis in fact; they could with equal justification be regarded as Claudian, Gaian, or even Tiberian».205 Però el seu punt de vista canvia radicalment arran de la publicació de l’estudi de Fitch, que «may represent a breakthrough»206. No es pot saber quan va començar Sèneca a escriure tragèdies, potser en època de Calígula o de Claudi; la cronologia absoluta és impossible d’establir, ara com ara, amb excepció del terminus ante quem marcat per Apoc.; les al·lusions a fets contemporanis, si n’hi ha, no són recognoscibles207. El gros de les tragèdies podria haver estat escrit ja abans de l’any 54, potser durant l’exili208; aleshores la frase de Tàcit carmina crebrius factitare es podria interpretar, en congruència amb les opinions de Fitch, com un interès renovat, posterior,

201. És a dir que, si HF té com a terminus ante quem l’any 54 i pertany al grup 2, tant aquesta tragèdia com les del grup 1 deuen ser anteriors al regnat de Neró (o. c., p. 307).

202. H. M. HINE, recensió en JRS 77, 1987, p. 256.

203. COFFEY, M., «Seneca Tragedies» cit., p. 150.

204. Ed. de Phaedra, «Introd.», p. 4.

205. Ed. d’Agamemnon cit., «Introd.», p. 7.

206. Ed. de Thyestes, «Introd.», p. 11; de manera semblant en «Greek and Roman», p. 219.

207. «Greek and Roman», pp. 218, 228. Això no obstant, un dels motius pels qual rebutja el paral·lelisme d’Oed. 1038-9 (hunc pete | uterum) amb Ann. 14.8.6 (uentrem feri) és que aquesta suposada al·lusió implicaria que la tragèdia seria posterior a l’any 59, mentre que en la classificació de Fitch és de les primeres (ibid. p. 227).

208. Ed. de Thy., «Introd.», p. 12.

Somnia nvgaeqve merae 151

152 Antoni Seva Llinares

de Sèneca per la tragèdia, el fruit del qual serien les dues últimes, amb característiques diferenciades, Thy. i Phoen., que es podrien datar entre 60 i 62; que Sèneca hagués compost aleshores Thy., l’atac més dur contra la tirania, és una hipòtesi que conté «an undeniable fascination»209. Tot plegat fa que Tarrant, convertit pels arguments de Fitch, entoni una palinòdia: «The Pyrrhonian skepticism about chronology expressed in my Agamemnon [...] 6-7 now seems excessive»210

Ara bé, la solidesa de les hipòtesis de Fitch és pura aparença. La suposició que les pauses internes hagin d’augmentar indefinidament al llarg de la producció d’un autor i que per elles soles impliquin posterioritat és falsa. Quant a l’abreviació de –o, són errors de mètode no precisar el moment concret de la història de la llengua en què s’escriu l’obra i el gènere al qual pertany i prescindir de la inserció dels mots en l’estructura del vers; també és fals que l’augment de nombre d’abreviacions indiqui per ell sol posterioritat. Abans d’assenyalar una presumpta excepció i de treure’n conseqüències, cal determinar la regla, el sistema. L’estadística pot ser un instrument auxiliar útil si s’aplica amb molta cura («äusserst umsichtig»), no mecànicament, en una apreciació global dels fets d’estil. D’altra banda, resulta molt agosarat afirmar, com ho fa Fitch, que, amb la combinació dels seus tres arguments principals, el grau de probabiblitat de la seva teoria es pot elevar «to the level of near certainty»211. La suma de dues o més hipòtesis insegures no dóna una nova seguretat; a tot estirar, si es revesteix de l’aparat adient, dóna un miratge, un εἴδωλον filològic. I encara menys acceptable que aquesta pretensió és l’argument ad hominem: «it would be a contentious person who denied any chronological significance to the figures» (els tants per cent de les pauses internes)212. Més importuna i pertorbadora que la intuïció improvisada és una tesi especiosa, amb una demostració insuficient i defectuosa, que obliga a una àrdua refutació, com si, invertint el vell aforisme, la prova hagués de recaure en qui nega i no en qui afirma. Vistes en conjunt, les conclusions que s’extreuen de l’anàlisi interna presenten moltes contradiccions, tant si s’empra el mateix criteri, per exemple la intertextualitat, com si se n’empren més, per exemple la intertextualitat i les pauses internes. N’és la prova el fet que, molt sovint, tot i basar-se en les mateixes dades, les hipòtesis d’uns crítics contradiuen marcadament les d’altres o en divergeixen. El quadre dels resultats de Zwierlein i d’altres difereix molt de l’ofert per Fitch, sobretot pel que fa a la situació tardana de Thy. i de Phoen. La discrepància, en si, no implica error d’una hipòtesi determinada, si aquesta té una base segura. Ara bé, no és aquest el cas en la qüestió que ens

209. Ibid., pp. 12-13.

210. «Greek and Roman», p. 219, n. 18.

211. O. c., p. 302. Deixem de banda aquí dos arguments secundaris, l’un sobre tècnica dramàtica i l’altre sobre el tractament de retro, formulats de passada (ibid. pp. 306-7), que requeririen, sobretot el primer, un examen detingut. La singularitat de Thy. i Phoen., «Seneca’s last plays» (ibid., p. 305), ha suggerit una notable posterioritat.

212. Ibid., p. 294.

ocupa: hi ha opinions potser millor fundades que altres, però cap de decisiva. Què hem de pensar, doncs, si tesis contradictòries no són convincents per elles soles i s’exclouen mútuament? Mal apuntalades per fets insegurs i heterogenis, aquestes datacions de les tragèdies són castells de cartes. En la nostra opinió, cal deixar de banda definitivament diversos punts admesos sense gaire discussió per la communis opinio, emparats sota l’argument d’autoritat o com a tòpics còmodes. Potser el principal és la presumpta paròdia d’HF en Apoc. També els judicis de Leo sobre la precedència d’Oed. respecte a Phoen. i sobre la composició juvenil dels cants polimètrics. Les opinions de Cichorius sobre les dates de la mort de Pomponi i del seu debat amb Sèneca haurien de cedir davant les millor fundades d’Otto. Sortiríem guanyant si les hipòtesis de Fitch no es revesteixen d’autoritat. En general, sobren induccions mecàniques obtingudes de dades aïllades o tretes de context; sobren també intuïcions fantasioses213. El procediment invers, és a dir, partir d’una interpretació de les tragèdies i voler confirmar-la amb dades cronològiques incertes és pura especulació.

Convé, però, no menystenir les notícies externes: si bé són escasses i vagues, tanmateix, amb les dades objectives que contenen, ofereixen alguns indicis que permeten formular hipòtesis no completes ni del tot satisfactòries, però sí prou ben fundades i amb un grau acceptable de probabilitat. Del testimoni de Quintilià, per ell sol, és ben poc el que se’n pot extreure: només que el debat entre Pomponi Secund i Sèneca va ser una polèmica oral entre dos experts en tragèdia; però la dificultat insuperable d’establir la data de naixement de Quintilià i l’ambigüitat de l’expressió iuuenis admodum impedeixen determinar quan es va celebrar.

A part del buit informatiu sobre l’època de l’exili en la qüestió que ens interessa, la font principal és Tàcit, completat amb Suetoni i Cassi Dió. Però tampoc Tacit no dóna respostes directes: cal interpretar les notícies en el context en què apareixen i d’acord amb les tesis, els mètodes i l’estil de l’historiador. Pel que fa a Pomponi, hi ha motius suficients per a datar la seva mort a principis dels 50, sense que la seva carta a Tràsea tingui prou pes en contra. Això permet situar en aquests anys el debat amb Sèneca, però no es pot excloure que tingués lloc cap a l’any 41 o en 49. Hi ha, d’altra banda, nombrosos indicis que inviten a avançar a l’any 59 la marginació de Sèneca —voluntària o provocada per Neró, o totes dues coses—: des de la mort d’Agripina, es trasllueix una separació progressiva que culmina en el trencament escenificat en l’entrevista del 62, envoltada de rumors dels nous amics de l’emperador. A partir d’aquella data clau s’inicia el desenfrenament de Neró i esclaten les seves dèries poètiques i l’exhibicionisme escènic, allunyat de la tragèdia seriosa; no s’hi detecta mestratge o col·laboració de Sèneca —com no fos secundària i incidental—, sinó, si de cas, rivalitat literària o emulació.

213. Un exemple recent: A. GALIMBERTI pretén atribuir a Pomponi l’autoria de l’Octauia («Publio Pomponio Secondo autore dell’Octavia?», Aevum 75, 2001, pp. 93-9). Òbviament, segueix la datació de Cichorius.

Somnia nvgaeqve merae 153

154

Així doncs, opinem que, exclosos els anys de l’exili i els del retir, Sèneca va compondre les tragèdies probablement o abans del 41 o en el lapse aproximat entre el 49 i el 59 o en totes dues etapes, i que no se’n pot datar cap en un moment determinat ni s’hi pot establir un ordre relatiu. Aquesta conclusió, que no va més enllà de fixar uns períodes en què la composició de tragèdies és molt improbable, resulta decebedora, ho admetem; però no creiem que es pugui anar més enllà. “Plura sciri nequeunt.” Si això és escepticisme, ens declarem de grat seguidors de Pirró.

Sens dubte, no es pot negar —fins i tot deixant al marge les presumptes allusions històriques— que la temàtica de les tragèdies, presa en conjunt, reflecteix l’època i l’entorn de Sèneca. Però també això s’ha de precisar dins d’un quadre més ampli. No és fàcil de discernir en les tràgèdies què es deu a un reflex directe de les circumstàncies contemporànies i què procedeix d’una llarga tradició literària. No s’ha d’oblidar que els temes tràgics senecans provenen dels mites, ja cruents de si mateixos, i dels tragediògrafs grecs i que la preferència d’uns temes sobre altres i el seu tractament (l’extremitud, el patetisme, la truculència, etc.) està en consonància amb la tradició tràgica romana des d’època arcaica. Això dilueix el retrat d’època.

Remetre’s en la interpretació a l’entorn de Claudi i sobretot de Neró és temptador, massa i tot. Però Sèneca mateix estava implicat en les intrigues i en els crims de la cort. La seva actitud no podia ser més ambigua: s’havia rebaixat adulant Polibi i Claudi, i quan aquest va morir, no li va estalviar els sarcasmes més mordaços; i com a conseller de Neró, en un difícil equilibri entre els principis morals i el pragmatisme en nom del mal menor, havia afavorit l’adulteri amb Acte, havia elogiat l’emperador en el De clementia després de l’assassinat de Britànnic, havia cooperat en l’assassinat d’Agripina i l’havia justificat almenys per escrit.

Potser són consideracions d’aquesta mena les que indueixen Tarrant, en “feliç” concordança amb Fitch, a distingir una última etapa en la composició de tragèdies (carmina denuo factitare?), la de Thy. i Phoen.; en particular del Thyestes, «which contains Seneca’s most harrowing depiction of pathological tyranny»214. Sèneca, apartat de la cort, dirigiria les seves fletxes contra l’emperador. Literatura escènica de combat, doncs, d’“oposició estoica”? Un fet, no mencionat per Tarrant, podria abonar aquesta hipòtesi. L’any 34 Mamerc Emili Escaure s’havia avançat amb el suïcidi a la condemna a mort, decidida, entre altres raons, per argumentum tragoediae a Scauro scriptae, additis uersibus qui in Tiberium flecterentur (Tac., Ann. 6.35[29].3). Cassi Dió en dóna més detalls: la tragèdia era un Atreus; Tiberi va interpretar com una allusió a ell mateix i als seus crims uns versos en què s’aconsellava suportar les arbitrarietats reials; si ell era un Atreu, faria d’Escaure un Àiax, un suïcida215 Però també Pomponi Secund havia escrit un Atreus, sense que això fos un

214. Cf. supra i n. 209. 215. Cass. D. 58.24.3-4.

obstacle perquè Claudi, que tampoc no era un model de monarca just, li donés proves d’un gran respecte216; si és que hi havia al·lusions polítiques en aquesta tragèdia217, Claudi no se’n va sentir, encara que qualsevol atac a la tirania en general és un atac a tot tirà; val a dir que Claudi no era tan suspicaç com Tiberi, ni va perseguir com ell amb la mort o l’exili dramaturgs, historiadors o autors de carmina probrosa. De tota manera, convé recordar que el d’Atreu-Tiestes és, amb el de Medea, el tema favorit de la tragediografia d’època imperial: dels poc més de vint títols coneguts, hi ha sis Thyestes i tres Atreus; no tenim indicis d’una especial intencionalitat política; potser era la truculència del mite el que atreia. Pel que fa al Thyestes de Sèneca, el tema principal és l’odi entre germans i la venjança, no la tirania. Aquesta apareix primer en el diàleg de l’acte II entre Atreu i el Servent (un servent acomodatici que s’adapta sense resistència al plans d’Atreu, no un personatge íntegre que s’hi oposa) i, en menor mesura, en l’àgon entre Atreu i Tiestes en el III. Sens dubte, el Licus d’HF és un tirà més pur. Per tant, si és que en el Thyestes hi ha un atac contra Neró —qui, d’altra banda, no va reprimir la llibertat de paraula fins després de la conjura de Pisó—, ha d’entendre’s que és per via indirecta, al·lusiva, és a dir com podria ser en qualsevol altra tragèdia, sense cap canvi notable d’estratègia. Una hipòtesi remotament possible, sí; però “fascinant”?

El marc històric, el color d’època que les tragèdies transmeten no és exclusivament neronià: no costaria gens de trobar referències equivalents, pel que fa al desenfrenament de les passions en general, al furor, i en particular al poder tirànic, en els principats anteriors i encara més lluny — sense perdre de vista que hi ha aquí, a més, un component poètic i retòric tradicional. Una cronologia segura, si l’haguéssim pogut establir, ens hauria permès determinar les circumstàncies concretes en què es van escriure les tragèdies i les intencions directes i immediates de l’autor. No és aquest el cas, però. No sabem tampoc, d’altra banda, com van ser rebudes aquestes obres pels destinataris ni si aquest hi veien alguna referència a fets històrics o alguna al·lusió a persones o algun dard subversiu que se’ns escapen a nosaltres. Ignorem, malauradament, un capítol d’història. Però, si bé hem de llegir les tragèdies deslligades d’un context precís del tot, resta encara un sentit més ampli, el literari, potser equívoc a vegades, però obert als variats suggeriments del text. I això pot contribuir també a corregir, en la interpretació, la freqüent tendència de reduir-les a una o molt poques dimensions: tragèdies històriques, polítiques, didàctiques, retòriques, morals, filosòfiques? Quan s’entra en el joc literari, els límits es difuminen.

216. Tac. Ann. 11.13.1.

217. De l’Atreus de Pomponi, no en sabem res, ni sobre el contingut ni sobre la data de composició. L’autor havia estat empresonat per Tiberi l’any 31, a la caiguda de Sejà (cf. Tac. Ann. 6.3 [5.8]).

Somnia nvgaeqve merae
155

ABSTRACT

The lack of clear information has made the chronology of Seneca’s tragedies a hotly-debated question. The diverse methods that have been used to resolve it, based on the internal analysis and on the study of external witnesses, with diverging results, are examined in this article, with the following conclusions. Regarding the internal analysis: A. On the absolute dating: 1. the allusions to historic events which have been offered as proof lack the necessary connection; 2. the consideration, widely accepted, of the Apocolocyntosis as a terminus ante quem (year 54), above all of HF, as a supposed parody, is inconsistent dogma. B. On the relative dating: 1. the intertextual relations that have been established are often contradictory and subjective in nature; 2. the increase in the number of pauses within the verse as a sign of posteriority is an erroneous criterion; 3. another erroneous criterion is that of the number of abbreviations of –o, a phenomenon that, in the view of the history of the language, of the literary genre and of the insertion of words into the verse, shows a coherent and closed non-chronological system; 4. the variation represented by the polymetric songs could have occurred at any stage of the tragediographic trajectory. Regarding the external testimony: 1. it is not possible to establish a precise date for the praefationes of Pomponius Segundus and of Seneca; 2. Pomponius must have died shortly after the year 51; 3. the debate between the two tragediographs could have taken place c. 41, c. 49 or c. 51; 4. Seneca’s tragediographic activity could have occurred before 41, during the period 49-59 or in both periods. Seneca’s tragedies reflect a historic framework which is not exclusively Neronian. We do not know the author’s direct intentions and the impressions of the audience; the weight of the interpretation should be moved from the historical field to the literary field.

156

Ítaca. Quaderns Catalans de Cultura Clàssica

Societat Catalana d’Estudis Clàssics

Núm. 24, 25 i 26 (2008-2010), p. 157-181

DOI: 10.2436/20.2501.01.25

Tragèdia i retòrica en la novel·la grega

Roser Homar Universitat de Barcelona

De fa uns anys ençà la novel·la grega ha estat objecte d’estudi per part dels especialistes més prestigiosos, que amb les seves aportacions han anat modificant la idea tradicional que es tenia d’aquest gènere. En diversos estudis han estat també ben definides les relacions entre les anomenades “novel·les d’amor i d’aventures” i el teatre, especialment pel que fa a escenes i personatges1. Quant a la novel·la d’Heliodor, s’ha aprofundit també en els termes teatrals i en la construcció escènica de determinats passatges, en els quals s’han identificat els jocs entre el còmic i el tràgic, l’espai, els personatges i el públic2. D’aquesta anàlisi ha quedat, però, una mica al marge la novel·la d’Aquil·les Taci, que presenta també una forta relació amb els gèneres dramàtics.

En el present treball revisaré, tot aprofundint en la novel·la d’Aquil·les Taci, i deixant de banda Dafnis i Cloe, que, potser, mereix una atenció especial, les relacions entre l‘anomenada novel·la “d’amor i d’aventures” i la tragèdia, tenint en compte, però, la situació del teatre a l’època imperial, atès que una comparació entre la tragèdia clàssica, entesa no només com a text, sinó també com a representació, i la novel·la d’amor i d’aventures plantejaria greus problemes de difícil solució, atès que en època imperial la tragèdia atenesa del segle V i la seva funció no existia ja com a tal.

D’una banda, la retòrica i l’anàlisi que aquesta féu de la tragèdia canvià profundament la percepció d’aquest gènere. Amb ella, la tragèdia passà a ser un text del qual se n’extreien models discursius i tècniques argumentatives per a produir textos i s’analitzaven els mecanismes estilístics i discursius mitjançant

1. Vegeu per exemple TRENKNER 1958, p. 50; ROCCA 1976; LAPLACE 1980; FUSILLO 1989, pp. 33 i ss.; MARINI 1993; CRISMANI 1997; CLAVO 2003.

2. WALDEN 1894; BARTSCH 1989, pp. 109-143; MARINO 1990; PAULSEN 1992; MONTES CALA 1992; DWORACKY 1996.

158

els quals poder generar empatia, persuasió i cop d’efecte. Certament, sabem que en aquesta moment accedien a la tragèdia clàssica aquells pocs privilegiats que podien rebre educació (πεπαιδευμένοι) i que eren, així, capaços de llegir, després d’anys d’aprenentatge, un grec que tenia molt poc a veure amb aquell que parlaven. Aquest gènere sobrevisqué, doncs, com a text en lectures públiques i, fonamentalment, a les escoles com a part integrant de la formació de l’alumne a tots els nivells.

A més, la tragèdia clàssica era en aquest moment, gairebé de manera uniforme, Eurípides, l’últim dels tres grans tràgics, que, segons diuen alguns estudiosos, amb les seves innovacions clausurà la tragèdia d’època clàssica. Certament, les seves tragèdies assoliren un gran èxit ja en època hel·lenística per diversos motius; un d’ells és el seu grec, en certa mesura, més accessible i assequible. Un altre motiu de l’èxit de les seves tragèdies és el fet que tendeixen cada vegada més al patetisme i al “novel·lesc”.

De l’altra, com a peça teatral, aquest gènere patí profunds canvis. En efecte, hom podia assistir a representacions de diferents escenes cèlebres pel seu πάθος. També, la tragèdia, entesa com a espectacle, experimentà una gran evolució fins a arribar a allò que s’ha anomenat pantomim, considerat per alguns estudiosos la tragèdia per excel·lència de l’imperi romà. En aquest context les antologies i les parts de tragèdia amb més πάθος eren àmpliament representades, i mim i pantomim van passar, d’aquesta manera, a suplantar els drames tradicionals i assoliren una gran preferència per part del vast públic.

En aquest sentit les novel·les de Caritó, d’Aquil·les Taci i d’Heliodor són un reflex, en major o en menor grau, d’aquesta situació que acabem de descriure. En aquest estudi ens centrarem, però, en el discurs que la novel·la fa de la tragèdia; és allò que hem anomenat la retorització de la tragèdia. Analitzarem, doncs, quina mena de citacions tràgiques presenten les novel·les, l’ús que fan del terme τραγῳδία i els seus derivats i la presència del tràgic en l’escena del judici de la novel·la d’Aquil·les Taci (VIII 9).

Citacions i ús del terme τραγῳδία i dels seus derivats.

a) Citacions.

Les citacions a altres obres literàries dins un text han estat sempre un element fonamental per a l’estudi de la intertextualitat. És clar també que les citacions en els textos antics no són mai literals, atès que el més comú era citar de memòria; aquest fet permet també als estudiosos analitzar i identificar les variants textuals que dins un text es poden trobar. Una altra qüestió de gran importància i relacionada amb això, en la qual no hi entrarem, però cal esmentar, és la manera com llegien els antics, concretament, a l’època imperial. La communis opinio, tot i que és constantment debatuda, és que molts dels autors que citen llegien poques vegades tota l’obra sencera i que,

Tragèdia i retòrica en la novel·la grega 159

sovint, extreien les citacions de florilegis, antologies molt de moda en aquesta època.

Pel que fa a les novel·les que ens ocupen, tot i que no hi ha encara un llistat exhaustiu de totes les citacions tràgiques que hi podem trobar, hom sospita que les referències a versos i passatges de les tragèdies són força particulars. A diferència de les citacions homèriques, nombroses en Caritó i també en Heliodor, on, especialment en Caritó, apareix més d’un vers d’Homer la idea del qual es connecta de manera molt particular amb allò que s’explica en el cos del text, les tràgiques, molt més escasses, semblen ser d’una altra mena. En aquestes el metre és molt menys respectat i la identificació amb el versos tràgics sovint es fa molt més difícil, atès que tendeixen a canviar l’ordre, a posar una paraula per una altra, a variar la forma verbal; a integrar-la, en definitiva, molt més en el cos del text, i a adaptar-la a allò que succeeix i que es conta en el passatge3. Sovint, es juga també a l’oposició de fórmules tràgiques o a la reproducció d’una fórmula tràgica adaptada prosàsticament en la retòrica4

És també molt més habitual trobar lèxic5 i estil que s’identifica com a propi de la tragèdia. En aquest sentit, Heliodor6 barreja alguna vegada lèxic èpic i tràgic. Això sembla respondre a l’ús que la retòrica fa d’allò que es considera tràgic i també a allò que els teòrics consideren estil tràgic, sovint, molt relacionat amb un estil elevat; certament, dins aquest espai del tràgic, hi ha qui considera Homer un tràgic i pare de la tragèdia7.

D’altra banda, trobem molt sovint passatges que mètricament semblen remetre a la tragèdia, però que hom considera tan sols una possible citació, atès que es podria tractar d’una citació d’una tragèdia perduda o d’una frase composta a la manera tràgica pel que fa a la forma i al lèxic8. Aquest dubte s’entén pel fet que a les escoles de retòrica era habitual compondre versos a la manera dels poetes tràgics. Una mostra d’això és la gran quantitat de monòlegs de plany i de discursos que es troben en les novel·les, compostos segons l’estil tràgic i que, en molts casos, no contenen, però, cap citació directa.

Finalment trobem, en escenes tractades clarament com un drama o amb reminiscències tràgiques, construccions molt properes a la tragèdia que sem-

3. Vegeu per exemple Aquil·les Taci I 4,3: ὄμμα

Cf. Aesch. Th. 537 (

4. Com a exemple d’aquestes dues maneres de citar vegeu Caritó I 8, 1:

fórmula tràgica

(Eur. Hel. 201); Caritó II 3, 6:

Cf. Aesch. Ag. 887 ss; Soph. Ant. 803; Trach. 852; Eur. HF 450.

5. Vegeu Heliodor I 8, 3

6. Heliodor VII 5, 4.

7. Ps. Hermog. Method. 33. 1 Rabe:

8. Aquil·les Taci V 17, 3. Cf. Soph. Aj. 487 i 489.

Cf. Aesch. Cho.1075.

γοργὸν ἐν ἡδονῇ·
γοργὸν δ’ ὄμμ’
ἔχων).
τὰ δὲ περὶ Καλλιρόην δεινοτέραν ἄλλην ἐλάμβανε παλιγγενεσίαν, on λαμβάνειν παλιγγενεσίαν s’oposa a la
λαμβάνειν θάνατον
πηγὴν ἀφῆκε δακρύων ὀψὲ μεταμανθάνουσα τὴν ἐλευθερίαν
Καὶ ποῖ ταῦτα στήσεις;
Τὸ τραγικῶς λέγειν Ὅμηρος μὲν ἐδίδαξε, ∆ημοσθένης δὲ ἐμιμήσατο ὅτι μὲν γὰρ τραγῳδὸς καὶ πατὴρ τραγῳδίας Ὅμηρος, Πλάτων μαρτυρεῖ

160

blen tenir com a model algun vers d’aquesta9, essent, però, moltes vegades, difícil d’identificar-lo10.

En definitiva, trobem un ampli ventall de reminiscències tràgiques en la novel·la, que van des de la citació directa, que es dóna poc sovint, fins a clàusules que, malgrat tenir un regust tràgic clar, tant en l’estructura com en el lèxic, no les podem identificar amb versos tràgics.

b) Ús del terme τραγῳδία i dels seus derivats.

Però si les citacions de tragèdies són tan diverses i especials, encara ho és més l’ús del terme

τραγῳδία i els seus derivats, especialment el verb. En efecte, pel que fa a la novel·la de Caritó, no trobem cap dels termes relacionats amb τραγῳδία. En Xenofont d’Efes, en canvi, trobem el substantiu, curiosament, atès que és el novel·lista que amb diferència empra menys lèxic específic del teatre. En el llibre V 7, 411 apareix, però, el verb μιμοῦμαι molt a prop de l’expressió típica que fa referència a allò que produeix la tragèdia segons la concepció aristotèlica12, ἔλεος ἅμα καὶ φόβος. Aquest verb, de llarga tradició pel que fa a la teoria de la performance, és escassíssim en els altres tres novel·listes. Pel que fa a τραγῳδία, en el llibre III 1, 4 es defineix de la següent manera els relats que provoquen el plor d’Hipotous:

Segons el que el jove explica a continuació, es tracta d’una aventura, que inclou fugides i tota mena de vicissituds, que acaba amb la mort del seu estimat. El terme τραγῳδία remet, aquí, tant al tema, un amor dissortat i convuls, com al final, marcat per la mort sobtada i patètica. La tragèdia, doncs, s’entén en aquest context com un relat, marcat per tota mena de perills, el final del qual és la mort. Aquesta tendència a identificar la tragèdia amb la mort serà expressada teòricament, més endavant, pels anomenats gramàtics, que establiran la diferència entre comèdia i tragèdia en termes de vida i mort. Així, doncs, en segles posteriors, allò que caracteritzarà la comèdia serà la conservació de la vida i, en canvi, el característic de la tragèdia serà la mort13

9. Vegeu Caritó II 7, 2: σπαράσσουσα

També Xenofont d’Efes II 5, 6 i III 5, 2:

Cf. Eur. Andr., IA.

10. Vegeu Caritó IV 3, 5 on el context mostra una posada en escena dramàtica. El model més proper sembla ser l’Helena d’Eurípides, cf. Eur. Hel. 260-261 i 1688-1691. Vegeu també Aquil·les Taci I 12, 6 i compareu-ho amb Soph. El. 746 i Eur. Hipp. 1236 s.

11. Xenofont d’Efes V 7,

12. Esperem que sigui objecte d’estudi en propers treballs l’ús i l’aplicació en la novel·la de la terminologia aristotèlica pel que fa a la tragèdia.

13. Prolegomena De Comoedia, 23.

Καὶ ὃς «μεγάλα» ἔφη «τἀμὰ διηγήματα καὶ πολλὴν ἔχοντα τραγῳδίαν».
τὴν κόμην ἑαυτῆς
σπαράξασα τὰς κόμας
4: πίπτει μὲν γὰρ εἰς γῆν καὶ παρεῖται τὸ σῶμα καὶ ἐμιμεῖτο τοὺς νοσοῦντας τὴν ἐκ θεῶν καλουμένην νόσον· ἦν δὲ τῶν παρόντων ἔλεος ἅμα καὶ φόβος καὶ τοῦ μὲν ἐπιθυμεῖν συνουσίας ἀπείχοντο, ἐθεράπευον δὲ τὴν Ἀνθίαν
ἡ μὲν τραγῳδία λύει τὸν βίον, ἡ δὲ κωμῳδία συνίστησιν.

Tragèdia i retòrica en la novel·la grega 161

A banda d’aquest passatge, el substantiu no apareix en cap altra de les altres novel·les d’amor i d’aventures. Tanmateix, en Heliodor V 6, 4 trobem l’adjectiu τραγικός, -ή, -όν que acompanya ποίησις, en un passatge ple de referències teatrals:

Per què no, doncs, interrompem aquesta seva creació tràgica i ens posem a les mans d’aquells que volen matar-nos? De tal manera que no succeeixi que, anhelant un final colossal del drama, ens forci fins i tot a occir-nos amb les nostres pròpies mans.

Com és habitual en Heliodor, moltes de les vegades que apareix lèxic teatral cal entendre’l, a diferència d’Aquil·les Taci, com una metàfora o referència metafòrica de la vida i les seves vicissituds en la qual la Fortuna o una divinitat juga un paper essencial com a agent o força que mou els fils.

Sembla que en aquest passatge, com en el cas anterior, el terme remet també a un episodi patètic amb un final marcat per una mort colpidora que cal evitar, en aquest cas, el suïcidi, tòpic tràgic molt desenvolupat en les novel·les, tot i que mai no arriba a acomplir-se.

En ambdós casos trobem el personatge conscient de viure una tragèdia; tanmateix, es tracta d’un sentit més aviat passiu que connecta amb la idea estoica del sentit tràgic del viure.

A diferència d’aquests dos passatges on el sentit de participar o d’ésser el protagonista d’una tragèdia és més aviat passiu, en Heliodor II 11, 2 i 3 trobem el verb τραγῳδέω en un context en el qual es sospita un engany. S’assenyala una persona concreta com a agent o actor i una altra com a objecte passiu de l’engany, molt proper al que podria representar el públic. S’explicita de la següent manera:

Perquè també jo sospito de tu, fins i tot morta, i molt temo que la fi de Demeneta sigui també una invenció i que m’hagin enganyat aquells que l’han anunciada i que tu hagis arribat per mar a representar sobre nosaltres una altra tragèdia atenesa també a Egipte.

Després, però arriba la resposta del company, que converteix ara en actor del drama a qui s’havia considerat objecte passiu:

Τί οὖν οὐχ ὑποτέμνομεν αὐτοῦ τὴν τραγικὴν ταύτην ποίησιν καὶ τοῖς βουλομένοις ἀναιρεῖν ἐγχειρίζομεν; μή πη καὶ ὑπέρογκον τὸ τέλος τοῦ δράματος φιλοτιμούμενος καὶ αὐτόχειρας ἡμᾶς ἑαυτῶν ἐκβιάσηται γενέσθαι.
Ὡς κἀγώ σε καὶ κειμένην ἔχω δι’ ὑποψίας καὶ σφόδρα δέδοικα μὴ καὶ πλάσμα ἐστὶν ἡ ∆ημαινέτης τελευτὴ κἀμὲ μὲν ἠπάτησαν οἱ ἐξαγγείλαντες σὺ δὲ καὶ διαπόντιος ἥκεις ἑτέραν καθ’ ἡμῶν σκηνὴν Ἀττικὴν καὶ ἐν Αἰγύπτῳ τραγῳδήσουσα.

162

“És que no deixaràs”- deia Teàgenes- “de fer-te el milhomes i de recelar d’ombres i de fantasmes? Perquè no diràs que també han fetillat els meus ulls i a mi mateix, quan no tinc res a veure amb aquesta història”.

Aquí el verb remet concretament a allò que nosaltres entenem per tragèdia en el sentit teatral. A més, el verb, dins el context, està connotat negativament, en el sentit en què crea una ficció, un teatre, per a enganyar l’altre i provocar-li un mal. El sintagma ἑτέραν καθ’ ἡμῶν σκηνὴν Ἀττικὴν ens remet a l’engany que Cnèmon patí ja a Atenes; fou pensat per Demeneta i executat per Tisbe. Aquesta escena que succeeix a Atenes té com a model l’Hipòlit d’Eurípides. En efecte, Demeneta, l’esposa del pare de Cnèmon, s’enamora del fill i, com aquest no accedeix a les seves demandes s’empesca un pla per a acusar-lo d’haver-la forçat.

Quan Tisbe és trobada morta, duu una carta amb ella on explica que Cnèmon pot tornar a casa. El dubte que expressa el noi sobre el fet d’ésser enganyat està relacionat amb la carta. Hi ha, doncs, també un joc entre la carta que té Fedra a les mans, un cop ja morta, i que és malinterpretada per Teseu, i la carta de Tisbe, també morta.

En els exemples que acabem de comentar, doncs, τραγῳδία i els seus derivats ens remeten a la tragèdia entesa com a peça teatral, connotada fortament per allò que és patètic i colpidor, on la mort té una gran importància. Finalment trobem un significat força allunyat en Aquil·les Taci VI 4, 414. El verb està reforçat pel preverbi κατὰ i sembla que fa referència a l’estil tràgic, un estil elevat, lligat al patètic15. Defineix la manera com s’elabora la descripció de Leucipe; no hi ha, doncs, cap referència a la tragèdia com a peça teatral ni tampoc una idea de patetisme; més aviat es tracta de definir un estil elevat, poètic, que fa gran i exagera les coses petites. L’ús de κατατραγῳδοῦντος per a referir-se a la descripció que es fa de Leucipe sense ser-hi ella present, sembla que pot contenir i referir-se a dues figures que els teòrics de la retòrica atribueixen principalment a Eurípides: ὄγκος i φαντασία. La primera fa referència a un timbre estilístic elevat, que, segons es diu en el tractat Sobre el Sublim16, és assolit per Eurípides tot recorrent a un lèxic ordinari. La segona figura remet a la descripció que es fa de quelcom i que provoca en qui l’escolta la sensació de veure i estar present en allò

15. Per a una anàlisi més aprofundida d’allò que s’entén per estil tràgic, vegeu 2.2.2.

16. [Longinus],. Subl. 40.2.

«Οὐ παύσῃ» ἔφη ὁ Θεαγένης «ἄγαν ἀνδριζόμενος εἴδωλά τε καὶ σκιὰς εὐλαβούμενος; οὐ γὰρ δὴ κἀμέ τε καὶ τὴν ἐμὴν ὄψιν εἴποις ἂν ὡς ἐγοήτευσεν, οὐδὲν κοινωνοῦντα τοῦ δράματος».
14. τοῦ δὲ Σωσθένους αὐτῷ μηνύσαντος τὰ περὶ τῆς Λευκίππης καὶ κατατραγῳδοῦντος αὐτῆς τὸ κάλλος, μεστὸς γενόμενος ἐκ τῶν εἰρημένων ὡσεὶ κάλλους φαντάσματος, φύσει καλοῦ, παννυχίδος οὔσης καὶ ὄντων μεταξὺ τεσσάρων σταδίων ἐπὶ τοὺς ἀγρούς, ἡγεῖσθαι κελεύσας ἐπ’ αὐτὴν χωρεῖν ἔμελλεν

Tragèdia i retòrica en la novel·la grega 163

que es descriu. Són també els teòrics de la retòrica qui identifiquen aquesta figura en els autors tràgics17.

Sovint, també, el narrador defineix com a tràgic alguns dels discursos de plany, impregnats d’una pàtina retòrica. Aquesta mena de discursos estan molt possiblement relacionats amb l’exercici retòric anomenat ἠθοποιία, en el cas que es refereix a persones (εἰδωλοποιία), que consisteix a fer un discurs a la manera d’un personatge determinat. Hi ha qui considera que el referent més directe d’aquests monòlegs són les ῥήσεις tràgiques18, que, a més, són les parts d’on els teòrics de la retòrica extreien més exemples a l’hora d’analitzar els estils i les figures del discurs.

Pel que fa a les novel·les que ens ocupen, Paulsen19 identifica en Caritó vinti-un monòlegs de plany, en Xenofont d’Efes divuit, onze en Aquil·les Taci i set més un en Heliodor. Paulsen considera també que l’antecedent o el referent més directe d’aquests monòlegs, obligats en tota novel·la, són aquells d’Eurípides.

Aquests monòlegs de plany són posats sovint en boca de l’heroi o de l’heroïna, que són personatges provinents de famílies nobles, a qui, per tant, el to elevat, tràgic, s’adiu, especialment en una situació de dolor. I és que, en efecte, d’acord amb els tractats de retòrica, aquest estil és també el més adient per a manifestar el dolor i el més efectiu a l’hora d’expressar patetisme i de suscitar compassió.

Malgrat que, com hem dit, hi ha un gran nombre de discursos de plany en les noveles “d’amor i d’aventures” de què ens ocupem, ens centrarem, tanmateix, en aquells monòlegs en què el narrador introdueix explicacions que remeten a la teatralitat o que defineixen clarament la dicció com a tràgica.

Deixarem, per tant, de banda els dos novel·listes que més monòlegs de plany introdueixen i que, en canvi, no els defineixen mai en els termes que acabem d’explicitar20.

De les moltes vegades que apareixen en la novel·la d’Aquil·les Taci i d’Heliodor aquesta mena de monòlegs, en la primera només dues vegades s’utilitza explícitament el terme tragèdia o el seu derivat; en un altre passatge es fa referència a les emocions que desperta un discurs a la manera tràgica. En Heliodor la referència al tràgic apareix explícitament tres vegades.

En la novel·la d’Aquil·les, el narrador s’atura sovint a fer valoracions d’allò que explica, quelcom que molt possiblement està relacionat amb el fet que es tracta d’un relat en primera persona. Al llibre V, una vegada ha tornat l’es-

17. Per a una anàlisi aprofundida d’aquestes dues figures i els exemples tràgics que donen els diversos teòrics de la retòrica, vegeu CASTELLI 2000, per a la primera, pp. 49, 51-53, 58, 65, 132-134 i 138; per a la segona, pp. 35 i 36, 103, 134 i 135.

18. CRISMANI 1997, p. 57.

19. Vegeu PAULSEN 1992, III 3 b) «Die Klagemonologe», pp. 56-66.

20. Vegeu com a exemples Xenofont d’Efes I 4, 1-3, on s’inicia el discurs de la següent manera: «φεῦ

Vegeu també I 4, 6, que comença així:

μοι τῶν κακῶν» εἶπε, «τί πέπονθα δυστυχής; »
«Τί» φησὶν «ὢ δυστυχὴς πέπονθα; παρθένος παρ’ ἡλικίαν ἐρῶ καὶ ὀδυνῶμαι καινὰ καὶ κόρῃ μὴ πρέποντα».

pòs de Mèlite, Clitofont és empresonat. Mèlite, aprofitant un dels moments en què el seu home és fora, va a veure Clitofont a la presó. A l’inici li retreu que aquella que creia la seva esclava, fos, en realitat, la seva estimada; més endavant, però, intenta convèncer-lo de que finalment cedeixi als seus desitjos. Tota l’escena està narrada parant atenció en els gestos de la cara21 i els diversos discursos de Mèlite són retòrico-tràgics. En finalitzar la primera part del discurs i començar la següent, el narrador fa un apunt i, en acabar-la, torna a descriure la situació de Mèlite:

Les llàgrimes que acompanyen el discurs remeten a l’estupor, al patètic proper a Eurípides. El parlar tràgic, que s’associa a l’expressió del lament, provoca la compassió a qui escolta; tant és així que, després d’aquests discurs on Mèlite fa una recapitulació de tots els seus mals, Clitofont cedeix a la seva demanda, per compassió. L’estil tràgic és, doncs, l’adient per a commoure. D’altra banda, igual com els oradors en els seus discursos, cal que el gest i l’actitud que acompanyen les paraules siguin els adients per tal de commoure l’auditori. I és precisament això el que Mèlite domina a la perfecció. També en la novel·la d’Heliodor, quan apareix el verb ἐπιτραγῳδέω, la noció és la mateixa22.

Aquesta idea de les reaccions que suscita el discurs en to tràgic està desenvolupada teòricament en Aquil·les Taci III 14, 3:

I és que l’home, en sentir els mals de l’altre, gràcies a la compassió els comparteix, i moltes vegades la compassió procura amistat. Perquè l’ànima s’ablaneix en sentir les penes d’altres; llavors, s’identifica poc a poc amb els patiments que escolta i uneix a l’amistat el lament i a la compassió la pena.

Els discursos en estil tràgic que versen essencialment sobre mals i penes produeixen un dels sentiments que, segons Aristòtil, ha de suscitar la tragèdia, ἔλεος. En les novel·les, on sovint es juga a crear simpatia i identificació entre el lector i els protagonistes, la part del φόβος no hi pot entrar de cap manera23. Els herois de la novel·la no poden ser ja els herois de la tragèdia clàssi-

21. Aquil·les Taci V 25, 2

22. Heliodor VII 14, 5-8.

23. En la novel·la apareix lèxic aristotèlic sobre la tragèdia. Seria bo d’analitzar aquest lèxic i

164
ἡ δὲ ἐτραγῴδει πάλιν: “Οἴμοι δειλαία τῶν κακῶν [...]” ταῦτα ἔλεγε, καὶ ἅμα ἔκλαεν.
συμπαθὴς δέ πως εἰς ἔλεον ἄνθρωπος ἀκροατὴς ἀλλοτρίων κακῶν, καὶ ὁ ἔλεος πολλάκις φιλίαν προξενεῖ· ἡ γὰρ ψυχὴ μαλαχθεῖσα πρὸς τὴν ὧν ἤκουσε λύπην, συνδιατεθεῖσα κατὰ μικρὸν τῇ τοῦ πάθους ἀκροάσει τὸν οἶκτον εἰς φιλίαν καὶ τὴν λύπην εἰς τὸν ἔλεον συλλέγει.
: τὸ σχῆμα τοῦ προσώπου τοσαῦτα εἶχεν

Tragèdia i retòrica en la novel·la grega 165

ca, éssers entre els homes i els déus, sinó que han de ser herois propers amb els quals l’home es pugui identificar; és per això mateix que allò que s’entén per tràgic és l’imprevisible dels mals i el sentiment de saber-se sempre a mercè de la Fortuna.

Però el tràgic està lligat també a la noció d’exagerat. I, en la novel·la d’Aquil·les Taci, el fet d’exagerar mitjançant paraules i gestos està lligat a la noció de simulació. En VIII 1, 524 la declamació tràgica és definida com una simulació en la qual s’exagera allò patit tant amb paraules grandiloqüents i colpidores com amb una manera de parlar forta, el crit. Aquesta noció de simulació, d’amagar mitjançant un estil tràgic, les vertaderes intencions pot estar relacionat amb allò que els teòrics de la retòrica anomenen λόγος ἐσχηματισμένος, que consisteix a fer un discurs en el qual s’amaguen les veritables intencions, el model tràgic del qual és Eurípides. D’altres models són Homer i els còmics. En Heliodor, tot i que també s’entén com a exageració el discurs tràgic, no està connotat com a simulació25. En aquest novel·lista la noció de tràgic està lligada també a la noció d’estil elevat que provoca la incomunicació en el cas en què l’heroïna de la novel·la empra aquest estil per a dirigir-se a personatges baixos, els pirates26

La performance en les sales de justícia. La posada en escena dels discursos.

La majoria de les novel·les d’amor conservades pertanyen a l’època de la Segona Sofística27; aquestes mantenen també una forta relació amb el gènere oratori, que es fa encara més evident en el tòpic recurrent en aquest gènere del procés judicial.

Aquesta dependència ha estat assenyalada ja en els treballs de diversos estudiosos28; tanmateix, l’han tractada en algun dels seus capítols de manera àmplia i general, sense entrar, però, amb detall en el tractament espectacular d’aquestes i, menys encara, en la qüestió que és central per al nostre estudi, les referències a l’element tràgic.

Certament, en les novel·les d’Aquil·les Taci, de Caritó i d’Heliodor es descriuen escenes judiciàries que, depenent de l’autor, amplifiquen o bé modifiquen aquest tòpic. També el tractament a manera d’espectacle i les referències al tràgic en el context del judici varien en cada obra. Per exemple, en les Etiòpiques d’Heliodor es descriuen dues escenes judiciàries breus que confirmen l’ús ben diferent d’aquest tòpic per part d’Heliodor i en les quals les re-

l’ús i el significat que es dóna en la novel·la, parant l’atenció en aquells mots que serveixen per a organitzar el discurs.

24.

25. Heliodor II 4,

26. Heliodor I 3, 1-3.

27. Vegeu RUIZ MONTERO 2006, p. 17.

28. Vegeu per exemple GARCÍA GUAL 1972 i FUSILLO 1989, entre d’altres.

καὶ ὁ μὲν ἐπὶ τῇ πληγῇ μάλα ἄκων ἀνακραγὼν συνέστειλε τὴν χεῖρα καὶ οὕτως ἐπαύσατο· ἐγὼ δὲ ἰδὼν οἷον ἔχει κακὸν τοῦτο μὲν οὐ προσεποιησάμην, ἐφ’ οἷς δὲ ἐτυραννήθην τραγῳδῶν ἐνέπλησα βοῆς τὸ ἱερόν
1: Κἀν τούτῳ τραγικόν τι καὶ γοερὸν ὁ Θεαγένης βρυχώμενος «ὢ πάθους ἀτλήτου» φησὶν «ὢ συμφορᾶς θεηλάτου

ferències a l’espectacle i al tràgic són gairebé inexistents; és per això que deixarem de banda en aquest capítol el tractament del tòpic del procés judicial per part d’Heliodor.

Farem, però, referència a les dues escenes judiciàries que podem llegir en la novel·la de Caritó, on el tractament espectacular i teatral d’aquestes és més marcat, per bé que les referències al tràgic i al joc constant entre l’estil còmic i el tràgic no hi apareix. Tot i així, aquesta novel·la ens servirà de terme comparatiu per a analitzar amb profunditat la descripció del judici que trobem en el llibre VIII de la novel·la d’Aquil·les Taci, que es celebra contra la parella d’amants i contra Mèlite, l’esposa de Tersandre. Certament, és en aquesta novel·la on el tòpic novel·lesc del procés judicial és amplificat i ple de referències no només al lèxic teatral, sinó també a l’estil tràgic en els discursos, tan típic de la Segona Sofística, quelcom que no és estrany, donada la proximitat temporal d’aquesta novel·la amb l’apogeu del nou renaixement retòric. Com hem dit, en la novel·la de Caritó podem llegir dues escenes de caire judiciari: en el llibre I 5, 4-7 se’ns descriu de manera molt succinta el judici contra Quèreas que, segons sembla, ha matat d’un cop Cal·lírroe, en pensar que li havia estat infidel. En aquest judici el mateix Quèreas demana la pena més alta per a ell, cosa que és notada com un procediment del tot extraordinari per a l’acusat d’un judici, atès que el normal seria defensar-se i demanar una reducció de la pena, tal com assenyala el narrador. És el cop d’efecte que genera l’autoinculpació de Quèreas i la seva exigència d’ésser condemnat a mort allò que justament fa que no se’l condemni. En aquest judici, però, l’element retòric i teatral queda minimitzat. D’altra banda, l’autoinculpació de l’amant i la seva petició d’ésser condemnat a mort és paral·lela al judici de Clitofont en Leucipe i Clitofont VII 7-12, en el qual ell mateix s’acusa davant el tribunal d’haver matat la seva estimada. Aquesta acusació falsa ve motivada pel desig de morir de l’amant, un cop sap, mitjançant un engany, que Leucipe és morta.

La segona escena judiciària de la novel·la de Caritó en llibre V 4, 5-13 i 6-8, en canvi, té un caràcter marcadament teatral i segueix els cànons de l’oratòria forense. És el famós judici a Babilònia entre Dionisi i Mitridates, acusat pel marit de Cal·lírroe d’intent d’adulteri. Dionisi, en trobar la carta amb la qual Quèreas pretén fer saber a la seva estimada que és viu, acusa Mitridates d’adulteri davant el rei de Babilònia, atès que creu que és ell qui ha l’ha escrita29. El judici se celebra en dues parts, la primera en la qual Cal·lírroe no és present (V 4, 5-13) i la segona, en la qual, a petició del rei, Cal·lírroe hi compareix.

La primera part conté un ἀγών narrat en la forma teatral típica de la tragèdia, l’esticomítia, i els discursos pronunciats segueixen els cànons de l’oratòria judiciària; fins i tot, García Gual30 assenyala en aquests discursos un ressò de les discussions sobre els dos estils de l’oratòria: l’asiànic i l’àtic.

29. La carta és ja un mecanisme dramàtic que contribueix a generar confusió, com succeeix en l’Hipòlit d’Eurípides. 30. GARCÍA GUAL 1972, p. 171.

166

Tragèdia i retòrica en la novel·la grega

167

El procés assumeix també un desenvolupament marcadament teatral en la segona part amb dos grans moments: el primer, l’entrada en escena de Callírroe (V 5, 9), que és comparada a la d’Helena en la Ilíada III, 146. Amb la seva presència Cal·lírroe fa emmudir l’auditori que s’ha congregat per veurela, més que no pas per seguir el judici; el segon, és l’entrada, també en escena, de Quèreas, a qui tothom considerava mort. El narrador descriu la seva aparició i les reaccions que desencadena com si es tractés d’una escena teatral, amb cop d’efecte, plena de sentiments contradictoris alhora. En aquestes dues escenes es descriu com a element important el públic que es congrega per a seguir un assumpte que, especialment en el segon cas, pertany a l’àmbit privat. Tanmateix, mitjançant el mecanisme de descriure el procés en termes teatrals, assimilant els protagonistes a personatges del món del mite i del teatre, i de fer al·lusió a les dramatitzacions que s’escenifiquen en el teatre, on el públic és considerat un element important, l’assumpte privat passa, així, al terreny públic.

El desenvolupament de l’element teatral i l’ús de la pràctica oratòria forense per part de Caritó presenta un grau de reelaboració neutre que es cenyeix a les pràctiques habituals de la declamació de discursos i de la posada en escena de judicis. Aquil·les Taci, però, accentua la distància entre la matriu oratòria i la reelaboració novel·lesca31 en la mesura en què el procés pren un caire més proper a la comèdia. L’aparició també de morts que ressusciten, a diferència del cop d’efecte que produeix l’aparició de Quèreas en la novel·la de Caritó, tenen també un caire molt més còmic que retarden el desenvolupament del judici, més que no pas el tanquen. D’altra banda, Aquil·les Taci juga molt més amb els elements judiciaris, introduint invectives sexuals properes a la comèdia que desentonen i trenquen el desenvolupament normal del judici i la declamació dels corresponents discursos. Aquest constant trencament i joc amb els elements típics de l’oratòria forense evidencia encara més el fet que Leucipe i Clitofont pertany a una època més avançada en la qual la retòrica havia assolit un espai hegemònic en la vida cultural32 Vegem ara com s’articula el segon judici que podem llegir en la novel·la d’Aquil·les Taci.

En el llibre VII Clitofont rep la falsa notícia de la mort de Leucipe. Atès que no pot suportar viure sense ella, s’autoinculpa de la mort de la noia, i es celebra un judici per a decidir la pena que li correspon. Malgrat que se’l condemna a mort, la seva execució queda truncada pel fet que es presenta a la ciutat una processó en honor d’Àrtemis, encapçalada per un estranger. Més tard el lector sabrà que aquest estranger és el pare de la noia. Al mateix temps, es descobreix que Leucipe és viva i que està refugiada al temple d’Àrtemis. El sacerdot, doncs, allibera Clitofont de les cadenes, atès que, en saber-se que la seva estimada és viva, la condemna a mort no té cap sentit.

En el llibre VIII Tersandre, l’antagonista en aquest procés dels dos amants,

31. Vegeu FUSILLO 1989, p. 82.

32. Vegeu FUSILLO 1989, p. 82.

168

demana celebrar un segon judici per tal que es decideixi si, finalment, Clitofont és condemnat a mort i per a acusar Leucipe de prostituta i de trànsfuga, atès que manté que és de la seva propietat.

Vegem, doncs, com s’estructura aquesta escena de la novel·la.

El judici s’inicia amb la intervenció de Tersandre (VIII 8), que pronuncia un discurs completament retòric en el qual dirigeix l’acusació contra Clitofont, acusat d’homicidi, contra Mèlite, la seva dona, per adúltera, contra Leucipe, que considera la seva esclava i a la qual, per tant, acusa de fuga, i contra el sacerdot, que ha acollit i refugiat els dos amants en el seu temple. El segon discurs, pronunciat immediatament després del de Tersandre, és el del sacerdot, que es defensa de les acusacions. En la primera part (VIII 9, 1-5) empra un estil còmic, seguida per una part de transició en la qual es cenyeix al típic discurs retòric de caire judicial, i en la final (VIII 9, 8-14) un estil tràgic. Aquesta intervenció confirma l’escassa preocupació d’Aquil·les Taci per la versemblança del judici i el seu interès per a transcriure en to burlesc l’oratòria33

En acabar el sacerdot el seu discurs, pren la paraula un advocat defensor de Tersandre (VIII 10) i, finalment, es fa la lectura de la demanda que Tersandre posa contra Mèlite i Leucipe (VIII 11).

És en el context d’aquest judici que es posa en escena, tot emprant termes tècnics de l’oratòria i també del teatre, la controvèrsia sobre la idoneïtat d’aplicar un determinat estil en els discursos i la crítica contra l’orador que actua com un actor.

Tota aquesta polèmica que acabem de descriure és posada en escena en aquesta novel·la en el context de l’escenificació d’un judici34 en el qual els personatges que intervenen miren de desacreditar-se l’un a l’altre posant en evidència les tècniques i l’estil que cadascú empra. I és precisament per això que s’acumulen molts termes relacionats amb ὑπόκρισις, τραγῳδέω, κωμῳδέω i δρᾶμα. Aquest fet és molt significatiu atès que no només evidencia la relació entre oratòria i teatre, sinó també perquè ens permet entendre de quina manera planteja el novel·lista l’escenificació i la teatralització com a aspectes essencials en el procés judicial. Durant l’època anomenada Segona Sofística els oradors itinerants assoliren una fama enorme pel que fa a les seves performances en els teatres i en els llocs habilitats per als espectacles i la ὑπόκρισις esdevingué, així, un element molt important en l’execució dels discursos com a espectacle. Aquest terme, aplicat primer als actors, anomenats en grec genèricament amb el terme ὑποκριτής, passà ja amb Aristòtil35 a designar la posada en escena mitjançant els gestos i la modulació de la veu dels discursos retòrics. Segons Aristòtil, la ὑπόκρισις és l’element més efectiu per a la persuasió i critica que els actors tràgics poden usar en excés dels gestos; tanmateix, això no implica

33. FUSILLO 1989, p. 81.

34. Aquil·les Taci VIII 8-11.

35. Arist. Rh. 1403b 20-33.

Tragèdia i retòrica en la novel·la grega 169

que la ὑπόκρισις hagi de quedar exclosa en la pronúncia del discurs, atès que en l’oratòria els gestos, l’expressió facial i la modulació de la veu ajuden al discurs si s’usen amb moderació i s’emmotllen a un estil apropiat36. En Aristòtil, per tant, es dóna amb la definició d’una tècnica determinada la connexió entre l’orador i l’actor. A partir d’aquest moment, doncs, la ὑπόκρισις, que inclou els gestos, és considerada part de la tècnica de l’orador.

Els posteriors manuals de reflexió retòrica adoptaren aquest terme i esdevingué, així, el nom bàsic per a designar l’actuació en les sales de justícia, en el senat, a l’assemblea i al teatre37. L’aplicació d’aquest concepte a l’art de la retòrica implicà, però, una assimilació entre orador i actor que fou considerada pels teòrics perillosa. Es considerava que l’actor era tan sols algú que interpretava i fingia un rol creat per un altre (el poeta) fora d’ell mateix; l’orador, en canvi, era qui produïa i representava el seu propi rol i era responsable d’aquest38: l’orador transmet unes emocions i unes idees que, en principi, no són fingides; per tant, segons els teòrics, cal distingir la realitat i la veracitat del discurs públic de la ficció del teatre. El fingiment, que es relaciona amb l’actor, doncs, ha de quedar descartat en els discursos, sobretot en el context d’un judici.

Amb aquesta controvèrsia sembla que el terme ὑποκριτής assoleix una connotació negativa en el context d’un judici, pel fet que comporta una noció també negativa en l’actuació, considerada com a quelcom fals, que enganya. Aquesta idea la trobem expressada en el primer discurs en el qual Tersandre (VIII 8, 14) acusa el pare de Leucipe d’actor que representa i que, per tant, falseja el seu paper de pare. Tersandre considera Leucipe una esclava seva i, per tant, no pot acceptar que sigui filla d’un prohom que s’ha presentat d’improvisat a la seva terra; és per això que diu:

La tercera part del meu discurs està dirigida contra la meva esclava i contra aquest venerable... actor que fa de pare.

En aquest context és evident la connotació negativa del terme, com ho és també en VIII 9, 2 i en VIII 9, 3 on el sacerdot acusa Tersandre de fer-se passar per un home instruït i cast, quan, en realitat és un malfactor i un efeminat dominat per les passions sexuals. Podem dir, doncs, que el terme ὑποκριτής i els seus derivats tenen, en determinats contextos, el mateix significat que en diverses llengües modernes presenta la paraula hipòcrita. En el cas d’aquest passatge d’Aquil·les Taci sembla, però, que aquesta connotació negativa del terme sorgeix de la con-

36. FORTENBAUGH 2007, p. 119.

37. FANTHAM 2002, p. 363.

38. FANTHAM 2002, p. 363

ὁ δέ μοι τρίτος τῶν λόγων πρὸς τὴν δούλην ἐστὶ τὴν ἐμὴν καὶ τὸν σεμνὸν τοῦτον πατρὸς ὑποκριτήν,...

trovèrsia en l’assimilació de tècniques teatrals per part de la retòrica, que en el cas de causes judicials es mostra especialment crítica envers els recursos teatrals atès que comporten el perill de falsejar la realitat.

En aquest passatge, però, no només els termes que contenen aquesta arrel són connotats negativament, sinó que també la paraula δρᾶμα, pròpia del teatre, és emprada per a fer acusacions en termes d’engany. El lèxic referent al teatre és emprat, doncs, en el context judicial, on l’important és esbrinar la veritat dels fets i de les acusacions, en sentit negatiu per a descobrir els possibles enganys que s’amaguen darrera les paraules i les actuacions dels personatges.

En aquest sentit, l’advocat defensor de Tersandre (VIII 10, 8) dirigeix la següent acusació contra Mèlite, acusada d’adúltera, atès que s’ha casat amb Clitofont quan el seu home encara és viu.

Però a la part final de la seva actuació s’ha desprès completament del vel de decència i ha quedat coberta d’impudicícia.

En el seu discurs l’advocat diu que possiblement Mèlite ja havia comès adulteri abans, però que no ha estat fins a l’última actuació que s’ha descobert. La paraula δρᾶμα aquí sembla que fa referència a l’acusació segons la qual Mèlite, malgrat saber que el seu home és viu, es fa passar per vídua i, pot, així, casar-se amb Clitofont. El verb ἀποκαλύπτω aquí reforça la idea de representació fictícia, atès que suggereix el fet de treure’s el vestit del pudor, com ho fan els actors amb les seves disfresses.

L’ús d’aquest verb i del seu contrari en una situació propera a δρᾶμα el trobem en dos altres passatges d’aquesta mateixa novel·la. Quan Leucipe es troba presonera al casal de Tersandre39, un cop s’ha fet passar per una esclava, reflexiona amb ella mateixa el següent:

És que hauré de descobrir la representació del meu drama i explicar la veritat?

Au, tornaré a disfressar-me per al meu drama. Vinga, em posaré la disfressa de Lacena.

Si relacionem aquests dos passatges amb el del judici en el qual s’acusa a Mèlite, comprovem com l’autor juga a crear una xarxa de mots referencials que remeten al teatre i al paper dels actors, que fingeixen, mitjançant disfres-

39. Aquil·les Taci VI 16, 4 i 6.

170
τὸ δὲ τελευταῖον τοῦ δράματος πᾶσαν ἀπεκάλυψε τὴν αἰδῶ, πεπλήρωται δὲ ἀναισχυντίας.
ἆρα ἀποκαλύψασα τοῦ δράματος τὴν ὑπόκρισιν διηγήσομαι τὴν ἀλήθειαν;
φέρε πάλιν ἐνδύσωμαί μου τὸ δρᾶμα· φέρε περίθωμαι τὴν Λάκαιναν

Tragèdia i retòrica en la novel·la grega 171

ses, ser un altre. D’altra banda, el personatge d’esclava que es crea Leucipe comporta un conflicte que fa que en el judici sigui acusada d’esclava trànsfuga, quan, en realitat, és una jove de família noble. El seu paper no és descobert en el judici, atès que no interessa als acusadors.

En el cas de Mèlite, en canvi, que en principi sembla que no ha fingit cap paper, se l’acusa d’haver portat sempre una disfressa, de la qual en la seva última intervenció, en casar-se amb Clitofont, se n’ha desprès. Fa la sensació, doncs, que els papers de les dues dones s’intercanvien en el procés judicial i que aquest intercanvi s’inicia quan Mèlite passa a ser la dona de Clitofont, situació que en aquest δρᾶμα li pertocaria a Leucipe.

Però les acusacions que uns i altres es dirigeixen fan referència també a la manera com cadascun d’ells construeix i pronuncia el seu discurs. Així doncs, pel que fa als diversos estils que es poden emprar en els discursos, aquesta escena de la novel·la d’Aquil·les Taci és també un clar exemple de la controvèrsia que trobem en els manuals de retòrica.

Just abans que el sacerdot pronunciï el seu discurs en defensa d’ell mateix i de Clitofont i, per tant, en contra de Tersandre, el narrador ens fa una presentació d’aquest40 definint-lo com un home hàbil en parlar i èmul de la comèdia aristofànica, capaç de pronunciar un discurs a l’estil de la comèdia. L’habilitat en parlar i la relació que sembla que s’estableix en aquest passatge amb la comèdia és posada de manifest per Quintilià que considera que l’orador ha d’aprendre de l’actor còmic la manera correcta de narrar, l’art de la persuasió i com cal exterioritzar la ira i com cal desvetllar la compassió41. I és que, segons sembla indicar el mateix Quintilià, una altra funció del comoedus era fer de professor d’eloqüència als nois més joves. El còmic, doncs, sembla que no queda exclòs en les tècniques de la declamació, malgrat que també sol estar sotmès a controvèrsia.

Ben diferent és, però, la presentació que el narrador fa de l’advocat defensor (VIII 10, 2) sobre el qual diu:

Mitjançant el verb τερατεύω, que fa referència a una gesticulació exagerada i grandiloqüent, el narrador ens presenta l’advocat com un orador que sobreactua i que fa uns gestos desmesurats; desacredita, per tant, d’entrada, allò que pugui dir en el seu discurs.

La controvèrsia sobre allò còmic queda també reflectida en la novel·la, quan l’advocat defensor de Tersandre censura (VIII 10, 2 i 4) la part còmica del discurs del sacerdot. I és que, certament, la primera part del seu discurs (VIII 9, 1-5), en la qual acusa Tersandre de depravat i de malfactor, està farcida de jocs de paraules i d’equívocs entre el lèxic sexual i obscè i el de l’educació. El sacerdot, doncs, com a bon imitador d’Aristòfanes i, donada la seva situa-

40. Aquil·les Taci VIII 9, 1. 41. Quint. Inst. I XI, 11-15.

ταῦτα εἰπὼν καὶ τερατευσάμενος καὶ τρίψας τὸ πρόσωπον

172

ció d’autoritat, confegeix un discurs ple de jocs de paraules, però també de figures i de construccions que pretenen suscitar la compassió envers Clitofont. El narrador introdueix el discurs d’aquest (VIII 9, 1) amb les següents paraules:

Comparegué el sacerdot (que no era incompetent a l’hora de parlar, sinó un gran èmul de la comèdia d’Aristòfanes) i començà a parlar de manera prou elegant i còmica, tot atacant la lascívia d’aquell...

Si ens aturem en el sintagma ἤρξατο

κωμῳδικῶς podem comprovar que el narrador associa allò elegant (ἀστείως) a la comèdia. Aquest terme està connotat, segons sembla, positivament i sembla que fa referència a una mena de discurs elegant que és emès per algú educat i que, per tant, té l’habilitat de construir amb paraules quelcom enginyós. Aquesta assimilació, si bé no és enunciada exactament en els tractats retòrics, no entra en contradicció amb certes afirmacions que trobem en els tractats de Retòrica i de Sobre el Sublim d’Aristòtil i de Pesudo-Longí respectivament, en les quals l’ésser ἀστεῖος en el discurs i el riure van junts. Aristòtil en la Retòrica42 associa les dites enginyoses (τὰ ἀστεῖα) a l’engany i als jocs de paraules, també als entimemes i a les metàfores43, i remarca que han d’ésser comprensibles de manera retardada44; per tant, aquelles dites que són massa òbvies o massa obscures no són adequades, atès que en cap dels dos casos no provocaran el riure. Inclou també en aquest mateix apartat dels ἀστεῖα els enigmes (ᾐνιγμένα)45. Es tracta, doncs, d’establir un tipus de comunicació a partir de la qual el receptor pot extreure certa informació, resseguint allò que es diu i que no es diu mitjançant el joc referencial de les paraules al·lusives46. Assenyala també que en aquest tipus d’expressions cal evitar tot allò que sigui vulgar (ἐπιπόλαιον). A aquestes dites estan també associats els jocs de paraules que apareixen, tal com diu Aristòtil47, a les peces paròdiques que provoquen el riure. De la mateixa manera en el tractat Sobre el Sublim48 aquesta figura queda associada al riure.

A partir d’aquestes dues afirmacions és fàcil, doncs, associar, tal com ho fa el narrador de la novel·la, l’ ἀστείως al

42. Arist. Rh. 1410b-1412a

43. Arist. Rh.1412a 18: Ἔστιν

44. Arist. Rh. 1410b lín. 26

45. Arist. Rh. 1410b 23.

46. Es tracta també potser de l’anomenat

47. Arist. Rh. 1412a lín. 27:

48. [Longinus], Subl. 34.3.

. Tanmateix, tot i que la

Παρελθὼν δὲ ὁ ἱερεὺς (ἦν δὲ εἰπεῖν οὐκ ἀδύνατος, μάλιστα δὲ τὴν Ἀριστοφάνους ἐζηλωκὼς κωμῳδίαν) ἤρξατο αὐτὸς λέγειν πάνυ ἀστείως καὶ κωμῳδικῶς εἰς πορνείαν αὐτοῦ καθαπτόμενος...
αὐτὸς λέγειν πάνυ ἀστείως καὶ
κωμῳδικῶς
καὶ τὰ ἀστεῖα τὰ πλεῖστα διὰ μεταφορᾶς καὶ ἐκ τοῦ ἐξαπατᾶν
λόγος ἐσχηματισμένος
ἀλλ’ ὥσπερ ἐν τοῖς γελοίοις τὰ παραπεποιημένα

Tragèdia i retòrica en la novel·la grega 173

referència a Aristòfanes és clara, podem pensar també que l’adverbi κωμῳδικῶς coordinat amb ἀστείως remet a un tipus d’estil proper a la Comèdia Mitjana o, fins i tot, Nova. Però, donat que no podem resseguir exhaustivament l’evolució de la comèdia al llarg del temps, és preferible pensar que aquests adverbis remeten a un tipus de joc discursiu que s’associa a un estil propi d’aquella comèdia a la qual accedeix un cert tipus de públic educat i que és allunyat de les representacions mímiques que s’associen a una comicitat simple, vulgar i barroera, que té com a objectiu provocar el riure en un ampli públic que inclou aquell no educat. Sembla, doncs, que es tracta de marcar la contraposició entre una comicitat elaborada, que es serveix de les paraules, de la seva composició i de l’habilitat al·lusiva que algú educat és capaç de construir respecte a aquella comicitat simple, vulgar i grollera, feta sobretot de gestos i d’expressions onomatopeiques, típica dels mims tan populars a l’època de l’imperi. D’altra banda, la referència a Aristòfanes, a més d’evidenciar-se en el discurs del sacerdot, és emprada com a paradigma de l’habilitat en els jocs al·lusius i la composició discursiva típica d’una comèdia a la qual accedeixen i de la qual gaudeixen aquells que han estat intruïts en la παιδεία

El narrador ens presenta, doncs, un sacerdot ben instruït en l’art de la retòrica, capaç d’introduir en un discurs dites enginyoses i jocs de paraules. Vegem, però, com defineix l’advocat defensor de Tersandre el discurs que ha pronunciat el sacerdot. L’advocat (VIII 10, 2) l’acusa d’haver representat una comèdia grollera i desvergonyida

Hem sentit, digué, la comèdia que el sacerdot ha representat desvergonyidament i impúdica, tot dirigint tota mena d’insults a Tersandre.

Aquí s’associa la comèdia al desvergonyiment i a la inconveniència, i, per tant, rep una connotació negativa de part de l’oponent. En aquesta crítica continua també l’assimilació entre orador i actor mitjançant l’ús, en aquest cas més ambigu, del verb ὑποκρίνομαι, atès que, donada la proximitat de κωμῳδίας, es pot interpretar el verb tant fent referència a la pronunciació i posada en escena del discurs, com al fet de representar en el sentit negatiu de què abans parlàvem una comèdia grollera i desvergonyida.

Aquesta crítica de l’ús del còmic la podem relacionar amb la que apareix en Llucià, Dues vegades acusat. En aquesta obra el Diàleg retreu al Siri que hagi canviat la seva vestimenta tràgica per una de còmica i que l’hagi unit, entre d’altres, a Aristòfanes, que es befa de les coses greus i riu de les honestes49 Acaba la seva intervenció dient:

49. Llucià, Bis Acc., 33. 10-37.

: Τῆς μὲν τοῦ ἱερέως κωμῳδίας, ἔφη, ἠκούσαμεν, πάντα ἀσελγῶς καὶ ἀναισχύντως ὑποκριναμένου τὰ εἰς τὸν Θέρσανδρον προσκρούσματα·

Com pot ser, doncs, que no sigui víctima de terribles insolències, quan ja no em trobo com a casa, sinó que haig de fer comèdia i provocar el riure i posar en escena per a ell temes inaudits?

Donat el caràcter paròdic tant de la novel·la d’Aquil·les Taci com de les obres de Llucià, podem pensar en alguna mena de relació entre aquests dos autors i el seu gust pel còmic, en concret, per Aristòfanes. Certament, Schwartz en el seu article50 proposa una revisió de la relació entre ambdós autors, tot comparant passatges de la novel·la que ens ocupa amb altres obres de Llucià. Després de censurar l’estil còmic, recrimina al sacerdot que hagi representat una tragèdia amb claredat i sense enigmes51; el verb emprat és precisament ἐτραγῴδησεν. D’aquesta observació el lector comprova que els jocs de paraules i les dites enginyoses de la primera part del discurs del sacerdot provoquen l’efecte que diu Aristòtil que han de provocar, una intel·lecció retardada, a diferència de la part en què empra un estil tràgic on fa acusacions del tot clares i sense embuts. L’advocat defensor de Tersandre, doncs, posa al descobert els recursos que empra el sacerdot en aquest discurs com si estigués fent una anàlisi del discurs tenint present els manuals de retòrica.

Tanmateix, el fet de parlar mitjançant enigmes i de manera poc clara provoca l’enuig en l’adversari i, és que, tal com s’explica en Sobre el Sublim52, el fet d’emprar figures artificioses provoca desconfiança, sobretot, si el discurs va dirigit a un jutge amb poders absoluts o a tots aquells que ocupen alts càrrecs, atès que, com no comprenen els jocs de paraules, consideren que els estan enganyant i ho prenen com una ofensa personal. Un antídot contra això (17.2) és la sublimitat i el patetisme53

D’acord amb aquesta afirmació, després de la part còmica, el sacerdot continua amb un discurs totalment retòric que conté cap al final un estil tràgic que pretén persuadir del fet que Tersandre és culpable de tot allò de què ha acusat els amants.

Reprenent el passatge de Sobre el sublim suara citat (17.2), el πάθος és un element molt important en els discursos, atès que persuadeix i suscita emocions, i està sovint molt relacionat amb el tràgic. En aquest passatge de la novel·la l’ús de l’element tràgic provoca també controvèrsia entre els adversaris i, per aquest motiu, uns i altres se n’acusen mútuament. En el seu discurs el sacerdot (VIII 9, 7) dirigeix aquesta acusació contra Tersandre:

50. Vegeu SCHWARTZ 1976.

51. Aquil·les Taci VIII 10, 4:

52. [Longinus], Subl. 17.1:

53. [Longinus], Subl.:

174
Πῶς οὖν οὐ δεινὰ ὕβρισμαι μηκέτ’ ἐπὶ τοῦ οἰκείου διακείμενος, ἀλλὰ κωμῳδῶν καὶ γελωτοποιῶν καὶ ὑποθέσεις ἀλλοκότους ὑποκρινόμενος αὐτῷ;
ἃ δὲ μετὰ τὴν κωμῳδίαν ἐτραγῴδησεν ἤδη οὕτω φανερῶς καὶ οὐκέτι δι’ αἰνιγμάτων
ὕποπτόν ἐστιν ἰδίως τὸ διὰ σχημάτων πανουργεῖν
τὸ τοίνυν ὕψος καὶ πάθος τῆς ἐπὶ τῷ σχηματίζειν ὑπονοίας ἀλέξημα.

Tragèdia i retòrica en la novel·la grega 175

μου.

“Has alliberat”, diu, “un condemnat a mort”. I amb això ha fet un plany força terrible, titllant-me de tirà i de quantes coses ha volgut en la tragèdia que ha recitat en contra meva.

Aquesta mateixa acusació la dirigeix l’advocat defensor de Tersandre (VIII 10, 4) contra el sacerdot, com ja hem vit.

Ambdós empren una forma verbal per a indicar no només allò que es diu: les paraules que empren, els recursos estilístics, sinó també la manera com es declama, la manera de pronunciar el discurs.

Pel que fa al verb τραγῳδέω Karavas en el seu estudi54 explica que remet al fet de representar o recitar una tragèdia i també al fet de comportar-se o parlar a la manera dels actors tràgics.

Però, sovint, en els tractats teòrics allò tràgic en la declamació de discursos és considerat una forma d’excés que sobrepassa la justa mesura i és un element que s’allunya de l’estructura argumentativa que tot discurs ha de tenir. L’excés s’entén no només des d’un punt de vista d’estil sinó també de teatralització; es considera, per tant, que l’ús sovintejat d’allò tràgic comporta un perill, que l’orador sobreactuï; és per això que altres teòrics, més propers en el temps a la Segona Sofística, neguen la utilitat en els discursos d’allò que ells anomenen55 l’ἀναίδεια θεατρική

Aquesta crítica de l’element tràgic està també lligada a les nocions d’inconveniència, del caràcter inoportú i d’ἀπιθανόν56, defectes que cal evitar en tot bon discurs que pretengui ser veraç i versemblant.

Quant a les crítiques d’uns i altres personatges pel que fa al tràgic, entès com un recurs retòric i teatral, sembla que totes aquestes connotacions negatives es desprenen de l’acusació que el sacerdot fa a Tersandre, atès que en relació amb el verb κατετραγῴδησέ apareixen els termes δεινῶς ἐσχετλίασε (lamentar-se de manera terrible). El lament és típic de l’estil tràgic i τύραννον és un concepte molt negatiu que en aquesta època va lligat a les nocions de salvatgia, desmesura i manca de φιλανθρωπία. El sacerdot, en definir així la intervenció de Tersandre, desqualifica el seu discurs com a mancat de credibilitat, donada l’exageració en les seves paraules. Sembla d’acord, per tant, amb la reflexió que trobem en Sobre el sublim III, 11-17 segons la qual l’estil tràgic és incompatible amb l’expressió de la realitat. D’altra banda, el fet de lamentar-se a la manera tràgica busca suscitar la compassió i, segons Ciceró, en els tribunals un orador no ha de recórrer mai al tràgic per tal de suscitar compassió57

54. Vegeu KARAVAS 2005, p. 195.

55. Dion.Hal. Isoc. 12, 22-34.

56. MILETTI 2009, p. 5.

57. Cic. De or. I 228.

“Ἔλυσας”, φησί, “τὸν θανάτου κατεγνωσμένον”· καὶ ἐπὶ τούτῳ πάνυ δεινῶς ἐσχετλίασε, τύραννον ἀποκαλῶν με καὶ ὅσα δὴ κατετραγῴδησέ

En aquesta crítica del sacerdot contra Tersandre podem pensar que el verb κατετραγῴδέω fa referència també als termes amb els quals Tersandre acusa el sacerdot: l’acusa de depassar les lleis humanes i divines; l’acusa, doncs, de ὕβρις contra els déus i els homes pel fet d’acollir un home que, segons la llei, ja hauria de ser mort, i una esclava fugitiva. Es tracta, doncs, d’una exageració tràgica en uns termes exagerats i poc creïbles que, tal com explica Quintilià, cal evitar en les causes judiciàries58, pel fet que cal que en aquests casos els temes siguin el més acostats possibles a la realitat, ja que, de no ser així, corren el risc de no ésser considerats convincents. Filòstrat critica també en algun sofista l’ús immoderat de termes tràgics59 Malgrat que uns i altres s’acusen d’emprar un estil tràgic en els seus discursos, tots recorren a aquesta tècnica per tal d’arrossegar i de commoure mitjançant expressions fortes i declamació patètica. Els personatges que intervenen en aquesta escena amb els seus discursos es comporten, doncs, com aquells sofistes caps de suro (τοῖς

) a qui, segons Hermògenes, perden les tragèdies i els poetes molt tràgics, entre els quals inclou Píndar, perquè els seus discursos són plens d’exemples de mots grandiloqüents60. Aquesta crítica contra el tràgic apareix també en els tractats de retòrica escrits en llatí, els autors dels quals critiquen durament els rètors grecs pel fet que l’empren massa sovint i atribueixen aquest fet al coneixement superficial que tenen de les lleis. Hem de dir, però, que la crítica al tràgic com a quelcom negatiu està dirigida a l’ús d’aquest en la prosa i que no s’estén als poetes tràgics. Es tracta de la continuació en els manuals de retòrica, i no tant de la pràctica oratòria, de la crítica que Aristòtil fa contra la introducció en la prosa d’un estil poètic i elevat, el primer exemple de la qual és Gòrgias. És també, pel que fa a la crítica de l’element teatral, la resposta dels teòrics a la proliferació de les performances de sofistes itinerants tan celebrats al llarg de l’imperi. Aquestes reflexions, que apareixen en els manuals i amb les quals Aquil·les Taci juga en el context d’un judici, ens permeten comprovar que la tragèdia o allò tràgic esdevé en els manuals retòrics una categoria al marge del gènere teatral i que, d’altra banda, esdevé alhora una categoria retòrica sotmesa a estudi i a crítica61, com ho són l’ús de figures d’estil en els discursos. Encara més, la paraula tràgica esdevé el terme per a referir-se a l’espectacular per excel·lència, on predomina el cop d’efecte i el πάθος; és també la realització de l’eloqüència que persuadeix de manera fulgurant62. I és que, tal com afir-

58. Quint. Inst. II X, 4 i 5. Sint ergo et ipsae materiae, quae fingentur, quam simillimae ueritati, et declamatio, in quantum maxime potest, imitetur eas actiones, in quarum exercitationem reperta est. Nem magos et pestilentiam et responsa et saeuiores tragicis nouercas aliaque magis adhuc fabulosa frustra inter sponsiones et inter dicta quaeremus. quid ergo? numquam haec supra fidem et poetica, ut uere dixerim, themata iuuenibus tractare permittamus, ut exspatientur et gaudeant materia et quasi in corpus eant?

59. Vegeu Philostr. VS II 10, 590.

60. Hermog., Id. I 6 151.

61. MILETTI 2009, p. 21.

62. DUPONT 1985, p. 167.

176
ὑποξύλοις τουτοισὶ σοφισταῖς

Tragèdia i retòrica en la novel·la grega 177

ma Dupont63, la tragèdia, la política i l’eloqüència estan a Roma íntimament lligades per la mediació d’un ús comú de la llengua amb la finalitat de commoure el poble, el jutge, el públic, el senat.

Hem dit que el tràgic és un element clau per a suscitar pietat, mitjançant el cop d’efecte i el πάθος; per tant, és un recurs que va dirigit a l’auditori en aquest cas del judici, però, sobre tot, al jutge. Tanmateix, en aquest passatge no hi ha una sola referència a l’efecte que causen els diversos discursos en el jutge o en l’auditori, sinó que són els mateixos oradors els que, explicitant amb termes específics la representació tràgica o còmica, les tècniques d’impostura i d’estil que ha emprat l’adversari, pretenen desacreditar-lo.

En Caritó, en canvi, l’auditori és un element més important en el tractament de la causa judiciària com a espectacle i els diferents personatges que intervenen amb els seus discursos no fan referència explícita als elements que uns i altres empren en les seves declamacions; es cenyeixen més a les causes i als motius de les acusacions.

Així doncs, en el cas de Leucipe i Clitofont, el públic juga un paper molt poc definit pel que fa a l’element teatral; són els mateixos oradors aquells que posen al descobert l’actuació o la performance de l’altre i, en explicitar els elements de què n’han fet ús teatralment, trenquen la il·lusió escènica i la utilitzen com a l’argument més fort en el judici per a derrotar el contrincant.

Aquest passatge sembla més un joc en el qual l’autor escenifica una controvèrsia vigent entre els teòrics de la retòrica i els educats en aquesta art, que no pas la descripció d’un veritable judici seriós en el qual cal decidir si l’heroi de la novel·la és finalment executat.

En aquest judici, doncs, allò que menys preocupa el narrador són les sentències que impliquen els dos protagonistes de la novel·la i que farien, que, depenent de si són favorables o no, la novel·la prengués un nou camí en el qual un dels dos protagonistes podria morir. Però, donat que és una convenció d’aquest tipus de novel·la el retrobament feliç dels amants, el narrador no es preocupa d’explicitar en el judici la sentència favorable envers Clitofont. Sembla, doncs, com si el resultat del judici es donés per suposat, en el cas de Clitofont, com a positiu per a l’heroi. Allò que interessa, però, és construir i palesar una performance judicial a la manera de les performances dels sofistes en la qual els entesos, en aquest cas els mateixos oradors, poden analitzar i discutir els recursos que empra cadascun i desacreditar la validesa d’aquests mitjançant la censura de les tècniques sense tenir en compte el contingut d’aquests i les seves raons. Són, per tant, els mateixos que pronuncien els discursos els que fan de jutges d’uns i altres, però de jutges teòrics i d’estil.

A diferència de la novel·la de Caritó, on podem llegir escenes de judicis on es segueixen les regles bàsiques de l’oratòria forense i on l’exposició de les causes es cenyeix força a allò que s’hi debat, en Aquil·les Taci, en canvi, la descripció del judici cal entendre-la com un recargolament en el qual es juga

63. DUPONT 1985, p. 168.

a portar a l’extrem les tècniques oratòries i els excessos en l’estil i a generar, així, una escena còmica que té poc a veure amb les causes del judici.

BIBLIOGRAFIA

G. ANDERSON, Ancient fiction: the novel in the Graeco-Roman world, London 1984.

— Eros Sophistes. Ancient Novelists at Play, American Classical Studies, 9, Chicago 1982.

P. D. ARNOTT, Public and performance in the greek theatre, New York 1997.

D. BAIN, Actors & audience : a study of asides and related conventions in Greek drama, Oxford 1987

S. BARTSCH, Decoding the Ancient Novel, Princeton 1989.

E. BOWIE, «The ancient Readers of Greek Novels», en G. SCHMELING (ed.), The novel in the Ancient World, Leiden 1996, pp. 87-106.

B. CASSIN, «Du faux ou du mensonge a la fiction», en Le Plaisir de parler : études de sophistique comparée, Paris 1986, pp. 3-29.

C. CASTELLI, Μήτηρ σοφιστῶν. La tragedia nei trattati greci di retorica, Milano 2000.

M. T. CLAVO, «Comunicare a Delfi: lo Ione euripideo e le Etiopiche di Eliodoro», en M. GUGLIELMO & E. BONA (eds.), Forme ddi comunicazione nel mondo antico e metamorfosi del mito: dal teatro al romanzo, Alessandria 2003, pp. 299-321.

C. CORBATO, «Da Menandro a Caritone. Studi sulla genesi del romanzo e i suoi rapporti con la commedia nuova», Quaderni Triestini sul Teatro Antico, I,1968, pp. 5-44.

J. CONNOLLY, «Reclaiming the Theatrical in the Second Sophistic», Helios 28, 2001, pp. 75-96.

R. CRIBIORE, Gymnastics of the Mind. Greek Education in Hellenistic and Roman Egypt, Princeton 2001.

— «The grammarian’s choice: the popularuty of Euripides’ Phoenissae in hellenistic and roman education», en YUN LEE TOO (ed.), Education in Greek and Roman Antiquity, Leiden-Boston-Köln 2001, pp. 241-259.

D. CRISMANI, Il teatro nel romanzo ellenistico d’amore e di avventure, Torino 1997.

D. CRISMANI, «La dona velata e altri ricordi di scena tra le pagine del romanzo greco», en M. GUGLIELMO & E. BONA (eds.), Forme di comunicazione nel mondo antico e metamorfosi del mito: dal teatro al romanzo, Alessandria 2003, pp. 235-241.

M. CURNIUS, «Un tópos quasi immancabile: la tempesta marina tra teatro e romanzo», en M. GUGLIELMO & E. BONA (eds.), Forme ddi comunicazione nel mondo antico e metamorfosi del mito: dal teatro al romanzo, Alessandria 2003, pp. 259-273.

R. DEGL’INNOCENTI PIERINI, «Finale di tragedia: Il destino di Ippolito dalla Grecia

178

Tragèdia i retòrica en la novel·la grega 179 a Roma», Studi italiani di filologia classica, 4a ser 1 (1-2), 2003, pp. 160-182.

L. DEL CORSO, La lettura nel mondo ellenistico, Roma 2005.

J. G. DÍAZ, «La belleza en la novela griega», Helmantica 35, 1984, pp. 243-266.

F. DUPONT, L’acteur —roi ou le théâtre dans le Rome Antique, Paris 1985.

S. DWORACKY, «Theatre and drama in Heliodorus ‘Aethiopica’», Eos, 84 (2), 1996, pp. 355-361.

P. EASTERLING, «Actor as a icon», en P. EASTERLING & E. HALL. (eds.), Greek and Roman actors. Aspects of an Ancient Professions, Cambridge 2002, pp. 327-341.

P. EASTERLING & R. MILES, «Dramatic identities: tragedy in late antiquity», en R. MILES (ed.), Constructing Identities in Late Antiquity, London-N.Y. 1999.

C. EDWARS, «Acting and self-actualisation in imperial Rome: some death scenes», en P. EASTERLING & E. HALL. (eds.), Greek and Roman actors. Aspects of an Ancient Professions, Cambridge 2002, pp. 376-393.

B. EGGER, «The Role of Women in the Greek Novel: Women as Heroine and Reader», en S. SWAIN (ed.), The Greek Novel, Oxford 1999, pp.108-136.

E. FANTHAM, «Orator and / et actor», en P. EASTERLING & E. HALL. (eds.), Greek and Roman actors. Aspects of an Ancient Professions, Cambridge 2002, pp. 363-394.

W. FORTENBAUGH, «Aristotle’s Art of Rhetoric», en I. WORTHINGTON (ed.), A Companion to Greek Rhetoric, Australia 2007

M. FUSILLO, Il romanzo greco: Polifonia ed eros, Venezia 1989.

M. FUSILLO, «Letteratura di consumo e romanzesca», en G. CAMBIANO, L. CANFORA & D. LANZA (eds.), Lo spazio letterario nella Grecia antica, I, 3, Roma 1994, 233-273.

C. GARCÍA GUAL, Los orígenes de la novela griega, Madrid 1972.

L. GRAVERINI, «La scena raccontata: teatro e narrativa antica», en F. MOSSETI CASARETTO (ed.), La scena assente. Realtà e leggenda sul teatro nel Medioevo. Atti delle II Giornate Internazionali Interdisciplinari di Studio sul Medioevo, Siena 2004, pp. 1-24.

T. HÄGG, Narrative Technique in Ancient Greek Romances. Studies of Chariton, Xenophon Ephesius, and Achilles Tatius, Stockholm 1971.

E. HALL, «The Singing actors of Antiquity», en P. EASTERLING & E. HALL. (eds.), Greek and Roman actors. Aspects of an Ancient Professions, Cambridge 2002, pp. 4-38.

E. HANDLEY, «Acting, Action and words in New Comedy» en P. EASTERLING & E. HALL. (eds.), Greek and Roman actors. Aspects of an Ancient Professions, Cambridge 2002, pp. 165-187.

R. HUNTER, «Acting down: the ideology of Hellenistic Performance», en P. EASTERLING & E. HALL. (eds.), Greek and Roman actors. Aspects of an Ancient Professions, Cambridge 2002, pp. 189-206.

C.P. JONES, «Greek drama in the Roman Empire», en R. SCODEL (ed.), Theater and Society in the Classical World, Michigan 1993, pp. 39-52.

O. KARAVAS, Lucien et la tragédie, Berlin, New York 2005.

I. LADA-RICHARDS, «The subjectivity of Greek Performance», en P. EASTERLING & E. HALL. (eds.), Greek and Roman actors. Aspects of an Ancient Professions, Cambridge 2002, pp. 395-418.

M. LAPLACE, «Les légendes troyennes dans le “roman” de Chariton, Chairéas et Callirhoé», Révue des Estudes grecques, 1980, pp. 83-125.

M. LAPLACE, «Théâtre et romanesque dans les Ethiopiques d’Héliodore», Rheinisches Museum 144 (3-4), 2001, pp. 373-396.

V. J. LIAPIS, «Achilles Tatius as a reader of Sophocles», Classical Quarterly, 56.1, 2006, pp. 220-238.

N. MARINI, «Il personaggio di Calliroe come “nuova Elena” e la mediazione comica di un passo euripideo», Studi italiani di filologia classica, 1993, pp. 205-215.

E. MARINO, «Il teatro nel romanzo: Eliodoro e il codice spettacolare», Materiali e Discussioni per l’analisi deo testi classici, 1990, pp. 203-218.

C. MIRALLES, La novela en la antigüedad clásica, Barcelona, 1968.

G. MONTES CALA, «Entorno a la impostura dramática en la novela griega», Habis, 23,1992, pp. 217-235.

C. MORENILLA, «Amor y aventuras en la comedia y la novela», El teatre clàssic al marc de la cultura grega i la seua supervivència dins la cultura occidental, Bari: Levante 1998, pp. 223-248.

J.R. MORGAN, «The story of Kenmon in Heliodoros’ Aithiopika», The Journal of Hellenistic Studies, 109, 1989, pp. 99-113.

J. O’SULLIVAN, A lexicon to Achilles Tatius, Berlin, New York 1980.

J. O’SULLIVAN, «Euripides IA 1550 and Achilles Tatius 3.14.3», The American Journal of Filology, 97, no.2, 1976, pp. 111-113.

T. PAULSEN, Inszenierung des Schicksals. Tragödie und Komödie im Roman des Heliodor, Bochum 1992.

B.E. PERRY, The Ancient Romances. A Literary-Historical Account of their Origins, Barkeley-Los Angeles 1967.

B.P. REARDON, «Aspects of Greek Novel», Greece & Rome, Second Series, 23, no. 2, 1976, pp. 118, 138.

R. ROCCA, «Eliodoro e i due Ippoliti euripidei», Materiali e contributi per la storia della narrativa greco-latina, I, 1976, pp. 57-59.

C. RUIZ MONTERO, La novela griega, Madrid 2006.

G. SCHMELING, The Novel in the Ancient World, Leiden 2003 (1996).

J. SCHWARTZ, «Achilles Tatius et Lucien de Samosate», L’Antiquité Classique 45 (2), 1976, pp. 618-626.

G. M. SIFAKIS, «The actor’s art in Aristotle», en P. EASTERLING & E. HALL. (eds.), Greek and Roman actors. Aspects of an Ancient Professions, Cambridge 2002, pp. 149-163.

S. TRENKNER, The Greek Novella in the Classical Period, Cambridge 1958.

J. WED. EAS. H. WALDEN, «Stage-Terms in Heliodorus’s Aethiopica» Harvard Studies in Classical Philology, 5, 1894, pp. 1-43.

R. WEBB, «Fiction, MIMESIS and the performance of the greek past in the Se-

180

Tragèdia i retòrica en la novel·la grega 181

cond Sophistic», en D. KONSTAN & S. SAÏD (eds.), Greeks on Greekness, Cambridge 2006.

R. WEBB, «Imagination and the Arousal of the Emotions in Greco-Roman World», en S. MORTON BRAUND & C. GILL (eds.), The Passions in Roman Thought and Literature Cambridge 1997, pp. 112-127..

T. WHITMARSH, «Greece is the World: exil and identity in the Second Sophistic», en S. GOLDHILL (ed.), Being Greek under Rome. Cultural Identity, the Second Sophistic and the Development of the Empire, Cambridge 2001, pp. 269-305

T. WHITMARSH, Greek Literature and the Roman Empire: the politics of imitation, Oxford 2001.

T WHITMARSH, The Second Sophistic, Oxford New York 2005.

J. LL. YAYOS, «Achilles Tatius as a reader of Sophocles», Classical Quarterly, 56.1, 2006, pp. 220-238.

F. ZEITLIN, «Living portraits and sculpted bodies in Chariton’s theater of romance», en S. PANAYOTAKIS, M. ZIMMERMAN & W. KEULEN (eds.), The Ancient Novel and Beyond, Leiden-Boston 2003, pp. 71-83.

ABSTRACT

The relationship between Greek love novels (especially Leucipe and Clitofont) and tragedy is analyzed in this study, by emphasizing the strong relationship between tragedy and rhetoric shown by most of these novels. In particular, I go deeper into some scenes where keywords related to the dramatics genres, especially tragedy, appear. This study is structured in two parts: in the first one, I pay attention to citations and to the use of τραγῳδία and its derivates; in the second one, The performance in the courtroom, the staging of the speeches on the VIII book of Achilles Tatius’ novel is analyzed. Through the revision of these keywords in their context, the importance of the rhetoric to systematize the reflection about the dramatic genres, particularly about tragedy, and their performance is suggested.

Centenari de Carles Riba. El darrer dels seus projectes poètics

Ítaca. Quaderns Catalans de Cultura Clàssica

Societat Catalana d’Estudis Clàssics

Núm. 24, 25 i 26 (2008-2010), p. 185-208

DOI: 10.2436/20.2501.01.26

El Kavafis de Riba

Carles Miralles

Gabriel Ferrater va expressar que, «en quant poeta», des d’acabat el primer llibre d’Estances (1919), Riba «es trobava en un carreró sense sortida, o potser fóra més just de dir en un erm sense orientacions»1. I va postular que, «en aquell moment crucial», conèixer Hölderlin «va asserenar Riba» i que molts anys després aquest coneixement de la poesia de Hölderlin deixà una petja indeleble en les Elegies de Bierville (1943)2. Aquest fet va ser aviat assumit per la crítica i repetit3, no sé, però, si entès com el plantejava Ferrater. De tota manera, si ara m’hi situo és per assenyalar que Elegies de Bierville és un llibre tan extraordinari com excepcional, en el conjunt de la poesia de Riba, i que, doncs, el carreró sense sortida que deia Ferrater va continuar per a Riba com a poeta, abans i després de les Elegies. Això si estem d’acord a considerar que es va trobar mai en un carreró sense sortida. Hi ha poetes que contínuament s’hi troben, en un atzucac, i que cada poema —com diu Ferrater mateix sobre Riba, i com havia dit de moltes maneres Riba mateix— els és una aposta a tot o res. Ferrater entenia referir-se a les mancances de la tradició literària catalana, raó per la qual igualava el carreró sense sortida amb un erm sense orientacions. En canvi, limitada la seva observació a l’obra en si de Riba com a poeta, més aviat il·lustra l’excepcionalitat, em sembla, d’aquest despertar de Hölderlin en les Elegies, i l’excepcionalitat de les Elegies en l’obra de Riba.

El to de les Elegies, la contenció extrema de la urgència expressiva del poeta, que és moral i cívica —de reivindicació de la dignitat humana—, són realitzats d’una manera tan excepcional —pel ritme, la sintaxi, les imatges, les represes poètiques tan diverses; per la respiració dels mots— que, tot i que evidentment s’articulen amb altres realitzacions de Riba com a poeta i traduc-

1. FERRATER 1971, p. 8.

2. Ibidem, pp. 10-11.

3. MIRALLES [1979] 2007; SULLÀ 1993.

tor —com a escriptor, tout court—, resulten assolir una concentració més intensa, més definitiva i modèlica. Malgrat comptar amb una tradició fora, de Goethe a Rilke passant per Hölderlin, no funda i prou allò mateix en la tradició poètica catalana, inserint-se en aquella tradició i com a imitació o perllongació en una altra llengua, sinó que cisella en la nostra una obra única: en la nostra tradició, ben cert, però que en termes universals renovella aquella tradició de fora —Hölderlin inclòs— i la corona portant-la a acompliment, construint amb ella com a instrument un poema tan únic com la Commedia dantesca.

Després de les Elegies, Riba va publicar tres altres llibres de poesia: Del joc i del foc (1946); una altra obra unànimement reconeguda com a mestra, Salvatge cor (1952), i Esbós de tres oratoris (1957). Els sonets de Salvatge cor estan formalment vinculats amb Tres suites (1937) i representen un cicle molt treballat i coherent, tancat, concentradíssim; formen també, en certa manera, un llibre a part, o d’una complexa però molt evident homogeneïtat. Quant a Esbós de tres oratoris, és una aventura tota nova, que no té, com a resultat, gaire a veure amb el Nabí de Carner, ni si acceptàvem que aquest poema en podia haver estat, en major o en menor grau, el desencadenant4, però que palesament significa l’aposta de Riba per uns esbossos de poemes diegètics, on prova de fer coexistir veus diferents, en un contínuum arriscat i original de relat i detalls de moments i èmfasis de sentiments i de conceptes. Del foc i del joc és constituït per dos reculls epigramàtics, de tankes, que obren i clouen aquest llibre, abans i després d’una suite central, «Per a una sola veu». En morir, Riba va deixar dins d’una carpeta deu poemes inèdits en llibre —alguns inèdits i altres publicats solts en revistes— destinats, segons hi havia escrit Riba mateix, «a un nou llibre encara sense títol». Foren donats a conèixer, seguits, en l’edició de Marfany de 1965, però un d’ells Riba l’havia incorporat com a parlament d’Isrofel en un dels oratoris de l’Esbós; de manera que, tot plegat, són nou en l’edició de Sullà de 1984. El to dominant en aquests poemes lliga sobretot amb la suite «Per a una sola veu» de Del foc i del joc. I aquests poemes representen, entre Salvatge cor i Esbós de tres oratoris, la recerca, per part de Riba, d’una altra mena de poesia, més directa, que volia més senzilla: caracteritzada per la intensitat més que no per la concentració.

Vaig estudiar aquests poemes fa vint-i-cinc anys i ara, rellegit el treball que en resultà5, em sembla motivat per la dificultat de trobar la manera com encaixen, i tan de Riba com són, en el conjunt de la seva poesia, i per la dificultat de casar l’efecte que em feien, i que havien fet a Ferrater, amb la visió global que aquest tenia de l’última etapa de la poesia de Riba6. En aquesta visió, l’Esbós és un fracàs i la traducció de Kavafis un altre. A mi, que em semblava que els nou poemes eren importants, no em semblava que l’Esbós fos cap

4. FERRATER 1979, p. 114.

5. MIRALLES [1984, 1986] 2007, pp. 101-126.

6. Sobre el Riba de Gabriel Ferrater cf. MALÉ 2001.

186

El Kavafis de Riba

fracàs ni que la traducció de Kavafis, en la valoració de la qual he oscil·lat molt, d’ençà que la vaig llegir per primera vegada, fos «molt dolenta»7. De fet, l’òptima opinió en què Ferrater tenia la poesia de Riba se sostenia sobre la limitació de l’excel·lència ribiana al registre més alt de la llengua. Ell posava l’etiqueta de poema narratiu als Oratoris i afirmava que, en aquest terreny, Riba «no era bo, perquè, per escriure poemes narratius, s’ha de tenir un enorme control de la llengua que en podríem dir col·loquial, de la llengua del diàleg, de la llengua ordinària. Ara bé, de control d’aquesta mena de llengua, Riba no en va tenir mai. Ell només podia, només era gran poeta, i era molt gran poeta, però només era gran poeta donant-se, per dir-ho així, una altura musical força alta de la veu i sense moure’s d’aquesta altura... I, aleshores, resulta que els diversos nivells de la llengua en aquests poemes, en aquests oratoris, no estan ben fosos». Igualment pel que fa, segons ell, a la traducció de Kavafis: «Kavafis és un poeta molt col·loquial, de llengua molt viva i molt de cada dia, i aquesta és la mena de llengua que Riba era incapaç de traduir»8

Sembla legítim extreure d’això que deia Ferrater com a mínim dues perplexitats o qüestions. Una: si és veritat, fins a quin punt i en quin sentit, que Riba només dominava el to alt, el «registre més alt de la llengua». Dues: què deu voler dir «col·loquial» aplicat a la llengua de Kavafis.

De fet, una altra manera d’entendre allò de Ferrater que, després del primer llibre d’Estances, Riba es trobava en un erm sense orientacions és enfocantho des del punt de vista de la llengua d’escriptura de Riba. No crec que sigui possible afirmar, rodonament, que Riba no era capaç d’escriure ni comèdia ni novel·la, per exemple. No en va escriure, de comèdies, però va traduir l’Aululària de Plaute (1924) «amb vistes a ésser posada en escena» i es tracta, diu Marçal Olivar, d’una «versió feta amb llibertat i de cara a l’espectador, però plena d’encerts»9. I pel que fa al relat, a la novel·la, s’hi acostà molt, Riba, en traducció (Poe, Grimm, Sienkiewicz, Plutarc, etc.) i directament (Les aventures d’en Perot Marrasquí). La seva versió de la comèdia de Plaute i el Perot Marrasquí bastarien a demostrar que havia mirat d’adaptar la seva veu, no pas sense èxit, a una proximitat, a una intimitat, que demanen ductilitat, cercar l’efectivitat i la senzillesa. Un exemple. En el vers 668 de l’Aululària surt Euclió del temple i es queixa que la Bona Fe una mica més i l’enganya; diu que subleuit os mihi paenissume; Olivar explica que vol dir «m’ha pintat la cara», i que era un joc o una expressió derivada d’un joc, però tradueix «ha anat d’un pèl com no m’ha plantat la llufa», un «equivalent», diu, que li sembla «més expressiu» i que reconeix que gosa fer servir perquè l’havia usat Riba10. D’altra banda, el recurs al llenguatge més col·loquial, sobretot en els diàlegs, és un tret recurrent i evidentíssim tot al llarg del Perot Marrasquí11

7. FERRATER 1979, p. 115.

8. Ibidem, pp. 115-116.

9. OLIVAR 1935, p. 8.

10. Ibidem, p. 46.

11. El lector en trobarà tot d’exemples espigolats a BADIA 1973.

187

No era un problema de només dominar el registre alt. El problema era el registre de la seva poesia. I així és com em sembla que es trobava, sobretot després del segon llibre d’Estances (1930). Se sentia havent tancat un cicle, com a poeta, i, per al que volia trobar, que no sabia què era, no sabia si tindria llengua, però, sobretot, si sabria servir-se’n. D’això, exactament, no el va poder salvar Hölderlin. De fet, ell, com a poeta, va encaminar-se cap a Tres suites —com si diguéssim, cap al sonet i cap a la precisió i la concisió, cap a l’escultura d’una impressió, d’una idea, generalment deixat enrere el sentiment, la cosa o la situació concreta, o transcendit en universal, en concepte12. Si llegim, d’aquest llibre, el poema sobre la seva filla Eulàlia, dedicat a més a Clementina, la seva muller («Entra la petita Eulàlia, de sobte»), això resulta palès. En canvi, quan arribem a Del joc i del foc, la situació canvia. Quan va decidir parlar a l’exili, per a les Elegies de Bierville i per al que hi havia de dir, certament Hölderlin se li va encendre, llavors, i li va fer servei. Però les Elegies, que és lingüísticament l’altra cara de la segona versió de l’Odissea (1948), tampoc no li exigien un registre que no fos l’alt. De fet, el problema ara no és ben bé de registre sinó que rau en el metre, en el ritme. No és que a l’Odissea no hi hagi personatges de tota mena, registres lingüístics ben diferents, sinó que l’aede homèric els integra en el ritme de l’hexàmetre, i així mateix els rep Riba. La varietat lingüística de les Elegies està tota continguda, diríem presa, en la superfície uniforme, en el ritme del dístic elegíac, però no és una sola, la veu del poeta, com no són la veu d’un sol personatge les veus dels personatges de l’Odissea.

Ja hem quedat, però, que les Elegies és un llibre a part. Per al qual li va servir Hölderlin, justament perquè era aquell llibre. Però que Riba, efectivament, buscava un tipus de poema que no l’hagués de separar de les coses, de les situacions concretes, que fos més immediat i expressiu, que no forcés del tot el sentiment a la forma del concepte, de la idea. I és aquest el canvi que s’albira a Del joc i del foc. Riba hi assaja l’epigrama: contenció mètrica i verbal, concisió, paraules molt de cada dia però servides en una formulació closa, diguem-ne abrupta i tot —tant que hi ha més d’una tanka sense cap verb o amb un trist verb copulatiu per mostra. D’una banda. De l’altra, els poemes de «Per a una sola veu», poemes sobretot d’amor, d’amor i de poesia, que no narren el sentiment o la situació, però que cerquen explanar-ne el sentit, imatjar fets, actes concrets —cosa, aquesta darrera, no radicalment nova en la poesia de Riba, però que ara articula poemes més breus, menys conceptuosos, i de versos, per exemple, hexasíl·labs.

Després, els sonets de Salvatge cor. D’entrada, la relació amb Tres suites Però ara el poeta té altres coses a dir: no fa elegies però és el poeta de les Elegies; i està traduint Sòfocles i s’ha carregat amb el dolor del món, ha viatjat al nucli mateix del tràgic contemporani; sense Déu li es difícil fixar els ulls en el món, pateix per creure-hi, vol trobar-lo en el cos, en la natura. Aconsegueix expressar-se, ell, l’home que és, en la nuesa, en la depuració i conten-

12. Sobre Tres suites cf. MALÉ 1993 i 1995.

188

ció. El lliurament del poeta, la seva sinceritat, són més extrems, més a vida o mort. Això torna a no ser una qüestió de registres. La senzillesa, la immediatesa, se li han fet lliurament, sinceritat. El poema se li ha fet més humà, en definitiva, però continua essent un artefacte articulat i ben construït, que sembla escolpit, absolut.

I mentrestant ha anat escrivint els nou poemes que no va arribar a aplegar en llibre, clarament en la direcció dels de «Per a una sola veu». I ha anat traduint Eurípides. El tràgic més proper a la comèdia i a la novel·la. I el 1957 sortia amb Esbós de tres oratoris. Que és el poema a propòsit del qual deia Ferrater que era narratiu i que Riba no se n’havia sortit. A veure. Per un costat tenim aquella aspiració a la senzillesa, a la immediatesa, a la proximitat: a explicarse, a fer-se entendre; per un altre, hi ha Eurípides, que es un poeta de moltes veus que presenta, que conta uns fets, una història, i no defuig ni el sentiment ni el patètic ni tampoc l’argument i l’argument contrari. I que no és un poeta difícil. Riba certament es va referir al treball d’anar traduint Eurípides com a «un parergon, necessari per a ajudar-me a viure»13, però quan Joan Ferraté es mostrà estranyat que s’esmercés a traduir-lo, fàcil com era, respongué no explicant que bé s’havia de guanyar la vida i prou sinó que li semblava que era «un poeta desconcertant» i que hi trobava «una mena d’irritació continguda, més ben dit, disfressada de romanticisme ultrat o d’humanisme lleuger a força de sequedat»14, i en altres llocs donà indicis que l’interessava, a més d’ajudar-lo a guanyar-se la vida15. L’Eurípides li representà una feinada, com el Plutarc, i objectivament són autors per dessota de les possibilitats de Riba com a traductor. Però Riba, tant per la seva concepció de la literatura també com a cultura i educació16 com pel fet que personalment mirava de treure profit de tot el que emprenia, hi buscà i n’obtingué benefici, també naturalment per a seva llengua.

Riba era més o menys aquí, quan va trobar Kavafis. Hi ha també l’afer d’Emily Dickinson i de la poesia femenina, que no és que sigui de poca importància, però que només puc resumir molt breument, ara, en allò que més directament afecta la situació de Riba relativament a la seva poesia i a la possibilitat d’integrar-hi més registres lingüístics i fer-la més directa o simple, més expressiva. Dickinson, que va retreure de primer Ferrater i després jo seguintlo, no va arribar a influir, directament, en els poemes que Riba va escriure17. Però sí que va influir en aquesta recerca per part de Riba d’una poesia més expressiva, més senzilla i efectiva, i això en el marc d’una constant en la poètica de Riba, l’atenció a algunes qualitats específiques de la lírica de dones, de Safo, passant per Clementina Arderiu i Rosa Leveroni, a Emily Dickinson18

13. GUARDIOLA 1993, p. 163.

14. Ibidem, p. 254.

15. MIRALLES [1995] 2007, pp. 139-141.

16. MALÉ 2001.

17. MIRALLES 2007, pp. 14-15.

18. En buscava el text anglès a començaments de 1956, però manifestava ja conèixer-ne una mica la poesia. El text anglès es trobava entre els llibres de Riba quan va morir, i li devia

189

Tampoc no és que hagi de ser essencial escatir amb precisió si Riba va conèixer Kavafis per Gabriel Ferrater, tal com aquest sostenia, o si ja el coneixia per Julia Iatridi, que va ser qui li va enviar d’Atenes un exemplar de la vuitena edició (1952) dels poemes de Kavafis de l’editorial Ícaros19

El que és essencial és el que va dir una vegada per carta a Ferrater: «Em fa goig de veure vençut a la grega, a força de vitalitat, una vitalitat que arriba a ésser feroç, i a força de llum, una llum pura i dura que no admet enganys, el modernisme i la seva sentimental quincalla»20. He glossat aquest text alguna altra vegada21 però convé que m’hi deturi ara perquè és absolutament bàsic per comprendre què va trobar Riba en Kavafis i què el devia decidir a traduir-lo i, encara, a servir-se de les seves versions per presentar-se amb una novetat davant dels joves que l’invitaren a tenir una conferència o una lectura a la Universitat el 23 de gener de 195922

Aquest text no parla de col·loquialismes ni de la llengua de Kavafis en els termes de Ferrater anys després23. Parla però de llengua, d’expressivitat, i en parla en termes de vida i de veritat. Perquè l’instrument o l’arma del vèncer de què parla és la paraula, els poemes de Kavafis, i perquè també allò que és vençut, el sentiment o sentimentalisme que diu, també era fet de paraules i, ben cert, de poemes. Riba s’havia esmerçat a mirar de preservar del modernisme un fons de sinceritat, de llengua més viva; a observar si entre la quincalla del sentimentalisme, del no control, de l’espontaneïtat no articulada, no hi havia alguna joia o alguna pedra que pogués ser encastada en una joia. És evident que, quan ara escriu «la quincalla sentimental del modernisme», l’oposa en bloc al que ha trobat en Kavafis, però també, en la seva obra crítica, que Riba ha mirat de mantenir un lligam, una continuïtat no en termes generals, amb aspectes per a ell crucials del modernisme. Tot i que se’n poden considerar altres exemples il·lustratius (la llengua de Morera i Galícia traductor de Shakespeare, la joia de contar de Ruyra), hi ha sobretot el tracte de Riba, durant molts anys, amb Maragall, el repensament per Riba de la paraula viva i de la sinceritat maragallianes. Una operació també transcendental per a expressar l’experiència de les Elegies (en certa manera, tant com la de Hölderlin) i igualment útil a Riba per a pensar en el seu atzucac constant, en haver enviat Joan Ferraté, tot i que, com assenyala GUARDIOLA 1993, p. 256, no consta enlloc cap data de recepció. El 1957 l’editorial Juventud de Barcelona va publicar Emily Dickinson, Poemas, Selección y versión de M. Manent, llibre que és estrany que Riba no tingués o hagués vist. Entre els retalls de periòdics que Riba conservava hi havia un article de Paulina Crusat que ressenyava (Ínsula 130, setembre de 1957, p. 5) «La poesía de Emily Dickinson (Con motivo de unas versiones de M. Manent)».

19. SOLÀ 1977, pp. 24-25.

20. GUARDIOLA 1993, p. 411 (carta del 12 de desembre de 1957).

21. MIRALLES 2009, pp. 35-36.

22. Ibidem, pp. 25-36.

23. De fet, la primera vegada que Ferrater el va citar va ser en una carta al director de Serra d’Or (FERRATER 1962) arran de l’aparició en aquesta revista de la ressenya del Kavafis de Riba (PINELL 1962). Aquesta carta no parla de la llengua però ja introdueix el que esdevindrà tòpic en la valoració de la versió ribiana, que, «pudoris causa», Riba «va ometre de la seva selecció» «uns quants poemes d’amor».

190

l’enyor o recança de la intensitat en comptes de la treballada concentració; de la senzillesa o simplicitat enfront de l’abstracció i l’essencialitat.

Maragall era encara no tres anys més gran que Kavafis. En Maragall Riba havia sabut valorar un fons fàustic, goethià (matisava, però, que Maragall era «un goethià que de Goethe sembla retenir només l’aspecte de llum, el clàssic tòpic de l’olímpica harmonia»)24, i li reconeixia específicament el mèrit, l’originalitat, deia, d’haver sabut «fondre l’antic sentimentalisme dels renaixents amb el realisme que s’iniciava» i la de ser «alhora místic i orientador, cantor visionari i definidor moral»25. No que sigui el mateix que deia a Ferrater sobre Kavafis, però pel que fa a la constatació concreta per part de Riba que Maragall va saber «fondre l’antic sentimentalisme dels renaixents amb el realisme que s’iniciava» tenim dret a trobar-hi un paral·lel, em fa l’efecte, en la declaració per part de Riba de la victòria de Kavafis, a força de vitalitat i llum, sobre «la quincalla sentimental del modernisme». I, quant a l’època, recapitulo, Kavafis era encara no tres anys més jove que Maragall. Realitzada de diferent manera, evidentment, però Riba detectava en ambdós poetes una superació del sentimentalisme —i, alhora, la recerca, per part de tots dos, d’una expressió no sentimental, realista o conceptual i tot, del sentiment: a força de vitalitat i de llum.

La victòria del poeta alexandrí sobre el modernisme fou, deia Riba, «a la grega», que deu voler dir que tenia per característica de la poesia grega —no sé si del tot en general— la força viva dels mots —res de col·loquialisme, però, sinó en el sentit que Riba mateix deia, ara a propòsit de Maragall: «el més just elogi que es podria fer d’aquest home amb la seva personalitat genial, tota ella irradiació i influx, és que tot d’ell fou paraula viva: els poemes i les proses, els actes i fins els gestos i fins les inhibicions i els silencis»26. La força viva dels mots i una llum que implica puresa —un concepte bàsic en la poètica ribiana— i duresa, i també veritat, sinceritat («no admet enganys»). D’altra banda, tampoc deu caldre oblidar que la llengua de Kavafis era el grec i els seus temes sovint grecs i filtrats per la tradició de la poesia grega i hellenística.

Ferrater havia llegit Kavafis en francès i en anglès. Llegir Kavafis en anglès predisposa a llegir-lo en una altra tradició poètica, perquè l’anglès, en naturalitzar la dicció de Kavafis, la situa en un altre context, la transfigura. Això és també veritat, d’una altra manera, per llegir Kavafis en francès, però a Ferrater la dicció poètica kavafiana que més l’interessava era l’anglesa, perquè era en definitiva la que, a ell com a poeta, acabà servint-li per a un nucli almenys dels seus poemes, i era a aquesta dicció que es referia quan parlava de colloquialisme. O sigui, que el primer que no l’interessava, de la declaració de Riba, era aquest «a la grega» aplicat a la victòria de l’alexandrí sobre el modernisme.

24. MARFANY 1967, p. 539.

25. Ibidem, p. 542. 26. Ibidem, p. 548.

191

En aquestes circumstàncies, el col·loquial de Ferrater pot no resultar rodonament inconvenient però ha de ser traslladat a una altra dimensió: a un aspecte que a ell com a lector de poesia i poeta l’interessava particularment i que ell trobava, d’una determinada manera, en els poemes de Kavafis i se li perdia, en canvi, en les traduccions de Riba. El que ens importa són les raons de Riba, ben cert, per fer el que va fer, però situar-les amb garanties exigeix treure-les del punt de vista de Ferrater, certament respectable en el marc que he dit però no per a justificar una opinió que Ferrater aplica a Kavafis per jutjar la traducció de Riba —no, doncs, a partir de Kavafis sinó del Kavafis que ell voldria trobar en aquesta traducció. La qual cosa, però, no vol dir que no calgui donar raó de què volia dir Ferrater quan reclamava «la llengua que en podríem dir col·loquial». Immediatament, en aposició, ja afegia «la llengua del diàleg, la llengua ordinària»27. Bastaria això per objectar que aquesta no és la llengua de Kavafis, però potser no està de més confrontar una remarca que Ferrater mateix feia una vegada que atribuí a Manuel Machado el fet de ser «poeta muy coloquial»: deia que se servia d’aquest adjectiu «para usar el término que es bandera de la más nueva generación de poetas españoles»28, i es referia a «la norma coloquial por la que hoy quieren regirse los más nuevos poetas» com a la raó per la qual Manuel Machado «entusiasma a la vez a Luís Rosales, a José María Valverde y a Jaime Gil de Biedma»29. Tot plegat, això deu voler dir refús de la llengua de la tradició, o almenys refundació crítica de la llengua poètica atesa la llengua ordinària, que vindria a ser més o menys el que ara anomenem l’estàndard. O bé que, a Ferrater, la llengua de la seva tradició li resultava massa tancada en ella mateixa, closa en l’especificitat, precisament, de la seva tradició, refundada pels noucentistes a partir sobretot del simbolisme francès, i que volia que la llengua del poema fos confrontable amb la llengua que ell anomenava ordinària com, en el cas de l’espanyol, li semblava que n’era en els poemes dels poetes que hem vist que citava. Que la llengua de Kavafis, que és, efectivament, a la base de la seva particularitat com a poeta, tingui res a veure amb això que Ferrater anomenava colloquial, això és errat, en opinió meva. No cal que ho sigui, però, que els poetes que volien o volen atènyer que la llengua dels seus poemes fos o sigui d’alguna manera confrontable amb «la llengua del diàleg, la llengua ordinària», puguin servir-se dels poemes de Kavafis amb aquesta finalitat. Val a dir: que a ell l’interessés Kavafis pel que l’interessava, és ben legítim, però la seva afirmació que «Kavafis és un poeta molt col·loquial, de llengua molt viva i molt de cada dia»30, trobo, doncs, que és errada, d’una banda, i, de l’altra, que Riba no l’hauria compartida. Riba hauria pogut assenyalar mots o expressions, en el text grec, que li semblessin particularment vius, fins vulgars, però allò que el devia fascinar de la llengua de Kavafis era el seu caràcter

27. FERRATER 1979, p. 115.

28. FERRATER 1986, p. 182.

29. Ibidem, p. 184.

30. FERRATER 1979, p. 116.

192

El Kavafis de Riba 193

compost, la seva simplicitat objectiva, construïda entre l’epigrama i el relat o declaració d’un fet, històric o real.

En llegir el Kavafis de Riba, molts crítics van destacar, de diverses maneres, com es representaven la llengua de Kavafis a través de les versions de Riba. Així Fuster, per exemple, es va referir, d’una banda, a «l’estranya, arqueològica i alhora viva i popular veu del poeta d’Alexandria» (o sigui, va considerar que el registre de llengua viva, comuna, coexistia en aquells versos amb un to elevat, que tenia quelcom d’antigalla); i, d’altra banda, va opinar que «poques vegades els versos del nostre poeta han aconseguit una fluència i una diafanitat, una gràcia i una destresa tan llisquents i tan voluptuoses com en aquesta traducció» (o sigui, que aquells poemes traduïts per Riba eren més entenedors i engrescadors que els de Riba)31. Jordi Pinell precisava, encara, que, a més de ser «un nou esforç d’equilibri entre tensió verbal i fluidesa», aquesta traducció «correspon exactament a l’estil poètic dels últims anys de Carles Riba, i representa una victòria en la seva recerca de la diafanitat sens perjudici de la densitat antiga». Pinell coincideix globalment amb Fuster però va més enllà en situar la versió de Kavafis dins d’un procés —cap a «la diafanitat sense perjudici de la densitat antiga», cap a una fluidesa que no representi afluixar la tensió— característic «dels últims anys» del poeta i no pas exclusiu d’aquest llibre —no és que sigui aquí sensible, tot això, perquè es tracta de traduir Kavafis, sinó que ja era sensible en l’obra del poeta a partir d’un moment que no s’especifica però que correspon a la seva etapa última, diguem-ne32. Des del punt de vista de la formació de la tradició literària de la Grècia moderna, Kavafis té una llengua a part: la tradició sobre la qual recolzen els seus poemes és el grec com a llengua de família, fora de Grècia i en una realitat plurilingüe, i les seves lectures en grec, preferentment poetes, antics i hel·lenístics, i prosistes, sovint d’època romana i bizantins, preferentment historiadors; també l’impuls de poder dir ell en grec alguns poetes estrangers, de Dante a Keats, per exemple. És evident que, en termes d’història de la llengua literària, hi ha en Kavafis una evolució de la katharévousa a la dimotikí, diguem-ne33, però també que el tema de la seva llengua es col·loca força al marge d’aquesta evolució, que coincideix amb un fet general constatable en tota la literatura grega de la seva època. L’observació de la llengua de Kavafis des dels primers poemes o les primeres versions fins als darrers o a les versions acabades més aviat suggereix un procés de depuració, de contenció i precisió, d’acumulació i intensitat34, que es pot dir en termes de sin-

31. FUSTER 1963.

32. PINELL 1962.

33. El fet que d’un poema en esborrany com «Davant de Jerusalem» (SAVVIDIS 1997, II, pp. 352353) s’hagin trobat dues versions, no datades, pot il·lustrar que, conforme anava tenint una llengua poètica pròpia, Kavafis sentís en algun cas la necessitat de tornar a dir en aquesta llengua pròpia el que havia provat de dir en una llengua que ja sentia massa llunyana i artificial.

34. LIDDELL (1974) 2004 feia servir el terme anglès ‘poignancy’, a prop també de pregonesa i profunditat.

taxi com ara: abundor d’oracions nominals pures, més coordinació que subordinació, parquedat d’adjectius, etc. Tot plegat, una tendència clara a l’economia dels mitjans expressius, i diguem-ne a la braquilogia. En general, els estudis sobre lèxic, si permeten parlar d’un procés d’apregonament d’aquesta mena, que, externament, acosta la llengua dels poemes de Kavafis, en termes generals, a la dimotikí, palesen un característic to arcaitzant35, sostingut i constant, tot al llarg de tota l’obra —no especialment en els poemes diguem-ne històrics, com podria suposar-se. En aquesta llengua és tan possible trobar mots de la parla comuna com trobar-ne de molt nobles. El seu caràcter de composta, però, no és sense relació, malgrat l’observació que acabo de fer sobre el to arcaitzant, amb el fet que a Kavafis hi ha tant poemes actuals com poemes situats en altres èpoques històriques —particularment, l´hel·lenístico-romana o la bizantina—; tant poemes en primera persona com poemes en tercera. Aquests fets, i ben d’altres, afecten no tant la llengua, crec, com la gradació, l’ús amb finalitat expressiva, artística, tant de la sintaxi com del lèxic. És per l’ús de la llengua tan finalitzat a l’efecte que vol produir el poema que els poemes de Kavafis són com són, i no perquè el to sigui arcaitzant, poc o massa, o perquè la dicció sigui més acostada a la llengua alta, culta, o a la llengua comuna, ordinària.

Prenguem un poema com «Termòpiles». Els dos primers versos diuen τιµὴ σ’

. Si superficialment ens hem avesat a distingir entre els poemes històrics i els d’ara, o entre els de llengua alta i els de llengua ordinària, aquests dos versos plantegen ja d’entrada tot de qüestions, perquè aquests nivells aquí clarament coexisteixen. El mot τιµή , que obre el poema, en la parla ordinària més aviat vol dir valor o senzillament preu, i aquí manté un sentit fort d’honor, de glòria, reforçat pel fet que és usat absolutament, sense verb, i, encara, pel referent històric: és l’honor el que cal reconèixer als qui guarden les Termòpiles. Hi ha uns cèlebres versos de Simònides (fr. 531 Page), que ens ha transmès Diodor de Sicília (XI 11,6 Arsen, p, 342 Walz) com «un encomi», sobre «la sort gloriosa» que bellament tocà als qui guardaren les Termòpiles i hi deixaren la vida davant dels perses invasors. A Kavafis l’honor no va als morts, als guerrers espartans caiguts davant dels perses, sinó a aquells que guarden (present, no passat) les Termòpiles. I els quatre darrers versos, en reprendre la τιµή que els és deguda, reblen el sentit d’aquest present: Καὶ

. El moment és doncs el d’abans de la batalla: estan esperant els perses i prou que preveuen que els perses passaran, raó per la qual els correspon encara més honor, perquè estan guardant el pas de les Termòpiles tot i que saben que seran traïts per Efialtes i que no deturaran els perses invasors.

35. LORANDO, MARCHESI, GENTILINI 1970.

194
ἐκείνους ὅπου στὴν ζωή των / ὥρισαν καὶ φυλάγουν Θεπµοπύλες
περισσότερη τιµὴ τοὺς πρέπει /ὅταν προβλέπουν (καὶ πολλοὶ προβλέπουν) / πὼς ὁ Ἐφιάλτης θὰ φανεῖ στὸ τέλος, / καὶ οἱ Μῆδοι ἐπὶ τέλος θὰ διαβοῦνε

195

Tornant als dos primers versos, ja hi ha un aorist, d’un verb no certament característic de la parla ordinària, ὥρισαν, el subjecte del qual són els qui guarden les Termòpiles: estan guardant aquest pas perquè cada un d’ells fixà, val a dir, ha posat una fita, un terme, a la seva vida: n’han termenat l’espai, l’espai de la vida, del qual és porta el congost, o sigui l’estretor i el coratge, i el guarden tot i saber —si tornem als quatre darrers versos— que la traició i la força invalidaran l’opció que han pres: fer del territori que guarden —Grècia, si la porta en són les Termòpiles— una opció de vida; l’opció de vida que expliciten els versos 3-10 del poema, entre els dos primers i els quatre darrers. Riba els va traduir així: «Mai d’allò que és el deure no movent-se; / justos i equitatius en tots llurs actes, però amb simpatia i bona entranya; / generosos si són mai rics, i quan / són pobres en la mica generosos, / més: acorrent tant com els és possible; dient la veritat sempre que parlen, / tret que sense odi contra els qui menteixen». És clar que aquests versos no corresponen a l’honor dels morts a les Termòpiles, sinó a l’honor de qui ha posat com a nord, com a espai de la seva vida, el que és just i equitatiu, el que cal, i tracta els altres amb compassió i i bons sentiments, córre amb generositat a ajudar-los i diu la veritat i no odia els qui diuen falsedats. Això és un programa moral, de vida honesta; contra la traició, la violència i la força; contra la vida sense limitació ètica, sense termenar, com és —i no cal dir-ho— la dels perses o medes. Els versos 3-10 fan referència al capteniment que han de tenir els homes, ara i aquí, una opció moral en què rau l’heroisme de debò, haver termenat la vida a la grega, haver-la tancat en l’estretor espartana d’unes normes, bo i ser conscients que la traició, la violència i la força prevaldran com sempre. És cabdal, en aquest poema, que el to alt que correspon a la τιµή se senti, soni, i que sigui compatible amb la dicció, amb la manera de dir i amb el lèxic més planer que correspon a l’enumeració de l’opció moral de l’home — no del guerrer—; els versos del 3 al 10 no són el poema: és evident que el poema no s’acaba amb aquesta caracterització de la gent honesta, sinó que tota la seva força prové del fet que, en el món tal com és, fer-se un propòsit de vida honesta és com decidir que val la pena defensar les Termòpiles, haver fet d’aquesta opció de vida unes Termòpiles per les quals val la pena morir. Així, Kavafis ha escollit el lèxic d’aquests versos i els ha construïts amb molta cura, retòricament com un encomi. El vers 3 termina en un participi, κινοῦντες, i el 9, que és en l’essencial el que tanca aquesta secció —perque després d’ell el 10 és una concessiva, una especificació que el precisa, afegint sentit—, termina en un altre participi, ὁµιλοῦντες, i en el vers anterior trobàvem encara συντρέχοντες. Riba ha vist que convenia conservar els participis, que sintàcticament són conversacionals i terminants, i els ha conservats, i, en canvi, mantenir la responsió en el mateix lloc del vers, al final dels decasíl·labs 3 i 9 (κινῦντες / ὁµιλοῦντες), això l’hauria obligat a forçar l’ordre dels mots en el vers 9 (usant els seus mots i seguint l’ordre del grec, li hauria resultat «sempre que parlen la veritat dient») i, en definitiva, a renunciar al decasíl·lab o a la seva divisió del sentit de ὁµιλοῦντες entre parlar i dir (la veritat).

L’estil braquilògic no exclou les antítesis, les represes simètriques, i Riba hi està particularment atent; així, per exemple, el «generosos» al començ del vers 6 i al final del següent, en la mateixa posició que el γενναῖοι de l’original, i, entre els dos versos, l’encavallament «quan / són pobres» que calca el ὅταν /εἶναι πτωχοί de Kavafis. Tant en aquests versos com en els finals, on la seva repetició «vindrà que» (v. 13), «vindrà que» (v. 14) reforça el futur del grec i varia la repetició de l’original: στὸ τέλους (v. 13), ἐπὶ τέλους (v. 14).

Tot plegat, Riba va entendre el poema i va estar atent a com estava construït. De fet, era això el que li plaïa de Kavafis, el que més l’interessava. Precisament per com l’estil alt, afí al de l’encomi simonideu, feia de motlle d’un propòsit de vida general, ètic i no heroic. I això amb fidelitat, amb concisió: «a la grega». Els dos versos inicials de la versió de Riba són emblemàtics d’aquesta seva aposta ultrada. Diuen: «Honor a aquells, qui siguin, que llur vida / han termenat i en guarden les Termòpiles». Riba opta per mantenir l’indefinit, l’incís «qui siguin» (ὅπου), perquè li sembla bàsic per a poder passar d’«aquells... que... / guarden les Termòpiles» a «aquells... que llur vida... / han termenat». Manté «les Termòpiles» al final del vers 2 però les converteix en les Termòpiles de la vida de cadascú dels que han posat límits, fites a la vida. La precisió es concentra tota en el pronom feble en. Allò que indica que no ens les tenim amb les Termòpiles sinó que el poeta se serveix de les Termòpiles per indicar les portes d’una vida endreçada, amb fites de conducta honesta, realment humana —una vida que és com Grècia, que respon als ideals grecs— és l’en de la versió de Riba. Però, de la mateixa manera com els dos versos inicials de Kavafis resulten de mal lligar sense tenir en el cap tot el poema, així mateix els dos inicials del poema de Riba. El to alt de la traducció respon al de l’original, evoca el model antic de l’encomi i permet una construcció del total que, a través de la secció medial (v. 3-10), recupera en els quatre versos finals el to alt ja amb un evident doble joc que compta amb la complicitat del lector que ja haurà entès, ara. Per emmotllar l’encomi moral —d’ara mateix i de sempre— en l’antic encomi heroic —de llavors— Kavafis ha aconseguit una expressió composta, retòricament equilibrada, i aquesta expressió és el que Riba ha incorporat.

Aquest, doncs, no és un poema d’un sol to ni és col·loquial; i, si el dèiem com si fos col·loquial, tot ell, fóra un altre poema, i no el que és. Que la resignada, lúcida ironia que reflecteix pugui ser expressada —que sigui lúcidament irònic el final sense que resulti ridícula la conducta dels qui guarden les Termòpiles de la vida , això només exactament la llengua que fa servir Riba pot aconseguir-ho. I és en aquest sentit que entenc que Ferrater sobre la llengua de Kavafis no l’encertava.

Tot i haver quedat clar que «Termòpiles» no és un poema històric, encara podria pensar-se que altres poemes de Kavafis són més directament realistes i que a aquests sí que convindria el to col·loquial que deia Ferrater —ni que fos al preu, potser necessari, de canviar l’etiqueta. Bàsicament, Ferrater pensava en els poemes eròtics, en els ambients sòrdids. Ell i el seu germà, Joan Ferraté.

196

El Kavafis de Riba

Joan Ferraté va explicar, en el «Prospecte» de les seves Poesies de Kavafis de 198736, que la seva intenció primera havia estat traduir els poemes del corpus canònic que Riba no havia traduït, però, que, un cop va haver dut a terme aquest propòsit, va veure que «les versions de Riba no eren compatibles amb les meves, en la mesura almenys en què, tant per part de Riba com per la meva part, Cavafis havia sofert l’empremta d’un gust i d’una manera de fer personals que, a desgrat de la nostra coincidència en el propòsit de ser literalment fidels a l’original, ens havien dut inevitablement a resultats de conjunt molt sovint força divergents»37 En el nucli d’aquesta apreciació hi ha un fet que fa de mal controlar: com queden el gust i la manera de fer personals reflectits en la tria, o, encara, en cada versió i en el resultat de conjunt. Probablement la resposta sigui que queden reflectits en la llengua. En el cas de Riba és possible mirar de controlar quins poemes va traduir i quins va deixar fora, però també ho fóra plantejar si la tria no caldria prendre-la, al cap i a la fi, com un testimoni de la voluntat de Riba de fer passar la veu de Kavafis per la seva veu de poeta, el mateix testimoni que donen les seves versions de Hölderlin. De tota manera, algunes remarques sobre els poemes de Kavafis que no hi ha en el Kavafis de Riba no sembla que puguin ser considerades ni fruit de la casualitat ni mancades de sentit. Les principals d’aquestes remarques les va fer Eudald Solà. Coses com ara que en la tria de Riba no hi ha els poemes iliàdics de Kavafis, o que només n’hi ha un de bizantí. La interpretació d’aquestes remarques, però, és tota una altra qüestió. En alguns poemes de Kavafis es fa evident la burla o l’absència dels déus, i això hauria pogut repugnar Riba, en aquells anys «aferrat al cristianisme»38. La qüestió és massa complicada: no comptem amb evidències positives, que Riba hagués dit res en aquest sentit, i potser s’hauria de plantejar dins d’un conjunt que anés dels eteris immortals de Hölderlin i del Déu de Salvatge cor, passant pel tràgic de Sòfocles, fins als relats de l’Esbós i a plantejar per què va començar la traducció d’Eurípides justament per les Bacants

De fet, però, aquesta és una qüestió de veres important, perquè d’alguna manera emmarca la crucial sobre el món grec de Riba i el món grec de Kavafis —sobre el món de l’un i de l’altre, en definitiva. El món del Kavafis de Riba fóra el dels regnes, el de les metròpolis hel·lenístiques, dels hebreus i sobretot dels romans dins d’aquest món, fins a la penetració del cristianisme; el seu Kavafis se situaria entre l’epigrama hel·lenístic i Julià. I el món de Riba hi ha qui ha pensat que «no pot emmirallar-se en aquest món hellenístic que s’ensorra definitivament»39. Emmirallar-s’hi no sé, però la fascinació per aquest món és a la base de l’interès de Riba per Kavafis. Kavafis al·ludeix a la barreja de pobles, al mestissatge del món hel·lenístic, però el

36. Reproduït a FERRATÉ 1987.

37. FERRATÉ 1987, p. 28.

38. SOLÀ 1977, p. 21.

39. Ibidem, p. 29.

197

seu món real és igualment mestís i Kavafis diu el fet, no el condemna ni el troba decadent. Aquest món correspon d’alguna manera a la seva llengua: a nivell de conversa, una llengua comuna hel·lenística; a nivell de poema, cada poeta hel·lenístic empra una llengua que s’ha fet ell, comunicable a un públic divers però contenint, selectivament, la llengua de la tradició poètica. L’hel·lenisme justament es diu així perquè conté el clàssic, el grec anterior. Tornem a ser davant d’una llengua composta, d’art. En la intenció de Kavafis, que s’orienta més aviat de la banda de l’epigrama que de la banda de Cal·límac, una llengua articulada i precisa, viva més que parlada o ordinària, que permeti l’objectivitat, la distància des de la qual expressa el sentiment, la passió, la nostàlgia i la desolació del pas del temps. Riba, la llengua de la tradició ja la té, de l’Odissea a la tragèdia àtica. Ha fet excursions, de molt jove, cap a la poesia diguem-ne lírica —cap a la poesia no èpica, no dramàtica—, però les poques traduccions, i parcials (Arquíloc, Safo, Píndar), han quedat inèdites o publicades en revistes, Riba no ha pensat a aplegar-les com les de Hölderlin, o no se li ha presentat l’ocasió, tant se val. I, de la poesia hel·lenística, res o molt poc. Entre els seus llibres, quatre volums de la Palatina de la Guillaume Budé francesa, i para de comptar. El que més s’acosta a la poesia hel·lenística són les versions, també de jove, de Virgili i altres poetes romans. O sigui: té l’Odissea i la tragèdia, li falten la comèdia i quasi també la lírica. No del tot, perquè hi ha l’Aululària i les versions dels grecs arcaics que hem dit, però, globalment, ni punt de comparació amb l’Odissea i la tragèdia.

El que té sembla que podria donar la raó a Ferrater quan parlava del to alt de Riba. Però val la pena insistir que la fascinació per Kavafis li ve, a Riba, d’allò que li falta, d’allò mateix que cerca en la veu poètica femenina, del risc de la novetat d’un to més objectiu, d’una expressivitat menys emfàtica que li permeti dir el sentiment, la passió, la nostàlgia, més ençà del mite, aquí on el símbol es barreja amb la vida de cada dia —que no cal que sigui la d’ara mateix, sinó la de sempre— on el registre alt no és incompatible amb el de cada dia; on la llengua dels poetes no està renyida amb la llengua comuna. Potser ja era per aquesta raó que havia traduït l’Odissea i no la Ilíada. Des d’aquesta perspectiva, el món hel·lenístic de Kavafis li serveix més que el món hellenístic; més Kavafis que no els poetes hel·lenístics. Perquè els poemes de Kavafis ens hi porten, a aquell món que és el nostre, i amb una llengua que és la nostra. Una vegada, comparant la lírica grega amb la moderna, Riba va caracteritzar la d’Arquíloc —«immediatament», va dir— com a fruit de les seves reaccions, i la moderna com a «plenitud i totalitat del món en el somni personal d’un instant»40. Deixat ara de banda això del somni, es tractaria de fer, de la pròpia experiència d’un instant, una imatge precisa de tot, del món. En aquest sentit, Kavafis interessa més Riba del que podien arribar a interessar-lo els lírics antics. I particularment la seva llengua, l’interessa, tant quan el poema parla de l’instant d’ara com quan parla de l’instant d’un altre temps.

40. MIRALLES [1995] 2007, p. 144.

198

Perquè és la llengua allò que construeix la conversió de l’instant que sigui en «plenitud i totalitat del món».

Tant Ferraté com Solà reconeixen que en la selecció de Riba els poemes eròtics no és que no hi estiguin representats, però se’ls veu reticents a l’hora de reconèixer-ho. Una reticència que potser continua la de Riba a l’hora de triar-los. Al capdavall, però, misèries humanes i xafarderia —com totes les anècdotes, curulles de sentit que no és difícil decantar cap a una banda o cap a una altra. Sobretot Ferraté ve a dir que interessava molt Riba la força de l’evocació eròtica dels poemes de Kavafis però que li feia por que ningú arribés a imaginar-se que assumia un jo homosexual per alguna seva afinitat en matèria que en general semblava llavors tan delicada. Jo personalment no penso que aquest risc no fos important per a Riba, i crec versemblant que busqués l’assessorament de la seva dona, Clementina Arderiu41, però l’evidència que no es va estar de triar poemes molt explícits m’inclina a creure que Riba, si hagués pogut publicar en vida aquestes seves versions, s’hauria explicat en un prefaci, essencial i aclaridor, com solia; i que, atès que Riba no es va poder explicar, les nostres raons, des de Triadú42 fins ara, han d’assumir un grau de conjectura que les pot fer aparèixer com a especulacions.

Hi ha un esplèndid poema, «Llur començament» en la traducció de Riba, Ἡ ἀρχή των, en el qual es concentren dos retrets de lèxic formulats, respectivament, per Ferrater i per Solà. Diu Ferrater que, quan Riba començava a llegir els poemes en grec, «un dia em va dir molt indignat: ‘Realment, aquests francesos són uns cursis, són incapaços de donar cap vivacitat a la llengua. Fixi’s, aquesta bona senyora, Marguerite Yourcenar, tradueix tal mot’ (ja no recordo el mot) ‘tradueix per la couche, aquest mot noble que vol dir el llit a les tragèdies de Racine, però és que el mot grec el que vol dir és matalàs! És el mot més vulgar del món’. Bé, probablement tenia raó. Però el cas és que, quan va sortir la seva traducció (bé, abans de sortir, perquè la vaig llegir en manuscrit), em vaig quedar consternat que aquest mot ‘matalàs’ es convertia en ‘la colga’, o sigui que és menys col·loquial, més artificial que ‘la couche’ de Marguerite Yourcenar»43. Aquest mot grec que Ferrater no recordava deu ser τὸ στρῶµα (v. 2). En el primer vers del poema, el darrer mot és ἡδονή, un mot certament recurrent en els poemes de Kavafis, a propòsit del qual assenyalava Solà que «Riba manifesta una certa tendència a no traduir les paraules gregues ἡδονή i ἡδονικός per plaer o voluptuositat i voluptuós»44

En la traducció de Riba els tres primers versos d’aquest poema fan «La consumació de llur goig interdit / s’ha fet. S’han aixecat d’aquella colga / i es vesteixen corrents, sense parlar-se». Els dos mots en qüestió són «goig» (v. 1) i «colga» (v. 2). Riba ha optat, com fa sempre que pot, per reproduir l’encava-

41. SOLÀ 1977, p. 9, s’hi declara en contra; cf. SEGARRA 1977.

42. TRIADÚ 1962.

43. FERRATER 1979, p. 116-117.

44. SOLÀ 1977, p. 13.

199

200

llament dels versos 1-2 i per respectar l’ordre dels mots del grec: Ἡ ἐκπλήρωσις τῆς ἔκνοµής των ἡδονῆς / ἔγινεν. No és precisament colloquial, tot plegat: el vocabulari i la construcció tenen com a finalitat que sapiguem que són dos, que acaben de donar-se plaer sexual i que aquest plaer no és l’usual, perquè els dos són mascles; de manera que més aviat és una llengua densificada, d’una condensació molt per dessobre de la habitual de la conversa; altra cosa és que el que diu el poema remet a un fet, a una situació, que resulta clarament de com ho diu. El mot grec στρῶµα certament sembla indicar que han jagut sobre un trist matalàs o una catifa; el mot indica això, però el sòrdid no és el mot sinó la cosa en si, com ens afigurem ara la cambra on han acomplert la mena de desig que es tenien —més en el fons: com veiem el jaç en funció del que s’hi acaba de consumar. En la tria de «goig» crec que per a Riba fou fonamental que es tracta d’un monosíl·lab i també crec que, a ell, aquest mot li podia semblar més expressiu del que acabaven de consumar aquells dos homes que no «plaer» o «voluptat», que potser li resultaven mots massa literaris.

Pel que fa a «colga», veig clar que el mot no agradava a Ferrater perquè no li semblava una manera habitual, possible, de designar un matalàs tirat a terra sobre el qual acaben de tenir sexe dos homosexuals. De fet, però, la sordidesa del fet assumida en el poema vé més aviat d’ἐκνοµή. I del fet que, consumada la relació sexual, «es vesteixin corrents, sense parlar-se», i de la manera com diu el poema que se’n van. De la següent manera, en la traducció de Riba: «Surten separats, en secret, de la casa; i així / com van, amb una certa angúnia pel carrer, fan l’efecte / de sospitar que en ells alguna cosa deu trair / en quin llit han jagut fa poca estona» (v. 4-7). Aquest «en quin llit» del vers 9 no els causa angúnia perquè fos només un matalàs sinó per la mena de «goig interdit» que hi han consumat. Que tinguin una por objectivament absurda que la gent, pel carrer, ho sàpiga, s’adoni, no té a veure amb el llit sinó amb la mena de goig que hi han obtingut, amb l’angúnia, amb mot de Riba, que ara els fa i els ha fet d’ençà mateix d’haver-lo consumat, aquell goig. Riba no ha trobat del cas focalitzar el llit tal com realment potser era, sinó concentrar el poema —que és d’altra banda on està concentrat també en l’original— en el sentiment de culpa dels amants. I és per això que ha optat per dir que anaven pel carrer «amb una certa angúnia», que és més, o almenys no és ben bé, el que diu κάπως ἀνήσυχα (una mica inquiets, o amoïnats). És també possible que, per a Riba, «colga» no tingués res a veure amb «couche». En català, els mots semblaven a Riba sempre més a disposició del poeta, més vivents, que en francès. Era més fàcil al poeta usar-los per primera vegada, val a dir: sense que arrosseguessin el pes d’una feixuga tradició, la possible esclerotització dels mots d’una gran literatura. Les seves cartes a Paul Mazon i les seves declaracions a l’època de l’Èsquil (1932-1934) il·lustren aquesta seva opinió. D’altra banda, el substantiu «colga» ni és al Diccionari general de Fabra, i la informació que en dóna el Diccionari català-valencià-balear d’AlcoverMoll no correspon de cap manera a cap to alt ni revela un mot d’ús literari.

El Kavafis de Riba 201

Riba se n’havia servit com d’una troballa lèxica en la segona versió de l’Odissea (1948). A X 334-335 havia escrit «mesclant-nos / en la colga i l’amor»45 en comptes de «mesclant-nos / de llit i d’amor», que és com havia traduït en la primera versió46 el µιγέντε

del poema homèric. Per a Riba traduir «colga» en el poema de Kavafis no era inconvenient i no tenia res a veure amb «couche» en la traducció de Yourcenar; tampoc no li era incompatible amb el matalàs. Una altra cosa és si no va usar «matalàs» perquè va trobar que rebaixava el to del poema i una altra, encara, si per traduir el poema i el to del poema de Kavafis cal respectar «matalàs» a tota ultrança. La primera no té resposta, i a la segona la resposta és que no obligatòriament, però que potser fóra més orientatiu, pel que fa al jaç concret que el lector hauria de representar-se. Ara, en la traducció de Riba, que ha optat perquè l’important sigui el que s’hi feia i no el llit en si, el que caldria remarcar és que no hi diu «colga» sinó «aquella colga», amb un díctic ponderatiu que, en assenyalar el jaç, el posa en el lloc central que li escau: no el llit que és sinó allò que hi acaben de fer, els dos homes; i, que, d’altra banda, resulta un recurs ben expressiu i més aviat procedent de la parla ordinària. A més, «quin llit» (v. 10), en comptes d’un més literal «quina mena de llit» o «llit de quina mena», palesa un ús de l’indefinit quin paral·lel al del demostratiu aquella. I també hi ha el verb «han jagut», que acaba de limitar semànticament quin llit era, aquella colga, i què hi havien fet que n’haguessin de tenir després «angúnia» que no se’ls notés anant pel carrer. Pel que fa a «goig», Riba no vol renunciar a aquest mot com una de les traduccions possibles de ἡδονή. Aquí ell vol dir «goig» i no una altra cosa. Caldria resseguir els usos de «goig» a l’obra de Riba per fonamentar aquesta afirmació, i és evident que ara resultaria encara més digressiu i allargaria la qüestió. Bastarà que recordem que el Diccionari general li permetia entendre que aquest mot designava «una emoció... causada per l’adquisició del bé desitjat», cosa que per a ell era més que només el plaer (en altres ocasions havia traduït ἡδονή per «delit») i s’adeia amb el que entenia que Kavafis atribuïa al coit, que és en definitiva l’acte que han consumat els amants. D’altra banda, en la poesia de Riba, des del primer llibre d’Estances (1919), i malgrat el simbolisme que sempre dispara i contamina el sentit dels mots del poeta ja en aquest llibre, «goig» no és cosa ni només ni sobretot espiritual sinó que va clarament amb «carn» (2, v. 10-11; cf. 10, v. 5) i pot acostar-se a significar el coit (11, v. 1 i 7), ni que sigui al·lusivament i metafòrica (15, v.11 i 15). El tema podria ser si, una paraula com ἡδονή, no convindria traduir-la sempre amb el mateix mot, en cada poema en què la trobéssim, tot al llarg de la traducció de Kavafis. Però Riba ni s’ho plantejava, això, i afinava el sentit d’un mateix mot en cada context, triant-ne cada vegada la solució que concretament li semblava més idònia.

Tornant al to, al ritme del poema per damunt dels mots concrets, Riba ha re-

45. Odissea 1948, I, p. 227.

46. Odissea 1919, II, p. 43.

εὐνῆι
φιλότητι
καὶ

tratat bé, en els tres primers versos, l’aixecar-se i vestir-se en silenci dels dos amants després del coit, i en els quatre següents els ha seguits pel carrer, després de sortir «separats, en secret» (v. 4), i ens els ha mostrat que hi anaven «amb una certa angúnia». Ja hem vist les opcions que ha fet, i hem vist com els seus versos dibuixaven, fidels als de Kavafis que traduïa, la sospita que se’ls pogués notar el goig interdit que havien consumat; que no hi hagués res que els pogués trair: l’acumulació d’indefinits al mig del vers 6 ( ποὺ κάτι ἐπάνω) preludia el τί εἴδους κλίνην del següent: «alguna cosa deu trair / en quin llit han jagut» en la traducció de Riba). El poema acaba en tres versos que transformen en guany l’experiència fins aquí evocada, el goig interdit, el sentiment de culpa i l’angúnia que se’ls pogués conèixer. Fan així, en la traducció de Riba: «Com, però, hi ha guanyat la vida de l’artista! / Demà, demà passat, o dintre uns anys, seran escrits / els grans versos dels quals allí hi hagué el començament» (v. 8-10). «Allí», ἐδῶ (v. 10), acaba de donar la raó a Riba que havia triat l’adjectiu demostratiu «aquella» per a la «colga» (v. 1). El poema fa anar el lector del fet i el sentiment de després, tot coses reals, situades en una casa i al carrer, però en el sentiment dels amants, fins a un guany segur però indefinit, els versos que en resultaran, potser el poema mateix que està llegint, i el sentiment del poeta. En la versió de Riba, ni el goig ni la colga no desconcentren del que és essencial, del poeta i del guany del poema per al poeta, i el ritme del poema hi batega intacte. Ni el goig ni la colga desfiguren el poema de Kavafis, però no podem dir que no el facin més de Riba.

Hi ha un altre fet que cal considerar, globalment, quant a l’escaiença dels uerba de uerbis de la traducció de Riba. Riba dóna un poema per cada poema, no un mot per cada mot del poema; generalment un vers —excepcionalment dos— per cada vers, no un mot per cada mot del vers. Això vol dir que, a més de llegir i traduir, en traduir fa amb el que té llegit versos i amb els versos un poema equivalent al poema de Kavafis que hagi triat per traduir. És ben possible que, en aquest sentit, també la mètrica, la construcció del vers i dels versos, la sintaxi del poema, hagin pesat, a més dels temes, en la tria de Riba.

Fins i tot a Hölderlin —i malgrat les elegies, que havia meditat també rítmicament— Riba ja havia anat a cercar poemes breus i simples i no havia dubtat a convertir dos versos com ara «Er kann im Gedichte nicht leben und bleiben, / Er lebt und bleibt in der Welt» («Buonaparte» de Hölderlin, v. 9-10) en aquests tres: «No pot en poemes / viure ni restar: / Viu i resta en el món» («Buonaparte» de Riba, v. 10-12)47. En aquests tres hi ha una interpretació també mètrica de l’original. Quan va adaptar els trímetres iàmbics i els tetràmetres trocaics de la tragèdia, de fet Riba va experimentar, en termes de mètrica catalana, en el dodecasíl·lab (només saltuàriament alexandrins) i en un vers pentadecasíl·lab amb cesura medial (el primer hemistiqui del qual pot tenir, ara sí, la setena síl·laba dins d’un mot pla; o sigui, en la pràctica: dos

47. El poema (FERRATER 1971, p. 39) té doncs dotze versos, contra els deu de l’original.

202

El Kavafis de Riba 203

heptasílabs). L’hàbit del ritme iàmbic, però, i la fluidesa amb què sol desenvolupar-se en els versos d’Eurípides, devia ajudar Riba a treballar l’hexasíl·lab i li servia igualment per al decasíl·lab —tot i ser sonets, els de Salvatge cor són poques vegades decasil·làbics— i per a l’alexandrí. Els versos amb què, juntament amb l’octosíl·lab i algun tetrasí.lab, estan construïts els oratoris de l’Esbós. En l’Esbós, d’altra banda, hi ha rima, però usada amb llibertat, i a voltes només assonant, en les sèries d’hexasíl·labs.

Tot plegat, aquestes remarques han estat aquí fetes per a ser tingudes en compte amb vista a la consideració d’aquesta aspiració de Riba a la simplicitat, a la intensitat expressiva sense declamació, que el portà a sintonitzar amb la poesia de Kavafis. Perquè també mètricament els poemes de Kavafis li eren còmodes, dins d’aquesta tirada cap al ritme iàmbic, i, els seus versos resultaven, contràriament als hexàmetres, molt més naturalitzables en català —més naturals, més llisquents. Els versos de Kavafis són generalment decasíllabs, alexandrins i dodecasíl.abs, sovint alternats dins d’un mateix poema. D’entre els poemes de Kavafis que Riba va conèixer n’hi ha uns quants amb rima: més entre els més antics, però no deuen arribar a una tercera part. D’entre els que Riba va triar i va traduir, no arriben a una quarta part els que tenen rima en l’original. Riba no en va traduir cap amb rima. No va voler sentir-se forçat a alterar l’ordre dels mots, el ritme de la sintaxi, els encavallaments —i amb ells més d’un cop les cesures—, les correspondències i els ecos. Per a ell, aquestes característiques eren bàsiques, i en elles raïa, més que no en la rima, el valor del poema que traduïa, la raó de la seva intensitat expressiva. Per exemple, en un poema sense rima en grec, «A Antíoc Epífanes», els vuit primers versos són dedicats a la presentació d’un jove d’Antioquia, favorit del rei del títol, i a reportar l’esperança que manifesta el jove que els macedonis puguin ajudar Síria contra els romans. En els cinc versos següents i darrers del poema, el primer diu la mica de commoció que aquesta esperança del seu jove favorit provoca en el monarca (v. 9), però els següents se centren immediatament en la reacció de ni gosar parlar d’Antíoc Epífanes —no fos que algú ho reportés als romans—, provocada pel record de la sort del pare —mort lluitant contra els romans, en la batalla de Magnèsia— i del germà, assassinat en una conjura de palau (v. 10-12a). El que queda de poema (v. 12b-13) és un aclariment del locutor: ja feia bé, de no parlar, perquè de seguida els macedonis van ser derrotats a la batalla de Pidna. «Com és natural», diu Kavafis al final del vers ( ὡς φυσικόν), i així el vers, inesperadament, rima amb el 10, la segona part del qual era πατέρα κι ἀδελφόν, el pare i el germà —o sigui, aquells la sort dels quals permet de dir «com és natural». Heus ací els cinc darrers versos en la traducció de Riba: «Pot ben ser que una mica s’hi va commoure el rei. / Però a l’instant recorda el pare i el germà / i ni tan sols contesta. Podia un escolteta / repetir alguna cosa.— Per altra banda, és clar, / ràpidament vingué, a Pidna, el lleig final». Riba dóna «com és natural» amb «és clar», i així el seu «és clar» rima amb «el pare i el germà», com el ὡς φυσικόν amb el πατέρα κι ἀδελφόν en l’original de Kavafis.

Riba sol respectar igualment les repeticions de versos, o de paraules en una seu mètrica precisa —o aproximadament en el mateix lloc del vers—, mira de reproduir les insistències i els ecos de Kavafis, o de donar-ne un equivalent. Vol saber incorporar la manera, d’aparença una mica mecànica, però artificiosa i de molt d’efecte, d’aquests recursos expressius que Kavafis treballa, subtilment. I, si respecta també la divisió de les estrofes —que, des del punt de vista del sentit, i de la intenció del sentit, són molt i molt significatives, a Kavafis—, per a desenvolupar amb més precisió segons quins efectes de significació, no dubta a desdoblar un sol vers de l’original en dos de seus. La primera estrofa del poema «Veus» és un exemple de justesa en la traducció i fins la supressió en el primer vers de la conjunció copulativa —perquè li surti un octosíl·lab, en principi—, que modifica l’ordre de mots de l’original, podria pensar-se que dóna més fluidesa a l’entrada i destaca, perquè esdevé el primer mot del poema i per la repetició, el substantiu del títol. Fa així: «Veus ideals, veus estimades / dels qui moriren o dels qui ja són / perduts per a nosaltres com els morts». El poema de Kavafis té tres estrofes, de tres, dos i tres versos. En la versió de Riba, la segona en té tres i la tercera quatre. En la segona, Kavafis explica no que els morts se’ns apareixen en els somnis, sinó que ens parlen —per això n’ha evocat les veus, no les figures que podrien veure’s—, i que, com en els somnis, també quan estem desperts, en mig d’un pensament, podem sentir les veus dels morts: no amb un sentit corporal sinó amb el cervell. Riba devia trobar fascinant que el que hauria pogut ser una emoció, un sentiment, acabés manifestant-se en mig d’un pensament i ho sentís el cervell. De fet, en el vers 5 de Kavafis σκέψι és col·locat just al final del primer hemistiqui, µυαλό al final del segon —o sigui, al final del vers. Riba disposà així els seus versos: «De vegades ens parlen entre els somnis; / de vegades en mig d’un pensament / les sent el cervell». L’últim hexasílab li permet destacar que és el cervell, precisament, a sentir-les, i que és «en mig d’un pensament» queda també realçat per la col·locació al final del vers anterior. L’esponjament li permet, a més, usar i repetir «de vegades», que és l’equivalent més espontani de κάποτε (v. 4, v. 5). La mateixa operació en l’estrofa tercera. Diu Riba: «I amb el so que elles fan, per un instant ens tornen / ressons de la primera poesia / de la nostra vida — / com de nit, una música llunyana que s’apaga». Els versos 7 i 10 de la traducció de Riba corresponen als versos 6 i 8 del poema de Kavafis (tal com el vers 4 de Riba corresponia al vers 4 de Kavafis), però els 8 i 9 de Riba desdoblen el 7 de Kavafis (tal com els 5 i 6 de Riba feien amb el 5 de Kavafis). Amb el resultat de destacar, al final del 8, «poesia», i al final del 9 «vida».

Queda així dibuixat un pensament-cervell-poesia-vida que, per impensat que sigui, podria potser haver servit de lema a l’última poètica ribiana, a la voluntat del poeta de trobar una veu que, sense renunciar al pensament, a la tensió de sempre dels seus versos, reflectís més límpidament, més immediata, la vida. Curiosament, podria formular-se aquest impensat programa en termes maragallians, em fa l’efecte.

I potser tot plegat hauria de dur-nos a recapitular sobre la llengua que Riba

204

El Kavafis de Riba 205

va trobar a Kavafis. Una llengua composta, sotmesa a un control tens de la intel·ligència, concentrada en l’expressió, sovint indirecta, de la vida, de l’experiència humana del goig a la decepció, de la joventut i la bellesa a la decrepitud; per mitjà de la presentació, aparentment objectiva, però sempre enfocada amb alguna intenció, d’una escena d’ara o d’un altre moment de la història. I això a la grega: en grec d’ara on ressona el d’abans, en l’hel·lenisme que continua l’hel·lenisme.

Torno per acabar a un altre poema, el famosíssim «Ítaca». La vida és un viatge. Els monstres —els de l’Odissea, la vida, el viatge de retorn d’Ulisses a Ítaca— no els trobarem en el camí, en el viatge, si no els portem dintre nostre; i no els portarem dintre —nosaltres, els lectors del poema: una segona persona del singular, per a Kavafis— «si el pensament se’t manté alt, si una / emoció escollida / et toca l’esperit i el cos alhora». Tornen a ser tres versos de Riba (7-9) per a dos de Kavafis (7-8). Ja es veu què passa, i més si es pensa en el brusc encavallament de Riba: que Riba vol destacar aquesta «emoció escollida», vol deturar el lector sobre aquests dos versos per a ell crucials: ἂν

. El pensament, la mateixa paraula σκέψις, si es manté elevat, pot trobar com comunicar els fets de manera que emocionin, que commoguin, si sap, mantenint-se elevat, escollir —escollir els fets, escollir com—; de manera que commoguin, indestriablement, esperit i cos. Tot un programa, per a Riba. La llengua que la seva versió de Kavafis construeix li era imprescindible per a aquest programa que ell no va ser a temps de provar de dur a terme en la seva poesia. Per això, encara més, el seu Kavafis és el seu darrer llibre de poesia. I és per això mateix, perquè era el que sentia més nou, el més jove que tenia, que trià uns poemes de Kavafis per a llegirlos als joves universitaris que el convidaren, el 23 de gener de 1959. Amb el seu Kavafis construïa el seu lligam amb els joves, projectava cap al futur els propòsits de la generació noucentista, la seva obra.

BIBLIOGRAFIA

BADIA 1973 : Antoni M. Badia, «El castellanisme estrafet, recurs estilístic dins el Perot Marrasquí de Carles Riba», dins In memoriam Carles Riba, Barcelona, pp. 47-65.

FERRATÉ 1987 : Joan Ferraté, Les poesies de C. P. Cavafis, Barcelona.

FERRATER 1962 : Gabriel Ferrater, «Els poemes de Kavafis», Serra d’Or 11, p. 1b.

FERRATER 1971 : Gabriel Ferrater (prefaci de), Carles Riba, Versions de Hölderlin, Barcelona.

FERRATER 1979 : Gabriel Ferrater, La poesia de Carles Riba, edició a cura de Joan Ferraté, Barcelona.

FERRATER 1986 : Gabriel Ferrater, Papers, Cartes, Paraules, a cura de Joan Ferraté, Barcelona.

µέν’ἡ σκέψις σου ὑψελή, ἂν ἐκλεκτέ / συκγίνησις τὸ πνεῦµα καὶ τὸ σῶµα σου ἀγγίζει

Carles Miralles

FUSTER 1963 : Joan Fuster, «Carles Riba: Poemes de Kavafis», Poemes 2, pp. 13b-14a.

GUARDIOLA 1993 : Carles-Jordi Guardiola, Cartes de Carles Riba, vol. III: 19531959, Barcelona.

LORANDO, MARCHESELLI, GENTILINI 1970 : Gina Lorando, Lucia Marcheselli, Anna Gentilini, Lessico di Kavafis, Pàdua.

MALÉ 1993 : Jordi Malé (pròleg de), Carles Riba, Tres suites, Barcelona.

MALÉ 1995 : Jordi Malé, «Iniciació a la lectura de Tres suites», dins Cinc aproximacions a la cultura catalana del segle XX, Barcelona, pp. 67-80.

MALÉ 2001 : Jordi Malé, «Una revisió d’algunes idees ferraterianes sobre Carles Riba», dins D. Oller i J. Subirana (eds.), Gabriel Ferrater, ‘in memoriam’, Barcelona, pp. 249-271.

MARFANY 1967 : Joan-Lluís Marfany (edició a cura de), Carles Riba, Obres completes, II, Assaigs crítics, Barcelona.

MIRALLES [1979] 2007 : Carles Miralles, Lectura de les Elegies de Bierville de Carles Riba [1979], dins Sobre Riba, Barcelona.

MIRALLES [1984, 1986] 2007 : Carles Miralles, «Deu poemes per a un llibre que no tingué títol» [1984, 1986], dins Sobre Riba, Barcelona.

MIRALLES [1995] 2007 : Carles Miralles, «Riba sobre els grecs» [1995], dins Sobre Riba, Barcelona.

MIRALLES 2009 : Carles Miralles, Riba i la Universitat, lliçó inaugural del curs 2009-2010, Universitat de Barcelona.

Odissea 1919 : Homer, Odissea, traducció de Carles Riba, 3 volums, Barcelona.

Odissea 1948 : Homer, L’Odissea novament traslladada en versos catalans per Carles Riba, dos volums, Barcelona.

OLIVAR 1935 : Marçal Olivar (text revisat i traducció de), Plaute. Comèdies, vol. II, La comèdia de l’olla. Les Baquis, Barcelona.

PINELL 1962 : Jordi M. Pinell, «Poemes de Kavafis», Serra d’Or 7, pp. 38b-39a.

RIBA 1927 : Carles Riba (adaptació de), «Plaute. L’Aululària», La Revista XIII, gener-juny, pp. 36-52.

SAVIDIS 1997 : Iorgos P. Savidis, Mikrà Kavafikà, vol. II, Atenes.

SEGARRA 1977 : J[oan] de S[egarra], «Kavafis, Riba...», El Correo Catalán, 13.02, p. 147.

SOLÀ 1977 : Eudald Solà (pròleg a), Konstandinos Kavafis. Poemes traduïts i anotats per Carles Riba, Barcelona, pp. 5-46.

SULLÀ 1993 : Enric Sullà, Una interpretació de les Elegies de Bierville de Carles Riba, Barcelona.

TRIADÚ 1962 : Joan Triadú (nota preliminar a), Carles Riba, Poemes de Kavafis, Barcelona.

ABSTRACT

Gabriel Ferrater considered that Carles Riba’s translations of the poems of Kavafis lacked the colloquial tone of the originals. This paper argues

206

that Kavafis’ language is composite rather than colloquial and that Riba used a low-level register when it was necessary. The work that Riba produced on Kavafis’ poetry respects the sense of the original poems and is, at the same time, in agreement with the poetic interests which occupied him in his later years.

207

Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.